Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno VII - n. 5 > Rendiconti > Pag. 609
 
 
La città e le regole
di Rossana Sicilia
Il congresso tenutosi a Torino, lo scorso giugno, a cura dell’Associazione italiana di storia urbana, il terzo della serie avviata da questa istituzione, ha avuto come obbiettivo quello del confronto fra diverse esperienze e metodologie di ricerca, nel segno dell’interdisciplinarietà, sul tema La città e le regole. Gli organizzatori, superando la tradizionale dicotomia tra scienze umane e scienze di indirizzo tecnologico, hanno inteso offrire una comparazione ad ampio raggio, per travalicare l’apparente settorialità delle singole sezioni di indagine. Proprio incentrare il discorso sulle regole della città poteva, infatti, risultare congeniale e compatibile con gli interessi specifici delle varie discipline. Del resto la “lunga durata” degli statuti cittadini, in vigore fino all’Ottocento e oltre, a mio parere, ha potuto sostanzialmente rappresentare il filo conduttore per rapportarsi con la città. L’analisi degli ordinamenti comunali aiuta, infatti, a capire le trasformazioni e il decorso della realtà urbana e a definirne l’“ideologia”.
Ecco perché i vari ambiti che richiamano competenze diverse hanno avuto come punto di raccordo le “regole”. Ci sono regole alla base di un’attività che permette di amministrare e delimitare l’area del comune; regole stabiliscono il principio della cittadinanza e ne determinano le partizioni e le circoscrizioni, pianificano la produzione e rendono possibile la commercializzazione, pianificano gli spazi su cui costruire e stabiliscono i parametri per abbellire le città, definiscono le condizioni per poter accogliere e sorvegliare i cittadini e per poter utilizzare e abitare nelle città, per poter renderne fruibile la circolazione. Le regole che compongono gli statuti delle città sono il grimaldello interpretativo della realtà civile che dalla società medievale, come momento di partenza, hanno accompagnato la città fino ai nostri giorni. Proprio le regole della città contemporanea, il loro carattere e il rilievo civile, in una dimensione urbana come la Torino di oggi, sono state poste al centro della relazione introduttiva dei lavori del congresso, affidata a Giancarlo Caselli, procuratore generale del capoluogo piemontese. Egli ha evidenziato come le regole della convivenza civile non funzionano, proponendo come testimonianza di ciò un confronto statistico tra la popolazione carceraria torinese nel 1990, in cui il numero dei detenuti era di 25.804, e quella del 2006, in cui tale cifra è lievitata fino a raggiungere i 61.000 detenuti, a cui vanno aggiunte 40.000 persone agli arresti domiciliari. Quindi i casi di violazione delle regole si sarebbero quadruplicati, ed essi avrebbero avuto una sanzione rigorosa, nonostante la lentezza della giustizia, che lascerebbe impuniti molti reati, e la sua tendenziale capacità di alimentare la disuguaglianza sociale, poiché le regole, formalmente uguali per tutti, avrebbero avuto applicazioni miti verso alcuni e drastiche verso altri. Non è chiaro, tuttavia, come si sarebbe prodotta, in un arco temporale così limitato, una simile lievitazione della criminalità, né su questo piano l’intervento di Caselli ha offerto indicazioni convincenti. Non sembra certamente proporre un chiarimento la sua osservazione per cui nell’opinione pubblica cittadina sarebbe diffusa una convinzione che il carcere possa costituire una forma obbligata di «riscatto sociale» e che addirittura esso venga visto come «presidio militare della convivenza civile». Ammesso e concesso che ciò sia vero, questo sarebbe un effetto dell’aumento della devianza criminale e non certamente la sua causa. Ancora meno chiara l’indicazione che la devianza criminale sia stata alimentata «negli interstizi della globalizzazione», perché l’immigrazione extra-comunitaria, se costituisce un contributo essenziale alla funzionalità sociale, non è meno essenziale come componente della illegalità di massa. Osservazione quest’ultima del tutto priva di spessore storico e che comunque ha poco a che fare con la globalizzazione, poiché è ben noto come la grande immigrazione a Torino di manodopera meridionale degli anni Cinquanta e Sessanta si accompagnò a inequivocabili aumenti della criminalità urbana, come è sempre avvenuto quando segmenti di popolazione allogena si sono inseriti in una società più complessa. Più condivisibile, ma non risolutivo dei problemi sopra evidenziati, l’osservazione di Caselli che la sola esistenza di norme sociali di convivenza non esclude la devianza e che la sola osservanza delle regole non ha la forza per risolvere ed eguagliare i cittadini, ma è utile e sarebbe opportuna la mobilitazione delle organizzazioni volte a creare consenso per educare il cittadino al rispetto delle regole.
È difficile ridurre il problema della cittadinanza a una dimensione puramente educativa. Atteggiarsi storicamente implica, invece, andare alla ricerca di motivazioni assai più complesse, che hanno costituito l’avvio reale del congresso dell’AISU.
Non casualmente, quindi, l’argomento della prima relazione della sezione “amministrare e delimitare” si è incentrata sulla nozione di cittadinanza che nel suo intervento Varanini ha concepito come uno spazio concettuale che ha alle spalle un percorso di memoria condivisa. La cittadinanza sin dal XII e XIII secolo viene prima vissuta, poi viene definita, si parte quindi da una tradizione e poi si giunge a un processo di “giuridicizzazione” e a quello che l’autore dell’intervento definisce come “cittadinatico”, espressione che concettualizza un privilegio contrattato e la relativa segmentazione della cittadinanza all’interno del complesso della popolazione urbana. A questo proposito Claudia Bonardi e Laura Luzi si sono occupate, la prima, della segmentazione urbana, come procedura di esclusione nelle città subalpine tardo medievali dei gruppi ebraici; la seconda, della pratica dei contratti di condotta, di durata decennale o ventennale, con i quali era consentita la permanenza di nuclei ebraici in alcuni insediamenti dell’Impero e dei territori italiani tra XIV e XVII secolo. Entrambe le relatrici, tuttavia, hanno insistito sugli elementi di esclusione e di precarietà, che queste pratiche comportavano nei confronti delle minoranze ebraiche che continuavano a presentarsi come oggetto passivo della politica delle città. Si può, però, ricordare, a questo proposito, che in molte città del Mezzogiorno tardo medievale gli ebrei e le loro organizzazioni associative (universitates ebreorum) assai spesso facevano politica attiva, talvolta risultando esclusi dalla vita municipale, con la sottrazione della cittadinanza, talaltra usufruendone e godendone i relativi privilegi. Su un aspetto della separatezza della realtà ebraica si è soffermato il filmato di Federico Cesali Visalberghi, Pochi tra molti, sul ghetto ebreo di Roma, nel quale la delimitazione amministrativa, realizzata dalla municipalità papalina, attraverso un muro che rimarcava l’area del ghetto, si accompagnò ai modi di gestione da parte della comunità ebraica dello spazio ristretto, attraverso sopraelevazioni e riorganizzazione religiosa che a fine Ottocento sostituirono, con la realizzazione di una grande sinagoga, le originarie cinque del ghetto antico, la cui complessità spirituale lasciò traccia nella piccola sinagoga per ebrei sefarditi alle spalle della grande. Aurora Savelli, per parte sua, nel ricostruire il rapporto tra contrade e moralità a Siena, in età moderna e contemporanea, ha ricordato che «i primi statuti contradaioli seicenteschi erano diretti al controllo morale degli habitatores e della moralità femminile». Venivano così riconosciute universitates habitatorum verso le quali si esercitava una caritatevole sorveglianza ben oltre la condizione privilegiata di cittadini.
Un altro dei temi essenziali del congresso ha riguardato il controllo e il disciplinamento dello spazio urbano, come “il frutto di una prassi politica”. A questo proposito tre sono apparse le modalità con le quali sembra essersi espressa l’amministrazione urbana nell’età medievale e moderna. Michela Barbot nell’affrontare il caso milanese tra Cinque e Seicento, indicato come simile a quello di Venezia e di Siena, ha sostenuto che «ai fini di gestire e controllare il territorio cittadino l’autorità pubblica si limitò ad utilizzare i tracciati della rete parrocchiale, la cui demarcazione rientrava fra le competenze delle autorità religiose», per cui le contrade coincidevano decisamente con le circoscrizioni territoriali parrocchiali. A partire dall’età spagnola il ruolo di supplenza svolto dal patriziato urbano si esplicò attraverso una politica di negoziazione e mediazione con gli altri poteri urbani (rappresentanti della monarchia spagnola, delle corporazioni cittadine, del clero). È solo alla fine del XVIII secolo che l’amministrazione cittadina intervenne in modo diretto nella ripartizione e delimitazione dello spazio urbano, attraverso una scomposizione del territorio ambrosiano fondata sulla costituzione di otto rioni e quattro circondari. Una seconda modalità, che ha ripreso quella assai tardiva del riformismo milanese del Settecento, è quella presentata da Silvia Beltramo riferita al caso piemontese di Saluzzo. Qui, nel corso dei secoli XIIXIV, due borghi, denominati Superiore e Inferiore, si dipartirono da un castrum sovrastante e si definirono attraverso costruzioni murarie delimitate a valle da un secondo castrum. Ovviamente l’influenza del feudatario nella organizzazione territoriale risultò decisiva. Nel corso del XV secolo, però, la presenza di un’amministrazione comunale giunse a delimitare una terza dimensione spaziale, definita borgo di Mezzo. La triplice realtà dei borghi venne formalizzata negli statuti comunali amministrativamente con il termine “terceri”, superato solo nel XVIII secolo con la nascita di un quarto borgo a valle e al di fuori della cerchia muraria. La terza modalità è stata proposta da due lavori sulle baglive meridionali di Rogliano e di Serra Pedace, parte della “Grande Università di Cosenza e Casali”, la cui realtà amministrativa è stata illustrata dal Cozzetto, in sede di Congresso. In particolare l’intervento della Sicilia ha evidenziato come la Bagliva di Rogliano, che costituì una ripartizione territoriale di Cosenza e Casali, si presentò come un caso di dialettica politica fra Ettore Capecelatro, preside della provincia di Calabria Citra e gli amministratori delle quattro “cedole”, in cui era tradizionalmente suddivisa la bagliva di Rogliano. Il preside spinto dalla necessità di esercitare un maggiore controllo sulla cittadina, con un provvedimento del 1650, aveva ridotto a tre le ripartizioni amministrative e fiscali. Gli amministratori e i cittadini reagirono con disordini e dissidi interni chiedendo e ottenendo, quindici anni dopo, il ritorno alla precedente ripartizione, evidenziando quindi un forte interesse dei cittadini a intervenire nel controllo e nella gestione dello spazio urbano.
La fine degli statuti municipali nel corso dell’Ottocento e della condizione privilegiata che essi delinearono nell’ambito degli Stati moderni è stata argomento di un dibattito a più voci su “le regole sul governo delle città italiane nel XIX secolo”, nel corso di esso si sono discusse le tesi di alcuni autori di una collana di volumi dedicata appunto a varie città italiane nella seconda metà dell’Ottocento. È stata Elisabetta Colombo a offrire il quadro comune di riferimento delle indagini di storia urbana tardo-ottocentesca, sottolineando come la città sia scomparsa, in quanto entità privilegiata, nella normativa post-unitaria italiana e in questa condizione sia rimasta fino al 1990. Tale scelta di normativa istituzionale fu il frutto dell’estensione, al resto del paese, della legge comunale e provinciale del Regno di Sardegna, a sua volta modellata sulla normativa francese. Secondo la Colombo essa mirava a penalizzare il ruolo delle grandi città ex capitali rispetto allo Stato centrale; conseguentemente veniva ridimensionato fino a dissolversi il rapporto tra città ex capitali e contesto territoriale degli antichi Stati. Da qui emergerebbe una frattura nella storia dei centri urbani maggiori, che si sarebbero inventati dopo l’Unità nuovi modelli di gestione della realtà del territorio, secondo dimensioni peculiari ai gruppi di comando che li governarono. Si tratta, a mio parere, di una osservazione che fa un uso improprio del termine frattura per costruire, a partire da esso, una dimensione esplicativa comune delle diverse monografie storiche. Indubbiamente nell’antico regime il sistema dei privilegi, che caratterizzava più specificamente i grossi centri urbani e sia pure “contrattati“ con lo Stato centrale, rendeva gli stessi assai diversi gli uni dagli altri. Soprattutto li metteva in grado di esercitare un controllo sul territorio che dipendeva molto dalla vicenda storica della realtà statuale a cui appartenevano. L’abolizione degli statuti privilegiati non risale tuttavia all’Unità e alla legge comunale sabauda, ma è retrodatabile, come è noto, sia alle riforme settecentesche nell’Italia padana e, per quanto riguarda il Mezzogiorno, al periodo francese e a quello della seconda Restaurazione borbonica. D’altra parte lo Stato moderno ottocentesco, se ha abolito tra i centri urbani vecchie gerarchie ne ha create di nuove, riconoscendo e promuovendo alcuni centri abitati rispetto ad altri, ad esempio come capoluoghi regionali e provinciali, sottoprefetture, capoluoghi di mandamento, di circondario etc. Tutto questo lasciava emergere per i centri urbani maggiori una reale capacità di controllo sui territori, su cui esercitavano quelle giurisdizioni politiche amministrative sia pure delegate dallo Stato centrale, sulla base di prerequisiti geografici, economici e politici, attribuibili alla capacità delle classi dirigenti urbane.
Una sessione di particolare interesse ha riguardato il complesso delle regole che formalizzavano la produzione e la commercializzazione in ambito urbano in età tardo medievale e moderna. Appare sorprendente, invece, il disinteresse mostrato dai ricercatori sullo stato delle regole nell’età della globalizzazione. Eppure il peso delle regole in una città contemporanea, in frangenti di rilievo mondiale, è stato evidenziato nella sessione “accogliere e sorvegliare” con una relazione che ha ricostruito la vicenda delle decisioni amministrative rivolte a regolamentare e pianificare lo svolgimento dell’incontro dei G8 a Genova nel luglio 2001. Gran parte delle sub-sessioni – “annona e grani in età moderna”, “statuti corporativi e manifatture urbane”, “altri prodotti e annona nei secoli XIX e XX”, “norme, commercio e mestieri” – si è concentrata sullo studio delle regole di specifici comparti commerciali e produttivi, sulla dinamica dei quali sono state fornite indicazioni di interesse, per la verità, diseguale. Una relazione che ha richiamato particolare attenzione ha riguardato Il monopsonio corporativo e la distribuzione delle materie prime nel comparto conciario. In essa, Sonia Scognamiglio ha studiato il caso della Napoli moderna e ha sottolineato che nel corso del Seicento i consoli dell’arte conciaria acquistavano la materia prima e la vendevano agli iscritti a un tasso di interesse tanto più basso quanto era più alto il volume produttivo delle singole botteghe dell’arte. L’autrice si è soffermata, inoltre, sui rapporti tra la corporazione conciaria napoletana e quelle provinciali, esaminando i caratteri di una vigorosa tendenza al controllo del mercato, che trovava rispondenza in tutto il resto del Regno. Sempre nella sessione “accogliere e sorvegliare”, per concludere, Anna Giannetti e Giosi Amirante hanno ricostruito la lunga vicenda riguardante la collina di Caponapoli, dove, tra Cinquecento e Ottocento, si sono succedute istituzioni religiose al femminile, che hanno avuto un notevole ruolo come centri di accoglienza di suore appartenenti a famiglie nobili, anche decadute. Esse gestivano cospicui patrimoni dotali soprattutto attraverso attività di prestito di denaro, fino alla soppressione del periodo francese, allorché le strutture monastiche si trasformarono in centri di accoglienza e di assistenza che originarono gli Incurabili, così da definire un’area circoscritta di assistenza sanitaria tra le più importanti della Napoli moderna.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft