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Visti di uscita e biglietti di entrata. Paradosso dell’assimilazione braica
di Alessandro Della Casa
Nell’articolo Zionism, pubblicato nel 1927 sul «New Statesman» (poi incluso in L.B. Namier, Skycrapers and OtherEssays, New York, Books for Library Press, 1968, pp. 128-137), lo storico Lewis B. Namier, nato da una famiglia ebraica della Polonia russa e trasferitosi in gioventù in Inghilterra, scriveva che stava venendo meno la quasi bimillenaria fede degli ebrei nel ritorno in Palestina che, egli affermava, aveva consentito a quel popolo disperso di perpetuare la propria sopravvivenza, unendoli in una vita comunitaria che li aveva preservati dal mondo circostante e aveva allievato le sofferenze. Quella della stessa esistenza del popolo ebraico era, quindi, la questione centrale che si era aperta con la progressiva dissoluzione, avviata con la propagazione delle teorie illuministiche, dell’«ebraismo ortodosso». Quest’ultimo, come un «ghiacciaio in fusione», in parte evaporava, ossia produceva il fenomeno dell’assimilazione, e in parte andava a ingrossare un fiume, quello del sionismo che intendeva tradurre in termini secolari e pratici la promessa messianica del ritorno. La dinamica dell’evaporazione si registrava soprattutto nell’Europa centro-occidentale, nella quale agli ebrei erano state concesse formalmente possibilità di emancipazione e libertà individuali: lì lo storico pronosticava che, divenuto l’ebraismo un «mero credo» slegato da connotazioni nazionali e abbandonate progressivamente le tradizioni religiose, le comunità ebraiche, in assenza di una immigrazione da Est, sarebbero scomparse. Differente era il caso dell’Europa orientale, ove non si erano avuti provvedimenti emancipatori e gli ebrei formavano ancora una «comunità distinta», una «nazionalità, che la profess[assero] o meno». Del resto l’emergere di una coscienza nazionale, per il sionista Namier, che non nascondeva altrove il biasimo per gli ebrei che celavano la propria appartenenza (si rimanda in proposito a Norman Rose, Lewis Namier and Zionism, Oxford, Clarendon Press, 1980), non aveva eretto barriere tra gli ebrei e le società entro cui vivevano: le barriere erano sempre esistite e la coscienza nazionale aveva soltanto permesso di risollevarsi dal «sentimento di inferiorità morale» causato dalle angherie dei gentili. Perciò gli ebrei esteuropei avrebbero fornito la spina dorsale del movimento sionista, che avrebbe tradotto in «volontà attiva» la«speranza passiva» del ritorno, consentendo la nascita in Palestina di un «focolare nazionale», secondo la definizione della Dichiarazione Balfour. Rimontando alle convinzioni del sionismo russo e del suo principale teorico – quell’AhadHa’am che era stato un costante punto di riferimento per il futuro primo presidente israeliano Chaim Weizmann, di cui Namier, all’epoca dell’articolo, era fidato collaboratore –, lo storico scriveva che «ogni nazione deve avere da qualche parte il proprio centro territoriale»: quello in Palestina avrebbe normalizzato anche l’esistenza degli ebrei che avrebbero continuato a vivere nella Diaspora e avrebbe rappresentato la garanzia per la sopravvivenza dell’intero popolo ebraico.
Se per Namier lo scioglimento del ghiacciaio dell’ebraismo aveva condotto all’assimilazione o al movimento sionista, il sociologo ebreo polacco Zygmunt Bauman, sempre piuttosto critico verso il sionismo, ha accostato all’assimilazione, come maggiore conseguenza dei processi di secolarizzazione che investirono anche le comunità ebraiche nel XIX secolo, la devozione alla causa della rivoluzione socialista. Tale analisi è contenuta nel suo saggio Visti di uscita e biglietti di entrata. Paradossi dell’assimilazione ebraica (Firenze, Giuntina, 2014), risalente al 1988, ma recentemente pubblicato per la prima volta in italiano, con un’interessante post-fazione di David Bidussa in cui sono indagati i nessi tra questo «testo “archeologico”» (p. 66) e le successive, e più note, teorie di Bauman.
Nota il sociologo che l’ottriata emancipazione sembrò prefigurare l’avvento dell’«universalità» che, riducendo ciascuno alla «pura essenza umana», avrebbe permesso agli ebrei di affrancarsi dalla propria appartenenza particolare – «la più specifica delle specificità» – e di conquistare l’agognata liberazione. In realtà il superamento dell’ebraicità celava l’adesione a una nuova specificità «di natura religiosa, nazionale o culturale» (pp. 14-15). Inoltre, «i visti di uscita dal ghetto» erano una questione collettiva, mentre i «biglietti di entrata» di quella che era spacciata per l’universalità «dovevano essere ottenuti individualmente». L’appartenenza alla comunità ebraica, che aveva costituito inizialmente una risorsa sul piano politico ed economico, divenne «un emblema di vergogna» nel momento in cui fu ottenuto il diritto alla cittadinanza. Tuttavia veniva meno lo scudo protettivo che la vita comunitaria aveva eretto, nell’epoca dei ghetti, alle pressioni antiebraiche. Pertanto le tensioni, che si credevano irrevocabilmente dissolte, erano destinate ad accrescersi (pp. 16-17).
La prima soluzione che si presentò agli occhi degli ebrei borghesi, formalmente emancipati, fu quella di sviluppare una consapevole tendenza a conformarsi agli atteggiamenti e alle maniere raffinate dei membri della società in cui vivevano. Divennero, anzi, «dei fanatici culturali»: «in ogni nazione occidentale gli ebrei erano quelli che trattavano più seriamente il patrimonio culturale nazionale». Tale zelo, assente nella maggioranza dei «nativi», finì inevitabilmente per far risaltare l’estraneità e diminuire le possibilità di reale integrazione (pp. 18-19). Peraltro «la società moderna trovò molto più facile assorbire le comunità ebraiche tradizionali che osservavano i loro modi ortodossi e si rallegravano della loro lampante distinzione», perché mantenevano delimitati i confini tra ebrei e gentili (p. 21). La speranza che la conversione al cristianesimo, se mai fosse stata ben riposta – e, ad esempio, la vicenda del poeta Heinrich Heine, differentemente da quanto sostiene Bauman (p. 22), farebbe sorgere più di un dubbio (come ha dimostrato Marcel Reich-Ranicki in Il caso Heine, edito anch’esso da Giuntina nel 2007) –, consentisse di pervenire a una simbiosi con la «popolazione ospitante» era ormai svanita alla fine del XIX. Difatti la necessità dello Stato moderno di ricercare l’uniformità culturale, nel contesto della «“privatizzazione” della lealtà confessionale», determinava la sostituzione del vecchio antigiudaismo religioso con il moderno antisemitismo scientifico (pp. 23-24).
Le strategie di volta in volta messe in atto dagli ebrei desiderosi di assimilarsi definitivamente erano vanificate, perciò, dalla scelta di non contestare il diritto della maggioranza a decidere, e a mutare a proprio piacimento, le regole del gioco. Questa, ad ogni modo, era una realtà dalla quale gli ebrei assimilazionisti tentavano di distogliere lo sguardo, preferendo piuttosto sviluppare una forma di «antisemitismo selettivo», secondo la definizione di Peter Gay che Bauman riprende. Gli assimilazionisti, in sostanza, addossavano l’interruzione del processo di integrazione agli ebrei parlanti yiddish che, fuggendo dalle persecuzioni che li affliggevano in Europa orientale (si pensi in particolare ai pogrom russi del 1881), si insediavano in gran numero nelle città della Germania e poi, dopo l’espulsione dalla Prussia nel 1885, dell’Inghilterra. In loro, nella loro povertà materiale e nelle loro pratiche arcaiche, gli emancipati e raffinati ebrei autoctoni coglievano il ricordo del proprio spiacevole passato e una minaccia per il futuro. Dunque ritennero, da un lato, di marcare pubblicamente le differenze – e, anzi, testimoniare la propria maggiore vicinanza ai gentili –, condannando anche la diffusione da parte degli Ostjuden di idee socialiste e sioniste, e, dall’altro lato, di farsi carico paternalisticamente di promuovere l’acculturazione degli sgraditi e imbarazzanti correligionari (pp. 26-35).
Rifacendosi a Ernest Gellner e a Frederick Barth, Bauman intende riconsiderare la relazione tra modelli culturali, rapporti economici e l’esclusione sociale. Solitamente la differenza dei modelli culturali in seno a un medesimo contesto è indicata come la causa di esclusione sociale delle minoranze, contrastabile solo attraverso l’assimilazione dei gruppi minoritari alla cultura e ai valori della maggioranza. Per il sociologo, invece, l’ascrizione di caratteri etnici, culturali e religiosi, i confini interetnici che ne derivano e le teorie che intendono difenderli sarebbero innescati prevalentemente dalle relazioni sociali e dalle loro gerarchie (pp. 38-43). Si spiegherebbero così l’aumento del numero di ebrei tra i parlamentari socialdemocratici tedeschi e l’egemonia da essi assunta nei settori intellettuali e culturali. E si coglierebbe nella volontà di abbandonare i princìpi ideologici, per favorire invece l’ascesa sociale dei burocrati, il motivo per cui tale egemonia, all’epoca di Gustav Noske, fu avversata dai burocrati del partito con argomenti antisemiti (pp. 48-50). Viceversa gli ebrei dei bassifondi urbani dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, che avevano comunque preclusa la possibilità dell’assimilazione individuale, come già gli ebrei dell’Europa orientale a cui la promessa di una emancipazione formale non era mai stata rivolta, individuarono nella rivoluzione universale, per cui lottare tramite organizzazioni ebraiche, l’unico mezzo per risolvere collettivamente il problema personale etnico. Differentemente da quanto accadeva con la partecipazione ai movimenti socialisti dei gentili, sostiene Bauman, il «socialismo ebraico […] non era un mezzo di emancipazione dall’ebraicità o una versione alternativa dell’assimilazione». Esso, piuttosto, intendeva riscattare la «tradizione ebraica liberandola dalla dominazione dei nemici di classe» (pp. 53-54). Il progetto socialista, lungi dall’essere incompatibile con l’ebraicità, avrebbe rappresentato l’inveramento del contenuto messianico e redentore dell’ebraismo. Negli Stati Uniti si inizio Novecento, gli ebrei, provenienti soprattutto dall’Europa orientale e ancora legati alla cultura di origine e ai comandamenti morali della Torah e del Talmud, «furono il movimento socialista». La società futura che essi miravano a edificare traeva origine, aveva affermato Aaron Liebermann, il nativo di Vilnius padre del socialismo ebraico americano, dall’esperienza dell’obšcinae della vita comunitaria regolata in base ai precetti ebraici. Sarebbe stato proprio lo sfilacciarsi dei legami comunitari a provocare il dissolvimento del movimento socialista e a reindirizzare i propositi delle masse ebraiche statunitensi verso il miglioramento dello status economico individuale. Del resto, rilevava Bauman nel 1988, «molti degli ostacoli all’avanzamento individuale» erano stati rimossi e l’urgenza di elaborare strategie per l’integrazione – fossero esse assimilazioniste o socialiste – era oramai venuta meno (pp. 56-59).
La natura del saggio, pubblicato originariamente come articolo sulla rivista «Telos», e le convinzioni personali di Bauman hanno fatto sì che troppo limitata sia l’indagine delle ragioni dei sionisti (basti pensare solo alla critica delle strategie adattive contenuta nei saggi del già ricordato Ha’am) e quindi che il quadro esaminato resti, in certo modo, incompleto: il sociologo si limita, infatti, a sottolineare l’esistenza di una contraddizione tra la lealtà verso Israele, da una parte, e il preteso superamento del particolarismo da parte degli ebrei emancipati della Diaspora, dall’altra (pp. 45-46), e a negare che il sionismo fosse «la sola alternativa alla politica assimilazionista» (p. 55). Pure Visti di uscita e biglietti di entrata ha notevoli meriti, perché offre un’interessante chiave di lettura sia per riconsiderare alcuni aspetti della storia ebraica in età contemporanea, sia per analizzare le risorse che contengono e le insidie che possono celare i concetti di “comunità” e di “identità”, che, come bene dimostra Bidussa, costituiscono due dei nodi basilari delle società multiculturali contemporanee.
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