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Il futuro possibile. Intervista a Vincenzo Giustino*
di Nicola De Ianni
D
Il periodo della sua presidenza, 1972-1982, è lungo e interessante. Le tematiche sono molte, anche oltre quelle specifiche che si riferiscono alle vicende camerali. Sarà interessante poi fare alcuni approfondimenti, anche se dovremo necessariamente limitarne l’ampiezza. Alla fine, comunque, non potranno non risultare sia il suo ruolo di vera e propria memoria storica dell’economia napoletana, sia la sua modalità di approccio ai problemi, che è sempre molto scientifica.

R
Grazie, tutto questo mi gratifica molto.

D
Per chi ha un interesse di tipo storico, è molto importante avere a che fare con un protagonista lucido e consapevole: è una situazione di privilegio, che speriamo di poter far pesare. Prima, però, vorremmo che lei ci dicesse qualcosa di sé come imprenditore. Lei assunse la carica di presidente a soli quarant’anni, e quindi molto giovane; eppure aveva maturato già un’esperienza piuttosto ampia.

R
Sicuramente. Siccome sembravo ancora più giovane, all’inizio fui spesso
scambiato piuttosto per il figlio del presidente della Camera di commercio.

D
Un ragazzino. Bene, noi vorremmo che lei ci raccontasse, molto sommariamente, qualcosa che riguarda l’azienda di famiglia; l’inizio della sua attività nell’Unione industriali di Napoli; e infine, l’approdo alla Confindustria nazionale. Ma torniamo all’azienda di famiglia.

R
Un ragazzino proprio non direi. Allora avevo già quattro figli. Per quanto riguarda l’azienda essa è nata con mio padre quasi cento anni fa. Lui era un costruttore di strade, di quando le strade si costruivano con le mani. Eravamo otto figli: vennero prima i cinque maschi e poi le tre ragazze. Ed io sono l’ultimo dei cinque, per cui sono quello che tutto sommato si è inserito in un’azienda già abbastanza articolata. Dei miei fratelli, il secondo, Pasquale, era il collaboratore più stretto di mio padre. Nel tempo ci siamo strutturati in maniera da poter essere presenti su tutto il territorio nazionale e all’estero, nel ramo delle grandi infrastrutture. Cosa che facciamo ancora oggi. Ma ci siamo anche abbastanza diversificati. Per esempio nei settori dell’insonorizzazione e dell’energia da biomasse. Ma quello delle costruzioni rimane il settore che privilegiamo. Per tradizione e anche per affetto. Una volta mi è capitato di dover definire questo settore e la stessa figura del costruttore. Scrissi che non si deve confondere l’attività delle costruzioni, con quella immobiliare e quest’ultima con la speculazione edilizia. Sono tre cose diverse.
Le costruzioni in particolare, cioè le opere d’ingegneria civile segnano il progresso dell’umanità.
Sono testimonianze della civiltà e della cultura di ogni tempo. Dalle Piramidi al tunnel sotto la Manica. L’arte del costruire è un concentrato di cultura, di arte, di fantasia, di scienza, di tecnologia, di lavoro, oltre che di economia e finanza. Una coordinazione complessa e difficile, i cui rischi cadono solo a carico dell’impresa e dell’imprenditore, malgrado tanti protagonisti. Quando si concepisce un’opera; una galleria, piuttosto che una diga, un ponte, una centrale o un ospedale, tutto sembra avvolto in una nebbia. Il futuro di ciò che sarà quell’opera è solo nella volontà dei promotori o nella mente del progettista o tra le sue carte. Poi s’innesca un processo fantastico, fatto di competenze che s’incontrano, si scontrano, s’intrecciano, si compensano. S’instaura tra gli uomini, talvolta anche nel conflitto, una sorta di solidarietà contro le difficoltà e protesa al conseguimento dell’obiettivo. Lentamente la nebbia si dirada, i conflitti si compongono, le difficoltà si superano e l’opera si profila, finalmente, nella sua globalità e nei suoi dettagli, nella sua bellezza o nella sua bruttezza.
Solo chi è della partita può intendere l’intensità di queste emozioni.

D
Indipendentemente da come distribuita tra le tre categorie, speculatori, immobiliaristi e costruttori da lei individuate, è innegabile, nella storia dell’Unione industriale di Napoli, la grande forza degli operatori dell’edilizia.

R
Si, c’è stata, ma fino ad un certo punto. La forza dei costruttori all’interno dell’associazione è finita con Brancaccio: prima Carola e poi Brancaccio. I quali peraltro avevano realizzato, il primo alla ICOM, nel settore metalmeccanico; il secondo alla FIART una nota azienda della nautica da diporto. Dopodiché, per fortuna, dico io, la sezione meccanica e le altre del manifatturiero hanno avuto il sopravvento, si sono sviluppate di più. Adesso, nella composizione della base associativa, i costruttori non sono più predominanti; anzi. L’associazione dei costruttori è rimasta un’associazione aderente, mentre l’Unione degli industriali è articolata per sezioni e raccoglie le singole aziende. Quindi quella dei costruttori non è una sezione. Comunque, sul piano elettorale, se così posso dire, il peso dei costruttori non è più predominante come una volta. Questo da molti anni, ormai. Il che non dispiace nemmeno ai costruttori stessi, devo ritenere, gelosi come sono della loro condizione di associazione autonoma, presidio territoriale di una grande associazione nazionale: l’ANCE. Anch’essa naturalmente aderente a Confindustria.

D
Perché diceva: “per fortuna la sezione meccanica e le altre del manifatturiero hanno preso il sopravvento”?

R.
Come ho cercato di far capire, il settore delle costruzioni mi affascina molto, lo considero una delle espressioni che testimoniano il progresso civile. Dal punto di vista dello sviluppo economico tuttavia, esso è solo propedeutico allo sviluppo stesso. Nell’economia napoletana e meridionale la preponderanza di questo settore poteva, come può costituire, uno squilibrio, perché anche tutti gli altri settori industriali devono essere presenti e forti. Quindi, diciamo che l’uno è necessario agli altri. Perciò, dal punto di vista della composizione, se potessi definirla così, quella dei costruttori è una componente essenziale, importante, ma non può essere “la componente”, deve essere solo una parte del tutto.

D
Allora, ritornando a questi suoi inizi di attività, sicuramente, per quello che diceva, lei ha approfittato del vantaggio di essere l’ultimo dei fratelli maschi. È come se avesse avuto la libera uscita, il permesso di occuparsi di qualcosa di maggior respiro. Ma la sua scelta, la sua passione per la politica in senso lato, da dove veniva?

R
È essenzialmente un fatto mio personale.

D
Perché, lei è l’unico della famiglia che ha avuto questo tipo d’interesse?

R
Si. L’unico della mia generazione. In seguito le cose sono cambiate. In famiglia altri mostrano interesse alla vita associativa. Per quanto mi riguarda comunque, ho sempre avuto un grande interesse a seguire i problemi, a leggere, a capire. La passione per i problemi dello sviluppo l’ho sempre coltivata. Quando, verso la fine degli anni Sessanta, si andavano costituendo un po’ in tutte le province italiane i gruppi giovani, se ne costituì uno pure a Napoli. Era presieduto da Eugenio Bontempo, vi faceva parte, con me, Fabio Azzi, Riccardo Bachrack lui si occupa di telefoni, e ancora adesso è stato uno dei saggi nell’ultima questione degli industriali; c’era Giulio Albano, che è stato il presidente della Mostra d’Oltremare, Pino Rocco, e poi ce n’era ancora un altro, Francesco Iovane. Apparteneva a una famiglia d’imprenditori, poi scelse la carriera universitaria. In questo momento credo sia il direttore del Dipartimento di tecnologia all’Università di Milano. All’epoca, prendendomi in giro, mi chiamavano “l’ideologo”. Il gruppo nacque come una sorta di club di persone, ma fummo particolarmente incoraggiati da Vincenzo Carola, il Presidente del tempo e da Giuseppe Russo, allora direttore. Due persone di grande livello che, insieme con Luigi Tocchetti, non dimenticherò mai.
Poi entrammo in contatto con giovani delle altre province.

D
Ma questo lo facevate autonomamente o per conto dell’associazione?

R
No. Questi gruppi nacquero quasi spontanei, come iniziativa di giovani all’interno delle varie associazioni, all’epoca della presidenza di Furio Cicogna, all’inizio degli anni Sessanta. Perché il problema era questo: verso la metà degli anni Sessanta si andava spegnendo quello che fu poi chiamato il miracolo economico italiano. E soprattutto, con l’avvento dei socialisti al governo –
questa è una cosa molto importante – sostanzialmente si rafforzò tutta quella componente della politica che voleva la supremazia sull’economia. Si perseguivano cioè, e si andavano affermando, quelli che Furio Cicogna chiamava i “Miti”. Ne indicava quattro fondamentali.
Il “dannoso” convincimento che il profitto fosse da bandire; subito dopo la pressoché totalizzante presenza dello Stato nell’economia; poi la programmazione intesa più che come un metodo, come un “toccasana”; infine il radicato convincimento che l’economia di mercato fosse ormai superata. Tutto questo e il conseguente clima che si creò determinarono una sorta di frattura tra la Confindustria e il mondo politico. Probabilmente fu per questo che Angelo Costa tornò alla Presidenza.

D
Costa aveva fatto i primi dieci anni di presidenza, fino al 1955, e poi era tornato nel quadriennio 1966-70, infine si era ritirato molto deluso.

R
Si era creata un’incomunicabilità tra la Confindustria e la maggioranza del mondo politico. Io non penso che quelle scelte furono fatte sotto la spinta del socialismo o del comunismo. Esse sostanzialmente furono una caratterizzazione dei governi di coalizione, a guida democristiana. E sia la maggioranza sia l’opposizione, sostanzialmente volevano le stesse cose. Del resto tutto questo era abbastanza rinvenibile nei fatti. E i fatti sono che fino a pochi anni fa, l’80% del sistema bancario era in mano pubblica; così come larga parte della struttura industriale attraverso le partecipazioni statali. L’affermazione cioè della cosiddetta economia mista. Ciononostante che il nostro paese avesse fatto la scelta dell’Europa e dell’integrazione con il mercato mondiale. Ed è in questo clima da contrapposizione frontale, che i giovani si ritagliarono un ruolo, stimolati peraltro dalle tematiche del ’68
I giovani imprenditori parteciparono a quegli eventi sia pure dalla loro sponda, in forza dei valori che rappresentavano. Avvenne così che dalla contrapposizione frontale ispirata dalle ideologie da una parte e dagli interessi precostituiti dall’altra, ci si trasferì sul piano culturale. I giovani si misero a discutere con quelli che sostenevano le tesi avverse, dal punto di vista culturale. Si organizzarono incontri, dibattiti, tavole rotonde, a tutti i livelli. Significativi quelli di Stresa. E alcuni di noi dovevano leggere, studiare, approfondire. E poi c’erano i grandi convegni sulle questioni sociali, più che sulle questioni economiche organizzate da Confindustria. Cicogna ebbe la percezione che si trattava di un fatto importante, quello che si stava determinando. Furio Cicogna era uomo di uno spessore culturale notevole, a me piaceva molto. Lui chiamò presso di sé i gruppi che nelle province si erano costituiti un po’ autonomamente, e li fece confluire in un Comitato nazionale. Il primo presidente di questo Comitato fu Vallarino Gancia; poi, subito dopo gli successe Renato Altissimo. Tutto questo creò le premesse perché si giungesse a quel rapporto Pirelli che fece della Confindustria una delle organizzazioni più moderne, più democratiche, dell’Europa. Era forte la volontà dei giovani imprenditori di confrontarsi sul piano culturale con le componenti che la pensavano in maniera diversa. Tra l’altro allora dire di essere un imprenditore era quasi pericoloso: bisognava stare attenti. Un clima, bisogna dire, che non era comunque riconducibile alla presenza nel nostro paese del più forte partito comunista d’Europa. Con quella componente politica, ancorché ideologicamente definita, il confronto era comunque aperto e costante.

D
A parte le tensioni di quegli anni, in effetti, in Italia il capitalismo è sempre stato stretto tra la cultura cattolica e quella comunista.

R
Eh, sì. Si riteneva addirittura che l’imprenditore fosse sinonimo di ladro, qualcosa del genere. Bisogna ricordare i cartelli per gli scioperi dell’autunno caldo: “Agnelli e Pirelli ladri gemelli”. Questa era l’epoca. E quindi, dopo il ’68, si è sviluppato tutto questo. Ricordo che noi giovani redigemmo un documento che è rimasto fondamentale, “Una politica per l’industria” in cui si stabilivano alcuni punti molto precisi e rivoluzionari, per il modo di vedere dei nostri anziani. Allora l’Avv. Agnelli, che è stato sempre un riferimento indiscusso, con un famoso discorso all’UCID di Milano, lanciò l’idea di costituire una commissione di studio per elaborare un progetto di riforma della Confindustria, per adeguarla ai nuovi tempi, alle nuove esigenze. Così nacque la Commissione Pirelli. E a rappresentare i giovani in quella Commissione vi andò Enrico Salsa, l’attuale presidente del San Paolo IMI. Gli anni Settanta furono molto difficili; lo sa soprattutto chi li ha vissuti. Ecco, allora, per tornare al punto di partenza, mi si potrebbe chiedere: “ma il tempo dove lo trovava, per fare l’imprenditore?” La verità è che io sono riuscito a conciliare queste cose sacrificando molto del mio tempo libero, così del resto facevano i miei colleghi. Devo tutto a mia moglie che non si è mai lamentata. Quando nel 1970 fu costituita la nuova Confindustria, e quindi col nuovo statuto istituito il Comitato nazionale per il Mezzogiorno, l’incarico di consigliere per il Mezzogiorno fu dato a me. Allora presidente era Renato Lombardi: fu lui a chiamarmi.

D
Quindi, nel quadriennio del ritorno di Angelo Costa, si fermò questo rinnovamento?

R
No perché fu proprio in quel quadriennio che si crearono le condizioni per la nuova Confindustria. Ma con Costa ci fu una sorta di contrapposizione, perché Costa rappresentava la vecchia guardia, il vecchio modo di pensare. Anche se devo dire che su tante cose, e l’ho dichiarato, Costa aveva ragione. Perché noi eravamo infatuati e forse un po’ ingenui nel voler capire le ragioni degli altri… Allora, lui sosteneva: «Sì, però su questa strada noi finiremo per perdere terreno, come paese industriale». In effetti, dal 1966-67 abbiamo cominciato a perdere peso. Il sindacato prese il sopravvento. Negli anni Settanta si è incrociato un altro fatto, molto importante: la conquista dello spazio. Con la questione della corsa allo spazio, si sono avute ricadute tecnologiche. Nisbett ha scritto «noi pensavamo di conquistare lo spazio e invece stavamo trasformando il nostro pianeta». Questa trasformazione influenzò tutto. La politica e gli equilibri internazionali. L’Unione Sovietica è sparita per il progresso tecnologico, e non perché il capitalismo abbia vinto sul comunismo almeno, questa è la mia opinione. Lo stesso Gorbaciov, nel libro la Perestrojka lo lascia intendere. Tutto questo influenzò il mondo produttivo anche qui in Italia. Era necessaria una profonda ristrutturazione industriale, non più per le motivazioni che erano sostenute nel 1960. Non vi era solo un problema di costo del lavoro ma anche di competitività sul mercato internazionale sotto il profilo tecnologico, di processo e di prodotto. E nel 1970, il sistema per raggiungere la maggiore competitività era di trasformare le aziende. Cioè ridurre la fabbrica e trasferire all’esterno i servizi, per poi farveli tornare dall’esterno forniti dal mercato. Ecco perché si determinò quello che Saraceno chiamò “la disoccupazione tecnologica”, che sarebbe poi stata riassorbita, nei grandi numeri s’intende, dall’espansione dei servizi. Qui da noi, nel Mezzogiorno, questo poteva avvenire poco. Anche perché la componente pubblica dell’industrializzazione non era ristrutturata o privatizzata ma cancellata. Tenuto conto che la maggior parte di essa era costituita da industrie di base – la siderurgia per esempio.

D
Torniamo a Napoli e alla Camera di commercio. Il suo nome, in questi primi anni Settanta, s’incrocia con quello di un altro personaggio, più anziano di lei di qualche anno, che ha avuto anche una parte importante: Gino Ceriani. Perché diciamo, s’incrociano? Gino Ceriani presiedette la Camera di commercio dopo Costantino Cutolo, e quindi ha rappresentato, se vogliamo, la fase precedente; la quale, però, s’intersecava con l’ambito nazionale, anche per i contatti che Ceriani aveva con la Confindustria…

R
Quelli li ha avuti soprattutto dopo…

D
Ecco, vorremmo capire innanzitutto come si spiega la nomina di Giustino alla presidenza della Camera di commercio, diciamo, il suo significato più decisamente locale. E poi vorremmo incrociare questo rapporto con Ceriani. Giustino come successore di Ceriani e viceversa.

R
La cosa è andata così. Io facevo parte di questo gruppo di giovani imprenditori che svolgeva un’intensa attività nel quadro di quanto avveniva a livello nazionale. Vincenzo Carola, che è stato un grande presidente, mi fece nominare nella terna da cui sarebbe stato scelto il rappresentante dell’industria in seno alla Giunta della Camera di commercio. Per cui io, con Ceriani, ero membro di Giunta, rappresentavo l’industria, perché seguivo la sezione industriale – allora c’erano le sezioni. Quindi questa collaborazione tra me e Ceriani nacque già allora.

D
Quando lui era presidente della Camera di commercio e lei stava...

R
Fummo nominati contestualmente. Lui presidente della Camera ed io presidente della sezione industriale. E quindi abbiamo collaborato strettamente in tutti gli anni della sua presidenza. Il mio contatto con questi problemi è cominciato, con la presidenza della sezione industriale. La sezione industriale, che come tutte le sezioni purtroppo fu abolita con la riforma, era una palestra di grande importanza; non perché la dirigevo io. Il problema è che vi facevano parte tutti i rappresentanti delle partecipazioni statali, cioè tutte le grandi industrie della provincia. Poi vi faceva parte tutto il mondo sindacale: la Cgil, Cisl e Uil. E poi c’erano gli imprenditori privati, naturalmente, con Carola, Russo e tanti altri personaggi di calibro. C’era poi, e questo è spesso dimenticato, un’altra importante componente che era quella degli esperti: economisti, sociologi, studiosi in genere. Questa sezione industriale aveva quindi un’importanza notevole. E la collaborazione tra me e Ceriani che l’aveva a sua volta presieduta all’epoca di Costantino Cutolo fu molto intensa anche per questo. La celebrazione della consulta annuale, per quei tempi poi era un autentico avvenimento.

D
Le dimissioni di Ceriani e la sua nomina alla presidenza da cosa furono occasionate?

R
A Roma, nel 1970, mentre io ero ancora presidente della sezione industriale, maturarono molte cose. Io, anche su segnalazione dei giovani napoletani e dello stesso Ceriani, fui chiamato da Lombardi a coprire il ruolo di consigliere di Confindustria per il Mezzogiorno. Ho quindi ricoperto per due anni, sia l’incarico di presidente della sezione industriale che quello di rappresentante la Confindustria. Nel 1972 Ceriani si dimise. All’epoca, non c’era la scadenza del mandato, si andava via perché ci si dimetteva. E Ceriani aveva altre aspirazioni e meritava di più. Il fatto che poi fossi indicato io dall’Unione industriale come suo successore alla presidenza, era una cosa che lo stesso Ceriani, sostanzialmente, appoggiava. Perché c’era tra noi un’evidente continuità di azione. E quindi io sono arrivato, nel 1972, e ci sono rimasto fino al 1982. E nel 1982 me ne sono andato io dopo che già da tre anni avevo chiesto di essere sostituito. In Confindustria nel 1980, ero stato nominato vice presidente per i rapporti interni, avevo quindi tutta la responsabilità dell’organizzazione: è logico che la gestione della Camera di commercio di Napoli m’incominciasse a pesare. Anche perché questo per essere chiari – mentre in tutti gli anni Settanta, pur esistendo già la Regione, il vero centro di dibattito, restava la Camera di commercio. Negli anni Ottanta, man mano che la Regione cominciava a prendere peso, veniva scemando l’importanza della Camera. Io scrissi un articolo su «Il Sole 24 ore», in cui proponevo un nuovo tipo di Camera di commercio che fosse un anello della nuova architettura istituzionale: Secondo la mia impostazione la Camera di commercio avrebbe dovuto essere il presidio territoriale della politica industriale, rappresentare pertanto il braccio tecnico delle regioni. E invece non è stato così.

D
La successiva domanda dà la possibilità di aprire una parentesi. La parentesi viene da questo. Sin dal 1965, in alcuni trafiletti di stampa, lei è nel Comitato cittadino della Democrazia cristiana, eletto come membro. Per un periodo lei è stato anche vice segretario della sezione della Dc di Mergellina. Ora, sarebbe interessante che lei spiegasse che tipo di collegamento c’era allora tra l’attività politica e l’interesse per le associazioni.

R
Bella domanda questa. Quando i giovani imprenditori si sono costituiti in gruppi, e poi hanno cominciato a fare convegni su convegni sostenevano che: «Non bisogna fermarsi ai cancelli delle proprie aziende, bisogna guardare anche all’esterno, e partecipare a quello che avviene fuori delle aziende, da sempre la Confindustria riteneva di essere la Confindustria e che quindi tutto il resto doveva essere solo funzionale ai suoi interessi». Noi dicevamo il contrario. Noi dicevamo che tutto doveva essere parte integrante della società. E per farlo, siccome allora la politica prevaleva su tutto, noi dovevamo entrare anche in politica. Cioè, nel senso che noi dovevamo portare la nostra esperienza, il nostro modo di pensare, la nostra concezione della vita, dalle aziende nella società. E siccome il veicolo più immediato per avere questo rapporto erano i partiti noi dovevamo essere presenti. Ognuno con le sue scelte, che in sede locale poi erano più scelte di amicizia che ideologiche. Certamente uno di noi non poteva andarsi a iscrivere al partito comunista; ma ce n’erano molti di area laica che si sono trasformati in repubblicani o in socialisti. Io, per esempio, avevo molti amici nel giro della sinistra. Io subivo il fascino, e ancora oggi, della cultura e quindi anche di quella gran parte che era di sinistra. Le più belle chiacchierate, se così possiamo dire, io le facevo con molti di loro.

D
Quindi, questo interesse per la politica, possiamo definirlo strumentale? Era un modo per affermare le vostre idee anche in ambienti diversi?

R
Direi pure di sì. Io comunque non lo definirei strumentale, perché corrispondeva, piuttosto alla necessità di non essere avulsi o estranei dal concerto sociale. Partecipare significava essere presenti sul piano sociale, non con il circolo del tennis, ma in quelli politici e quindi attraverso i partiti. Ecco, così è nata la cosa. All’epoca, nei partiti, la discussione era sempre molto accesa. Il mio ricordo è che si era sempre alla ricerca di un modello di società nuovo. Condizione questa alimentata dal conflitto ideologico. E lo scontro ideologico portava al confronto. In fondo, il cosiddetto modello di Stato, che emergeva dal centro-sinistra del tempo, come s’intendeva allora il centro-sinistra, era sostanzialmente un grosso compromesso. Ecco, noi sostenevamo che a questa ricerca di un nuovo modello di società, che era molto presente nella società, attraverso i partiti, noi dovevamo partecipare. Poi naturalmente ci siamo resi conto, o almeno la mia esperienza fu questa, che la partecipazione ai partiti non rappresentava la finalità principale. Per cui, quando quell’esperienza finì, finì per sempre. Ciò che invece mi ha appassionato e impegnato, è stato lavorare all’interno di organismi interlocutori delle Istituzioni e quindi della politica. Un ruolo che mi ha sempre stimolato e non ho mai abbandonato.

D
Lei è nominato alla presidenza della Camera di commercio di Napoli nell’estate del 1972. Visto col senno di poi, questo decennio, è stato difficilissimo; ma forse nel 1972, non parlo per la sua presidenza alla Camera del commercio, ma parlo per quello che hanno rappresentato gli anni Settanta in Italia e nel mondo: 1971, la crisi monetaria internazionale; 1973, la crisi petrolifera; nel 1968 c’erano stati i movimenti sociali con problemi di studenti, operai, lotte sindacali e dopo comincia il terrorismo. Un decennio che si chiude nel 1979, con la seconda crisi petrolifera. Quindi non le toccò certo un bel decennio. Eppure, invece, si ha la sensazione che, nonostante tutto, quello fu un periodo di grande dinamismo e la sua una presidenza particolarmente innovativa.

R
Questa impressione da dove si ricava?

D
Diciamo che negli ultimi trent’anni ci sono stati almeno tre momenti cruciali. Il primo è quello che più o meno corrisponde all’inizio della sua presidenza, con una serie di trasformazioni che rompevano con il passato. Un secondo momento, è quello più recente – una decina d’anni fa quando c’è la riforma della Camera di commercio; e l’ultimo, diciamo è quello del contrasto fra le categorie che ha espresso un presidente come Barone, per i commercianti, e poi un ritorno a Cola, degli industriali. Però bisogna dire, che mentre gli ultimi due sono stati cambiamenti dettati da eventi istituzionali o legislativi, nel suo caso, il cambiamento era attribuibile a una sua volontà, in qualità di presidente, di volere cambiare le cose. Questa lettura è corretta oppure no?

R
Io credo di sì. Io ero presidente della Camera di commercio di Napoli, ma le esperienze che andavo accumulando a livello nazionale in Confindustria mi proiettavano quasi naturalmente in un contesto dinamico e di battaglia. Lo dico per la mia esperienza diretta: la ricerca del modello sociale di cui abbiamo parlato aveva come sua espressione nei nostri confronti, la messa in discussione dell’impresa e dell’imprenditore. E soprattutto della libera iniziativa. Perché in tutti gli anni Settanta, il nostro lavoro, in particolare, soprattutto i primi anni, era quello di difenderci. I nostri comitati di presidenza erano un po’ come lo stato maggiore che sta conducendo una guerra. E la guerra era rappresentata dal fatto che da un lato si metteva in discussione il sistema, l’impresa, l’imprenditore; dall’altro lato c’era l’esigenza di quella profonda ristrutturazione, che derivava dalla rivoluzione informatica, che c’era stata nel mondo, e che richiedeva un adeguamento della struttura industriale, perché si potesse rimanere un paese industriale. Tutto questo clima io vivevo intensamente, se non posso dire da protagonista, comunque certamente da testimone. All’interno di un osservatorio assolutamente privilegiato, io ero sempre vigile. E allora accadeva che trasferissi, anche senza volerlo, all’interno della Camera di commercio, che a quel tempo aveva una funzione primaria, tutte queste esperienze ai miei interlocutori al livello sindacale, al livello d’imprenditori pubblici e privati. E quindi l’eventuale mia credibilità, ma questo non devo dirlo io, la credibilità che riuscivo a suscitare su questi argomenti, su queste iniziative, derivava dall’essere parte attiva di un mondo dinamico. Non ero il provinciale presidente della Camera di commercio che era stato messo lì chissà come, oppure il politico, cui era stato dato un contentino. Da questo punto di vista, anche per la mia irrequietezza intellettuale, non stavo mai fermo. Questa è la verità. I giovani che lavoravano con me alla Camera mi seguivano. Adesso sono tutti segretari generali. D’alta parte vi era anche un altro mondo da cui ero stimolato. Ero nel consiglio di Amministrazione della SVIMEZ. Imparavo molto da Saraceno, Compagna e tanti altri. Su volontà di Saraceno sono stato per diversi anni tra i relatori del Rapporto e tra i partecipanti alle tavole rotonde della “giornata del Mezzogiorno” alla fiera di Bari. Facevo parte insomma, di quello che con affettuosa autoironia Tommaso Molino definiva il “carro di Tespi”, il folto gruppo di studiosi; economisti, sindacalisti, amministratori, imprenditori che periodicamente s’incontravano per discutere di Mezzogiorno. Specie in previsione della scadenza e del rinnovo delle leggi per l’intervento straordinario.

D
Questo suo dinamismo, questo suo modo di fare, in quegli anni, che tipo di ostacoli incontrava? Cioè la maggiore difficoltà di incidere da dove nasceva?

R
La maggiore difficoltà di allora era, sostanzialmente, quella incontrata anche dopo. È stato quello che io amo, definire, “morbo dell’inconcludenza”, perché noi siamo affetti da incapacità realizzativa. Facciamo degli esempi. Nel 1972, appena arrivato alla Camera di commercio, insieme alla prosecuzione di quanto già era stato iniziato dal mio predecessore, forte delle esperienze maturate a Napoli come a Roma, impostai un programma piuttosto ambizioso. Intendevo operare in alcune aree ben definite: le condizioni territoriali per lo sviluppo; la creazione di alcune grandi infrastrutture; dar vita agli strumenti per l’innovazione tecnologica e la valorizzazione dei prodotti regionali (contestualmente presiedevo anche l’Unione Regionale delle Camere), creare un centro studi.
La sconvolgente attualità, di queste indicazioni potrebbe anche indurre a pensare che esse siano ispirate dal senno del poi. È possibile. Ma non è così. Lo mostra che per ciascuna di quelle aree furono assunte delle iniziative e, soprattutto, costituiti degli strumenti ancora oggi in essere.
Per le condizioni territoriali, si procedette a un’indagine puntuale di tutte le opere progettate, finanziate, ma non eseguite. Furono individuate: l’opera, l’Ente, le cause del blocco; gli interventi necessari. I cosiddetti residui passivi, insomma. Polemicamente sostenevo che quella situazione di stallo si rivelava essere il contributo più efficace al contenimento della spesa pubblica. Anche allora vi era il problema.
Fece molto scalpore in quel tempo. Ma l’iniziativa più importante fu la redazione di una “Nota preliminare a un progetto speciale per l’area metropolitana di Napoli” (parafrasando quella famosa di Vanoni). La legge 183 del 1976, previde poi i due progetti speciali per Napoli e Palermo, ma se ne parlava già allora. Ricordo che l’allora Presidente delle Giunta Regionale Gaspare Russo, volle che illustrassi quel documento alla Giunta. Ma la Regione poteva poco allora. La fase costituente durò quasi tutto il decennio. Quel progetto non fu nemmeno impostato, malgrado la legge.
Per le grandi infrastrutture promuovemmo due importanti iniziative, la costituzione di un consorzio per la costruzione di un bacino di carenaggio (un’infrastruttura molto importante in quei tempi. L’allora Presidente del Consiglio Giovanni Leone, ne aveva assicurato il finanziamento). Ma non si riuscì a stabilire se quella struttura dovesse essere ubicata a levante a ponente, o verso il mare. Non se ne fece niente. Il Bacino lo costruirono a Genova.
Migliore sorte non ebbe l’altra iniziativa. La costituzione di una società promossa dalla Camera di Commercio e partecipata anche dalla Provincia, dal Comune di Napoli e dal Banco di Napoli, con lo scopo di progettare e costruire un nuovo aeroporto. Gli studi indicarono Lago di Patria, nacque però in altri ambienti la proposta alternativa di Grazzanise.
Si è discusso per anni. Ma non se n’è fatto nulla. Credo sia stato poi Magliano a porre in liquidazione quella società. Ora sembrerebbe che la Regione sia determinata a realizzarlo e tutto fa credere che sia la volta buona.
Per l’innovazione tecnologica creammo un centro per lo sviluppo tecnologico (CESVITEC) e un altro per la valorizzazione dei prodotti regionali l’IRVAT, ancora oggi esistenti.
Sulle vicende di questi due istituti il discorso sarebbe lungo. Quello che si può dire è che non ci furono le condizioni perché esprimessero tutte le loro potenzialità. Ancora oggi tutte da sperimentare.
Come ho già detto allora, fare il presidente della Camera di commercio, per me era un campo di applicazione dei problemi che affrontavo e dibattevo in altre sedi. Problemi peraltro, come ho ricordato, oggi ancora di grande attualità. Specie per ciò che concerne le infrastrutture, la modernizzazione del territorio, l’innovazione tecnologica la conquista dei nuovi mercati.

D
Seguendo cronologicamente la sua presidenza capita di trovare, nei primi anni Settanta, sulla cronaca della stampa, articoli con titoli del tipo: “Deludente risposta di Andreotti agli interrogativi di Giustino”. All’epoca Andreotti era ministro; si occupava, come ministro, di bilancio, di questioni che riguardavano il Mezzogiorno, mentre lei, era presidente della Camera di commercio di Napoli, ed anche responsabile, al livello nazionale, della politica per il Mezzogiorno. Sul piano governativo, che tipo di ostacoli s’incontravano per affermare il discorso sulla centralità del Mezzogiorno secondo una visione nazionale e non localistica?

R
Al livello governativo, la questione del Mezzogiorno era sempre gestita in funzione di leggi. La storia del Mezzogiorno negli ultimi cinquanta anni – dal dopoguerra a venire avanti – è stata sempre caratterizzata dalla scadenza e dal rinnovo di leggi per l’intervento straordinario. Ecco perché non si può attribuire ai poteri governativi una carenza. Perché tutto sommato leggi prodighe, ed anche interventi finanziari di un certo livello, ci sono stati. Dove invece io non sono d’accordo, è come tutto questo sia stato utilizzato. I poteri centrali tutto ciò che era nelle loro possibilità l’hanno fatto. Per esempio Andreotti è stato ministro del Bilancio e ministro del Mezzogiorno; io ho collaborato molto con lui. Ho collaborato molto con lui anche quando era presidente del Consiglio. Tutti i ministri del Mezzogiorno che si sono alternati, compreso De Mita e Donat-Cattin, hanno avuto la mia stretta e personale collaborazione, quasi quotidiana. E devo dire che non ho mai trovato il muro, ma sempre grande disponibilità e grande attenzione. Bisogna considerare che esistevano leggi incentivanti che concedevano, a chi investiva, il 40% di contributi a fondo perduto. Poi, se a questo aggiungiamo finanziamenti a tasso agevolato per un altro 40%, si può arrivare alla conclusione che questi finanziavano tutto.
Però, a prescindere da questi fatti più specifici, in linea generale, la mia conclusione fu, già un po’ di anni fa, che l’intervento straordinario aveva avuto grandissimi meriti, che era stato la grande intuizione dei leader politici del tempo e in particolare di Alcide De Gasperi. Che è stato uno strumento importante. Che ha consentito al Mezzogiorno di essere, come diceva Compagna, più industrializzabile di quanto non lo fosse prima. In ogni caso di avergli consentito di mantenere costante il gap con il Nord malgrado il progresso di quelle regioni.
Implicitamente quindi di aver fatto progredire il Sud. Su questo non c’è dubbio. Ma c’è un demerito dell’intervento straordinario che già negli anni Settanta, come rappresentante di Confindustria, avevo messo in evidenza. Quello di aver disabituato le istituzioni locali, e quindi la politica locale, ad acquisire cultura di governo. Consolidando invece quella della dipendenza. Noi avevamo – abbiamo ancora oggi – quella che io chiamavo la sindrome del principe. La tendenza cioè ad affidare sempre ad un principe esterno la cura dei nostri mali.

D
La lunga dominazione straniera.

R
È un fatto storico. La storia del Mezzogiorno è una storia di dominazioni. E la Cassa del Mezzogiorno, in fondo altro non è stata che un moderno principe. Che tutto prevedeva e a tutto provvedeva. Al riguardo la mia opinione è che non esistono più le condizioni che furono alla base di quel patto cui aderirono le Regioni del Nord e con cui si diede vita all’intervento straordinario. Il patto secondo cui era adottata una politica, l’intervento straordinario appunto e lo spiega De Gasperi chiaramente nel suo discorso alla Camera quando fu istituita la Cassa del Mezzogiorno con cui si creavano nel Mezzogiorno le condizioni per lo sviluppo, e contestualmente si consolidava e si espandeva l’industria nelle Regioni la dove preesisteva.
Il Mezzogiorno insomma, fruiva degli investimenti ma nel contempo fungeva anche da mercato per il Nord.

D.
Parliamo delle critiche che la sinistra faceva in quegli anni alla gestione democristiana, per esempio della Cassa del Mezzogiorno, di un uso politico, a volte anche clientelare e poco razionale. Lei ha fatto un cenno al fatto che, per esigenze politiche, poteva capitare che un politico spingesse perché si facesse una cosa che aveva un interesse marginale, non inseribile in un contesto più generale. Tutto questo, in che misura, secondo lei, ha pesato poi sulla relativa inefficacia dello strumento? Perché è vero che la Cassa del Mezzogiorno e l’intervento speciale hanno rappresentato lo strumento col quale si è cercato di perdere meno terreno nei confronti del Nord sviluppato. Però è anche vero che, guardando a quanto è stato speso in confronto a quanto poi è rimasto, rimane la sensazione di spreco e di livelli non produttivi. Perché l’investimento deve avere una logica produttiva, per dare un ritorno ulteriore. E quindi, la mia domanda è: può essere questa un’ulteriore deformazione di tipo politico, di cui abbiamo pagato le conseguenze come cittadini e come meridionali, oppure lei ritiene il punto non rilevante e riconducibile in sostanza alla normale dialettica politica di allora, come magari anche di oggi o di domani?

R.
Il demerito dell’intervento straordinario è stato quello di non aver fatto acquisire la cultura di governo e di aver consolidato quella della dipendenza. E poi è durato troppo a lungo. Quando, nel 1970, io ho assunto questa responsabilità – e non ero ancora presidente della Camera – la prima cosa che ho fatto dopo essermi consultato con gli organi, è stata quella di dire che l’avvento delle Regioni, che erano state istituite proprio nel 1970, avrebbe dovuto indurre noi del Mezzogiorno ad affrancarci dall’intervento straordinario. Cioè di utilizzare l’occasione di questo nuovo vestito istituzionale, diciamo, di questa nuova condizione istituzionale, per cominciare a pensare a noi stessi. Il problema non era più se l’intervento straordinario ci doveva essere o non ci doveva essere, ma l’intervento straordinario qui doveva essere guidato. Allora, con la legge del 1976, la 183 del 1976, questa tesi che naturalmente io sostenevo per il mondo degli imprenditori ma non ero evidentemente solo portò a trasferire, con la legge – i poteri e le risorse della straordinarietà alle Regioni per le materie di loro competenza. Che cosa avvenne? Avvenne che le Regioni, probabilmente perché ancora in fase costituente, non recepirono che quello era un trasferimento di poteri, ma anche un trasferimento di responsabilità. Delegarono quindi agli stessi organi della Cassa del Mezzogiorno le funzioni operative. Sicché tutto si risolse in un passaggio in più nella realizzazione dei vari interventi. Sostanzialmente ritardando notevolmente le procedure. Per cui, anziché essere un vantaggio, fu uno svantaggio. Magari alcuni politici del tempo, che avevano queste responsabilità al livello regionale, non saranno d’accordo. E, probabilmente, avranno pure ragione, dal loro punto di vista. Tuttavia il fatto è questo. D’altra parte la conclusione dell’intervento straordinario, che fu sancita nel 1993 dal decreto Andreatta, in realtà aveva iniziato il suo tramonto molto prima. Precisamente quando in Parlamento scoppiò la guerra permanente sulla spesa pubblica, che ebbe il suo culmine verso la fine degli anni Settanta, quando ogni provvedimento di spesa che riguardava il Mezzogiorno era ampiamente contestato e il Mezzogiorno ripetutamene umiliato. Questo tra l’altro fece le fortune del movimento leghista. Sostanzialmente poi è stata questa la causa che, scaduta la legge del 1976 nel 1980, s’interruppe quella famosa sequenza di scadenze e di approvazioni di leggi aggiornate per il Mezzogiorno. Dal 1980 al 1986 si ebbe un vero e proprio vuoto istituzionale. Non c’era più l’intervento straordinario, ma non c’era nemmeno quello ordinario. A mio giudizio, perché non ci si era sufficientemente rodati per operare con successo.

D.
Nel gennaio del 1973, fu organizzato dalla sua Camera di commercio, in collaborazione con la SVIMEZ un convegno sulla centralità del problema meridionale nello sviluppo italiano. Vi furono relazioni di Saraceno, D’Antonio, Silos Labini, Graziani e di Bruno Pagani, direttore di «Mondo economico» e interventi di numerosi e qualificati interlocutori compresi i vertici nazionali delle associazioni degli imprenditori e dei lavoratori. A tutti gli effetti, questo convegno costituisce una possibile analisi di partenza; descrive lo stato delle cose; è una fotografia della situazione all’inizio del suo impegno. In quella circostanza si sviluppò una dura polemica tra il gruppo dei docenti come D’Antonio e Graziani e la Confindustria. Era presente Lombardi, che fu attaccato dai professori e fu difeso da Ceriani. L’attacco si riferiva a una presunta ottusità al livello centrale della Confindustria, nel non voler accettare l’idea di uno sviluppo più equilibrato tra il Nord e il Sud. Invece la posizione sua e di altri meridionalisti era di convincere Agnelli e gli altri principali industriali del Nord che lo sviluppo del Sud avrebbe portato vantaggi economici a tutti e quindi anche al Nord. Ora in quella posizione, in quel contesto, in quella polemica, i D’Antonio e i Graziani dicevano «sbaglia chi pensa che il Nord possa necessariamente dover crescere con il Sud. E il Nord può benissimo fare a meno del Sud. E siccome – probabilmente non è politicamente interessato, salvo alcune eccezioni, se ci poniamo su questa strada, non risolveremo mai il problema del Mezzogiorno». Dicevano a Lombardi: «È inutile che vieni qui a presenziare un convegno sul Sud, perché poi in realtà la tua posizione è di chi sta molto attento a evitare che i rapporti di forza si spostino anche solo di un millimetro nelle situazioni ordinarie […]. A uno come Giustino, alle sue posizioni voi dite di sì tanto per dargli ragione, o siete veramente convinti che senza il Sud voi non crescete?» E concludevano: «noi pensiamo che gli industriali del Nord siano convinti che del Sud se ne può tranquillamente fare a meno; cioè che non si ha bisogno di uno sviluppo integrato del Paese, perché si abbia uno sviluppo forte. E questo è il vero motivo per cui la questione meridionale poi non si è risolta né si risolverà se continuiamo ad avere questa posizione».

R
Questo, sostanzialmente è di un’attualità sorprendente. Cioè quando io ho detto, poco fa, che i termini del patto non ci sono più, è perché, sostanzialmente è stato sempre così. Certamente, D’Antonio e Graziani, con i quali io discutevo animatamente, avevano perfettamente ragione nella diagnosi, se posso dire così, ma non avevano ragione, nella terapia. Che l’industria del Nord avesse più interesse a crescere per suo conto, prescindendo dal Sud, dal punto di vista pragmatico è così. Perché l’appello alla solidarietà, che veniva di tanto in tanto lanciato negli scontri con gli industriali del tempo, era un appello, secondo me, sterile. Io l’ho sempre sostenuto. O apriamo le ragioni della convenienza, o non otterremo i risultati, perché questi sono industriali. E la convenienza non si poteva esaurire solo con gli incentivi. Oggi, per esempio, questi sono molto proiettati verso i mercati dell’Europa, del Nord e dell’Est; a loro, dell’area mediterranea, non gliene frega niente. Siamo in pochi da un po’ di anni a sostenere che se riuscissimo a creare le condizioni per divenire il braccio operativo dell’Europa nel Mediterraneo, probabilmente avremmo forza contrattuale. Perché la differenza sta in questo. Avevano torto loro, quando dicevano: «Io posso fare a meno di te»; ma avevano torto pure questi altri, come hanno tuttora, quando il coinvolgimento lo pretendono sotto il profilo della solidarietà. Non è così. Il coinvolgimento lo possono avere sotto il profilo della convenienza; e non per fare un arido discorso d’interessi di bottega, perché non è così. È nelle cose. Solo oggi che si è affermata definitivamente la libera intrapresa, il libero mercato, tutte queste cose nessuno le mette più in discussione, Dobbiamo essere nelle condizioni di saper competere. Come possiamo competere? Così come quando si dice che il Mezzogiorno non ha espresso una classe imprenditoriale. Sarà anche vero, ma perché non andiamo un poco più alle origini? E allora, quando D’Antonio e Graziani facevano quest’osservazione, avevano ragione, dal loro punto di vista. Non avevano ragione quando non consideravano che una produttività – se così posso definirla – del Mezzogiorno in quanto tale, era quanto mai necessaria per indurre queste persone a ragionare. Perché il Mezzogiorno è stato oggetto di speculazione da parte di pubblici e privati?

D
Nel 1974 scoppia il caso Luraghi, presidente dell’Alfa Romeo. È una vicenda quella di Luraghi molto legata a quanto stiamo discutendo. Luraghi dai meridionalisti è accusato di voler investire esclusivamente nella ristrutturazione dell’impianto al nord, di Arese, dell’Alfa. Mentre lui, in questa sua battaglia, che poi lo porterà alle dimissioni, ha una posizione, dal punto di vista industriale, molto coerente. Infatti, sostanzialmente si opponeva a quella che gli appariva come un’operazione clientelare di basso livello. Diceva: «Se io accetto, mantengo la presidenza, se rifiuto, mi fanno fuori […]. Però io ho la mia dignità: rifiuto». E difatti così andò. Nelle carte di Merzagora ci sono le lettere tra Luraghi e Merzagora...

R
Luraghi afferma questo?

D
Lo dice privatamente e lo scrisse anche pubblicamente. Chiese aiuto a Merzagora. Merzagora all’epoca era un influente presidente del Senato e si diede da fare per promuovere una campagna di stampa che doveva sostenere queste posizioni. Questo per dire che a seconda dell’ottica nella quale ci si pone, si può parlare di antimeridionalismo o, viceversa di una battaglia per l’autonomia, per la qualità, contro i metodi politico-clientelari. Ecco questa contrapposizione fra le ragioni dell’uno e le ragioni dell’altro. Lei ritiene che sia una costante delle vicende del nostro Mezzogiorno?

R
Ma l’indicazione di Luraghi, però, è un’indicazione che potrebbe essere fuorviante, da questo punto di vista. Perché io ho conosciuto molto bene Luraghi. La questione è che Luraghi sostanzialmente è stato, secondo la mia opinione, il braccio più intelligente delle partecipazioni statali. Non che gli altri non lo fossero, per carità...

D
Veniva dall’industria privata, Luraghi, era stato alla Pirelli con Merzagora..

R
Però, in Luraghi, bisogna leggere anche, una motivazione che non appare dalla letteratura: la rivalità con la Fiat. Allora, nel disegno di Luraghi, anche se magari non lo troviamo scritto da nessuna parte, vi era anche come dire un sub-strato politico in tutto questo. C’era la possibilità di coinvolgere il Sud, in particolare, un’area come quella napoletana, con una grossa impresa industriale, ma sempre in funzione del fatto che questo monopolio Fiat non gli stava bene. Mi sarebbe tanto piaciuto che l’avesse fatto qualcun altro. Difatti qualcun altro ci è arrivato, dopo. La Fiat ha decentrato nel Sud il 50% del suo potenziale produttivo. Ecco, allora, nella valutazione di questa contrapposizione di cui parlavamo, non bisogna trascurare questo elemento, che è di particolare importanza.

D
Ma Lei non pensa che, in effetti, lo Stato non avesse alcun motivo di costruire automobili, e che lo poteva ben lasciare alla Fiat e, magari, a dei concorrenti della Fiat. Che però, purtroppo non ci sono stati perché poi il capitalismo ha anche una sua tendenza monipolista.

R
Io sono d’accordo su questo. D’altra parte, facevo parte di quel mondo là. La verità, però, è che questa motivazione trovava, cioè la motivazione di contrapporre alla Fiat qualcosa, largo credito. Il fatto che fosse pubblico magari non andava bene. Ma, dal punto di vista sostanziale, dal punto di vista della qualità, la dimostrazione che a Napoli si potevano fare automobili, e si potevano fare anche bene, era un fatto importante per un meridionale.

D
In questa chiacchierata ogni tanto è opportuna un’incursione in qualche fatto specifico. Per esempio, è interessante accennare ad alcune occasioni che lei come imprenditore ed anche manager ha avuto. La prima, nel novembre – dicembre del 1976, quando finisce la lunga gestione di Pescatore alla Cassa del Mezzogiorno, dopo ventiquattro anni, e si fanno, anche sulla stampa, diverse ipotesi, tra le quali alcune parlano di Giustino presidente della Cassa del Mezzogiorno. Poi invece sarà nominato Servidio. Servidio è scelto da presidente Isveimer e come uomo di Gava. Questa è la prima, l’altra poi è la vicenda Banco Napoli, che vorrei trattare a parte. Ma, ritornando alla vicenda Cassa per il Mezzogiorno: era un’invenzione giornalistica o era una possibilità reale. E perché, eventualmente, non si è realizzata?

R.
La questione è questa. Io avevo maturato, come abbiamo anche visto, diverse esperienze, alla Camera di commercio, in Confindustria e sulla questione meridionale. Ero, insomma, secondo alcune persone, uno di quelli che poteva essere la persona giusta per stare alla Cassa del Mezzogiorno, un luogo di responsabilità notevole in cui il problema non era tanto la politica quanto l’operatività. Certamente, la mia caratteristica di essere un imprenditore mi dava un obiettivo vantaggio. Alcune persone eminenti di quell’epoca, si posero questa prospettiva e me ne parlarono. Devo dire, però, che non ci fu un problema Giustino, né una sorta di braccio di ferro o di candidatura contrapposta a qualcun altro: quella fu semplicemente un’ipotesi. Come se ne fanno tante. Non so neanche fino a che punto mi avrebbe fatto piacere questa nomina.

D.
Ma con la gestione di Servidio, la capacità d’incidenza e l’efficienza della Cassa sono migliorate?

R.
Secondo me il problema non è mai solo nelle persone. Le persone sono importanti, ma in quel momento forse la Cassa aveva già esaurito la sua spinta propulsiva. Nel 1976-77 non è che non avesse più una funzione, ma certamente non aveva le funzioni del passato.

D.
Quindi la definizione attribuita a Pescatore di “grande elemosiniere” lei non la condivide?

R.
No. Non la condivido perché Pescatore è stato un grande personaggio che ha capito il ruolo che poteva assolvere questo intervento straordinario e ha cercato di farlo nella maniera più intelligente e proficua possibile, tenendo conto dei tempi e delle persone. E credo che la Cassa del Mezzogiorno di Pescatore e di coloro che a suo tempo sono stati lì – allora c’erano personaggi di un notevole livello nel Consiglio di amministrazione, effettivamente ha rappresentato ciò che nella mente di De Gasperi e degli altri questo strumento doveva essere. Il problema, come dicevo prima, è che poi è cominciata a diventare non lo strumento aggiuntivo ma uno strumento sostitutivo: l’intervento straordinario è stato elevato a sistema, il problema dell’amministrazione ordinaria quasi non esisteva più. A questo punto è diventato strumento di potere per la politica, quindi ha cominciato a degenerare. Già a metà degli anni Settanta eravamo su questa strada. L’intervento straordinario è stato abolito nel 1993, ma per la mia esperienza, l’intervento straordinario è morto nel 1980. E nel 1976-77 già era in agonia. Per questi motivi. Non per carenza degli uomini o per mancanza di volontà politica.

D.
Passando invece all’altro problema che è altrettanto importante e non meno attuale, quello del Banco di Napoli. C’è un momento, prima della nomina di Ossola, e quindi tra fine 1979 e inizio 1980, in cui si parla di una sua possibile nomina al vertice del Banco, essendo lei già membro del consiglio d’amministrazione.

R.
Al Banco non era come per la Cassa del Mezzogiorno, perché ero già consigliere. L’idea che io potessi assumere la presidenza quando morì Pagliazzi fu di Guido Carli. Questo nessuno lo può confermare, ma io lo posso garantire. Carli mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: «Lei sarebbe la persona giusta, per l’esperienza che ha maturato, per il fatto, poi, che conosce questa realtà». Allora il ministro del Tesoro era Andreatta. Poi venne fuori la candidatura Ossola. Perché Ossola era stato direttore generale della Banca d’Italia. Ricordo che io stesso, una sera, a una cena in cui erano presenti persone di una certa importanza, dissi che non si dovevano disperdere un’energia e un’esperienza come quelle di Ossola.

D.
Però forse non fu la scelta giusta. Lo dico non perché Ossola non fosse un personaggio di rilievo e di spessore, ma perché quell’incarico durò solo due anni.

R.
Sì, durò due anni ma non perché si fosse deciso così. Ossola se ne andò perché non andava più d’accordo con il Consiglio di Amministrazione. Con Ossola presidente io rimasi consigliere: il punto è che Ossola non si trovava a suo agio all’interno del consiglio. E, sulla stampa comparivano continui attacchi, a queste persone, escluso me. Allora io mi dimisi. Essendovi già state le dimissioni di un consigliere, con le mie veniva a mancare il numero legale. Io andai da Ossola e dissi: «per metterla in condizioni di risolvere questo problema, io mi dimetto». Fu cambiato l’intero consiglio d’amministrazione. A me fu chiesto di entrare ma rifiutai perché non potevo tornare io solo. Quindi la verità è che Ossola si circondò di persone con cui non andava d’accordo. Io ho anche un ricordo visivo: una vignetta che raffigurava Ossola che scappava dal Banco di Napoli mentre tutti si azzuffavano. La verità è che lui scappava. Posso dire con serenità che il problema non era il consiglio. Il problema era Ossola.

D.
Probabilmente, pur essendo un’ottima persona, non era l’uomo giusto per una realtà come quella napoletana. Come mai quando si ripropose il problema, non ci fu più un’altra occasione per lei?

R.
I tempi poi cambiano. Ventriglia, a quel punto, poteva rappresentare bene la sintesi tra la tecnica e la politica. E poi io avevo preso altre strade.

D.
Quello è stato l’unico momento, in cui lei ha “corso il rischio” di diventare presidente del Banco di Napoli? Non ci sono stati altri momenti?

R.
No. L’ipotesi di una mia presidenza del Banco di Napoli si è manifestata solo in quella circostanza.

D.
Torniamo alla Camera di commercio. Questo suo decennio di presidenza come lo ricorda?

R.
È stato un decennio per me molto esaltante. E devo dirle una cosa senza apparire romantico. Nonostante mi fossi dimesso sin dal 1980 sono rimasto ancora in carica soprattutto per impedire che fosse nominato un politico trombato. Io volevo come successore un altro imprenditore. E, infatti, la candidatura Magliano fu da me fortemente sostenuta.

D.
Era previsto che fosse nominato qualche politico?

R
In quel momento c’era questa mania. Mentre noi sostenevamo che dovesse essere un operatore, un operatore economico, possibilmente un industriale. Io conservavo il pallino del presidio della politica industriale, Perciò con i miei amici delle associazioni del commercio polemizzavo: «vi chiamate commercio ma non vi rendete conto che siete parte integrante di un discorso industriale!» Avevo assunto pressanti impegni in Confindustria nazionale e perciò decisi di lasciare la Camera. Allora non c’era la scadenza. Bisognava andarsene. Ma le pressioni perché rimanessi erano moltissime. Tanti alla Camera si ricordano ancora di me ed io rimango sempre molto stupito di questo fatto: sarà perché mi consideravano un trascinatore. Nel mio discorso di commiato dissi, citando Shakespeare, “Giulietta e Romeo”: «O vado per vivere, o resto per morire». Preferii fare il vice presidente di Confindustria, che ho fatto per otto anni. Ecco mentre gli anni Settanta sono stati anni in cui eravamo in trincea, in difesa, gli anni Ottanta sono stati all’attacco. Ed è stato bellissimo. La vera delusione nella mia vita sono stati gli anni Novanta. Penso all’importanza che ha avuto il crollo del muro di Berlino nel nostro paese. Sono stato tra i presentatori del libro di Luciano Gallino sulla scomparsa dell’industria italiana. Io non contesto Luciano Gallino per le cose che ha raccontato e per le sue considerazioni, quanto per l’assenza di perché sulla scomparsa dell’Italia industriale. Io le posso dire una cosa. Le radici affondano negli anni Settanta, ma la vera causa scatenante è comparsa negli anni Novanta e fu la disgregazione del mondo politico italiano: uno straordinario fatto di libertà, che la politica tuttavia non seppe gestire e dal quale non siamo riusciti ancora a riprenderci.

D.
Torniamo a Napoli e alla sua successione alla Camera con Francesco Magliano.

R.
Magliano era un barone di nascita, un gran signore e un importante imprenditore del settore chimico. Probabilmente il coordinamento dei poteri delle Regioni non gli ha consentito di ottenere con la sua presidenza i risultati sperati. Negli ultimi tempi la Camera per lui era la vita, ma ormai quell’Ente non aveva più un ruolo determinante nell’economia cittadina.

D.
A chi risponde un presidente della Camera di commercio?

R.
All’epoca al ministero dell’Industria. Dopo la riforma in parte anche alla Regione e alle associazioni che l’hanno eletto.

D.
Quindi, lei favorì la nomina di Magliano, nel senso che la vide bene, contro ipotesi peggiori, ma poi ne rimase deluso?

R.
No! La verità è che sono cambiati i tempi. Magliano è arrivato nel 1982, siamo già in una fase di stanca, per esempio, dal punto di vista dell’intervento straordinario che non aveva più il ruolo di prima. Anche la questione sindacale non era più quella di prima, il problema della ristrutturazione industriale e via discorrendo.

D.
Nella fase di passaggio alla riforma che è stata lunga e lenta, si è dunque avuta una perdita di peso dell’istituto camerale?

R.
Secondo me sì. Io ero un agente attivo mentre si andavano elaborando le diverse ipotesi di riforma. Le mie idee su questo le ho sempre avute ben chiare. E le ho scritte in articoli e le ho anche trasferite ai diversi ministri nei miei contatti con loro. Utilizzando la leva Confindustria, cercavo il più possibile una riforma che fosse adeguata al nuovo disegno istituzionale, e soprattutto che potesse ben rappresentare una nuova occasione di sviluppo per il Mezzogiorno La mia conclusione è che quella riforma non ha nulla di tutto questo. Perché induce più al burocratismo che alla realizzazione.

D.
Nel periodo di sua presidenza quali sono stati i problemi di bilancio in ordine alle scelte sulla spesa?

R.
All’epoca noi vivevamo del cosiddetto contributo sostitutivo da parte dello Stato; per cui non avevamo entrate dirette. Il contributo secondo i miei ricordi, lasciava alla disponibilità degli amministratori camerali sì e no un 10%. Il 90% erano tutti costi fissi. Quindi noi non disponevamo di risorse.

D.
Quindi l’idea della Camera di commercio ricca è degli anni più recenti.

R.
Sì, la mia era esattamente il contrario di quella di oggi. Per le iniziative e le promozioni avevamo mezzi scarsissimi. Quando si organizzavano le missioni all’estero, io pretendevo che i membri di giunta imprenditori – e c’è qualche vecchio amico che me lo rimprovera ancora si pagassero il viaggio. Il senso dello Stato che ho conosciuto andando in giro per il mondo e avendo a che fare con tanti personaggi io non l’ho rivisto più.

D.
Beh, personaggi come Stringher, Beneduce, Menichella, De Nicola, Einaudi, Saraceno, sono gente dal rigore proverbiale: facevano gara in missione a chi risparmiava di più.

R.
Si racconta di De Nicola che, avendo appena passato le consegne alla Corte costituzionale, disse di no all’autista che si era avvicinato con la macchina, e chiamò un taxi. Saranno piccole cose, però hanno un grande valore. Quindi, la Camera non aveva risorse, non poteva spendere, però noi abbiamo compensato ampiamente tutto questo. Con tutto quello che lei trova. Tutte le più importanti iniziative dell’epoca, stanno ancora là: nessuno le ha toccate.

D.
Quale fu l’impegno organizzativo più gravoso della sua gestione?

R.
La cosa di cui mi sono molto occupato è stata, all’epoca, la meccanizzazione dei servizi, all’interno. Era cosa completamente sconosciuta. Noi siamo stati una delle prime Camere a darsi un’organizzazione diversa. Ricordo che dovevamo fare le riunioni per convincere i vecchi impiegati e funzionari camerali, dei veri amanuensi, a utilizzare le nuove tecnologie.

D.
Venendo agli ultimi anni, cioè quindi questi passaggi dopo Magliano, Barone e poi Cola. La sensazione che si ha, avvicinandosi a questi ultimi anni è appunto di grande diversità, non solo come epoca, perché è diversa, ma insieme al cambiamento, c’è anche una rudezza nei movimenti, nelle azioni, nella stessa attività, che è un po’ particolare e che non sempre poi è giustificata da assenze, o situazioni di mancati ricambi generazionali, o di classe politica, o da tutte le problematiche che abbiamo esaminato. Ecco, l’impressione è che tutto questo scenario cambiato ci proietti verso conflitti per l’affermazione in cui sembrano poi scomparire o essere strumentalizzate le altre finalità. Lei condivide questa sensazione?

R.
La risposta è già nella domanda. Ma la legge è sbagliata nel punto in cui ha soppresso istanze come quelle delle sezioni e della consulta perché erano luoghi di aggregazione di componenti diverse e fondamentali per lo sviluppo della società e dell’economia. E questo è molto grave, è stata trascurata questa cosa. Ed anche il sistema elettorale della Camera è sbagliato. Un’istituzione deve essere democratica ma anche stabile. Non a caso gli imprenditori si sono battuti per l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle giunte regionali. Anche se poi il disegno è rimasto incompleto. Tornando alla Camera faccio un esempio. In questo momento, Cola è il presidente. Se qualcuno lo mette in minoranza nel consiglio, si cambia il presidente, com’è successo con Barone Lumaga. È un grosso errore. Ma devo, naturalmente dare, anche una risposta più generale alla domanda. La Camera di commercio rappresenta gli interessi economici della Provincia e quindi rappresenta gli interessi della società. Non può essere gestita alla stregua del “togliti tu che mi ci metto io”. Le persone devono avere le caratteristiche giuste e le capacità individuali, se questo manca è già un segno di decadenza. La politica è l’arte del governare, no? Non dico questo per difendere la mia generazione, anzi sono sempre ossessionato dalla preoccupazione di essere accusato di avere la sindrome “dell’essere stato”. Non ce l’ho. Non ce l’ho mai avuta. Ma oggi l’idealità di affrontare un problema, di misurarsi, di lanciare il cuore oltre l’ostacolo per cercare di risolverlo, sia pure nei limiti di quelle che sono le proprie possibilità, dove sta?

D.
Il rischio è che posizioni del genere possano essere bollate come nostalgiche o antiquate e contrapposte alla presunta modernità che oggi è rivendicata.

R.
Qui non si parla di rimpianti né di nostalgia del passato. È soltanto un’analisi sul cambiamento. La si può condividere o no. Io la condivido.







* Questa intervista a Vincenzo Giustino, presidente della Camera di Commercio di Napoli dal 1972 al 1982, fu effettuata il 15 dicembre 2004. Sarebbe dovuta apparire nel volume La Camera di Commercio di Napoli dal 1997 al 2003, a cura di F. Balletta, Napoli, Prismi, 2006, ma non vi fu poi compresa per ragioni che qui non mette conto di ricordare.^
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