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IL RACCONTO ITALIANO DELLA GRANDE GUERRA* 2. Lingua e prosa della Grande Guerra
di Luca Serianni
Con pieno rispetto dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia appare ora un importante volume della nuova serie dei classici Ricciardi diretta da Carlo Ossola. I curatori sono Emma Giammattei, della quale sono apparsi recentemente nella stessa serie due volumi su Carducci (Poesie e Prose, 2013), e Gianluca Genovese: alla prima si devono il progetto complessivo, i saggi introduttivi, le note al testo; al secondo la costituzione e l’annotazione dei testi, la nota al testo del Diario di trincea di Serra, la bibliografia. Prescindendo dal Diario di Serra, ospitato in una Appendice, il volume comprende 8 testi, tendenzialmente scanditi secondo una sequenza cronologica e abbinati in base ad affinità tipologiche: «La grande guerra e il “povero letterato”» (Alfredo Panzini e Antonio Baldini), «Pedagogia della guerra» (Giovanni Boine e Luigi Russo), «Testimonianza e invenzione. La grande guerra fra giornalismo e letteratura» (Luigi Barzini e Luigi Ambrosini), «Abitare la battaglia» (Ardengo Soffici e Curzio Malaparte).
Il volume appare notevole per più riguardi, a partire dalle dense pagine che Emma Giammattei, con la sua sensibilità di storica della cultura e col rigore della filologa, dedica all’inquadramento storico e critico dei singoli testi; testi poco noti, o comunque poco circolanti1, qui dati nella loro interezza: requisito indispensabile per opere in prosa, che sarebbero sacrificate da quei tagli antologici che appaiono inevitabili quando si pubblicano le rime di una costellazione poetica, come la lirica barocca o quella arcadica. La costituzione dei testi si fonda sulla «pratica di una filologia della prima edizione, che renda evidente», in alcune delle opere selezionate, «lo stratificarsi nel tempo delle ragioni diacroniche della censura e dell’autocensura, delle sovrapposizioni ermeneutiche, infine delle variazioni della memoria, individuale e storica» (Nota dei curatori, p. XXXVI). Pensiamo, in proposito, alla vicenda di Viva Caporetto! di Suchert-Malaparte. Pubblicata nel 1921, e quasi sùbito sequestrata per “disfattismo” (uno dei mots-témoins della Grande guerra), l’opera conobbe in quello stesso anno una seconda edizione, con copertina mutata e titolo nuovo, La rivolta dei santi maledetti, ma per il resto identica alla princeps; finalmente riapparve nel 1923, in un’edizione che fece testo arrivando alla vulgata di Falqui (1961), ma con emendamenti in cui l’autore stemperò la carica polemica e dissacratoria originaria. Le note ne offrono campioni molto significativi; per esempio:

1041: «di quel periodo storico che si è convenuto di chiamare “risorgimento”» – «del Risorgimento» (cade la perifrasi distanziante, se non smitizzante);
1058: «I nostri proletari avevano subìto la guerra» – «Il nostro popolo aveva accettato la guerra» (cade proletario, da tempo ormai ideologicamente rinnovata alla luce del Proletarier del Manifesto di Marx e Engels, e subire è sostituito da accettare, che implica il consenso del soggetto);
1065: «[i ragazzi arrancano su per le quote pelate, trotterellando contro le mitragliatrici e i reticolati], non già per patriottismo o per sete di sangue, ma perché bisogna obbedire e perché non c’è niente da fare» – «non già per sete di sangue, ma perché bisogna obbedire» (il passo perde la decisa connotazione antimilitarista, se non antinazionale);
1073-1074: «C’è qualcosa di grottesco nello spettacolo del popolo nostro che per tre anni si è fatto scannare sui due fiumi per i begli occhi di una prostituta, incurante di lui e del suo sacrificio»: prostituta viene sostituito da matrigna, confermando la percezione negativa della “patria”, ma smussandone l’oltranza.


La disposizione dei testi sembra disegnare una sorta di Ringkomposition, sia pure tra autori che non potrebbero essere ideologicamente più diversi: il particolarissimo antimilitarismo di Malaparte, che chiude la serie, corrisponde in qualche modo all’atteggiamento pacifista di Panzini, nel suo Il romanzo della guerra nell’anno 1914. Il racconto si apre col 30 giugno, sùbito dopo l’attentato di Sarajevo. All’entusiasmo di uno studente trentino, ansioso che da quell’evento scaturisca «una guerra immensa», il professor Panzini risponde con una bacchettata, in cui forse continua a percepirsi la bonomia (con una certa dose d’autoironia) così caratteristica dello scrittore romagnolo:

– Vada, vada – esclamai, – scelga un posto e faccia un poco di compito. – E non volli sentire altro. – Assolutamente non voglio sentire altro! (19).


Un buon termometro della temperatura bellicistica, in una dimensione che ben presto apparve una Totale Mobilmachung, una mobilitazione totale, di popoli e non solo di eserciti, secondo una nota immagine di Ernst Jünger, si ricava dall’atteggiamento verso i nemici, o meglio dalla percezione, presente o negata (e comunque repressa), della comune umanità.
L’affermazione dell’alterità rispetto al nemico è fisiologica in un libretto di Luigi Russo, Vita morale e militare, scritto per gli ufficiali della Scuola militare di Caserta nel 1917; il tema è formulato in termini generali e assume connotati etnici:

Quando le Nazioni sono in guerra, e in guerra immane come la presente, è naturale che si battano non i soli eserciti ma anche i popoli fra loro; e ciascuno si raccoglie fieramente nelle tradizioni della propria razza, e quelle orgogliosamente esalta (376).


Di una più tradizionale accensione retorica dà prova Barzini, in una corrispondenza di guerra raccolta in volume nel 1916: Sui monti, nel cielo e nel mare. La guerra d’Italia (gennaio-giugno 1916). Sono indicativi già il titolo, con la sua struttura tripartita a indicare i vari luoghi e le varie modalità di combattimento2, e la sintassi accumulativa in genere. Ma si pensi a una tipica costellazione semantica, quella della “meraviglia” con cui si esaltano le prove di efficienza militare e di eroismo dei soldati italiani (corsivi miei): «Fu un prodigio tecnico»; «un lavorio intenso di creazione, di formazione, di irrobustimento, oscuro, vasto, meraviglioso»; «il nostro esercito combatte, costretto ad una continuità prodigiosa di supremi ardimenti da avversità di condizioni che la guerra moderna ha imposto e che nessuno al mondo immaginava possibili»; «tutta la nostra attività infine dallo Stelvio al Golfo di Trieste si fonde in una prodigiosa continuità di azione, forma una battaglia sola con brevi tregue, costituisce come un attacco unico, immane, magnifico, prodigioso, favoloso, che non ha precedenti, che non ha paragoni, che è la nostra gloria» (494, 495, 499, 500).
Più complessa e stratificata, e opportunamente valorizzata da Giammattei, la narrazione di Ambrosini, anch’essa nata come corrispondenza dal fronte e pubblicata in volume nel 1917: Racconti di guerra (maggio 1915 – novembre 1916). Un episodio, Prigionieri austriaci (825-830), rappresenta i nemici ormai inoffensivi e abbrutiti dalla fatica, paragonati, con un insistito e distaccato descrittivismo, a cadaveri (corsivi miei): «Erano circa duecento, stesi per terra, falciati l’uno accanto all’altro da un sonno più pesante della morte. Parevano cadaveri. L’abbandono, il rilasso dei loro corpi non mostravano più nulla di volontario, di mosso, di vivo». E ancora: «corpi inanimati», «stretti come salme deposte», «sotto quei cenci che li avviluppavano, li fasciavano come corpi induriti di mummie», «le occhiaie profonde intorno alle palpebre chiuse, scavate sotto la fronte come in un defunto», «con le teste posate sulla terra, come si trovano i morti». Ma al termine di questo squarcio Ambrosini costruisce una solenne immagine che proietta la scena in una dimensione mitica in cui tutti, vincitori e vinti, riconoscono una comune appartenenza:
Si vedeva ch’erano affondati in un sonno cupo, senza risentimento e senza intoppo, quasi presi in braccio dalla terra materna, che è la genitrice eterna, dalla quale si esce, alla quale si ritorna, nella quale si rimane poi per sempre quando ogni altro appoggio e abbraccio e consolazione umana è finita per sempre. La terra che era per la loro infinita stanchezza come il pane solo per la loro fame, come l’acqua sola per la loro sete.


Ancora più significativo da questo punto di vista un passaggio di Kobilek. Giornale di battaglia di Ardengo Soffici (1918). Vicino al cadavere di un austriaco
biancheggiava un libro nuovo, che più tardi raccolsi e portai con me. Era Il Mondo come Volontà e Rappresentazione di Schopenhauer, in una di quelle edizioni di gusto tedesco, linde, corrette e odiose. Se lo spettacolo che m’era davanti non fosse stato tanto accorante, ci sarebbe stato da ridere, a veder la sorte toccata a quel lettore pessimista! (993).


Ma il narratore si corregge immediatamente: «Ma no, non era il momento di ridere. La morte in battaglia, è così vicina a tutti, che ci si sente portati a rispettarla anche nel nemico».
Queste citazioni rispondono non solo alla necessità di documentare un’affermazione, ma anche all’intento di guidarci alla dimensione propriamente letteraria dei testi, ospitati (non si dimentichi) in una storica collana dedicata appunto alla “Letteratura italiana”. Si tratta in ogni caso di scrittori professionali, variamente partecipi del dibattito intellettuale coevo, ma dal profilo stilistico diverso, in parte condizionato anche dalla tipologia testuale: i testi di “pedagogia militare” di Boine e Russo hanno evidentemente poco in comune con i testi di impianto narrativo che rappresentano il grosso del volume.
Forse la personalità più spiccata è quella di Antonio Baldini, uno dei fondatori della «Ronda», col suo Nostro Purgatorio. Fatti personali del tempo della guerra italiana. 1915-1917 (1918). La sua scrittura presenta la densità propria della pagina di un prosatore di razza, abituato a soppesare la scelta di una parola e a sfruttare con raffinatezza il meccanismo dell’intertestualità. Ecco come si descrive l’arrivo dei soldati, che non hanno ancora conosciuto il combattimento, in una trincea:
Dopo il primo ruzzare per la novità del loco, e l’insperata tranquillità, dopo il primo tramenio per trovare spazio da distender le gambe, erano venute per tutti ore di raccoglimento (136).

Ruzzare è il tipico verbo che indica (o indicava) il vivace e rumoroso giocare di bambini e animali giovani3. Il riferimento ai soldati, che manifestano l’esuberanza dell’età, per il momento inconsapevoli delle prove che li aspettano, è frequente negli scrittori di guerra, che ricorrono, a differenza dell’allusività di Baldini, a un’immagine esplicita: i soldati sono detti «fanciulloni di vent’anni» da Ambrosini (775) e Serra descrive il viso di un commilitone cesenate «fresco e fiorente di vent’anni: tranquillo, ridente: così bisogna essere: soldato, fanciullesco» (840). Ma il dramma della guerra è evocato anche da un ricordo dantesco, che ben si addice a un libro che ha Purgatorio nel titolo: cfr. Purg., II, 52-54: «La turba che rimase lì selvaggia / parea del loco, rimirando intorno / come colui che nove cose assaggia». L’eco mi pare assicurata dal contesto generale (i soldati inesperti del luogo accostati alle anime appena approdate all’isola del Purgatorio), ma soprattutto dalla forma monottongata loco. È vero che Baldini, romano di nascita e romagnolo di origine, guarda sovente al toscano vivo come riserva espressiva e quindi usa volentieri core, foco e nova (165, 152, 147); ma loco non è un toscanismo vivo, bensì una forma appartenente al codice poetico tradizionale4. E c’è anche, come mi suggerisce Emiliano Picchiorri, un ricordo dell’Ariosto, scrittore amatissimo da Baldini, che nelle Satire, IV 16-18, scrive: «La novità del loco è stata tanta, / c’ho fatto come augel che muta gabbia, / che molti giorni resta che non canta».
Al gusto tipico della prosa d’arte rimanda la ricerca lessicale. Di qui singole forme di forte caratura letteraria come prepotere (l’unica forma in uso è il participio presente con valore aggettiva le prepotente; «quattro individui decisi a prepotere» 126); toscanismi, alcuni dei quali significativamente presenti anche in scrittori coevi toscani di nascita, variamente legati a questa stagione letteraria5: brincello ‘pezzetto’ 123 (anche in Cicognani, Soffici), mussare ‘spumeggiare’ 146 (anche in Cecchi), pesticciare‘ calpestato più volte’ («d’una collinetta fangosa e pesticciata», 132; anche in Soffici, Cecchi)6; e, soprattutto, una spiccata propensione a sfruttare i meccanismi di formazione delle parole, in sintonia con scelte praticate, specie per certi suffissati, da poeti espressionisti “vociani” come Rebora e Boine7. Per esempio (corsivi miei): «la nostra culla scavata fonda e stretta nell’elastico ghiarume» 135, «Un gran vilume era la distribuzione fatta al buio e tutta in una volta della pagnotta, del brodo, della carne […]» 136, «la guanciuta ostessa» 150, «la campagna s’annoiava in una torbidaglia di nebbie che scoraggiava il sole, libero al tramonto» 1468, «quegli sgiudiziati dei suoi paesani» 152, «i boschetti nebbieggiano tra i muretti che li circondano» 162, «Era una tenebra di poche stelle annebbiolate» 168, «Trieste alabastreggia là di fronte tra il duplice azzurro ombrato del mare e del monte» 212.
Accanto al rondismo è ben documentata anche la prosa di gusto giornalistico, col suo caratteristico stile spezzato. Ecco un esempio di Ambrosini, 704, in cui un periodo pluriproposizionale è segmentato in singoli blocchi frastici che l’interpunzione rende formalmente indipendenti l’uno dall’altro:

Ora sono passati quattro mesi. Durante i quali ci ha scritto più volte la settimana, lettere e cartoline. Cara mamma, care sorelle, caro Luigi. Ne abbiamo un pacchetto, di sua corrispondenza. Come oggi tutti ne hanno in famiglia. La mattina, la prima cosa che si chiede al postino è la lettera dal fronte. E si sta bene tutto il giorno. Si legge e si rilegge, se ne parla, si commenta.


Un aspetto che sollecita l’attenzione dello storico, non solo dello storico della lingua stricto sensu, è legato alla rappresentazione, in racconti che in gran parte riflettono esperienze vissute al fronte, della molteplicità dialettale. Sappiamo bene che la grande maggioranza dei coscritti, la massa dei contadini, era dialettofona; e che proprio la condivisione prolungata della stessa, drammatica, situazione, avrebbe contribuito a ridurre la reciproca estraneità linguistica dei cittadini di uno stesso Stato, a più di cinquant’anni dalla sua nascita.
Eppure lo spazio riservato ai dialetti dai nostri scrittori è marginale. Ne troviamo traccia, ma come mero tributo al color locale, nel racconto degli antefatti di Panzini, quand’egli rappresenta i discorsi sulla guerra della «buona gente» di Bellaria, che «ragiona ancora con soddisfazione dei fatti di giugno, della rivoluzion, com’essi la chiamano»; o quando un «vecchio oste», alla notizia dell’invasione tedesca del Belgio, «catechizza certi giovanotti, sdraiati un po’ mossulmanamente lungo una siepe: – Insomma, raghezz, se vengono in casa, bisogna che marciate anche vuiter!» (35, 37). Lo stesso può dirsi di Baldini, quando disegna con poche battute uno smaliziato vetturino romano: «In guerra, come sempre nella vita, sono i meno svelti quelli che soccombono; i micchi, diceva esattamente l’amico vetturino, so’ sempre quelli che vanno pe’ le piste»; o rifà il verso a un veneto: «Il mio attendente è padovan e se ciama Tapineto » (125, 142). Anche in un inserto di Soffici, questa volta dedicato a un siciliano «che non è un fulmine di guerra», il dialetto è in funzione di uno stereotipo socioculturale (prima il furbo romano che cerca di scansare i pericoli, un po’ come il Sordi del celebre film di Monicelli; ora il siciliano neghittoso):

si domanda a Randone se,posta in cima al monte una bella donna, non se la sentirebbe di andar su di corsa. ‘A fimmina è liggiera, — risponde sorridendo – e iùaju ‘u pere pisante. (925).


Piuttosto, andrà notata la percezione del carattere composito, linguisticamente oltre che etnicamente, dell’esercito nemico. Ancora in Kobileksi descrive il tentato interrogatorio di un prigioniero; il maggiore gli si rivolge in tedesco, «ma quello era rimasto lì con gli occhi sbarrati, intontito e non aveva risposto nulla»; allora si provò «a parlargli in quasi tutte le lingue della monarchia. Ma non ci riuscì di ottenere una risposta qualsiasi», finché «un suono piccolo come un miagolìo uscì dalla sua bocca: — Magjar…» e questo suscita l’insofferenza del maggiore, che «preso quell’aborto per le spalle, lo spinse nel branco dei suoi compagni» (959).
Ora, è del tutto verosimile che, a parti scambiate, lo stesso sarebbe avvenuto con un prigioniero analfabeta abruzzese o piemontese interrogato da un ufficiale austriaco in grado di parlare italiano. Ma quel che importa è altro: in Soffici, e in altri scrittori di guerra, è maturo il senso di un’appartenenza nazionale che si contrappone all’assenza di un rapporto biunivoco popolo-lingua nell’esercito di un impero plurinazionale, ormai in procinto di dissolversi; una percezione che fa premio sugli stessi dati di fatto, cioè sul persistente mosaico dialettale dell’Italia di cento anni fa.






NOTE
* Testi redatti dagli autori per la presentazione, il 27 maggio 2015, presso l’Istituto della Enciclopedia Italiana in Roma, del volume Narrazioni, corrispondenze, prose morali (1914-1921), a cura di Emma Giammattei e di Gianluca Genovese, Milano-Napoli, Ricciardi, 2015.^
1 Il Diario di Serra era stato pubblicato con lacune e tagli da Ambrosini, poi in modo soddisfacente da Pedrelli nel 2004, per un editore locale.^
2 Viene in mente, sia pure solo per associazione d’idee, l’allocuzione iniziale del discorso con cui Mussolini avrebbe annunciato l’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale: «Combattenti di terra, di mare e dell’aria».^
3 Si veda la voce di un grande dizionario di fine Ottocento che dà programmaticamente spazio alla fiorentinità colloquiale, il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze di G.B. Giorgini e E. Broglio, Firenze, Cellini, 1870-1897, che esemplifica con le seguenti frasi: «Que’ ragazzi non fanno che ruzzare da mattina a sera», «Levata dalla stalla la cavallina cominciò a ruzzare sul prato. I giovenchi ruzzano».^
4 La riprova è che il Novo vocabolario cit. lemmatizza luogo, osservando s. v. lògo: «È uno de’ pochi casi in cui la pronunzia fa sentire l’u innanzi all’o».^
5 Per i riscontri cfr. S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1961-2002, s. vv.^
6 Molto più raro è il demotismo sintattico: «una vita che presto ci s’adatta» 159.^
7 Cfr. A. Afribo, A. Soldani, La poesia moderna. Dal secondo Ottocento a oggi, Bologna, il Mulino, 2012, p. 76. Ma il procedimento è assai caratteristico anche in Cecchi: cfr. C. Scavuzzo, Un modello di prosa d’arte. L’italiano di Emilio Cecchi, Pisa-Roma, Serra, 2011, pp. 33-63.^
8 E si noti, su un altro piano, il rinnovamento semantico di annoiarsi e scoraggiare, qui dotati del tratto [- umano].^
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