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IL RACCONTO ITALIANO DELLA GRANDE GUERRA* 1. Raccontare la guerra
di Giuseppe Galasso
L’idea di introdurre un volume di testi di sicuro rilievo letterario relativi alla prima guerra mondiale in una collezione come la Ricciardiana era così felice che sarebbe stato davvero, come suole dirsi, un peccato, se non la si fosse realizzata; e tanto più in quanto all’idea corrispondeva un progetto originale quanto meditato di selezione e presentazione dei testi. Idea e progetto di Emma Giammattei che ella ha altrettanto felicemente realizzato.
Letteratura di guerra, dunque. Ma che vogliono dire qui letteratura e guerra? La guerra interessa alla Giammattei in quanto dà luogo a un “racconto”, come dice il titolo stesso di questa antologia. Il tópos del “racconto” è un interesse costante della sua intelligenza critica. Una delle prove migliori del suo livello di storica della letteratura si intitola – non per nulla – Il romanzo di Napoli. Nel lungo svolgimento della sua personalità di intellettuale e di studiosa questo tópos si è andato arricchendo di motivi e di motivazioni insieme più numerosi, più diversificati e articolati, più densi. E da questo punto di vista si può ben dire che Il racconto italiano della grande guerra segna un approdo che è rilevante e interessante – credo – non solo per l’autrice, ma anche per lo stato e le prospettive della ricerca e degli studi storico-letterari.
Si tratta, infatti, della realizzazione di un progetto che sarebbe potuto apparire ambizioso nella sua enunciazione, ma che nella sua realizzazione ha dimostrato grande fondatezza e solidità critica e interpretativa.
La solidità è già dimostrata, intanto, dalla materiale organizzazione tematica del libro, sulla quale è, perciò, necessario spendere qualche parola. Apre il discorso un’ampia introduzione generale sul tema del volume, articolata in due capitoli: il primo dei quali tratta esplicitamente di Guerra, racconto, storia; il secondo si intitola Nella battaglia. Tradizione e comunicazione della letteratura. Seguono quattro sezioni La grande guerra e il «povero letterato», in cui sono inclusi Il romanzo della guerra nell’anno 1914 di Alfredo Panzini, e Nostro Purgatorio. Fatti personali del tempo della guerra italiana (1915-1917) di Antonio Baldini; poi Pedagogia della guerra, che contiene i Discorsi militari di Giovanni Boine, e Vita e morale militare di Luigi Russo; poi ancora Testimonianza e invenzione. La grande guerra fra giornalismo e letteratura, con Sui monti, nel cielo e sul mare. La guerra d’Italia (gennaio-giugno 1914) di Luigi Barzini, e con Racconti di guerra (maggio 1915-novembre 1916) di Luigi Ambrosini, ai quali segue, a mo’ di Appendice, il Diario di trincea di Renato Serra; e, infine, Abitare la battaglia che offre Kobilek. Giornale di battaglia di Ardengo Soffici, e Viva Caporetto! di Curzio Malaparte. Ciascuna di queste quattro sezioni è aperta da una nota introduttiva, così come una più specifica nota introduttiva reca ciascuno degli otto testi che compongono l’antologia. Inoltre, alla introduzione generale è apposta una Nota del curatore, cui segue un’ampia bibliografia di ben 35 pagine su tutta la molto variegata tematica generale e particolare sull’argomento dell’antologia e sui singoli autori e testi qui presentati, tutti sempre con una propria Nota al testo.
Una struttura molto ricca e complessa, dunque, ma, insieme, semplice e chiara, che già alla lettura dell’indice del libro permette al lettore di orientarsi e di affrontare con una certa sicurezza il lungo e largo cammino del volume. Nel quale, per questo aspetto, è da recriminare soltanto la carenza di un indice degli autori e delle cose notevoli, che ne avrebbe accresciuto il pregio e, almeno per gli studiosi, la fruibilità; una carenza che sappiamo, però, non ascrivibile assolutamente all’autrice e a Gianluca Genovese, che con lei ha curato il volume, sostenendone il peso, oltre che per il lavoro comune dell’insieme, in particolare per le annotazioni ai testi, per la Nota al testo al Diario di Serra e per l’amplissima e utilissima bibliografia. Ragion per cui, data l’importanza dell’opera, non sappiamo trattenerci dall’auspicare che il volume possa essere presto accompagnato da un fascicoletto di pari formato contenente questi desiderabili indici, così come, del resto, il tanto lavoro speso in esso dai due curatori indubbiamente merita.
Ci soffermiamo qui sull’introduzione generale, e viene spontaneo di notare come vi sia subito affrontato e svolto un tema fondamentale non solo per la materia del volume, ma anche per la storia della cultura e dello spirito italiano dell’anteguerra: il presentimento – che era, però, come qui acutamente si rileva e appare, già il sentimento – della guerra. Il testo di riferimento è un libro di cui la Giammattei pone giustamente in rilievo l’importanza e la fortuna, The great Illusion di Norman Angell, tradotto in italiano nel 1913, ma resocontato da Giovanni Amendola ne «La Voce» del marzo 1911, appena apparso. È un inizio felice. Se ne dipana una serie di riferimenti teorici e metodologici sul tema “storia e racconto”, che sono di sicuro giovamento sia allo storico che al critico letterario. Il dato di fondo che ne emerge è duplice: da un lato, la natura, le implicazioni e le complicazioni del fenomeno “guerra”; dall’altro lato, la sfasatura inevitabile, originaria e insanabile fra esperienza e racconto della guerra (sfasatura, peraltro, assolutamente identica e comune fra qualsiasi esperienza e il suo racconto).
Con mano sensibilissima ed esperta la Giammattei ne traccia il profilo sotto entrambi gli aspetti, chiamando in causa molte espressioni del pensiero italiano ed europeo, e rendendosi ben conto che la sfasatura fra esperienza e racconto coinvolge la ben più generale e determinante questione del rapporto fra res gestae e historia rerum gestarum, tra la realtà dei fatti e la realtà storiografica, e, in ultima analisi, fra verità delle res gestae e verità delle historiae. Ne fa, quindi, derivare «due poetiche della prosa», distinte anche se nel fatto, ossia «nelle singole soluzioni narrative», esse «si intrecciano e si fondono nelle singole soluzioni narrative», come «due versanti di una medesima teoria del racconto», che sul piano narratologico sono insieme percorsi e congiunti: due poetiche che nascono l’una da una forte spinta realistica, l’altra da un’altrettanto forte spinta alla totale soluzione – credo si possa dire – dell’esperienza nell’esperienza.
È molto ben confermata, a questo proposito, l’antitesi fra il Croce e il Serra: il primo con il capitolo su Storia e cronaca di uno dei suoi maggiori capolavori, Teoria e storia della storiografia; il secondo con l’Esame di coscienza di un letterato: due testi che la Giammattei vede meno configgenti di quanto non appaia, ma giustamente riporta alle pagine tolstoiane famose di Guerra e pace. Dove è solo da osservare che il nichilismo conoscitivo di Tolstoj è anche più radicale di quanto Croce non dica, e di solito non si dica. Per il grande russo non solo la battaglia non è pianificabile e dirigibile, ma neppure viene alterata e obliata la sera di quel giorno, perché in realtà nella battaglia ognuno sa e conosce solo di se stesso a ogni momento, e il ricordo del momento successivo soppianta e cancella quello del momento precedente.
Per quanto facilistico e paradossale, il giudizio di Tolstoj è, tuttavia, il miglior viatico a intendere il messaggio che il racconto della guerra sembra trasmettere nelle ultime pagine di questo primo capitolo dell’introduzione della Giammattei. Da un evento (secondo, appunto, Tolstoj) inconoscibile nella sua effettiva realtà, che consiste nell’atomizzata, incomunicabile e obliterata percezione dei suoi singoli protagonisti momento per momento, cos’altro poteva nascere, se non un altro, tragico assurdo, quale la sofferenza, il dolore indivisibile e atroce, che culmina nelle ferite, nelle mutilazioni e, soprattutto, nella morte? La morte è la vera, distruttiva e crudele regina della battaglia quale la grande guerra la configurò; ma lo è solo perché segna l’apice di quel versamento di sangue e lacerazione della carne da cui sono prodotte ferite e mutilazioni.
È incredibile – si deve osservare, anche se si tratta di una osservazione quasi di rito – come la guerra scoppiata fra tante entusiastiche agitazioni e radiose giornate, fra tante proclamazioni dei più puri e trascinanti ideali, delle più generose passioni civili e sociali, nella luce abbagliante di grandi glorie in attesa di essere colte, si concluda poi, spesso già fin dal suo inizio, in una stupefatta e dolorante epopea della carne che soffre e perisce. E ciò in una guerra che consuma, fra l’altro, anche e proprio il mito della battaglia, di quel che nel mondo antico e moderno aveva significato la “giornata” in cui la battaglia campale era avvenuta, risolvendo, per lo più, ipso facto la guerra. Ora lo scontro frontale e decisivo era sostituito dal lungo e logorante combattimento di trincea: la trincea mortale e degradante sia quando si attacca che quando ci si difende.
Nella letteratura europea il documento più esemplare e incisivo di tutto ciò resta sempre – a mio sommesso parere – quel Nulla di nuovo sul fronte occidentale, che non fu scritto a caldo, ma che, nella stessa distanza dall’evento, trovò forse un motivo di superiore e più viva e drastica drammaticità. A differenza da Remarque, gli scrittori che la Giammattei ha convocato, come lei dice, qui per offrire «il racconto della grande guerra» hanno tutti scritto a caldo, nella vivente, immediata partecipazione emotiva agli avvenimenti che si svolgevano sotto i loro occhi e dei quali danno la visione che con altrettanta immediatezza ne ebbero: il che fa di queste pagine, come è facile intendere, un documento storico di prim’ordine.
Un documento, naturalmente, del come fu sentita e vissuta la guerra nella crudezza del suo essere combattuta sul campo e degli echi delle tragedie che vi si consumavano. Non siamo alla «inutile strage» stigmatizzata a suo tempo da papa Benedetto XV e significativamente ripresa oggi da papa Francesco. Siamo, però, nella regione dell’alta malinconia, con la quale il Croce commentava la fine della guerra: «far festa perché?», con tutti quei morti, feriti e mutilati, fra i “nostri” e gli “altri”, che in ciò la guerra mortifera ha accomunato, coi tanti problemi di una ripresa emotiva e psicologica che (e in Croce non esita in questa sua affermazione, che configura un duplice volto della guerra) solo la maturazione degli spiriti e delle intelligenze prodotta dalla tragedia della guerra può consentire.
Più tardi, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Croce avrebbe giustificato la guerra. Ad essa egli era stato sfavorevole e l’aveva accettata con totale impegno morale solo per dovere patriottico e civile. Aveva, però, conservato vigile il suo spirito contro le deformazioni nazionalistiche e contro la trasformazione della guerra da scelta politica ed etico-politica in un conflitto ideologico che portava a schierare da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, esclusi questi ultimi perfino dal patrimonio, per essi e per tutti inalienabile, del contributo che essi avevano dato alla comune civiltà europea. Ma è evidente il distacco, anche letterario, tra il suo posteriore momento storicistico e storicizzante e il momento della contemporaneità emotiva e logica.
Sorse da questa contemporaneità – della quale la Giammattei offre per l’Italia un corredo di testi e di notazioni prezioso – un effettivo contributo alla intelligenza della grande guerra come evento storico?
Questo, per la verità, non mi sentirei di affermarlo. La saggezza dello storico è fatalmente, come è noto, la saggezza del senno di poi, che approfondisce la comprensione, ma anche distorce le prospettive e le compone in altro ordine e in altra luce. Nella loro saggezza gli storici (e in modo particolare quelli della domenica e dei best-seller da serie televisiva e da film) fanno la lezione a chi si trovò a decidere nel caldo delle emozioni, nelle spinte travolgenti degli interessi che appaiono da perseguire, nelle irresistibili tentazioni di calcoli che appaiono facili e sicuri, nella fatale attrazione del più e del meglio che ci si profila dinanzi e/o che noi stessi produciamo proiettandoci al di fuori di noi. E chi allora decise trovò sempre consenzienti nel decidere più altri di quanti se ne ritrovano se le cose sono poi andate male (e viceversa, naturalmente, se le cose sono andate bene).
Di qui le lezioni severe e ispirate che i posteri danno ai contemporanei, e di qui le definizioni di guerra-follia, di guerra-suicidio, di guerra che si poteva evitare. In realtà, una effettiva comprensione storica della prima guerra mondiale non sarebbe maturata sul piano storiografico se non a grande distanza di tempo, e in effetti solo dopo la seconda guerra mondiale, tanto più veramente mondiale della prima. E questo non perché valga il canone della nuova “guerra dei trent’anni”, o magari della Dreissing-jahrigerblitrkrieg, espressione di feroce ironia per guerre durate cinque o sei anni e così crudeli e sanguinose. Le due guerre furono due ben diverse guerre, e accomunarle in una periodizzazione, molto scenografica e ad effetto, giova solo a fraintenderle entrambe.
Non è neppure un paradosso notare che, nella graduale comprensione storica dell’evento “grande guerra”, l’aspetto che ha finito con l’esserne meglio conosciuto è quello militare. Per il resto, graduale comprensione non significa, né può significare comprensione univoca. Le interpretazioni restano molteplici e divergenti, ma si muovono ormai su un piano lontano dai condizionamenti che negli anni ’20 e ’30 del ’900 alterarono pregiudizialmente il quadro storico della guerra nei suoi elementi, ragioni, forme, scaturigini ed esiti.
Semmai, qualcosa è da osservare a questo riguardo, ed è che nella progressiva trasformazione dell’orizzonte problematico della storiografia dopo il 1950 è gradualmente scemata negli storici l’attenzione agli aspetti macroscopici della guerra di potenza, alle strategie diplomatiche e militari, delle motivazioni e degli scontri ideologici, ai complessi processi etico-politici dai quali la guerra nasce e sui quali la guerra profondamente incide, alle lotte sociali e agli interessi economici e materiali per i quali e fra i quali la guerra si combatte, alle “conseguenze” (come suole dirsi) della guerra su ogni piano. L’attenzione degli storici è così venuta a concentrarsi sugli aspetti umani, sulla quotidianità al fronte e dietro il fronte, sulle condizioni e sulle esperienze materiali e dirette del vissuto della guerra. Ed è, tra l’altro, proprio a questo spostamento di interessi storiografici che si riporta anche, a mio avviso, il ritorno di punti di vista come quello della “inutile strage” o come quello della “guerra che si poteva evitare”. Ed è appena il caso di ricordare qui che, se muta l’orizzonte storiografico, questa non è una vicenda chiusa nell’hortus conclusus di una qualsiasi disciplina, ma il sintomo estremamente significativo di movimenti più profondi della vita e dello spirito del nostro tempo.
Proprio da questa svolta storiografica acquista, peraltro, come è facile intendere, una maggiore pregnanza di attualità non soltanto letteraria la selezione dei testi che la Giammattei offre al lettore. Fra i quali, direi, quelli che sul piano storiografico mi sembrano assumere maggiore rilievo sono i due testi coi quali il volume si chiude, il Kobilek di Soffici e il Viva Caporetto! di Malaparte; e quest’ultimo, in particolare, con quella sua insistenza – istintiva e approssimativa quanto si voglia, ma profonda – sul carattere epocale del 1917 nelle cronache della guerra, per cui Malaparte parla di Caporetto e di quell’anno come l’inizio di una rivoluzione in Europa, nonché in Italia, che «non è giunta ancora al suo termine logico», quando Malaparte scrive, ossia nel 1918-19 e poi nel 1920, con una densità espressiva e con una ricchezza di figurazione letteraria che la Giammattei illustra nella sua Nota introduttiva a questo testo in pagine, a mio parere, tra le più felici del volume.
Il libro di Malaparte spinge, tuttavia, ancora ad altre considerazioni proprio per il significato di grande crisi non solo militare, ma profondamente politica ed etico-politica che il disastro di Caporetto ebbe nella storia della società e della cultura italiana e, in ultima analisi, nella coscienza italiana dell’Italia e dell’identità italiana. Ben presto non si trattò più soltanto di individuare e denunciare responsabilità e colpe politiche e militari. Si trattò della stessa Italia come idea e come realtà civile morale; e in molti si affacciarono perplessità e dubbi angosciosi. Uno spirito di raffinata sensibilità e cultura e di lunga e sagace esperienza politica ne trasse spunto per porsi, con angoscia, appunto, nello scritto Dopo la guerra sovvertitrice, del 1920, che già nel titolo dà l’idea dello spessore della sua riflessione, l’interrogativo: “che cosa vale moralmente l’Italia”.
Il secondo capitolo dell’introduzione generale è più legato, come era da attendersi, alla species letteraria del suo tema. Anche qui, tuttavia, i riferimenti storici sono molteplici e notevoli, e non solo per i riferimenti storiografici di testi e di autori che vi ricorrono, ma anche e in primis per essi.
Sul piano storiografico è, ad esempio, opinabile e difficilmente ricevibile l’opinione di Krumeich e Ardouin-Rouzeau, secondo la quale i vinti cedettero «perché la vittoria non appariva più possibile». In realtà, la Germania cedette perché era allo stremo delle forze, e già alla fame, o quasi alla fame, per il blocco alleato. Gli alti comandi militari e i vertici del potere politico e sociale temettero allora che ne potesse nascere una travolgente ventata rivoluzionaria. La suggestione del 1917 bolscevico era forte per chi ne era fautore e per chi la paventava; e la rivoluzione vi fu, in effetti, e prima di quanto si temeva, e coloro che avevano voluto evitarla con la cessazione delle ostilità ne trassero motivo per alimentare il mito della sconfitta per il tradimento interno che ebbe tanta importanza nella storia germanica del successivo ventennio.
Né è vero che la guerra finisca con l’essere sempre in atto perché è indecidibile, come si vede sostenuto da alcuni degli scrittori qui presenti o evocati. In realtà, la guerra rimane sempre in atto, non perché la guerra precedente non si sia conclusa con una determinata decisione, ma per altri elementi e fattori, che di solito sussistono proprio perché la guerra precedente è stata decisa (motivo per il quale è possibile capire come e perché fu la guerra del 1914 a stroncare la Germania, e non la seconda del 1939, che semplicemente completò l’opera della prima, ma in tutt’altre condizioni e in ben altre prospettive e relativi esiti (così come fu – amo sempre ricordare – la prima guerra punica a stroncare Cartagine, non quella di Annibale).
Né è vera, infine, la seducente leggenda della “guerra dei trent’anni”. Le due guerre furono profondamente diverse nella loro genesi e nei loro svolgimenti, e non solo per quello spartiacque fra i due momenti storici che Malaparte vedeva già chiaro nel momento in cui scriveva, ma per una folta serie di motivi che rendono il mondo del ventennio ’19-’39 altro e diverso rispetto a quello ante-1914, in Europa e fuori d’Europa, con nuovi condizionamenti e motivazioni, con nuove idee e nuovi protagonisti.
Ci si può, anzi ci si deve anche chiedere, a questo punto, se quello della Giammattei sia il solo “racconto italiano della grande guerra” possibile. La risposta negativa è, naturalmente, di obbligo. È non solo probabile, ma certo che ve ne possa essere più di qualche altro. Ma si tratta, appunto, di altri possibili. Questo volume è, invece, una realtà, e, per quanto mi risulta, l’unico concepito e composto sulla falsariga di un determinato criterio di selezione dei racconti italiani di quella guerra ritenuti di sicuro valore letterario. Degli altri possibili giudicheremo quando diventeranno realtà.
Tutto ciò è, peraltro, solo uno specimen delle tante sollecitazioni che sul piano storiografico, oltre che su quello letterario ad esso più proprio, si traggono da questo volume della Ricciardiana, dal disegno così particolare, che – fra tante pigre e ripetitive variazioni, anche fra gli storici, del tema della guerra nelle continue e troppo spesso solo rituali celebrazioni del centenario – introduce elementi nuovi e di peso nello studio di un evento che fu, in realtà, un grande, molteplice e profondo processo storico, che, come tutti gli altri di analogo spessore, decise largamente le sorti del suo tempo e di quello successivo e operò fra il prima e il dopo un taglio netto, totale, mai più rimarginato.



* Testi redatti dagli autori per la presentazione, il 27 maggio 2015, presso l’Istituto della Enciclopedia Italiana in Roma, del volume Narrazioni, corrispondenze, prose morali (1914-1921), a cura di Emma Giammattei e di Gianluca Genovese, Milano-Napoli, Ricciardi, 2015.^
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