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Il giudizio storico su Giustino Fortunato e il suo impegno nell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia
di Guido Pescosolido
Il giudizio storico

È abbastanza singolare che non si abbia ancora una biografia di Giustino Fortunato delle dimensioni e del livello scientifico che la sua statura intellettuale, civile e politica meriterebbe. Fortunato resta ancora oggi il più autorevole, conosciuto, citato e discusso tra i meridionalisti di ogni orientamento culturale, ideologico e politico. Nello studio più documentato a lui dedicato nell’ultimo decennio, lo si definisce non un meridionalista, ma il meridionalista1. E, in effetti, non esiste studioso dell’Italia unita e in particolare del meridionalismo, della questione meridionale e della storia del Mezzogiorno, che non abbia riconosciuto l’imprescindibilità del suo poderoso apporto conoscitivo della condizione del Mezzogiorno e l’alto valore del suo impegno civile e politico, anche quando il dissenso dalle sue analisi storiche e dalle sue strategie politiche e sociali era netto. Bastino i nomi di Croce, Salvemini, Ciccotti, Zanotti-Bianco, Nitti, Ciasca, Azimonti, Carano Donvito, Rossi-Doria, Cingari, Galasso per avere un’idea del grado di attenzione che l’uomo di Rionero, prima e dopo la sua morte, ha sempre richiamato per la primaria importanza da lui avuta nella costruzione dell’ideologia e della prassi meridionalistica e per il contributo da lui dato alla qualificazione della questione meridionale come massimo problema della vita nazionale. Non per caso fu lui il primo a rilanciare, dopo anni di oblio, la spesso citata e attuale profezia mazziniana «L’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà»2. Eppure – ripeto una sua biografia esaustiva Fortunato non l’ha ancora trovata. Non si può, infatti, considerare tale, per esplicita asserzione della stessa autrice, l’appena citato lavoro di Marzia Andretta3; e neppure si può ritenere tale il pur acuto ed equilibrato profilo di Maurizio Griffo, portatore di un particolare contributo alla conoscenza del rapporto di Fortunato con Piero Gobetti, ma nell’insieme troppo esile e breve per poter illustrare compiutamente tutti gli intricati snodi di una vita intellettuale ed etico-politica lunga e vissuta ad altissima intensità di relazioni interpersonali ed esperienze storiche collettive (Unità – Grande Guerra – fascismo)4. Né ha la pretesa di essere una biografia il volume di Nino Calice, pure ricco di documenti inediti e di non semplice accesso, e di notizie inedite o quasi sulla storia della famiglia Fortunato a partire dal Settecento e sui suoi intricati rapporti con la questione demaniale e col brigantaggio, nonché sul legame di Giustino Fortunato con il collegio elettorale di Melfi e con Francesco Saverio Nitti. Nonostante ciò restano troppi e troppo importanti in realtà gli aspetti della vita di “Don Giustino” di cui il Calice non si è occupato5. A tutt’oggi il tentativo più esteso e organico da parte di un singolo studioso di inquadrare per intero la vita e le opere del grande meridionalista resta il volume di Gaetano Cingari del 19546, anche se ad esso furono mosse critiche di peso da parte di studiosi come Galasso, Alicata, Arnaldi ed altri, per importanti aspetti interpretativi7. Critiche di cui lo stesso Cingari fece tesoro nei suoi sccessivi ritorni su Fortunato, nei quali i giudizi più rigidi furono temperati e la contestualizzazione della problematica meridionale nella storia politica e sociale italiana si fece più viva e più accentuatamente richiamata8. Quel lavoro, nonostante i pesanti ricordati rilievi a esso mossi negli anni Cinquanta, resta a tutt’oggi il maggiore sforzo di documentazione e ricostruzione biografica di un singolo autore. Rispetto poi alle proposte interpretative maturate nell’ambito dell’attacco storiografico portato dal “pensiero meridiano” degli anni Ottanta al meridionalismo di ogni epoca e tendenza politica e alla stessa categoria storica di “Mezzogiorno”, con l’accusa mossa ai meridionalisti aver dato, per finalità strumentali alla loro battaglia politica, una rappresentazione della condizione del Mezzogiorno non autenticamente veritiera9, e nel caso specifico di Giustino Fortunato, di averlo fatto addirittura in difesa dei suoi personali interessi di grande proprietario terriero10; rispetto a tutto ciò il lavoro di Cingari, pur nell’illusione dei possibili effetti modernizzatori di un’ipotetica rivoluzione agraria di tipo gramsciano11, giganteggia se non altro per la comprensione dell’alta idealità e dedizione al bene pubblico del Mezzogiorno e dell’Italia che animò l’intera sua vita.
In definitiva, in attesa di una biografia che, senza perdere il positivo che c’era nel libro di Cingari, traduca in un nuovo tessuto biografico le riserve avanzate su di esso, gli snodi principali della parabola intellettuale e ideologico-politica dell’uomo della tristezza meridionale12, risultano a tutt’oggi individuati, messi a punto e discussi abbastanza efficacemente in una serie di penetranti e autorevoli saggi, usciti prima e dopo il libro di Cingari, e da numerosi passi di opere di carattere generale sul pensiero meridionalista, sulla questione meridionale come problema nazionale13.
Al di là di qualsiasi divergenza storiografica e ideologica, da questa letteratura restano consolidati alcuni punti fermi. Fra essi il fatto che nessuno ebbe una conoscenza pari a quella di Fortunato della storia, della geografia, e dei problemi sociali, culturali e politici del Mezzogiorno; che egli concorse in modo determinante, con Villari, Franchetti e Sonnino, a proporre la condizione del Mezzogiorno come grande questione nazionale; che nelle sue analisi la povertà naturale del territorio meridionale assunse una incidenza superiore a quella avuta in qualunque altro meridionalista, anche se il suo non fu mai un “naturalismo” esclusivo e la questione meridionale gli apparve sempre figlia della storia non meno che della natura. Le differenze di giudizio storico si palesano soprattutto riguardo alle proposte di soluzione della questione meridionale prospettate nel tempo da Don Giustino. È noto che in un ambiente geologicamente disastrato, climaticamente svantaggiato, economicamente povero, socialmente arretrato come quello meridionale, sarebbe stato necessario secondo Fortunato un grande sforzo di modernizzazione, imperniato su una massiccia mobilitazione di capitali a favore dello sviluppo delle infrastrutture, soprattutto ferroviarie, e a favore dell’assistenza all’infanzia e dell’istruzione, premessa primaria per la formazione di una classe dirigente all’altezza dei tempi. Uno sforzo che il Mezzogiorno gli sembrava non fosse in grado di realizzare da solo e che poteva essere avviato a soluzione con un’azione imperniata non su leggi speciali, quando queste arrivarono in età giolittiana, ma su un cambiamento delle linee generali di politica economica dello Stato, con l’abbandono del protezionismo doganale, la revisione dei patti agrari, la soluzione della questione demaniale e una riforma tributaria aderente alle reali potenzialità contributive del Mezzogiorno. Insomma misure di buon governo nel quadro di una unità nazionale che, a sua volta, solo con la soluzione del problema meridionale avrebbe potuto dirsi compiutamente realizzata.
Il quadro a tinte fosche che Fortunato disegnava della società meridionale all’inizio del XX secolo e la delusione provata per la condotta del governo verso il Mezzogiorno sono noti. La borghesia gli appariva corrotta, debole, sostanzialmente avvinta alle strategie e agli interessi della proprietà terriera più conservatrice, priva di slanci autenticamente innovatori, prevalentemente dedita alle professioni liberali e a pratiche meramente clientelari e parassitarie invece che allo sviluppo di attività produttive nel campo dell’agricoltura e dell’industria. La descrizione che Fortunato ne dava nel 1909 si avvicinava molto a quella offertane da Salvemini, conosciuto direttamente quello stesso anno e col quale avviò un rapporto dialettico costellato di dissensi, ma anche di sorprendenti coincidenze di analisi14. Gli studi sulla questione demaniale lo avevano portato a individuare nelle usurpazioni di terre comuni e usi civici una delle ragioni maggiori del rancore mai estinto del mondo contadino verso i galantuomini15, ma il mondo contadino era a sua volta in una condizione che lasciava ben poche speranze di autonomo riscatto. Preda dell’ignoranza e della rassegnazione fatalistica, interrotta di tanto in tanto solo da violenti, quanto sterili, scoppi ribellistici, esso era incapace di dar corpo a un qualsiasi progetto politico portatore di riforme sociali ed economiche veramente efficaci, e in ogni caso la soluzione del problema della terra non poteva essere affidato a una spartizione sic et simpliciter delle terre del latifondo e ancor meno di quelle delle aziende capitalistiche modernizzate. Il ceto intellettuale gli appariva a sua volta privo, nell’insieme, di grande autonomia dalle forze più conservatrici e retrive. Agivano nel Mezzogiorno singole personalità, non di rado eccelse, che però non riuscivano, isolate com’erano, a incidere in modo efficace in una situazione che poteva essere cambiata solo dall’urto di forze ben più energiche e ingenti, capaci di aggregare la parte sociale oppressa e forze illuminate in un disegno di riscatto progressista. Pur avendo denunciato chiaramente come lo Stato unitario avesse avuto sin dalle sue origini debolezze politiche e civili che ne avrebbero pesantemente condizionato lo sviluppo successivo, e nonostante che, specie nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, il governo avesse agito più a danno che a favore della già depressa società meridionale, per Fortunato l’unica speranza del Mezzogiorno continuava a restare quell’Unità nazionale, che egli non mise mai in discussione, come non mise mai in discussione la forma accentrata assunta nel 1861 dallo Stato unitario, perché, a suo modo di vedere, il decentramento avrebbe dato ancora più forza alle resistenze conservatrici e alle mafie locali. E per questo nella sua lettera di congedo dagli elettori del Collegio di Melfi nel 1909 concluse che «solo un’Italia prospera e grande potrà redimere le nostre derelitte province […] Non c’è fortuna né individuale né regionale che possa mai sorgere e vivere a lungo, al di fuori e al di sopra della fortuna della patria»16. E l’intervento dello Stato centrale non era visto, si badi bene, come un atto caritatevole a sostegno di un’area meno fortunata per natura e casi della storia, bensì, all’insegna della già ricordata espressione mazziniana, come la necessità primaria della vita nazionale, esposta in caso diverso, nella sua interezza a pericoli di degenerazione sociale ed economica che oggi sembrano per molti versi avverarsi.
Questa visione del rapporto strettamente funzionale tra Mezzogiorno e Stato nazionale va tenuto ben presente quando si passa a giudicare caratteri e portata del cosiddetto “pessimismo” di Fortunato. Il giudizio negativo sulla politica economica dello Stato unitario, la consapevolezza della povertà naturale del Sud, la sua denuncia dell’incapacità e quindi impossibilità della società meridionale a risollevarsi solo con le proprie forze dallo stato di povertà e arretratezza in cui versava, letti nella loro formulazione più schematica e unilaterale, ebbero infatti un peso rilevante nell’alimentare l’immagine di un Giustino Fortunato pessimista, non solo sul presente ma anche sul futuro del Mezzogiorno. Tale visione, secondo la critica meno benevola, avrebbe costituito la premessa fondamentale, se non l’alibi, di un atteggiamento personale e politico profondamente conservatore, se non addirittura reazionario. Tuttavia lo stesso Fortunato era stato esplicito nel respingere una tale lettura della sua posizione. «Per molti, per troppi dei miei amici del Mezzogiorno e di tutta Italia io sono un pessimista» scrisse sempre nel 1909 ai suoi elettori: «Niente di meno esatto. Pessimista, se mai, di fronte alle tante difficoltà, le quali ancora si frappongono […] a un avvenire migliore: e, del resto, il pessimismo è una filosofia del costume, ‘il cammino verso la redenzione’; ma di fronte al passato, chi più ottimista di me, se nessuno più di me ha terribile la visione del basso fondo, dal quale, come per miracolo, risorgemmo a vita nazionale?»17. Il “basso fondo” era quello dell’Italia preunitaria, dell’Italia divisa e asservita allo straniero, dell’Italia povera non solo per l’arretratezza della sua economia, ma per la debolezza della sua impalcatura statale e del suo apparato militare rispetto a quello delle maggiori nazioni europee. E in particolare il “basso fondo” era quello di un Mezzogiorno povero, non solo per la natura disastrata di gran parte del suo territorio, ma per l’assenza di una politica di sviluppo economico e civile alla quale solo un grande Stato nazionale su scala peninsulare avrebbe potuto porre rimedio. E come gli errori e le inadempienze dello Stato unitario non inducevano Fortunato ad abbandonare il suo inossidabile unitarismo, così il suo pessimismo, che era semplice consapevolezza delle enormi difficoltà del presente, non si traduceva nella rinuncia, né in pubblico, né in privato, a lottare per il futuro del Mezzogiorno e dell’Italia.



2. L’impegno educativo, filantropico e antifascista

A scalfire, o comunque a meglio articolare, l’immagine del pessimismo fortunatiano, ed anche a meglio comprendere l’ispirazione etico-politica che continuò ad animarlo anche dopo la decisione del 1909 di non ricandidarsi, che fu una svolta di rilievo nella sua vita nonostante la nomina a senatore18, può contribuire il richiamo a un aspetto abbastanza trascurato del suo impegno civile e politico: l’azione umanitaria, filantropica e di sostegno all’educazione dell’infanzia che egli svolse a partire dal 1910 attraverso l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno (Animi), di cui fu socio fondatore e uno dei più autorevoli animatori. Nata, come è noto19, il 1° marzo del 1910 per impulso soprattutto di due giovani, il vicentino Giovanni Malvezzi e il piemontese Umberto Zanotti-Bianco, l’Animi, oltre ai due presidenti (onorario Pasquale Villari ed effettivo Leopoldo Franchetti) e ovviamente a Malvezzi e Zanotti-Bianco, ebbe fra i soci promotori Luigi Bodio, Giovanni Cena, Benedetto Croce, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Lombardo Radice, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Tommaso Gallarati Scotti, Bonaldo Stringher, Antonio De Viti De Marco e Giustino Fortunato. Il gruppo dei fondatori e primi sostenitori dell’Animi era costituito da intellettuali e politici di vario orientamento (cattolico, liberale, socialista, radicale) uniti a esponenti della pubblica amministrazione e del mondo dell’imprenditoria e delle libere professioni, nobili e possidenti in larga prevalenza del Nord e del Centro Italia. Si muoveva sull’onda emotiva del grande terremoto del 1908 con un intento umanitario e filantropico che aspirava ad assumere un carattere di continuità illimitata nel tempo e di estensione a tutto il Mezzogiorno, a differenza dei comitati di soccorso pro-terremotati sorti soprattutto in Italia Centro-settentrionale e anche all’estero con l’intento di agire specificamente a favore delle aree terremotate del 1905-1908 e per rimediare esclusivamente ai danni del sisma.
L’ambizione di creare un ente che agisse stabilmente e a tempo indeterminato a favore dell’intero Mezzogiorno si profilò sin dalle sedute preparatorie e poi da quella istitutiva dell’Associazione. In particolare l’intervento di Pasquale Villari nella seduta dell’1° marzo, dopo che si era profilato un programma d’immediato intervento a favore della cultura e della scuola, fu espressamente orientato alla necessità di allargamento del campo di azione dell’Animi dall’ambito scolastico («La scuola non è tutto. V’è anche la vita, ne’ suoi molteplici aspetti») a quello della questione edilizia, all’emigrazione, al credito agrario, al progetto di un Istituto fondiario, ossia ai problemi del Mezzogiorno che erano al centro dell’attenzione degli esponenti del meridionalismo e della classe politica meridionale da almeno un trentennio e che trascendevano di gran lunga l’emergenza terremoto nelle aree da esso colpite. A Villari rispose Leopoldo Franchetti nel senso della piena condivisione del suo pensiero, anche se, vista la modestia dei mezzi per allora raccolti, l’importanza primaria era «intanto di cominciare subito a dar prova della serietà e della praticità dei nostri intenti affrontando il problema dal lato in cui un’azione pratica si presenta più modesta, più facile e di più sicuro successo, e questo è certo il campo scolastico». L’assemblea si chiuse con l’approvazione di un ordine del giorno proposto da Salvemini secondo il quale «L’Associazione nazionale per gli interessi morali e economici del Mezzogiorno d’Italia delibera di rivolgere l’opera sua immediata in provincia di Reggio Calabria verso i seguenti scopi: A. Iniziare l’opera di assistenza alla scuola popolare. B. Studiare le condizioni ed i bisogni edilizi dei paesi colpiti dal terremoto del 28 dicembre 1908 […] C. Studiare un programma di azione agraria diretta a promuovere il più utile impiego agricolo dei risparmi degli emigrati»20.
Del programma istituzionale dell’Animi Giustino Fortunato fu uno dei primi e maggiori sostenitori e attuatori, agendo non tanto sul piano strettamente operativo, cosa a lui non molto congeniale, quanto su quello dell’elaborazione degli obiettivi programmatici e del supporto finanziario, che fu uno dei maggiori tra quelli dei promotori privati. Nel 1910 l’Animi gli sembrò un’occasione per continuare a lottare per un futuro migliore, e, col concorso delle forze settentrionali in essa presenti, rappresentò ai suoi occhi, sul piano privato, quello che su quello pubblico avrebbe dovuto essere lo Stato italiano: una comunità con forte spirito solidale di tutte le sue componenti, consapevole che gli interessi del Mezzogiorno coincidevano con gli interessi nazionali. Nell’entusiasmo, nell’alta eticità, nell’altruismo, nel filantropismo di quel giovane piemontese, esile, alto e biondo che rispondeva al nome di Umberto Zanotti-Bianco, Giustino Fortunato intravide un’altra Italia, un altro Nord, che avrebbe potuto contribuire alla nascita di un rapporto tra Nord e Sud capace di sciogliere i particolarismi e gli egoismi locali e regionali che la logica della politica e delle istituzioni ufficiali non era riuscita, ai suoi occhi, a superare. Al Fortunato che chiudeva la sua vita politica come deputato, Umberto Zanotti-Bianco sembrò dischiudere una nuova e sia pur tenue speranza per il Sud e per l’Italia.
L’Animi gli ricordava, nello stesso suo nome, la dimensione “nazionale” dei problemi che si sarebbero dovuti affrontare e della strategia che si sarebbe dovuta applicare. In linea con il suo unitarismo essa costituiva la presa d’atto del fatto che il Mezzogiorno aveva bisogno di aiuto esterno per curare i suoi “interessi”, e per questo essa intendeva mobilitare l’opinione pubblica e le forze intellettuali e materiali dell’intero paese21. Fortunato non poté essere fisicamente presente alle riunioni costitutive dell’Animemi22 tenutesi il 27-28 febbraio e l’1° marzo 1910 e non partecipò neppure alle prime riunioni del Consiglio direttivo di cui sin dalla sua prima costituzione fu nominato membro assieme, tra gli altri, a Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti, Luigi Bodio, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Lombardo Radice, Gaetano Salvemini, Tommaso Gallarati Scotti23. Giustificando la sua assenza, aveva però scritto a Franchetti: «È inutile dirti che io fin da ora mi dichiaro solidale della comune opera, nella piena sicurezza che tutto quello che deciderete sarà per il bene delle nostre provincie del Mezzogiorno»24. Fu dunque fra i 34 soci promotori e fu tra i primi 13 soci perpetui che, versando 1000 lire di quota associativa minima, contribuirono in misura pressoché completa al finanziamento dell’Associazione nel primo anno di vita. Fu poi sempre confermato nel Consiglio direttivo, alle cui adunanze cercò di partecipare il più possibile, convinto, come aveva scritto a Franchetti, che l’Associazione costituisse «l’unica forza finora organizzata in Italia per il risveglio delle provincie meridionali»25.
Nei suoi interventi in Consiglio direttivo Fortunato s’interessò soprattutto dell’azione culturale ed educativa, umanitaria ed assistenziale dell’Associazione, e solo in via secondaria, e, possiamo dire, con benevolo scetticismo, di quella economica, che pure nei suoi primi decenni di vita l’Associazione non mancò di promuovere26. Nella sua prima partecipazione all’adunanza del Consiglio direttivo nel dicembre del 1912, donata copia ai presenti del suo Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, intervenne sostenendo che la politica dell’Associazione più utile ed efficace gli sembrava quella rivolta all’apertura di asili infantili27. Entrò poi nel 1913 nella commissione istituita dal Consiglio direttivo per lo studio degli effetti della legge Daneo Credaro sull’istruzione28.
Gli anni della guerra furono di grande difficoltà per l’Animi e di grandi dolori personali per Fortunato che, peraltro, a differenza di Zanotti-Bianco, Salvemini, Franchetti, non fu interventista convinto, consapevole della riottosità del mondo contadino a combattere quella guerra, degl’immani sacrifici che essa avrebbe imposto all’ancora fragile economia italiana, delle tremende scosse che avrebbe inferto ai già precari equilibri politico-sociali del paese. Tuttavia, quella stessa guerra, una volta dichiarata, doveva essere combattuta con onore e vinta a ogni possibile costo. Fortunato subì colpi durissimi sul piano familiare e visse come fatto personale anche quelli subiti dall’Animi. La morte in guerra di un suo nipote, Giovanni Vigiani29, e l’aggressione fisica subita a Rionero ad opera di un contadino che lo accusava di essere stato uno dei fautori della guerra, si mescolarono al dolore immenso causatogli dal grave ferimento al fronte di Umberto Zanotti-Bianco, dalla morte del fratello dello stesso Zanotti-Bianco, Ermanno, dalla morte di Enrico Vaina, e infine dal suicidio di Franchetti, sconvolto dalla notizia di Caporetto.
Quest’ultima e l’aggressione fisica subita il 2 agosto 1917 a Rionero procurarono a Fortunato un dolore e conseguenze psicologiche che lo accompagnarono sino alla morte. L’episodio di Rionero lo ferì non solo e non tanto per l’oltraggio personale, quanto per la malcelata indifferenza con cui l’episodio fu vissuto in paese e perché esso gli apparve come un’ulteriore manifestazione di estraneità e di volontà di fuga del mondo contadino da quelle responsabilità attraverso la cui assunzione soltanto esso poteva sperare di proporsi come soggetto attivo della vita nazionale e risollevare se stesso e l’intero Mezzogiorno. In quest’ottica la violenza personale subita si collegava alla disfatta di Caporetto, che gli sembrò un’immane catastrofe, frutto certo di uno squilibrio mortificante nei rapporti di forza militari con il nemico, ma anche di debolezze etico-politiche del tessuto nazionale, al centro delle quali continuava a stare la questione meridionale. Messa alla prova suprema della propria tempra e dell’obbligo di completare i destini segnati dal Risorgimento, la nazione italiana aveva ceduto scompostamente, schiudendo scenari funesti davanti agli occhi di chi nello Stato unitario aveva sempre visto, pur con tutti i suoi difetti, il valore più alto nel quale riconoscersi e credere per il futuro30. La morte di Franchetti causò a Fortunato uno dei momenti di sconforto in assoluto più gravi della sua vita31. Egli però, a differenza di Franchetti, trovò la forza per reagire alle sventure della guerra. Forse contribuì a ciò proprio la sua antica e piena consapevolezza dei limiti dello spirito pubblico nazionale, per cui la delusione del 1917 fu attenuata dalla precedente mancanza d’illusioni, contrariamente a quanto era avvenuto in chi, come Franchetti, all’illusione aveva concesso di più, traendone peraltro la forza di fare tutto quel che fece come studioso, filantropo e presidente dell’Animi32.
La scomparsa di Franchetti comportò automaticamente l’offerta della Presidenza dell’Animi a Fortunato, che tuttavia rifiutò decisamente, ricordando le precarie condizioni di salute sue e di suo fratello e soprattutto ritenendosi inadatto alla concreta gestione dell’Associazione33. La soluzione fu la presidenza effettiva a Benedetto Croce e la presidenza onoraria a Giustino Fortunato: di fatto quasi due presidenze onorarie, supportate sul piano organizzativo e amministrativo da Umberto Zanotti-Bianco34.
Alla prima seduta del Consiglio direttivo tenutasi dopo la sua nomina Fortunato telegrafò: «Nel caro e sacro nome di Leopoldo Franchetti giunga agli amici il memore beneaugurante mio saluto sempre più fiducioso che la provvida opera cui Egli diede tutto se stesso sarà da noi fervorosamente proseguita»35. Mantenne la carica di Presidente onorario fino alla sua morte, legandosi sempre più strettamente a Zanotti-Bianco e all’Associazione, anche se con il passare degli anni la sua partecipazione diretta alle sedute dei Consigli direttivi si diradò a causa dell’età e delle declinanti condizioni di salute. Peraltro furono gli anni in assoluto di più intensa e diversificata espansione delle attività dell’Animi. L’impegno in campo sanitario si rafforzò con l’apertura nel 1920 a Reggio Calabria di un Istituto diagnostico per le malattie del sangue, del petto, dello stomaco e nervose. Nuovi ambulatori sorsero a Palmi, Gerace, Catanzaro Marina per la lotta alla malaria. Fu realizzato l’accordo di collaborazione con l’Unione assistenza ai malarici di Sardegna. Per i bimbi malarici e predisposti alla tubercolosi fu aperta la colonia sopra S. Stefano d’Aspromonte, che ebbe sussidi anche dalla Svizzera e dall’Inghilterra. In quegli anni raggiunse elevato livello anche l’incentivazione alle iniziative economiche e commerciali con la creazione nel 1924-25 del centro colorazione filati a Cosenza, che utilizzava sostanze vegetali in sostituzione di quelle a base di anilina. Ma i successi più eclatanti furono conseguiti nell’attività culturale e educativa e nell’assistenza all’infanzia, quella che Fortunato riteneva più congeniale alle possibilità dell’Associazione. Fu riorganizzata e potenziata la rete delle biblioteche, con l’apertura della “Pasquale Villari” a Catania e della “Leopoldo Franchetti” a Cosenza. Crebbe l’assistenza all’infanzia, tanto cara a Fortunato. Nel 1923 furono sussidiati più di 100 asili. Dal 1923 al 1930 gli asili amministrati passarono da otto a quindici. Ma soprattutto, quale delegata dal Comitato contro l’analfabetismo in Sardegna, Sicilia, Calabria e Basilicata, l’Animi creò una rete imponente di scuole serali, festive e diurne, dando luogo a quello che a tutt’oggi resta lo sforzo più imponente di alfabetizzazione attuato in Italia dal Risorgimento in poi da un ente privato36. Nel frattempo nel 1920 fu fondata la Società Magna Grecia. Nel 1924 iniziarono le pubblicazioni della Collezione di Studi Meridionali. Nel 1931 nacque l’Archivio Storico per la Calabria e la Lucania.
Furono iniziative che senza l’impegno dei Presidenti effettivi di quegli anni, da Croce a Rusconi a Nunziante, e soprattutto senza l’azione di Umberto Zanotti-Bianco e Gaetano Piacentini, non sarebbero state mai realizzate37. E tuttavia non vi fu quasi iniziativa per la quale Fortunato non venne, per lettera o direttamente di persona, messo al corrente e richiesto di pareri38. Piacentini andava spesso a trovarlo a Napoli39, ma soprattutto Zanotti-Bianco lo teneva sistematicamente aggiornato di tutte le iniziative, come si può constatare dal loro carteggio. In particolare il suo intervento fu di primissimo ordine in tre occasioni: la fondazione dell’asilo infantile di Lavello, la fondazione della Biblioteca centrale Giustino Fortunato, la rinuncia alla delega per la lotta all’analfabetismo.
Il primo evento fu legato alla scomparsa del fratello Ernesto. Nel febbraio del 1922 Fortunato elargì 202.250 lire in buoni del tesoro all’Associazione affinché creasse, a Lavello, un asilo dedicato alla memoria di Ernesto40. La casa dei bambini di Lavello fu aperta nel 1923. Nel 1923 Fortunato versò altre 15.200,19 lire “per un ricordo marmoreo”, curando anche la distribuzione, da Napoli, di 500 copie del discorso inaugurale tenuto dal Presidente dell’Animi, Ferdinando Nunziante. Nel 1929, costatata l’insufficienza del primo edificio dell’asilo, Anna Fortunato fece una nuova donazione per il suo ampliamento. È una pagina da meditare nell’ambito ai fini della comprensione dell’atteggiamento di Fortunato rispetto al suo territorio e alle masse contadine alle quali aveva contestato in contenzioso giudiziario, peraltro vinto, gli usi civici da esse rivendicati.
Il complesso iter della creazione della Biblioteca centrale a Roma iniziò all’indomani della conclusione del conflitto. Nel luglio del 1919 Zanotti-Bianco scriveva ripetutamente a Fortunato dell’ipotesi di sostituire le circa 70 biblioteche popolari aperte dall’Animi con una grande biblioteca circolante, dedicata a Leopoldo Franchetti. Essa avrebbe potuto servire Calabria, Puglia, Basilicata e Sicilia. Chiedeva anche a Fortunato di redigere la parte riguardante la questione meridionale per un catalogo ragionato, utile a fare gli acquisti per una grande biblioteca centrale e per biblioteche minori nei capoluoghi di provincia. Zanotti-Bianco fece visita a Fortunato a Napoli nel dicembre dello stesso anno, dopo aver visitato la sua casa di Rionero in Vulture, dove c’era la biblioteca di famiglia e dove Fortunato continuava a inviare i suoi libri. Tornò quindi a parlargli della biblioteca, ipotizzando di localizzarne la sede in un vecchio convento a mezz’ora di strada a piedi da Potenza. La donazione stimolò un paio d’anni dopo un progetto diverso e di maggiore sostanza e visibilità: la costituzione della «Biblioteca di studi meridionali Giustino Fortunato», con sede a Roma in Palazzo Taverna, ricca nel 1923 di 3.000 volumi e opuscoli prelevati da Zanotti-Bianco dal palazzo Fortunato di Rionero in Vulture41.
Un ruolo di primo piano Fortunato ebbe, infine, nella rinuncia al mandato conferito dal governo all’Animi nel 1921 per la lotta all’analfabetismo in quattro regioni del Mezzogiorno42. Tale rinuncia fu decisa a conclusione di un lungo stillicidio di episodi d’intolleranza e di ostilità che l’Animi subì, dopo l’avvento del regime, nelle regioni ad essa affidate. Tranne che in Basilicata, nelle altre si susseguirono, durante i sette anni di gestione della delega, ripetuti tentativi di screditarne e condizionarne l’attività scolastica: dalle accuse di scarsa efficienza ed igiene fatte in Sardegna da un nuovo ente fascista, alle pressioni volte a far allontanare Giuseppe Isnardi dalla Calabria, all’attacco indiscriminato della Gazzetta di Messina43. Episodi che traducevano a livello locale il disegno complessivo del regime di mettere sotto controllo l’insegnamento di ogni ordine e grado e che provocarono all’interno dell’Animi una vivace diversificazione di orientamento tra i membri del Consiglio direttivo che era, di fatto, soprattutto il riflesso dell’atteggiamento politico che ciascuno dei membri aveva rispetto al fascismo.
Il carattere apolitico e ancor più apartitico dell’Animi era stato fino all’avvento del fascismo un connotato congenito di essa, sul piano sia sostanziale sia formale. E la cosa continuò per qualche tempo anche dopo il 1922. Tuttavia di fronte non a un cambiamento di governo, ma di regime politico, come quello che si andava realizzando in quegli anni, il fatto di avere al proprio interno personalità come Ettore Rusconi e Giovanni Gentile a fronte di Umberto Zanotti-Bianco e Giustino Fortunato non rimase senza conseguenze, anche se lo spirito umanitario, filantropico e meridionalistico continuò a contenere le crescenti fratture evitando una formale spaccatura44.
L’atteggiamento da tenere di fronte al governo fascista in ordine alla delega fu l’unico in cui la divisione fascismo-antifascismo arrivò a formalizzarsi in Consiglio direttivo e fu proprio Fortunato nel 1925 a redigere di suo pugno un ordine del giorno per l’adunanza dell’8-9 agosto, firmato anche da Zanotti-Bianco ed altri, in cui si proponeva l’esplicita rinuncia al mandato. Vi si leggeva testualmente:

L’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, che aveva accettato nel 1921 la delega dell’opera contro l’analfabetismo in Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia, e che in questi anni di attività nei quali furono aperte circa 1.800 scuole, integrate da biblioteche e da varii corsi magistrali seppe mantenere all’opera il suo carattere altamente educativo, vietando ai propri maestri e ai propri funzionari di portare nell’ambito della scuola l’eco delle competizioni di parte, ma difendendone il diritto di professare come cittadini le opinioni politiche consentite dalle leggi, suggerite a ciascuno dalla propria coscienza; e che nel rigido adempimento del suo mandato aveva ottenuta da parte della classe magistrale, delle autorità governative e di tutti i ministri della Pubblica Istruzione, compreso l’attuale, ripetute manifestazioni di plauso e di gratitudine,

considerato

che oggi ai propri dipendenti come ne fanno fede già molti esempi riesce difficile, senza sacrificio della propria posizione, e senza incorrere nell’accusa di ostilità politica, sottrarsi alle continue pressioni di parte, esercitate dalle corporazioni, e che, nella situazione creata loro dalla presentazione della legge sulla burocrazia aggravata dalla riforma della legge sull’opera contro l’analfabetismo, che tende a sopprimere l’autonomia degli enti delegati viene in realtà negata quella libertà e dignità di coscienza che è l’elemento primo di ogni attività educativa,

rinunzia

al mandato disimpegnato in quattro anni con fervida passione italiana, non potendo derogare da quella linea di condotta, che per l’Associazione rappresenta non solo un imperativo morale, ma la ragione stessa della sua esistenza45.


A esso aderirono incondizionatamente 14 consiglieri tra cui Croce, Salvemini, Gallarati Scotti, Sofia Cammarota, il sen. Dallolio, e anche Ferdinando Nunziante. Nettamente contrari si dissero invece Giovanni Gentile e Alessandro Marcucci, preoccupati che la rinuncia assumesse un carattere dichiaratamente politico. Lombardo Radice fu invece per la rinuncia senza riserve, proprio per le ragioni morali e politiche addotte da Fortunato, che imponevano di ribellarsi alle limitazioni di libertà imposte dalla nuova legge e dal ministero nell’attività degli enti delegati alla lotta all’analfabetismo. Ettore Rusconi, allora presidente, era intimamente contrario alla rinuncia, ma si disse invece favorevole per ragioni tecniche ed economiche che però non erano incluse nell’ordine del giorno Fortunato, motivo per cui chiese di modificarlo. In realtà Rusconi, nazionalista convinto, voleva evitare, come anche Gentile, una rottura esplicita con il regime ritenuta invece inevitabile dai fortunatiani. La richiesta di modifica fu l’escamotage che egli usò per non andare subito al muro contro muro ed evitare una sconfitta che lo avrebbe messo nella condizione di dimettersi. Il Consiglio approvò allora una lettera di rinuncia alla delega, ma da inviare solo dopo un estremo tentativo di mediazione con il ministro, sollecitato da Giovanni Gentile46. Infine si decise di rinviare e la linea Fortunato-Zanotti uscì per il momento battuta. Negli anni successivi, però, gli episodi di pressione sull’autonomia dell’Associazione continuarono ed anzi si intensificarono. I fatti finirono quindi per dare ragione a Fortunato: morto Ettore Rusconi l’Animi nel 1928 rinunciò alla delega47.
D’altro canto un’attività scolastica di quelle dimensioni era stata giudicata sin dai primi tempi da Fortunato non alla portata delle possibilità finanziarie dell’Animi, e ancor di più questa convinzione si era rafforzata in lui nel corso dell’espletamento del mandato, anche per via dei ricorrenti ritardi e inadempienze del Ministero nel trasferimento dei fondi stanziati, che costringevano l’Associazione a ricorrere alle proprie risorse per fare fronte alle spese più urgenti. Il tentativo poi di condizionare politicamente l’attività di un Ente da sempre ufficialmente a-politico, o almeno a-partitico, rafforzò in Fortunato quell’atteggiamento rigidamente antifascista che egli aveva tenuto senza esitazioni sin dall’avvento del nuovo regime. Tutto il suo carteggio conferma, giorno per giorno, ora per ora quasi, la sua ostilità crescente verso il regime e l’amaro pessimismo con cui guardava a esso come al prodotto estremo della debolezza congenita, dello scadimento e della degenerazione della vita nazionale. In un suo quaderno conservato nell’archivio dell’Animi, nel novembre del 1927 scriveva:

Sin dapprima e fui allora solo io ritenni che il Fascismo non fosse “una fiammata”, come tanti crederono, ma una violenta radicale reazione, sia, nel campo politico, al regime parlamentare, quale l’Europa democratica del secolo XIX aveva concepito, sia, nel campo economico, alla regola individuale, che la Rivoluzione francese dell’89 aveva solennemente affermata: una doppia esperienza reattiva, [di corporazioni gerarchiche, in un campo, di categorie sindacali, nell’altro] di cui nessuno può prevedere le ultime conseguenze. Perché a un pugno d’uomini, o, meglio, di giovani ex combattenti della piccola borghesia, spostata e avventuriera, dell’alta e media Italia fu possibile una tale vittoria, questa la prova palmare di quanto la nuova Italia unificata, liberale e liberista, era ed è tuttavia, nonostante un fortunato cinquantennio di storia, debole e malsicura.


Per di più, egli aveva il chiaro presentimento che la notte della libertà nella quale l’Italia era piombata non sarebbe stata breve. Il 20 agosto dello stesso anno aveva annotato nello stesso quaderno: «Il domani?!? Un paese dal partito unico e dominante, dal governo dittatoriale e non aperto alle successioni, non può non vivere costantemente con lo spettro della guerra civile innanzi agli occhi, e il finale dell’anarchia, donde nessuno può dire come e quando penosamente gli sarà dato uscirne!»48.

Sono queste, e solo queste le espressioni che qualificano il livello e la natura più autentica dei pensieri e dei sentimenti di Giustino Fortunato nei suoi ultimi anni di vita, al di là di qualunque suo indugiare sulla storia del brigantaggio post-unitario che tanta attenzione ha di recente destato. E l’Animi, fu il luogo dove ritenne di poter svolgere, fino a che le forze e la situazione politica generale glielo consentirono, un impegno non solo umanitario e filantropico, ma anche politico e d’inequivocabile coloritura antifascista in linea con Zanotti-Bianco e in contrapposizione a Rusconi e Gentile.











NOTE
1 M. Andretta, Il meridionalista. Giustino Fortunato e la rappresentazione del Mezzogiorno, Roma, XL edizioni Sas, 2008, p. 191.^
2 La citazione dell’espressione mazziniana è posta a chiusura dello scritto di G. Fortunato, La emigrazione delle campagne, del 1879, ristampato in Id., Scritti varii, Firenze, Vallecchi, 1928, pp. 222-7.^
3 Andretta, op. cit., p. 18.^
4 M. Griffo, Profilo di Giustino Fortunato. La vita e il pensiero politico, Firenze,Centro Editoriale Toscano, 2000, p. 113.^
5 N. Calice, Ernesto e Giustino Fortunato. L’azienda di Gaudiano e il collegio di Melfi, Bari, De Donato, 1982, ristampato poi a cura e con introduzione di Costantino Conte, da Calice Editori, Rionero in Vulture, 2008.^
6 G. Cingari, Il Mezzogiorno e Giustino Fortunato, Firenze, Parenti, 1954.^
7 G. Galasso recensì il volume di Cingari nell’«Archivio storico per le province napoletane», 35 (1955), pp.485-487, criticando in modo abbastanza chiaro e deciso il giudizio negativo di Cingari sulla chiusura ideologico-politica di Fortunato rispetto al mondo contadino meridionale, di cui l’uomo di Rionero in Vulture non avrebbe percepito la grande potenzialità progressiva e l’impulso che esso sarebbe stato in grado di dare alla vita politica italiana e alla soluzione della questione meridionale. Galasso obiettò fondatamente che il mondo contadino costituiva «nei primi decenni dell’Unità una quasi incontrastata sfera di influenza della reazione clericale e borbonica» e che lo stesso socialismo italiano aveva giudicato i contadini meridionali incapaci di azione politica positiva e addirittura un impaccio per le masse settentrionali. Ciò facendo, Cingari aveva finito per non cogliere a pieno la centralità che l’unitarismo aveva avuto nel pensiero politico di Fortunato e il significato progressivo che esso conferiva alle sue battaglie per la vita politica nazionale e non per il solo Mezzogiorno (p. 487). M. Alicata, a sua volta in una recensione pubblicata su «Cronache meridionali», 2 (1955), pp.343-344, pur riconoscendo il notevole valore e l’originalità dello studio specifico della questione demaniale, ma anche di quella tributaria e dell’emigrazione nel pensiero di Fortunato, rilevò criticamente che Cingari non era stato in grado di collocare il Fortunato «nel quadro della storia della classe dirigente italiana uscita dal Risorgimento, meglio ancora nel quadro della sua crisi di crescenza politica e culturale». Sulla stessa linea G. Cottone, in «Belfagor»,10 (1955), pp. 353-355, rileva che Cingari non offre un quadro dello svolgimento della vita nazionale dell’epoca in cui emerse la questione meridionale. Simile la posizione di B. Caizzi in «Nuova Rivista Storica», 40 (1956), f. I, pp.177-178. Grosso modo sulla stessa linea G. Isnardi, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 24 (1955), pp. 230-234, ma con un positivo giudizio d’insieme sul lavoro di documentazione di Cingari.F. Catalano, in «Il Risorgimento», 7 (1955), pp. 140-142 criticò la struttura per temi del libro di Cingari, sembrandogli invece preferibile quella cronologica. G. Arnaldi, in «Nord e Sud», 1 (1954), pp. 124-127, oltre che criticare la visione gramsciana di Cingari, richiamò l’assenza nel libro di riferimenti all’influsso su Fortunato dei grandi romanzieri russi dell’Ottocento, allo stato di arretratezza delle tecniche indispensabili a superare la precarietà della condizione idrogeologica del meridione, e la non condivisibile attribuzione a Fortunato dell’«incapacità della sua classe di risolvere i problemi istituzionali di un regime libero». B. Finocchiaro,«Il Ponte», 2 (1955), pp. 1123-1125, pur apprezzando il lavoro di scavo e il grande sforzo di analisi del Fortunato, non condivise la condanna della sfiducia di Fortunato nelle potenzialità del movimento contadino. Da Domenico Novacco (recensione in «Movimento Operaio», 7 (1955), A. 7, nuova serie, pp. 337-338) venne invece una approvazione delle riservedi Cingari sulla capacità di Fortunato di individuare nella possibile azione dei contadini una strategia politica idonea alla soluzione del problema meridionale.^
8 Si veda la sua Introduzione a G. Fortunato, Galantuomini e cafoni prima e dopo l’Unità, a cura di G. Cingari, Reggio Calabria – Roma,Casa del Libro editrice, 1982, pp. 7-32, e G. Cingari, Giustino Fortunato e il Mezzogiorno, in Giustino Fortunato, Collezione di Studi Meridionali, Roma-Bari, Editori Laterza, 1984, pp. 3-15.^
9 Per queste posizioni, che in seguito hanno registrato diverse defezioni anche tra gli entusiasti della prima ora, mi limito a rinviare alla confutazione di G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Manduria-Bari-Roma,Lacaita, 2005, pp. 8 sgg.^
10 È la tesi diffusa tra le righe di un lavoro indubbiamente pregevole per l’estesa e originale documentazione utilizzata, come quello sopra citato di M. Andretta, un lavoro che s’iscrive senza riserve nella corrente storiografica dell’Imes: i meridionalisti, e Giustino Fortunato massimo tra di essi, furono autori di una rappresentazione dell’immobilismo e della povertà del Mezzogiorno non rispondente alla realtà. La nota dominante della personalità di Giustino Fortunato sarebbe stata quella del conservatore schierato contro qualunque idea di quotizzazione delle terre del latifondo e contro qualunque rivendicazione degli usi civici da parte dei contadini, e questo non per le ragioni di ordine generale esposte da Fortunato in una nota serie di scritti e che sono singolarmente vicine a quelle illustrate da P. Bevilacqua nel suo noto saggio sulle campagne calabresi Uomini, terre, economie, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica,Torino, Einaudi, 1985, pp. 117-362, in part. le pp. 207-22, ma puramente e semplicemente per la difesa del proprio patrimonio terriero. Secondo la Andretta, l’attività di Fortunato dopo la rinuncia alla vita parlamentare attiva del 1909-10, attraverso l’ottica dello studio della questione demaniale, sarebbe stata condizionata e indirizzata soprattutto da questo fine “privatistico”, come anche il suo tentativo di scrivere una storia del brigantaggio, mai scritta, sarebbe stato teso, quasi ossessivamente teso a scagionare la sua famiglia dall’accusa di manutengolismo del brigantaggio post-unitario: con un immiserimento della caratura del personaggio e della sua dimensione pubblica veramente sconcertante, fuorviante e ovviamente inaccettabile.^
11 La tesi gramsciana, dopo essere stata criticata da Romeo negli anni Cinquanta, negli anni Ottanta fu riconosciuta come storicamente inattuabile e ideologicamente superata anche da uno storico marxista come Giorgio Candeloro. Questi, nelle Considerazioni finali poste a chiusura dell’ultimo volume della sua Storia dell’Italia moderna, vol. 11,, Milano,Feltrinelli 1986, p. 299, a proposito del problema della rivoluzione agraria mancata concluse che, al contrario, «l’azione sui contadini sarebbe stata se non proprio impossibile, certamente tale da dare risultati molto scarsi e nel complesso deludenti per i contadini stessi».^
12 U. Zanotti-Bianco, Giustino Fortunato (1848-1932), in Giustino Fortunato, op. cit., pp. 107.^
13 Per le varie edizioni delle opere e scritti di Fortunato, mi limito a rinviare alle note bibliografiche dei citati volumi di Cingari, Griffo e Andretta, e a menzionare il fondamentale Carteggio uscito in quattro volumi a cura di Emilio Gentile, Roma-Bari,Editori Laterza, 1978-1981. Per la bibliografia su Fortunato mi riferisco, in particolare, ai lavori di G. Cottone, Giustino Fortunato, in «Belfagor», 9 (1954), pp. 168 sgg.; M. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino,Einaudi, 1960, pp. 146-183, G. Galasso, Il pensiero storico di Giustino Fortunato, in Id. Da Mazzini a Salvemini. Il pensiero democratico nell’Italia moderna, Firenze,Le Monnier, 1974, pp. 233- 255; Id., Giustino Fortunato nella storia d’Italia, in Id., Italia democratica. Dai giacobini al partito d’azione, Firenze,Le Monnier, 1986, già uscito nella raccolta di scritti su Giustino Fortunato, Collezione di Studi Meridionali, op. cit., pp. 19-40; F. Barbagallo, Introduzione a G. Fortunato, Scritti politici, Bari,De Donato, 1985, pp. 7-25; M. Paolino, Benedetto Croce e Giustino Fortunato. Liberalismo e questione meridionale, Pisa,ETS, 1991; G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, cit., pp. 48-51. Ancora utile la raccolta commemorativa promossa e pubblicata all’indomani della scomparsa di Fortunato dall’Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, Giustino Fortunato (1848-1932), Roma, 1932, con scritti di Carano Donvito, Ciccotti, Ciasca, Zanotti-Bianco ed altri. Il saggio di apertura, Giustino Fortunato, firmato dalla rivista, era in realtà di Umberto Zanotti-Bianco e fu poi ripubblicato come prefazione al volume G. Fortunato, Pagine storiche, Roma, Collezione di Studi meridionali Editrice, 1951, e nella raccolta postuma di scritti di Umberto Zanotti-Bianco, Meridione e meridionalisti, Roma, Collezione meridionale editrice, 1964, pp. 267-325, e poi ancora in Giustino Fortunato, Collezione di Studi Meridionali, op. cit. pp. 107-150.^
14 Cfr. G. Fortunato, Carteggio 1863/1911, a cura di E. Gentile, Roma-Bari, Laterza editori, l978, p. 169.^
15 Per il giudizio di Fortunato sui caratteri e sul ruolo svolto dalla borghesia meridionale in urto con i contadini si veda la raccolta di suoi scritti Galantuomini e cafoni cit., a cura di G. Cingari; sulla sua analisi della questione demaniale cfr. Id., Il Mezzogiorno e Giustino Fortunato… cit., pp. 75-136; M. Andretta, Il meridionalista…cit., pp. 21-82.^
16 G. Fortunato, Lettera di Giustino Fortunato agli amici del collegio di Melfi, Roma, 1909, p. 115.^
17 Ivi, pp.115-116.^
18 M. Rossi-Doria, Gli ultimi venticinque anni, in Giustino Fortunato, Collezione di Studi Meridionali, op. cit., pp. 43 sgg.^
19 G. Pescosolido, Animi cento anni, in Cento anni di attività dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia e la questione meridionale oggi, a cura di Guido Pescosolido, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 22-25.^
20 ANIMEMI, Processi verbali.Verbali delle sedute di Costituzione della Associazione Nazionale per gli Interessi Morali ed Economici del Mezzogiorno d’Italia, seduta del 1° marzo 1910, Roma, pp. 22-24.^
21 G. Pescosolido, Giustino Fortunato, in Per una storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (1910-2000). I Presidenti, Manduria-Bari-Roma,Piero Lacaita editore, 2000, p. 38.^
22 Nei primi anni l’Animi si chiamò Associazione Nazionale per gli interessi morali e economici del Mezzogiorno d’Italia, quindi Animemi, cfr. G. Pescosolido, Animi cento anni…cit., p. 21.^
23 Animi, Processi verbali…cit., sedute del 28 febbraio e 1° marzo 1910, pp. 3-24.^
24 Archivio Animi, Fortunato a Franchetti, Scatola 14, Pos. 58.^
25 Cfr. U. Zanotti-Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia nei suoi primi 50 anni dì vita, in L’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia nei suoi primi cinquant’anni di vita, Roma, 1960, p. 11.^
26 Si veda al riguardo Id., Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno… cit., pp. 22-23.^
27 Animi, Processi verbali. Verbale della seduta antimeridiana dell’11 dicembre 1912 del Consiglio direttivo, pp. 93, 97.^
28 Ivi, Verbale della seduta del Consiglio direttivo del 6 giugno 1913, p. 124.^
29 Si veda Carteggio tra Giustino Fortunato e Umberto Zanotti-Bianco, a cura di E. Pontieri, Roma, 1972, lettere 53-71, pp. 22-27, lettera 79, p. 29.^
30 G. Pescosolido, Giustino Fortunato…cit., pp. 32-33. Sull’unitarismo di Fortunato insistette subito U. Zanotti-Bianco nell’articolo introduttivo al numero speciale dedicato nel 1932 dall’«Archivio Storico per la Calabria e la Lucania» a Giustino Fortunato (1848-1932), op.cit., ristampato dalla Editrice «Casa del Libro», Cosenza, 1962, pp. 10 e sgg., poi G. Cingari, Il Mezzogiorno e Giustino Fortunato…cit., pp. 69 sgg., e Id., Introduzione a G. Fortunato, Galantuomini e cafoni…cit., p. 9 e soprattutto G. Galasso, Giustino Fortunato nella storia d’Italia in Giustino Fortunato, Collezione di Studi meridionali, op.cit., pp. 23 sgg.^
31 Cfr. Carteggio cit., lettera 83,p. 31. Fortunato inviò un messaggio in memoria di Franchetti all’adunanza del Consiglio direttivo del 26 giugno 1918: cfr. Animi, Processi verbali. Verbale della seduta del 26 giugno 1918 del Consiglio direttivo, p. 201. Si veda inoltre G. Fortunato, Leopoldo Franchetti. Ricordi, Roma, 1918.^
32 G. Pescosolido, Giustino Fortunato… cit., pp. 34-35, su Franchetti e l’Animi v. Id., In ricordo di Leopoldo Franchetti nel 95° anniversario della scomparsa, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 78 (2012), pp. 169-179, P. Bevilacqua, Leopoldo Franchetti, in Per una storia… cit., pp. 59-71.^
33 Carteggio… cit.,lettera 90, p. 34. Sulla ridotta inclinazione di Giustino per la concreta attività amministrativa e sull’assunzione da parte al fratello Ernesto delle cure del patrimonio di famiglia si veda N. Calice, Ernesto e Giustino Fortunato… cit.^
34 Sulla presidenza Croce cfr. G. Galasso, Benedetto Croce, in Per una storia dell’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (1910-2000). I Presidenti, op. cit., pp. 73-87.^
35 Animi, Processi verbali. Seduta del Consiglio direttivo del 26 giugno 1918, p. 201.^
36 Per tutto ciò G. Pescosolido, Animi cento anni… cit., pp. 40-48, e per l’impegno nell’edilizia scolastica, si rinvia a U. Zanotti-Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia… cit., pp. 50-63.^
37 Per una storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia… cit., pp. 73 sgg.^
38 Si vedano, ad esempio dei suoi interventi, le lettere nelle quali consiglia l’acquisto di libri per la biblioteca, come il V. Rivera, Il problema agronomico del Mezzogiorno d’Italia, o si parla della stampa del suo Rileggendo Orazio, o Zanotti-Bianco lo aggiorna sulle attività dell’Associazione, o dell’apertura di una scuola per meccanici a Melfi o della riorganizzazione dell’asilo di Ferrandina. Nel ’20 Zanotti gli sottopose il testo dell’accettazione della raccolta della «Voce» offerta da Prezzolini all’Associazione. In altra lettera lo ringraziava della buona notizia “del sussidio accordato al nostro Istituto Diagnostico”. Cfr. G. Pescosolido, Giustino Fortunato… cit., p. 41, n. 21.^
39 Carteggio tra Giustino Fortunato e Umberto Zanotti-Bianco, op. cit., lettera 14, p. 294.^
40 Animi, Relazioni e bilanci 1910-24, Conto consuntivo dell’esercizio 1922, Allegato L, pp. 50-51.^
41 Cfr. G. Pescosolido, Giustino Fortunato… cit., pp. 42-43.^
42 Una ricostruzione dettagliata di tale attività fu fatta da G. Isnardi, L’attività educativa scolastica dell’Associazione, in L’Associazione… cit.,pp. 199-274.^
43 Per questi episodi e per tutta la vicenda si v. U. Zanotti-Bianco, Storia dell’Associazione… cit., pp. 55-59.^
44 Su Rusconi cfr. F. Minniti, Ettore Rusconi, in Per una storia dell’Associazione cit., pp. 107-114.^
45 U. Zanotti-Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale… cit., pp. 52-3.^
46 G. Pescosolido, Giustino Fortunato… cit., pp. 43-44.^
47 U. Zanotti-Bianco, Storia dell’Associazione… cit.,pp. 49-59.^
48 Quaderno di G. Fortunato, in Archivio Animi, Carte Fortunato, fasc. 6.^
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