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Il razzismo in Italia dal 1936 al 1943
di Donato Casiere
Il razzismo italico

Per analizzare in maniera esauriente l’approvazione delle leggi razziali del 1938 è opportuno svolgere, in premessa, alcune considerazioni sull’antropologia fisica e la genetica italiana all’inizio del XX secolo. In quell’epoca questi studi contavano due principali rappresentanti: l’antropologo Giuseppe Sergi e lo psichiatra Enrico Morselli.
Al tornante del secolo XIX, Giuseppe Sergi, formulò alcune ipotesi sulle origini della razza italica. In particolare, in un libro intitolato La decadenza delle nazioni latine proponeva una nuova teoria del concetto di razza. A suo avviso, la nozione di “razza” si riferiva ai tratti antropologici e sociologici di una civiltà basata su presupposti politici e culturali. Studiando le origini della razza italica, Sergi affermava che le stirpi euro asiatiche erano presenti in Italia settentrionale già in epoca preromana. Tali stirpi, provenienti dall’Africa e da diversi paesi mediterranei, si erano mescolate con le antiche popolazioni italiche, insediate nella penisola dall’epoca neolitica. La razza italica mostrava tutti i tratti somatici delle grandi civiltà antiche: mesopotamica, egizia, minoica e greca. Al contrario, la razza ariana, proveniente dalle regioni del Nord Europa, era invece costituita da lontani discendenti della stirpe mediterranea, diffusasi successivamente in Europa a seguito dell’espansione dell’Impero romano.
In quegli stessi anni, lo psichiatra, Enrico Morselli, proponeva la cosiddetta teoria della “psicologia etnica”, capace di “sorvegliare” la ereditarietà dei caratteri delle popolazioni. In polemica col Sergi, Morselli intravedeva nella medicina sociale il percorso che avrebbe permesso ai “deboli” di esser rieducati e di poter rientrare nel mondo sociale. Lo psichiatra proponeva, attraverso un approfondito esame clinico-psicologico, la raccolta anamnestica delle facoltà mentali delle famiglie. Egli sosteneva che le razze avrebbero dovuto esser considerate come un insieme di individui sviluppati nel fisico e nella mente, le cui caratteristiche si sarebbero trasmesse tanto attraverso i caratteri etnici ereditari quanto attraverso i caratteri acquisiti determinati dalle modificazioni ambientali. Inoltre, Morselli stabiliva anche l’esistenza di una gerarchia delle razze umane, nella quale la razza bianca vantava una posizione di vantaggio rispetto ad altre etnie, come quella negroide.
Per quanto le rispettive posizioni dei due studiosi italiani fossero differenti, entrambi riconoscevano tuttavia un orizzonte comune: la pacifica concorrenza tra le razze e la ferma condanna dei miti ispirati alla superiorità ed alla purezza etnica.
Dopo la Grande Guerra, l’interesse degli studiosi si spostò nei confronti dei nuovi indirizzi statistici e medico-sanitari sulla razza italica, esaltando il benessere della collettività su quello del singolo cittadino.
A partire dagli anni Venti e fino all’inizio della seconda guerra mondiale, i principali protagonisti del razzismo italico furono il biometrista Corrado Gini ed il clinico medico Nicola Pende.
Le numerose ricerche sull’ereditarietà e sui dati statistici della popolazione condussero, il biometrista Corrado Gini all’affermazione della teoria del ricambio sociale demografico, basato sulla differente produttività delle diverse classi sociali. Il tasso di fertilità riproduttiva era inversamente proporzionale al benessere economico, nel senso che migliorando il tenore di vita economico della popolazione peggiorava quello della fertilità. Il ricambio sociale avveniva, per riempire il vuoto lasciato dalla classe dirigente poco prolifica, da parte di individui provenienti dalle classi inferiori, che erano più inclini nella procreazione. Gini collegava la situazione demografica a quella dei cicli economici delle nazioni, servendosi del metodo statistico. Approfondendo lo studio degli incroci tra le varie razze, il biometrista giunse alla conclusione che erano considerati fattori rigenerativi gli incroci tra ibridi, per cui l’ibrido avrebbe rappresentato il futuro delle popolazioni.
L’altro importante protagonista del movimento eugenetico italiano fu il clinico barese Nicola Pende, che, nel 1921, espose la teoria organicistica, in cui paragonava la presenza di un aggregato cellulare ad un insieme di cittadini che formavano un singolo Stato. Gli aspetti anatomici e mentali dell’individuo potevano essere applicati, sul piano sociale, ai sentimenti di solidarietà e di unità nelle varie componenti dello Stato. Il clinico barese si dedicò, quindi, alla ricerca delle costituzioni umane, e la pubblicazione del libro, La biotipologia umana, gli permise di definire la biotipologia una scienza che studiava i vari biotipi umani, sia da un punto di vista somatico che psichico. Distinguendo l’essere umano in tre principali costituzioni fisiche e mentali (longilineo, brevilineo e normotipo), affermava che ogni individuo poteva esser considerato una unità biologica all’interno di una Nazione. L’obiettivo della biotipologia era quello della raccolta dei dati sulla popolazione rappresentata dalla cartella bio tipologica individuale, finalizzata a possedere tutte le informazioni fisiche e morali del soggetto (scheda della personalità). Per Pende, lo Stato doveva inserire la schedatura bio tipologica sin dalle scuole elementari, per seguire gli individui già dalla preadolescenza. A partire dagli inizi degli anni Trenta, il clinico affrontò la questione della razza, sottolineando che non esisteva superiorità ed inferiorità tra le razze civili, sebbene ci fossero strati sociali di persone più evolute e strati di persone meno evolute. In definitiva, la dottrina razziale di Pende si muoveva attraverso due strade: sotto l’aspetto culturale nazionale e biologico, emergeva il conflitto spirituale tra la stirpe italica e quella delle altre razze bianche, mentre il confronto tra i bianchi e la popolazione negroide o meticcia metteva in luce l’inferiorità etnica.


Il razzismo fascista fino al 1938

Negli anni Venti del XX secolo, con l’avvento del fascismo, la cultura politica del regime assegnò un ruolo fondamentale alla salvaguardia del benessere fisico della popolazione, con l’intento di esaltare le qualità del corpo, della mente e del vigore della razza. Il regime fascista fu sostenitore di una eugenetica di tipo quantitativo. Si puntò dunque all’esaltazione della stirpe italica attraverso la promozione propagandistica delle grandi capacità intellettuali e storiche che erano presenti in Italia sia nell’antica Roma che durante il periodo rinascimentale. Negli anni Trenta, storici antichisti, giuristi ed archeologi documentarono ed esaltarono la grandiosità della Roma imperiale e la grande espansione demografica dell’antica Roma. Il regime fascista fece dell’Impero la propria base ideologica. Da qui originava una politica popolazionista proposta dal Duce, al fine di istituzionalizzare delle leggi che avrebbero condannato il celibato o i matrimoni senza prole.
Alla fine degli anni Venti, non era presente in Italia alcun razzismo antisemita da parte del regime. Lo dimostra, per esempio, Bottai, ministro dell’educazione, convinto assertore della nuova politica imperialista filo sionista: aderì al Comitato Italo-Palestinese ed intervenne presso il Duce per scongiurare la soppressione della rivista Israel, portavoce del sionismo italico. Il filo sionismo fascista si rafforzava in seguito ai gravi incidenti verificatisi tra arabi ed ebrei in Palestina, nel 1929. Una intensa campagna di stampa assunse connotazioni filo semitiche, denunciando il comportamento degli Inglesi, accusati di non esser in grado di gestire convenientemente il Mandato, conferitogli dalla Società delle Nazioni, nel 1921. Nel Settembre del 1929, il regime fascista propose persino la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina, chiedendo il trasferimento del Mandato palestinese dal Regno Unito all’Italia, per almeno due ragioni: per l’incapacità inglese di controllare la situazione e per la tutela degli interessi cattolici nei luoghi santi. Per tal motivo, il regime espresse forte dissenso nei confronti dell’eugenetica qualitativa tedesca, tanto che il Duce definì il razzismo biologico come “una vera stupidaggine”, causando un imbarazzante distacco diplomatico dalle posizioni politiche tedesche. Anche le élite intellettuali seguivano la corrente del razzismo italico. Alcuni docenti universitari espressero posizioni contrarie al razzismo ariano germanico biologista, come confermò l’intervento del filosofo Giovanni Gentile alla seduta inaugurale dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, ISMEO, tenuto a Roma al Teatro Brancaccio nel dicembre del ’33. Nella Prolusione, il filosofo condannava il gretto nazionalismo, incapace di aprirsi ad apporti culturali diversi, come accadeva nei paesi colonialisti, tipo la Francia e l’Inghilterra. Semmai propensioni al razzismo biologico vennero riscontrate sporadicamente in alcuni studiosi, tra i quali, l’antropologo Lidio Cipriani. Quest’ultimo definiva le razze africane come un gruppo di individui appartenenti ad una specie inferiore dell’essere umano. La inferiorità mentale dei neri d’Africa, dimostrata anche dalla medicina bio tipologica di Pende, concordava con la diversità costituzionale tra i bianchi e i negri. Il Cipriani sostenne la conquista coloniale dell’Etiopia, e riteneva che «l’Africa non avrebbe mai potuto essere degli africani».


Razzismo antisemita

La pubblicazione del “Manifesto della razza” del 1938, procurò molto stupore tra i gerarchi fascisti, i quali non avevano mai nutrito precedentemente sentimenti antisemiti e non erano a conoscenza che li nutrisse neanche il Duce. Dopo la visita a Roma di Hitler, nel Maggio del ’38, sancita l’alleanza fra il nazismo ed il fascismo, Mussolini si adoperò a istituzionalizzare un razzismo di Stato, antisemita. Il De Felice, ha giustamente sottolineato come le politiche antiebraiche del Duce dipendessero dall’alleanza strategica con la Germania, stipulata nel 1937.
Dopo la conquista dell’Etiopia, il Duce iniziò a condividere le politiche antisemite dei nazisti. Nel Gennaio del 1937, infatti, iniziarono i primi accordi politici e diplomatici tra l’Ambasciata tedesca a Roma e il regime fascista, determinando tra l’altro l’allontanamento dalle Università di “dissidenti” germanici emigrati nel nostro paese, dopo l’approvazione delle leggi antisemite di Norimberga del 1935.
Agli inizi del 1938, il Duce iniziò a redigere di suo pugno il “Manifesto della razza”, ed incaricò un giovane antropologo, Guido Landra, di istituire un comitato scientifico volto a diffondere nell’opinione pubblica i principi del razzismo antisemita. Nel Febbraio di quell’anno, il ministro Bottai richiedeva alle Università italiane il censimento degli ebrei sia stranieri che italiani, all’interno del corpo docente ed in quello degli studenti.
Il “Manifesto della Razza”, redatto da Mussolini nei primi sei mesi del ’38, si articolava in dieci punti essenziali: 1. Le razze umane esistono. 2. Esistono grandi razze e piccole razze. 3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico. 4. La popolazione italiana è di origine ariana e la sua civiltà è ariana. 5. È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici, infatti dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione (omogeneità millenaria razziale italica). 6. Esiste ormai una pura “razza italiana”. 7. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. 8. È necessario fare una netta distinzione fra Mediterranei d’Europa da una parte, gli Orientali e gli Africani dall’altra. 9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. 10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo.
Tale Manifesto razziale fu pubblicato il 14 Luglio del ’38 su «Il Giornale d’Italia», e venne sottoscritto da dieci personalità, tra le quali cinque erano professori universitari: Nicola Pende, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari, Arturo Donaggio; e gli altri cinque erano giovani assistenti universitari: Guido Landra, Leone Franzì, Marcello Ricci, Lino Businco e Lidio Cipriani. Dall’elenco mancavano figure di razzisti biologisti e di razzisti spiritualistici come quelle di Telesio Interlandi e di Julius Evola, in quanto non facendo parte del mondo accademico, erano state omesse dal Duce, al fine di convalidare la scientificità ed il prestigio delle tesi del Manifesto. Intanto, nello stesso mese il ministero dell’Interno, trasformava l’“Ufficio demografico dell’Istat” in “Direzione generale per la Demografia e la razza”, comunemente denominato “Demorazza”. Era diretto dal prefetto La Pera, con il compito di schedare tutti i dipendenti della pubblica amministrazione di razza ebraica. La “Demorazza” utilizzò ben presto peculiari strumenti operativi sostanzialmente antisemiti: l’elenco generale, il classificatore ed il prontuario.
I provvedimenti razziali investirono anche il campo dei diritti patrimoniali e dell’esercizio delle professioni dei cittadini ebrei.
La pubblicazione del Manifesto del Luglio del ’38 sollevò critiche di vario tipo persino tra i firmatari, che si espressero con una serie di conferenze e di articoli di giornali, perché contrari ad alcuni punti del Manifesto. Particolarmente accese furono le polemiche del clinico Pende, che pur condividendo i primi due articoli del Manifesto, esprimeva forte dissenso riguardo il concetto di arianesimo, di purezza e di biologia della razza italica. Il clinico sostenne l’anti scientificità di tali tesi, dichiarando al congresso di Cremona nel Settembre di quell’anno, la sua idea a proposito del concetto di terra, popolo e nazione, quali pilastri della visione fascista della razza, risalente alla civiltà romana e dalla quale era nata la stirpe italica. L’arianesimo, secondo il clinico barese, era di epoca successiva a quello della razza italica, e sarebbe stato un derivato dell’incrocio tra italici preromani e romani. L’endocrinologo condivideva in tal modo le precedenti tesi espresse da Giuseppe Sergi agli inizi del secolo. Da tali considerazioni, sembrava chiaro che la firma di Pende sul Manifesto fosse stata una forzatura da parte del Duce, che gli aveva imposto l’adesione al razzismo antisemita nonostante conoscesse le sue avversità al razzismo biologico. Intanto l’Ufficio della “Demorazza” denunciava le dichiarazioni del Pende come idee «perniciose, pericolose» per la Nazione. Anche la rivista, (diretta da Telesio Interlandi e Guido Landra) «La difesa della razza», si scagliò contro il clinico barese, chiedendo all’Ufficio del Minculpop di non rendere pubblica alcuna documentazione e relazione scientifico politica scritta dall’endocrinologo. Nello stesso mese, un gruppo di eugenisti capeggiati da Leone Franzi, assistente universitario e firmatario del Manifesto del ’38, caldeggiava il dissenso espresso da Pende, e proponeva di correggere le tesi del Manifesto con una nuova dichiarazione razziale. Gli ebrei non rappresentavano una razza, ma una comunità etico-nazionale che si era mantenuta integra attraverso i secoli. Il Franzì sottolineò anche la notevole distanza tra il razzismo germanico basato sulla purezza di sangue e il razzismo fascista basato sulla volontà e su connotati psicologici e spirituali della stirpe. In quel frangente, Pende inviava al Duce la bozza di un nuovo testo della “commissione razza” da sostituire a quello pubblicato, non ottenendo però alcun riscontro pratico.
Il Duce in persona era stato l’ispiratore del Manifesto con l’obiettivo politico di propagandare presso la pubblica opinione italiana l’ideologia biologica razzista tedesca. Sotto la pressione di diversi intellettuali e professori universitari, Mussolini propose ben presto la deroga ad alcuni provvedimenti previsti dal suo Manifesto. Il ministro dell’educazione, Bottai, ricevette una comunicazione dal Duce riguardante la deroga sulla epurazione di diversi docenti ebrei delle scuole e delle Università italiane. Lo stesso Bottai sottolineò comunque il principio secondo cui tali provvedimenti sarebbero dovuti essere di competenza del Consiglio dei Ministri. Inoltre, il ministro commentava, infastidito, le reiterate incertezze di Mussolini in materia di Razza, confidando di risolvere, al più presto, la questione delle leggi razziali nella seduta del Gran Consiglio del fascismo. La normativa sulle “eccezioni” fu anticipata dallo stesso Mussolini nel discorso tenuto a Trieste il 15-18 Settembre del ’38, con tale annuncio: «il razzismo non è scoppiato all’improvviso […] ma è in relazione alla conquista dell’Impero […]. Tuttavia gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari e civili nei confronti dell’Italia e del regime, troveranno comprensione e giustizia».
Il 6 Ottobre, il Gran Consiglio del fascismo decretava le clausole di salvaguardia a favore degli «ebrei di cittadinanza italiana con benemerenze di carattere civile». Emanava, inoltre, una nuova legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana, e tracciava così le linee fondamentali della successiva legislazione, dalla quale dovevano ispirarsi le leggi preparate dai singoli ministri.
Dall’indagine condotta dalla “Demorazza” emergeva, nel ’38, un numero di 48.000 ebrei italiani e di 10.000 ebrei stranieri residenti nella penisola, di questi erano iscritti al PNF circa 10.000. Poco più di un anno dopo, la situazione era del tutto mutata, alla fine del ’39, vi erano in Italia 3.000 ebrei stranieri, mentre gli altri 7.000 avevano lasciato il Regno, dopo l’entrata in vigore delle leggi per la difesa della razza. Una dettagliata relazione della “Demorazza” fu fatta nel ’42 a proposito delle deroghe che il regime concedeva agli ebrei per meriti civili, politici o militari. Furono registrate circa 8.000 domande e ne vennero accolte solo 2.500. Le benemerenze al Giugno del ’42 riguardarono solo 521 ebrei. Le domande furono respinte secondo il criterio del demerito, in quanto si basavano principalmente su motivi politici. Il richiedente era spesso considerato antifascista, massone, anarchico ed anche di «pessima condotta morale». Le domande con esito positivo riguardarono solo gli ebrei che avevano contratto un matrimonio misto, avendo un genitore «di razza ariana al cento per cento», purché il discendente fosse stato battezzato alla nascita o nei primi 5 anni di vita.
Il Gran Consiglio, nel Novembre del 1938, decretò la legislazione razzista per la necessità urgente di un riconoscimento razziale del problema ebraico. Si proposero, così, le prime norme antisemite relative ai divieti matrimoniali tra italiani ed italiani non ariani di razza semitica o camitica, nonché il divieto per i dipendenti statali italiani di sposarsi con donne straniere di qualsiasi razza, ed infine si stabilì che tutti i matrimoni dovevano essere avallati dal consenso del Ministero dell’Interno. Inoltre, il Gran Consiglio del Fascismo definiva l’appartenenza o meno alla razza ebraica per i soggetti che desideravano entrare in Italia, sottolineando l’appartenenza alla razza ebraica solo ai figli nati da genitori entrambi ebrei, o da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera, oppure ai figli nati da un matrimonio misto che professavano la religione ebraica. Non era considerato di razza ebraica «colui che fosse nato da un matrimonio misto qualora professasse altra religione all’infuori di quella ebraica, alla data del 1 Ottobre del 1938».
Il 17 Novembre del 1938, furono votati alla unanimità dal Parlamento i provvedimenti razziali, con decreto legge n. 1728, definiti strumenti di difesa della razza italiana, e furono controfirmati dal Re d’Italia Vittorio Emanuele III.
Il 14 Dicembre ’38, il regime sopprimeva la Camera dei Deputati istituendo la Camera del Fasci e delle Corporazioni ed approvava i decreti legge riguardanti le norme antisemite, precedentemente descritte. Era un punto di non ritorno, il fascismo voleva trasformarsi da Stato dittatoriale a Stato totalitario. Il regime aveva operato il sovvertimento di una delle più importanti istituzioni statali, senza abrogare la Costituzione Albertina. Il mantenimento dello statuto Albertino servì al fascismo come simbolo per legittimare “l’autorità” della Corona, in quanto l’abrogazione della Carta probabilmente avrebbe creato maggiori difficoltà che vantaggi alla politica del Duce.
Intanto, nell’anno accademico 1938-’39 iniziava l’epurazione dal mondo scolastico degli ebrei, che avrebbe comportato anche un notevole impoverimento scientifico e culturale. Si realizzò così quella che venne definita la “arianizzazione” della scuola pubblica. Fu lasciata solo la possibilità agli studenti ebrei, già iscritti all’Università al momento dell’emanazione del decreto, di concludere gli studi universitari. Il numero dei docenti ebrei espulsi dalle Università, tra professori ordinari e straordinari, fu del 7 per cento, vale a dire persero l’incarico d’insegnamento circa 386 docenti. A partire da questa discriminazione culturale Papa Ratti, Pio XI, prendeva le distanze dal razzismo ariano affermando che «l’antisemitismo era un movimento odioso […]. Non è lecito che i cristiani prendano parte all’antisemitismo. Spiritualmente siamo tutti semiti». Complesse trattative furono intraprese fra i funzionari fascisti e quelli del Vaticano. Apparve ben presto chiaro la grande preoccupazione della Chiesa di Roma circa la normativa sul divieto di matrimonio dell’ebreo che non fosse stato battezzato. In netto contrasto con I Patti lateranensi del Concordato del ’29, per decisione di Pio XI, fu istituita una commissione per esaminare la questione ebraica. Al termine dei lavori, i funzionari del Vaticano sostennero gli ebrei italiani, sottoposti continuamente alle innumerevoli difficoltà quotidiane. L’atteggiamento del Vaticano, nell’Ottobre del ’39, riuscì a condizionare la politica razziale della “Demorazza”, che sottolineava l’importanza dell’unità familiare anche tra i matrimoni misti, escludendo, dai provvedimenti razziali, coloro i quali professando la religione cattolica non potevano essere più considerati di razza ebraica.
Nei mesi successivi, l’antisemitismo decretato nel 1938, divise anche l’eugenetica italiana in una duplice posizione: da un lato, la corrente di Interlandi e Landra, filo tedesca, biologista e determinista, supportata e pubblicizzata dalla rivista La difesa della razza; dall’altra, la corrente di Acerbo, moderata ed ispirata ad una eugenica di tipo quantitativo, legata all’Ufficio studi e propaganda della razza del Minculpop, supportata dalla rivista «Razza e civiltà». Acerbo considerò, tra l’altro, il “pericolo ebraico” come un falso problema, in quanto era presente una scarsissima rappresentanza semitica sul territorio nazionale: solo 40.000 semiti in confronto ai 40 milioni di cittadini italiani (1x1000), sottolineando che i semiti rappresentavano solo una comunità e non una razza. La corrente di Acerbo auspicava anche la promulgazione in tempi brevi di una nuova dichiarazione sulla razza.
La corrente filotedesca, invece, continuava a pubblicare articoli antisemiti, condannando gli ebrei di essere un gruppo etnico, estraneo e tendenzialmente disgregatore per la nazione, dichiarando la loro simpatia nei confronti del razzismo biologico tedesco: «razzismo vuol dire eliminazione degli ebrei e dei meticci di ogni genere».
Intanto, l’entrata in guerra dell’Italia nel Giugno del 1940 ebbe conseguenza immediata sulla politica razziale italiana. Come è noto, l’attacco alla Grecia da parte di Mussolini, nell’Ottobre ’40, fu deciso dal regime senza informare l’alleato tedesco, quale espressione di una autodecisione all’italiana (guerra parallela). La conseguente sconfitta italiana nella campagna bellica greca costrinse gli alleati tedeschi all’intervento militare e alla successiva occupazione dei paesi balcanici. Tale situazione militare influenzò significativamente gli atteggiamenti del Duce, il quale strinse ancor di più l’alleanza con Hitler (guerra di soggezione), favorendo, sul fronte interno, la diffusione dell’ideologia antisemita, sostenuta dalla corrente biologista di Landra e di Interlandi.
Dalla primavera del 1942 e fino all’autunno dello stesso anno, con la sconfitta delle truppe italo tedesche in Nord Africa, si manifestò il declino del regime fascista. Da quel momento, tra gli scienziati, nacque un clima di diffidenza nei confronti dell’eugenetica italiana di tipo quantitativo. La ambiguità politica del Duce, sia nei confronti dei membri del PNF che nei riguardi dell’alleanza con Hitler, andava via via svelando l’altro lato della medaglia. Alla originaria “eugenetica nazionalista” che, come abbiamo visto precedentemente, prediligeva una sorta di eugenica concepita come approfondimento del più ampio progetto di “bonifica” e di potenziamento demografico, si andava affiancando una eugenica di tipo qualitativo e “biologista”. Assieme al mutamento del movimento eugenetico, ed in concomitanza agli insuccessi bellici italiani e tedeschi del ’42, le due correnti razziste, quella di Acerbo e quella di Landra, confluirono in un razzismo cosiddetto “italiano”, che, mescolando elementi dell’uno e dell’altro schieramento, sostennero delle politiche razziali piuttosto confuse e mal definite. L’eugenica italiana trovava il suo accordo principale sul concetto di difesa della razza biologica, contribuendo, inevitabilmente, ad avvicinare la politica e l’ideologia razzista italica a quella di stampo nazista. Tale fenomeno si espresse maggiormente durante gli anni del collaborazionismo (fascista) della Repubblica di Salò.


Conclusioni

Il razzismo italiano fu un prodotto improvvisato del potere politico fascista, non avendo alcun fondamento culturale, ed al confronto di quello tedesco, appare come un razzismo “imperfetto”. Infatti l’ideologia razziale italica nei confronti dei popoli non europei era già stata accolta dalla nostra cultura dell’Ottocento, come una sorta di luogo comune, presente anche in altri paesi europei. La convinzione della superiorità della razza bianca su quella nera venne riconosciuta dal popolo italiano e dalla comunità scientifica in maniera “quasi fisiologica”. La politica sanitaria della difesa della razza, l’espansionismo demografico e il mito della superiore qualità delle genti italiche entravano a far parte della “normale” cultura propagandata dal regime fascista. Al contrario, dopo la pubblicazione del Manifesto della razza, definire gli ebrei come una razza a parte, significava trasferire l’antisemitismo dalla tradizionale dimensione ideologica (razzialismo) e religiosa (giudeofobia) a quella biologico-deterministica, tipica dell’antisemitismo germanico. Dopo l’approvazione della legislazione delle leggi razziali, il razzismo italiano realizzò il passaggio da un razzismo esclusivamente «di difesa e di potenziamento della stirpe», come quello esplicitato dalla nascita dell’Impero coloniale, ad un razzismo di tipo “espansionistico”, che mirava ad evitare ogni ibridismo biologico e morale per il raggiungimento di una «purificazione generale di tipo razziale». Il fine dell’operazione razziale era la formazione di una stirpe italica biologicamente unitaria.
La gravità delle conseguenze determinate dall’antisemitismo fu confermata dalla pubblicazione del “Manifesto della razza”, che legittimava giuridicamente la posizione razzista del Duce, come legge di Stato. Dopo il 1938, la gran parte dell’apparato politico e della comunità scientifica italiana, non poterono non tener conto della esistenza della legislazione anti ebraica, per cui molti furono “costretti” a schierarsi a favore della scelta governativa, assumendosi grandi responsabilità etiche e culturali.
Concludendo, si può affermare che, in assenza dell’alleanza hitleriana, Mussolini non sarebbe mai diventato antisemita e non avrebbe mai redatto alcun manifesto della razza.
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