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Internazionalizzazione delle imprese nell'arco di cinquant'anni
di Marco Calabrò1 - Riccardo Gallo2
1. Attualità della questione

L’economia italiana soffre di una prolungata interruzione del processo di crescita. C’è bisogno che il Paese recuperi competitività e torni ad attrarre investimenti esteri, che le imprese italiane accrescano la loro quota del mercato mondiale, tornino a investire nelle loro fabbriche, si internazionalizzino magari acquisendo anche il controllo azionario di imprese estere. Queste considerazioni, sempre più largamente condivise, danno per risolta e chiarita la questione dell’internazionalità delle imprese. Eppure, forse, non ne sono stati ancora del tutto chiariti il significato e il modello industriale cui tendere in futuro. Fino a pochi anni fa, d’altronde, la schematizzazione ricorrente e alquanto grezza era che un’impresa per operare fuori dai confini nazionali potesse seguire quattro percorsi distinti e alternativi: a) vendere direttamente prodotti nei mercati esteri, b) localizzare sedi commerciali all’estero, c) trasferire una o più parti del processo produttivo, d) stipulare accordi di collaborazione con partners stranieri. A questi quattro percorsi veniva attribuita una valenza di modernità, nell’ordine, crescente.
In questo lavoro viene ricostruito, per gli ultimi cinquant’anni, il percorso di internazionalizzazione seguito dalle imprese italiane e viene analizzato criticamente il significato via via attribuito al concetto stesso di internazionalizzazione.


2. Anni Settanta, dibattito nell’industria di Stato

La questione era già stata al centro di due grandi cambiamenti dell’economia reale italiana all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento. In primo luogo, nel 1951 il ministro del Commercio estero Ugo La Malfa aveva attuato una coraggiosa liberalizzazione degli scambi commerciali, e questa non era risultata gradita all’industria privata la quale era assuefatta a una cultura protezionistica protrattasi sulle ceneri dell’autarchia fascista; con la liberalizzazione la nostra industria temeva di soccombere alla concorrenza estera. In secondo luogo, nel 1953 Enrico Mattei aveva fondato l’Eni, Ente nazionale idrocarburi, di cui era divenuto presidente, dopo aver perseguito un sia pur avventuroso rilancio estero della società di Stato Agip, avendo rinunciato a liquidarla come invece gli era stato chiesto di fare. In questa veste, Mattei aveva ottenuto rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e aveva negoziato un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica. L’internazionalizzazione di questa nostra industria di Stato, dunque, aveva riguardato l’approvvigionamento delle materie prime. In una ricerca sulle multinazionali pubbliche degli anni Sessanta (Anastassapolus et al., 1985), Italsider-Finsider ed Eni figuravano tra le prime duecento società multinazionali non americane.
Nel 1971 il tema dell’internazionalizzazione delle imprese fu affrontato, forse per la prima volta, a livello istituzionale (Ministero delle Partecipazioni statali, 1971):
Il problema dell’impresa multinazionale si impone non solo in conseguenza degli investimenti diretti con cui le grandi imprese di altri paesi, in particolare gli Stati Uniti, si inseriscono nelle economie europee, ma anche perché in molti settori pure alle imprese europee si pone una prospettiva di evoluzione imprenditoriale […]. Il problema dello sviluppo in senso multinazionale interessa invero solo alcuni settori delle partecipazioni statali, quali il settore petrolifero, quello chimico, il settore dell’elettronica, dei calcolatori […]. Si cercherà di risolvere il problema dell’impresa multinazionale in modo che le imprese che fanno capo al ministero delle Partecipazioni statali possano trarre il massimo vantaggio dall’evoluzione delle relazioni internazionali e nel contempo non sia messo in pericolo il ruolo che debbono svolgere nel quadro della politica economica nazionale.

L’associazione dei due termini “multinazionale” e “pubblica”, all’epoca definiti antinomici, era vista come un paradosso. I toni istituzionali erano alquanto imbarazzati e miravano a tranquillizzare che comunque si sarebbe trovato un compromesso tra una visione aperta e una politica attenta a conservare l’esistente.
È bene precisare che negli anni Settanta, comunque, non era ancora messo in discussione il modello di organizzazione industriale: esisteva solo la cosiddetta “produzione di massa”, basata su cicli produttivi fortemente integrati e per lo più concentrati territorialmente. Per questa ragione, il processo di internazionalizzazione era limitato da un lato all’approvvigionamento delle materie prime, dall’altro alla commercializzazione dei prodotti finiti, dunque coincideva con il commercio estero. Da qui discendeva la speranza di poter associare i due termini antinomici senza mettere in discussione gli insediamenti produttivi e, in definitiva, i livelli occupazionali domestici.
Ma per questa stessa ragione, come conseguenza delle due crisi petrolifere ed energetiche verificatesi a fine 1973 e nel 1979, crebbe la consapevolezza della vulnerabilità, all’interno dell’economia mondiale, di un sistema produttivo non internazionalizzato com’era quello italiano. Alla fine, alcune strategie di internazionalizzazione furono adottate dalle imprese prima che dalla politica (Censis, 1982). Nel 1978, la Cina aprì la propria economia all’occidente e impostò lo sviluppo sulle esportazioni, oltre che sulla riforma agraria.


3. Anni Ottanta, rivoluzione nell’organizzazione industriale

A partire dal 1980, con il ritorno al governo del partito Socialista, con De Michelis ministro delle Partecipazioni statali, fu posto il problema della multinazionalizzazione dell’impresa a prevalente partecipazione dello Stato e ne fu chiarito il significato in termini di presenza produttiva all’estero. Questo problema concettualmente e concretamente era del tutto distinto da quello della penetrazione commerciale sui mercati esteri. Elemento discriminante tra l’internazionalizzazione mercantile e quella produttiva era il trasferimento di risorse, in senso ampio, tra un paese e un altro per il tramite dell’impresa stessa. Alcuni (Cuneo, 1984) ritennero che non fosse politicamente corretto che le partecipazioni statali, finanziariamente dipendenti dal contribuente italiano, acquisissero aziende industriali in altri paesi e che tutte le attività obbligate a internazionalizzarsi per ragioni tecnologiche o per accordi strategici dovessero uscire dal controllo dei rispettivi enti di gestione (Iri, Eni, Efim).
Negli anni Ottanta si cominciò a discutere anche un’altra importante distinzione, quella tra internazionalizzazione attiva e passiva, cioè tra operazioni compiute all’estero da imprese italiane e operazioni svolte nel nostro Paese da imprese estere (Acocella, 1983). Quel dibattito oggi appare ovvio, ma all’epoca segnò una svolta radicale, perché fino a quel momento al sistema delle partecipazioni statali era stato esplicitamente attribuito il compito di contenere la penetrazione di multinazionali straniere nel nostro Paese, in carenza di intervento da parte del capitale privato nazionale. Alle partecipazioni statali era dunque richiesto di sbarrare la strada alle multinazionali estere, secondo una logica essenzialmente difensiva.
Come per gli anni Settanta abbiamo segnalato che quale unico modello di organizzazione industriale veniva adottato quello della produzione di massa, territorialmente concentrata, così dobbiamo notare che nella prima metà degli anni Ottanta fu sviluppato, innanzitutto dalla casa automobilistica giapponese Toyota, un modello profondamente alternativo, denominato “produzione snella”. Non è questa la sede per sviscerarne le novità, ma basti ricordare che il ciclo manifatturiero fu ridotto a un mero assemblaggio di componenti acquistati da terzi fornitori. Naturalmente, ciò valeva anche per l’attività produttiva svolta da ciascun fornitore, e così via risalendo a monte, e a destra e a sinistra in un fitto reticolo di rapporti tra imprese. Queste ultime potevano essere anche legate da rapporti azionari incrociati e di minoranza ma ciò era inessenziale mentre, cosa fondamentale, esse erano legate da accordi di collaborazione sia gestionale che strategica, nonché da una comunanza di: principî; regole di comportamento e di affidabilità; concezione della qualità totale dei prodotti e dei processi; profonda sintonia nell’organizzazione aziendale e in quella sociale. La produzione snella frammentò il ciclo produttivo in molte fasi separate e seppe adattare l’offerta alla dinamica mutevolezza della domanda di mercato. Il ciclo produttivo, così smontato, e trasferito da una singola azienda a un reticolo di imprese in cui poteva serpeggiare e ricomporsi, restò in ogni caso radicato nel territorio giapponese. Quando, anni dopo, le multinazionali americane cercarono di copiare a casa loro il modello della produzione snella, ne venne fuori qualcosa di vagamente rassomigliante, dato che mancavano i presupposti culturali, sociali, religiosi.
Negli stessi anni Ottanta, in Italia si manifestarono altri due processi. Il primo, di natura aziendale: innanzitutto in Lombardia, allo scopo di ridurre i costi fissi, le aziende operarono un complesso e profondo processo di riorganizzazione con l’espulsione di funzioni aziendali di staff (consulenza legale, gestione del personale, sistemi informativi, marketing) non direttamente legate alla manifattura. Le funzioni così espulse generarono sul mercato competitivo aziende multi-client. Nacque il cosiddetto Terziario Avanzato. Il secondo processo fu di natura industriale: crebbe (Coltorti, 2008)
una moltitudine di imprenditori che basavano la forza competitiva sulla loro personale creatività. Essi applicavano un modello che stava agli antipodi degli schemi convenzionalmente accettati. I capitali erano scarsi, ma i luoghi conservavano l’humus dell’imprenditorialità. Emersero quindi coloro che seppero innovare producendo idee a basso consumo di finanza: erano gli imprenditori del made in Italy e dell’industria leggera. Essi non organizzavano fabbriche con 50 mila dipendenti, ma capannoni con poche decine di occupati, preferibilmente in città con poche migliaia di abitanti.

Questo secondo processo fu definito da Giorgio Fuà NEC, perché nato nel NordEstCentro; nel seguito fu studiato come il modello dei distretti, ovvero ancora come il Terzo Capitalismo, perché venuto dopo la grande impresa privata e dopo l’industria di Stato. Così come nel caso della produzione snella, anche queste nuove imprese restavano per il momento legate al territorio di origine.


4. Anni Novanta

All’inizio degli anni Novanta cominciarono ad avvertirsi gli effetti dell’apertura nel 1978 della Cina all’Occidente e quelli del crollo nel 1989 delle barriere opposte dai Paesi socialisti. Si parlò di Globalizzazione come processo di integrazione crescente delle economie delle diverse aree del mondo, in termini di scambi commerciali e flussi finanziari, ma anche di crescente circolazione delle persone e diffusione internazionale delle conoscenze, soprattutto tecnologiche. Divenne possibile trovare il meglio in ogni angolo del mondo. Accelerò la crescita delle imprese “connesse”, cioè di quelle integrate nella globalizzazione. Iniziò il declino per quelle “non connesse”.
In Italia, sempre all’inizio degli anni Novanta, si sovrapposero gli effetti di altre due trasformazioni: l’applicazione della produzione snella da parte delle grandi imprese e, soprattutto, l’evoluzione dei distretti. Prese così forza una moltitudine di imprese medie e medio-grandi, comunque non appartenenti a gruppi di grande dimensione, manifatturiere, dedite a trasformare prodotti della terra (alimentari e minerali) in beni adatti ai consumi, intermedi per altre trasformazioni o destinati al consumo finale. Si trattava di imprese innovative, competitive, aggressive sui mercati internazionali, definite “multinazionali tascabili”. Nel loro insieme, anni dopo, si teorizzò un nuovo fenomeno, il cosiddetto IV capitalismo.
Le multinazionali tascabili rappresentarono una via italiana alla penetrazione dei mercati esteri, nonché un’avanguardia per i processi di delocalizzazione. Tale delocalizzazione si estese alle imprese di dimensioni minori solo a partire dal decennio successivo. Le piccole e medie imprese (pmi), carenti di risorse finanziarie e manageriali, avevano sempre sofferto di scarsa internazionalizzazione ed erano state relegate a operare sul mercato nazionale o a sperimentare forme leggere di internazionalizzazione. Un esempio in tal senso furono le joint venture o le partnership che implicavano sunk cost minori e rischi minori. Una maggiore integrazione delle economie e la conseguente diminuzione dei costi di internazionalizzazione finirono per favorire, in questa seconda fase della globalizzazione, le medie imprese italiane (Lamieri et al., 2008).
Nella seconda metà degli anni Novanta la propensione del sistema produttivo italiano all’internazionalizzazione si sintetizzava in queste cifre: quasi 60 mila imprese esportavano, oltre 20 mila avevano avviato o mantenuto forme di internazionalizzazione commerciale diverse dalle esportazioni, 2.700 avevano concluso accordi di collaborazione tecnica con imprese estere e poco più di mille avevano scelto di effettuare investimenti produttivi all’estero. In generale, la quota di imprese che avevano internazionalizzato senza ricorrere alle esportazioni era molto bassa; al contrario era alta la percentuale di imprese che si erano servite delle sole esportazioni (Bugamelli et al., 2000).
A livello istituzionale, le trasformazioni del contesto competitivo degli anni Novanta consigliarono riforme di coordinamento delle strutture pubbliche preposte alla governance dell’internazionalizzazione delle imprese (Ice, Camere di commercio, Ambasciate, SACE, Simest), ovvero riforme di efficientamento (Ice). Alla fine, il Ministero del Commercio estero confluì in quello dell’Industria, che fu denominato Ministero per le Attività produttive.


5. Anni Duemila, primo decennio

In avvio del nuovo millennio, come reazione alla prima “crisi da globalizzazione” che colpì il sistema produttivo, iniziò a diffondersi in Italia una letteratura qualificata “declinista”. Si diffuse la convinzione che l’economia italiana, in ragione principalmente della sua specializzazione in settori tradizionali e maturi, fosse più esposta alla concorrenza di prezzo portata dalle economie dei Paesi emergenti. In effetti, la quota dell’Italia sul commercio mondiale si ridusse di circa un quarto tra il 2002 e il 2009. Nel contempo, però, la crescita economica degli stessi Paesi emergenti e l’offerta di lavoro a buon mercato e poco sindacalizzato ivi disponibile offrirono anche opportunità per interessanti investimenti labour intensive. Infine, l’avvento delle ICT abbatté i costi di transazione e favorì l’outsourcing e l’offshoring. Tutte queste trasformazioni spinsero un numero crescente di imprese italiane a cercare una riduzione dei costi di produzione attraverso la frammentazione e lo spostamento all’estero di fasi dell’attività.
In estrema sintesi, il decentramento produttivo sembrò orientato su due obiettivi: per i settori a bassa e media tecnologia, ridurre i costi del lavoro e fronteggiare la concorrenza di prezzo; per i settori ad alta tecnologia e per quelli a economie di scala, avvicinare i mercati di sbocco e accedere a competenze tecniche non sempre disponibili nelle sedi locali.
La scomparsa della grande impresa italiana, per sua stessa natura più propensa all’internazionalizzazione, non fu neutrale rispetto a questo processo, espose il Paese a un maggior rischio di deindustrializzazione.
L’estensione delle reti, l’allungamento del sistema del valore oltre quello locale richiedevano un investimento deciso in coordinamento e quindi in competenze relazionali. «la trasformazione del modello di impresa da sede di competenze e saperi produttivi competitivi (fabbrica) a punto di una rete distribuita di operatori specializzati oltre il contesto locale tende a trasformare in modo radicale il ruolo del management, soprattutto con riferimento alle imprese leader» (Chiarvesio et al., 2006). Furono anni di depauperamento del tessuto produttivo, incapace a livello sistemico di presidiare le fasi a più alto valore aggiunto nella rinnovata forma di organizzazione dei processi produttivi che si frammentavano (unbundling) per ricostituirsi in global value chains. Fu minacciata la sopravvivenza del modello dei distretti industriali.
Quando le imprese manifatturiere italiane prendevano parte ai processi di dispersione internazionale della produzione nel ruolo di committenti, riuscivano a conseguire ottime performance e ad assicurare benefici più estesi al sistema industriale (Accetturo et al., 2011). Si trattava tuttavia di fattispecie poco frequenti: rispetto ad altri Paesi, infatti, la ridotta dimensione media e una specializzazione produttiva a più bassa intensità di capitale ne limitavano il ruolo di controllo delle catene di valore globale, collocandole nel ruolo di subfornitrici in segmenti intermedi della filiera.
Il trasferimento all’esterno dei sistemi locali di risorse e competenze di natura manifatturiera rappresentava un elemento di discontinuità in un modello produttivo che aveva sempre visto sviluppare le innovazioni manifatturiere a stretto contatto con il “fare”. Nella tradizione industriale italiana il sapere pratico proprio del processo manifatturiero e il dominio delle competenze in ambito produttivo sono state sempre parti costitutive e complementari del valore aggiunto dell’impresa. Se la pratica è un momento centrale del processo di innovazione, il trasferimento di fasi del ciclo comportava un indebolimento del tessuto produttivo (Calabrò et al., 2007).
Per quanto costituisse la sfaccettatura principale dei processi di internazionalizzazione durante gli anni Duemila, la delocalizzazione non esauriva comunque il fenomeno. Soprattutto nella seconda metà del decennio iniziò infatti a diffondersi la consapevolezza che, per cogliere appieno i vantaggi della proiezione internazionale, occorresse un approccio olistico e non di tipo incrementale o per fasi di apprendimento: i quattro percorsi elencati in precedenza (cfr. par. 1) furono considerati non più in antitesi, ma all’interno di un processo unitario.
A livello di azione di Governo, mancarono politiche mirate ed efficaci per l’internazionalizzazione attiva e passiva del sistema produttivo, in grado di limitare il fenomeno della delocalizzazione alle sue componenti più sane e fisiologiche e attenuare ab origine gli aspetti negativi della questione. Sul fronte degli strumenti a disposizione delle imprese, il panorama era ampio ma troppo dispersivo: solo una quota marginale di operatori ne fece ricorso, a fronte di una domanda di servizi reali all’internazionalizzazione ampiamente inevasa (Carnazza et al., 2006).


6. In questi anni

Il prolungato periodo di crisi che ha colpito le economie avanzate a partire dal 2008 ha comportato profondi cambiamenti anche nelle strategie di approccio ai mercati esteri. Alla prima fase recessiva, durante la quale le imprese esportatrici avevano subito molto duramente la contrazione della domanda globale, ha fatto seguito una seconda crisi che ha interessato prevalentemente la componente domestica della domanda.
La debolezza del mercato interno ha reso più urgenti e vantaggiose per le imprese italiane le strategie di internazionalizzazione e la necessità di consolidare la posizione sull’estero: nel periodo 2010-14 il valore delle esportazioni dell’Italia è aumentato in media a un tasso del 6,6%, portandosi su valori più elevati anche rispetto al livello pre-crisi.
Nel 2012 la presenza italiana all’estero era quantificabile in oltre 190 mila imprese esportatrici, poco più di 13 mila imprese a controllo estero residenti in Italia che davano lavoro a 1,5 milioni di addetti, pari al 15 per cento del fatturato totale di industria e servizi non finanziari. Le multinazionali italiane con investimenti esteri nel settore manifatturiero erano oltre 3.300 e controllavano quasi 8.000 affiliate, con poco meno di un milione di addetti alle dipendenze (Istat, 2014 e 2015).
La presenza di multinazionali italiane sui mercati esteri si è rafforzata durante la difficile fase congiunturale seguita al 2008: a espandere il perimetro delle proprie operazioni oltre la frontiera nazionale è stato un numero crescente di imprese, anche di dimensioni modeste, se comparate a quelle tipiche delle multinazionali dei Paesi avanzati (D’Aurizio et al., 2015).
Rispetto al decennio precedente, sono mutate le motivazioni sottostanti alle scelte delocalizzative: hanno assunto minor rilevanza quelle legate alla contrazione dei costi, mentre è diventata preminente la vicinanza ai mercati di sbocco. Tale ricomposizione riflette l’emergere di problemi di incertezza e di complessità nei rapporti con i sistemi legali dei Paesi emergenti e denota la necessità di accedere a mercati più dinamici di quello domestico.
Contestualmente, ha cominciato a incrinarsi l’opposizione che gli investimenti esteri incontrano tradizionalmente nell’opinione pubblica. Non è ovviamente possibile escludere che in determinati settori e situazioni questi possano portare a perdite di posti di lavoro, tuttavia la letteratura empirica evidenzia effetti di ricomposizione (più che di calo) della forza lavoro. Peraltro, durante gli anni di crisi le imprese italiane presenti all’estero hanno ottenuto performance migliori rispetto alla media in termini di produttività, redditività e tenuta occupazionale, con riflessi positivi anche sulle filiere nazionali (Cristadoro et al., 2015).
La novità più rilevante di questi anni, sia dal punto di vista delle imprese che più in generale del dibattito pubblico e delle politiche sui temi dell’internazionalizzazione, è tuttavia legata alla necessità di attrarre flussi maggiori di IDE in entrata. Anche per questo indicatore l’Italia sconta un ritardo rispetto ai principali Paesi europei, a sintesi prevalentemente di due ordini di cause: una minor appetibilità delle imprese italiane, piccole e a controllo familiare; una qualità delle istituzioni modesta o percepita e descritta come tale nei principali rapporti internazionali sulla competitività (Doing Business e Global Competitiveness Report tra gli altri).
Nel settembre 2013 per la prima volta il Governo definì un «complesso di misure finalizzate a favorire in modo organico e strutturale l’attrazione degli investimenti esteri». Il cosiddetto Piano Destinazione Italia si componeva di «50 misure che miravano a riformare un ampio spettro di settori, dal fisco al lavoro, dalla giustizia civile alla ricerca, a valorizzare i nostri asset, e a sviluppare una politica di promozione internazionale del nostro Paese mirata sugli investimenti» (Rapporto Destinazione Italia, settembre 2013). Il cambiamento di prospettiva rispetto al passato apparve significativo, per l’esplicitazione dell’obiettivo e per la strategia che si intendeva adottare. Per essere efficaci, le policy di attrazione si devono basare infatti sul miglioramento del framework competitivo: certezza del fisco, certezza del diritto, certezza dei tempi e semplificazioni normative (a partire dalla regolamentazione del mercato del lavoro), sono solo alcuni degli ambiti di intervento di un programma ambizioso e articolato. Finora, però, il Piano ha trovato un’attuazione solo parziale.
Negli stessi anni crebbe l’attenzione del Governo sui temi dell’internazionalizzazione, con l’emanazione di una serie di provvedimenti che ne ribadirono la centralità nell’azione degli esecutivi. Dopo la soppressione del 2011, venne ricostituita l’ICE, con compiti e funzioni simili a quelli del suo predecessore, ma con personale ridotto. Si costituì anche una Cabina di Regia per l’internazionalizzazione e si puntò inoltre a sostenere sul fronte finanziario le imprese con la creazione di una “Export banca” che mettesse a sistema la capacità di offrire credito da parte della Cassa depositi e prestiti (CdP), l’attività di assicurazione delle esportazioni di SACE e lo strumento finanziario di stabilizzazione del tasso d’interesse di SIMEST (entrambe società del gruppo CdP).
In tempi più recenti è stato presentato il Piano per il rilancio del Made in Italy, con il duplice obiettivo di incrementare il numero di imprese esportatrici di almeno 20 mila unità e di aumentare i flussi di IDE in entrata di almeno 20 miliardi grazie a una serie mirata di interventi di formazione, informazione e accompagnamento.
Sul fronte dell’organizzazione dei processi industriali, la definizione delle politiche pubbliche e delle strategie imprenditoriali dei prossimi anni dovrà tener conto dell’accelerazione in atto nei processi di trasformazione dei sistemi produttivi. L’avanzamento tecnologico sta mutando radicalmente gli attuali modelli di produzione: le supply chain, grazie a un ricorso sempre più massiccio alle nuove tecnologie, si dematerializzano per ricomporsi secondo logiche non più riconducibili al tradizionale concetto di settore.
Il mercato tende verso una personalizzazione dei beni prodotti, potendo contare su una crescente disponibilità di elementi informativi che consentono di fornire risposte individuali alle esigenze dei clienti. In questo scenario si modificano le leve per la competitività: più che il fattore costo, assumono rilevanza la prossimità ai mercati finali, il fattore tempo, la flessibilità produttiva, la disponibilità di personale altamente qualificato.
Questo processo necessita di ingenti investimenti nella fase di avvio, ma a regime permetterà diffusi risparmi di costo, ribaltando i punti di debolezza della nostra manifattura in punti di forza: l’orientamento alla mass customization non passa infatti dal raggiungimento di economie di scala ma di scopo e di varietà, e potenzialmente potrà dare vigore alle nostre produzioni di nicchia (Giorgetti et al., 2015).
È questa la sfida che attende l’Italia nei prossimi anni e che deciderà il futuro del sistema manifatturiero: la capacità di essere fra i protagonisti della quarta rivoluzione industriale, la totale automazione e interconnessione delle produzioni (la cosiddetta “Industry 4.0”) (Crapelli, 2014).








Riferimenti bibliografici

- Accetturo, A. Giunta, S. Rossi, Le imprese italiane tra crisi e nuova globalizzazione, in «Questioni di Economia e Finanza» n. 86, gennaio, Banca d’Italia, 2011.
- N. Acocella, L’impresa pubblica italiana e la dimensione internazionale: il caso dell’Iri, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1983.
- J.P. Anastassapolus, G. Blanc, P. Dussauge, Les Multinationales publiques, Paris, Presse Universitaires de France, 1985.
- M. Bugamelli, P. Cipollone, L. Infante, L’internazionalizzazione delle imprese italiane negli anni novanta, in «Rivista italiana degli economisti», n. 3, dicembre, 2000.
- M. Calabrò, R. Gallo, Rischi e vantaggi della delocalizzazione produttiva: una rassegna bibliografica e un’indagine campionaria, in «L’Industria», n.3, luglio-settembre, 2007.
- P. Carnazza, R. Gallo, Indagine sulle strategie di internazionalizzazione delle imprese italiane nel triennio 2003-2005, in «Economia e politica industriale», n. 3, (2006).
- Censis, Il processo di internazionalizzazione dell’economia italiana negli anni settanta, Roma, 1982.
- M. Chiarvesio, E. Di Maria, S. Micelli, Modelli di sviluppo e strategie di internazionalizzazione delle imprese distrettuali italiane, in G. Corò, G. Tattara, M. Volpe (a cura di), Andarsene per continuare a crescere, Roma, Carocci, 2006.
- F. Coltorti, Prolusione al Master per imprenditori di pmi, 3° edizione, Altavilla Vicentina, Fondazione Cuoa,, 13 novembre, 2008.
- R. Crapelli, Per l’Italia la sfida dell’Industry 4.0, in «Il Sole 24 Ore», 30 dicembre 2014.
- R. Cristadoro, S. Federico, L’internazionalizzazione del sistema produttivo italiano, in «Questioni di Economia e Finanza», n. 260, (2015) gennaio, Banca d’Italia.
- G. Cuneo, Criteri per una nuova mappa delle partecipazioni statali, in atti del Seminario sulle tesi Cesec per la riforma del sistema delle partecipazioni statali, Lesmo, 29 giugno 1984.
- L. D’Aurizio, R. Cristadoro, Le caratteristiche principali dell’internazionalizzazione delle imprese italiane, in «Questioni di economia e finanza», n. 261, marzo, (2015), Banca d’Italia.
- F. Fossati, Economia e politica estera in Italia - l’evoluzione negli anni novanta, Franco Angeli, Milano, 1999.
- M.L. Giorgetti, L. Pilotti, Quali traiettorie concrete di intervento per far ripartire l’Italia? Brevi note sulle politiche industriali locali di rilancio dell’imprenditorialità, Relazione presentata in occasione del Policy Workshop “La ripresa economica e la politica industriale e regionale: dalla strategia ai progetti”, 20 marzo (2015), AISRE.
- Istat, Rapporto annuale 2015, 2015.
- Istat, Commercio estero e attività internazionali delle imprese, in «Annuario» 2014.
- M. Lamieri, A. Lanza, Strategie di internazionalizzazione delle piccole-medie imprese, in «Imprese e Territorio», n. 5 (2008).
- Ministero delle Partecipazioni statali, Relazione programmatica, in «Mondo Economico», n. 46, Supplemento, (1971).






1 Ministero dello Sviluppo Economico. Le opinioni espresse nell’articolo sono di responsabilità esclusiva dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione ufficiale del Ministero dello Sviluppo Economico.^
2 Sapienza, Università di Roma.^

Lo scritto è frutto di una proficua collaborazione tra gli autori. Comunque a Marco Calabrò sono attribuibili i paragrafi 4, 5 e 6, a Riccardo Gallo i paragrafi 1, 2 e 3.
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