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Quando i media raccontano. La Radiotelevisione nell'Italia contemporanea
di Franco Monteleone
1. Passaggio d’epoche

L’espressione, forse oggi desueta, riportata come sottotitolo intende richiamare un recente libro pubblicato da Marsilio Editori, nel quale ho raccolto una serie di saggi e interventi prodotti negli anni di professore a contratto all’Università Roma Tre, dove mi ero rifugiato dopo la mia volontaria ma prematura uscita dalla RAI. Negli anni di insegnamento ho spesso insistito nel far comprendere agli studenti che, se la storia della radio – e successivamente della televisione – da un lato appare strettamente connessa con quelle discipline che riguardano l’evolversi delle mentalità, del gusto, dello spettacolo, della musica, della letteratura di consumo, del giornalismo e delle innovazioni tecnologiche, da un altro lato è inevitabilmente connessa a quel flusso di sedimenti lasciati, giorno dopo giorno, nell’universo mentale e nei ricordi degli ascoltatori e degli spettatori. Nelle pagine che seguiranno sarebbe ovviamente impossibile rievocare esaustivamente programmi e personaggi che hanno caratterizzato quasi un secolo di vita del servizio pubblico (sui quali sono comunque disponibili sul mercato editoriale pregevoli storie della radio e della televisione). Il mio scopo, più limitato, è quello di mettere in risalto il lungo processo di coinvolgimento degli ascoltatori e degli spettatori italiani compiuto in quasi novant’anni – tanto dall’EIAR quanto dalla RAI – nel “racconto del paese”: un approccio non frequente in questo ordine di studi ma che ritengo di grande utilità, al fine di comprendere quanto indissolubile sia stato il rapporto tra i media istituzionali e la storia sociale, culturale e politica della nazione italiana. La complessità normativa, industriale, tecnologica, ma soprattutto culturale, delle questioni relative allo stato dei media elettronici, nel corso di molti anni ha prodotto contributi di studio importanti, a cominciare dalle opere di Antonio Papa e Alberto Monticone negli anni Settanta del secolo scorso. Il sistema dei media che ha caratterizzato l’Italia, dal dopoguerra a oggi, non ha mai smesso infatti di suscitare interrogativi, di tipo normativo, giuridico e politico, che sembrano addirittura non aver mai fine, come ha dimostrato, in questo inizio dell’anno 2015, il susseguirsi delle proposte istituzionali relative ad una ennesima riforma della RAI. L’incrocio fra storia dei media e storia del paese, che da noi non è mai stato del tutto sereno, sembra quindi complicarsi sempre di più, e l’attenzione a discipline che dovrebbero essere studiate con serenità rischia di esserne travolta.
In particolar modo per quanto riguarda la televisione, il difficile rapporto che è andato instaurandosi fra politica e società nel nostro paese ha prodotto una memorialistica spesso divergente, caratterizzata dalle contrapposizioni di tipo ideologico e politico fra governi e opposizioni, che ha avuto ricadute non di poco conto sulla storiografia. La storia di qualsiasi medium è sempre un azzardo. Come osserva Anna Bisogno, Università Roma Tre, nel suo libro La storia in TV, la televisione viene ormai considerata uno strumento di alienazione della memoria, e di conseguenza della storia, a causa dell’enfasi che essa porta sulle ragioni del presente, alterando la distanza dialettica tra presente, passato e futuro per cui l’evento sembra già storicizzarsi nell’istante stesso in cui viene trasmesso. Da tutto ciò deriva che, se rivivere il passato può essere un esercizio salutare, esso va nondimeno preso con cautela.
In questo secondo decennio degli anni duemila, in qualsiasi ambito della ricerca, e non solo in quello delle comunicazioni di massa, siamo giunti alle soglie di un mutamento irreversibile che costringe a rimettere in discussione molte delle nostre certezze. Questo mutamento non può non incidere, tanto sul dispositivo della storia della radio e della televisione, quanto su quello della storia del paese narrata attraverso la radio e la televisione. Una cosa è certa: le tracce lasciate dai mezzi di comunicazione di massa, e utilizzate come fonte per lo studio della storia, rappresentano uno di quegli argomenti che non smetteranno mai di essere al centro degli interessi degli storici, alcuni dei quali, come Nicola Tranfaglia, Valerio Castronovo, Giovanni De Luna, Peppino Ortoleva, Beppe Richeri, Gabriele Balbi, Aldo Grasso e molti altri, tra i quali chi scrive, da tempo vi hanno dedicato, per quanto riguarda il nostro paese, ricerche di grande impegno. Eppure, nell’ambito di queste discipline siamo ancora costretti a misurarci con un paradosso: se, da un lato, i media svaniscono nel presente, dall’altro se ne rincorrono continuamente le tracce al fine di ricostruirne aspetti del passato. Già in anni lontani, Giovanni Papini aveva osservato che i giornalisti erano gli «storici dell’effimero», cogliendo assai bene la contraddizione fra l’immediatezza della stampa quotidiana e la riflessione, la ricerca attenta, la certificazione delle fonti, che a lui apparivano pratiche indispensabili per l’analisi storiografica. Nelle fonti della stampa egli vedeva una insidiosa labilità, quella di essere troppo distante dalla ricognizione delle tracce concretamente necessarie per ricostruire un orizzonte storicamente definito, e troppo incerta e precaria per il contributo di verità che si chiedeva ad esse.
Labilità e precarietà che oggi sono accentuate soprattutto dal progressivo aumento della quantità di queste fonti. Se fra il XIX e il XX secolo i fogli a stampa venivano utilizzati per la conservazione del passato, l’aumento esponenziale delle tracce con le quali oggi uno storico si trova a dover fare i conti non può non farci riflettere sulla estrema delicatezza con cui vanno trattati questi materiali. In un lontano convegno dedicato a temi del genere avevo già percepito l’anomalia di un ottimismo eccessivo rispetto alle possibilità che i materiali della stampa, della radio, e della televisione, potessero essere utilizzati come fonte per la storia. I materiali dei mass media sono spesso segni di tipo emotivo, e storicizzare le emozioni, oltre ad essere molto difficile, può risultare una pratica ingannevole. Eppure il Novecento è il secolo per eccellenza delle tracce audiovisuali: non a caso ai giorni nostri storia dei media e storia della nazione, pur continuando ad apparire discipline distinte, sono fatalmente destinate a intersecarsi sempre più ed a richiedere persino statuti assai simili.
Nell’agosto del 1914, e durante i cinque anni successivi, cinegiornali, newsreels, actualitès, kriegs-journal, ecc. documentano una delle più grandi tragedie del mondo moderno, cui ne sarebbe seguita meno di trent’anni dopo un’altra ancora più devastante (nonché i successivi tragici eventi ai quali la nostra generazione si è purtroppo assuefatta da tempo). Ma dal punto di vista delle interpretazioni relative a materiali tanto diversi, e agli effetti immediatamente percepiti da grandi masse, occorre soprattutto capire – come suggerisce Giuseppe Ghigi nel libro Le ceneri del passato relativo al tema dell’immaginario popolare all’epoca della Grande Guerra – in che misura e per quali motivi le prime illusioni, suscitate da quell’immane conflitto, abbiano poi lasciato il campo a sentimenti di avversione e rifiuto. È una precisa indicazione di metodo, che mi sembra utile richiamare anche per quanto riguarda, più in generale, non solo la storia dei media, ma soprattutto la storia della loro influenza sul pubblico e dei programmi che nel corso del tempo hanno avuto il merito di raccontare il paese.
È certamente vero che senza memoria non esiste società, ma credo che l’uso di questa memoria debba essere oggi disciplinato con molta attenzione rispetto all’epoca in cui l’esiguità dei documenti imponeva statuti mentali e metodologici più limitati ma forse più attenti, più circoscrivibili ma forse più rigorosi. Le modalità del “racconto” di ciò che è accaduto stanno mutando radicalmente, poiché gli “strumenti” del comunicare, e i loro prodotti, vanno presi in considerazione non solo quando sono già consumati ma anche contemporaneamente al momento in cui avviene il loro consumo. È l’uso sociale di questi strumenti, e il loro diffondersi nel mercato, che ne determina – come osserva Patrice Flichy nella sua Storia della comunicazione moderna – la risposta da parte del pubblico. Rispetto al XIX secolo, quando tutto avveniva nella sfera pubblica, il XX – egli dice – segna la nascita di una comunicazione “familiare” coeva con la formazione di quella che viene ormai universalmente definita “sfera domestica”, che tende ad espandersi anche negli spazi pubblici attraverso molteplici media, tra i quali il cinema. Un mezzo che – vorrei ricordarlo – giunto al suo stadio maturo ha però bisogno di inventare un intervallo all’interno della sua azione drammatica, cioè il newsreel, la bobina di pellicola dedicata a fatti, curiosità, notizie, che hanno la funzione, come nei ricevimenti in casa, di stabilire delle pause nell’evento.
Una seconda osservazione riguarda infatti il rapporto che nel tempo si è venuto a creare tra l’evoluzione del newsreel, ormai chiamato cinegiornale, e l’intero sistema che si stabilizza nelle cinematografie occidentali dagli anni Trenta in poi. Basato soprattutto sulle immagini e su un testo assertivo colmo di iperboli e semplificazioni, il cinegiornale fa appello alle emozioni in modo ripetitivo e meccanico, come già avevano intuito, fin dal lontano 1913, George Cohan e George Nathan in un articolo di Mc Clure’s dedicato alle dinamiche reattive dello spettatore cinematografico. Il cinegiornale nasce e si sviluppa infatti solo come sottoprodotto dell’informazione, e la sua forza di penetrazione sta solo nella capacità di suscitare emozioni. Ma questo sottoprodotto – ed è la terza osservazione – diventa in molti casi un ingannevole veicolo di propaganda, costruito con un materiale cinematografico nel quale la realtà non si limita ad essere solo riprodotta tecnicamente, ma si configura in credenze, in rappresentazioni collettive, in comportamenti simbolici. Cioè in ideologie.
Una visione analitica di questo processo si può cogliere nei cinegiornali dell’Istituto LUCE, in particolar modo nella loro stessa quantità, più di tremila, che oggi costituiscono per lo storico una fonte eccellente, anche per lo stile, grammaticale e fonico, dei commenti espressi dalla voce di Guido Notari, la voce più nota del fascismo dopo quella di Mussolini. Una fonte che consente di studiare ancora più a fondo le tecniche di propaganda del regime e individuare con maggior precisione le connessioni tra propaganda e vita reale. Successivamente, nel dopoguerra, l’informazione prodotta dalla INCOM (Industria Nazionale Cortometraggi) adotta, nelle nuove rappresentazioni della contemporaneità del paese, un identico modello. Questo genere di comunicazione cinematografica, espresso nelle forme del reportage, del documento, della cronaca, negli anni Cinquanta continuò a suscitare il massimo interesse da parte del potere politico ed economico, non solo per l’indisponibilità di immagini in diretta ma anche, e forse soprattutto, perché questo modello di informazione, di tipo ancora cinematografico, fin dai primi decenni del secolo scorso era stato utilizzato per diffondere su basi di massa, e non solo in Italia, i valori delle ideologie dominanti.
Con il passare del tempo, la forza evocativa di quei cinegiornali non si è attutita, ma di quelle immagini oggi ne riconosciamo solo le deformazioni: la capacità di manipolare e inventare la realtà, di svuotarla, di falsarla, ritualizzarla, ovvero renderla compatibile – cioè intimamente accettata come “vera” – con l’immaginario dello spettatore. Un processo acutamente analizzato, sulla rivista «Filmcritica», da una attenta studiosa di cinema come Lucilla Albano, Università Roma Tre, laddove osserva che la pratica dell’informazione dei cinegiornali INCOM era fatta, oltre che di immagini e di commenti, anche di silenzi e di omissioni, di censure e di ritualizzazioni formali. D’altra parte è ben noto quanto i cinegiornali rispecchiassero un’Italia provinciale, apparentemente pacificata, che non prendeva posizione, che evitava gli scontri, e che si barricava – nel privato – dietro l’istituzione rassicurante della famiglia e – nel sociale – dietro quella, ancor più sicura, della Chiesa.
Con l’inizio del centrismo, dopo la vittoria elettorale della DC il 18 aprile 1948, le tensioni sociali e politiche si acutizzano: gli organi d’informazione si dividono in campi rigidamente contrapposti e lo scontro di classe viene mascherato da una propaganda che sembra riecheggiare il modello fascista. I quotidiani, i periodici, la grande stampa borghese, la radio, i cinegiornali diventano, col passare degli anni, il riflesso di una linea politica che si manifesta spesso brutalmente sia di fronte ad avvenimenti interni che internazionali. È in questo clima che, per iniziativa del senatore democristiano Teresio Guglielmone, viene creata l’Industria Nazionale Cortometraggi finanziata da Agnelli. L’avvio di un modello di sviluppo neocapitalistico stava già determinando le premesse dei cambiamenti sociali che si sarebbero verificati alla fine di un lungo e tormentato decennio, sconvolgendo tutte le previsioni di cui si erano nutriti i partiti della sinistra. In quel momento si accentua la domanda di informazione da parte di vasti strati sociali; una domanda che a mio parere era già stata allertata, pur in misura cautelativa, persino dai documentari americani del Piano Marshall. Già in quel delicato passaggio d’epoca, il raddoppio degli abbonamenti alla radio, l’aumento delle tirature della stampa periodica, la crescita degli spettatori nelle sale cinematografiche, stavano rivelando che il profilo culturale degli italiani era ormai espresso soprattutto dai mass media.
Da quel momento l’intero settore dell’informazione inizia ad essere attraversato da lotte e conflitti assai duri: se Arrigo Benedetti veniva estromesso da «L’Europeo», Indro Montanelli su «Epoca» invitava a non dare lavoro e denaro a elementi di sinistra. Sono gli anni della “caccia alle streghe”, dell’incipiente offensiva maccartista contro il cinema, degli sprezzanti attacchi del ministro dell’Interno, Mario Scelba, contro il culturame, degli scrittori messi all’indice dal Sant’Uffizio, e così via. Anche lo scenario internazionale favoriva l’asprezza della propaganda. La “guerra fredda” aveva imposto ai paesi che facevano parte degli schieramenti occidentali una condotta assai rigida in materia di informazione e, sul fronte delle opposizioni, la natura ancora eversiva del Partito comunista stava scatenando, all’interno, una forte attività clandestina (non di rado rappresentata da formazioni militari parallele);e, all’estero, una agguerrita propaganda da parte delle radiofonie in lingue estere aderenti al Cominform.
Analizzare il periodo fra il 1946 e il 1956 significa rivedere alla radice le caratteristiche della società italiana post-fascista, così carica di contraddizioni e di totalitarismi. È una società caratterizzata da formidabili stereotipi sociali, che la propaganda politica – da un lato – intende accreditare nell’opinione pubblica, ma che – dall’altro – cerca di far passare, insieme a una vasta gamma di generi e di stereotipi intermedi, persino nelle opere più mature del cinema neorealista e del documentario di tradizione populista. Il ruolo degli intellettuali, il loro impegno nelle battaglie culturali e sociali di quegli anni, l’aspetto organizzativo e produttivo dell’industria cinematografica non sono immuni da un clima politico, fortemente marcato da una visione parziale della realtà, orientato a diffondere un prevalente e sempre più stabilizzato consumo di immagini.
Accanto al cinema di spettacolo e finzione, si sviluppa in quegli anni un altro dispositivo cinematografico – già anticipato, come s’è detto, fin dagli anni Trenta nei cinegiornali dell’istituto LUCE – che funge da supporto, sia alla cronaca della vita attraverso la descrizione dei nuovi costumi sociali e degli avvenimenti sportivi, sia alla cronaca della storia centrata sui grandi avvenimenti nazionali e internazionali dell’epoca (Trieste, Indocina, Ungheria, ecc.). È un cinema che negli anni successivi apre la strada a processi di “serializzazione”, che diventeranno una consuetudine di tutto l’universo mediatico italiano. In questi dispositivi c’è già l’annuncio delle news televisive: la tecnologia della riproduzione per immagini comincia cioè a definire, con i suoi statuti linguistici e le sue regole industriali, nuove strategie di rappresentazione del reale; ovviamente con modalità distinte da quelle della finzione, e in base a un “principio di organizzazione” che, dal sommario del cinegiornale, si trasferirà all’impaginazione del telegiornale e, infine, al più complesso palinsesto televisivo.
Ma per quanto sia paradossale il constatarlo, i cinegiornali non divennero mai un mezzo di informazione veramente autonomo. Le strutture produttive erano fondate su risorse finanziarie che non provenivano dal mercato, bensì dallo Stato, come nel caso dei vecchi film LUCE; oppure da grandi istituzioni come la FIAT, la Confindustria e la DC, nel caso dei cinegiornali INCOM. L’assenza di un mercato, cioè di una remunerazione del capitale investito, la sostanziale imposizione per legge della loro proiezione nelle sale cinematografiche, erano elementi più che sufficienti a rivelare le funzioni esclusive di propaganda politica dei cinegiornali, così come di mera pubblicità commerciale. Molti servizi erano finanziati da ditte, aziende, istituzioni, club che non disponevano di altri mezzi per far conoscere le loro iniziative. L’apparente, pretesa neutralità di quei cinegiornali era tanto più falsa quanto più il loro obiettivo manifesto era quello di voler difendere gli interessi di una classe politico-industriale che già annusava dappertutto l’odore di bruciato delle tensioni sociali.
In opposizione alla scadente e limitata offerta propagandistica dei cinegiornali, nel dopoguerra a mio parere fu la radio – ben prima della televisione – a incaricarsi di assumere un forte ruolo informativo. I documentari radiofonici prodotti negli anni Cinquanta dalla redazione servizi giornalistici della RAI (come vedremo più avanti) ebbero il merito di far conoscere il paese così com’era, e di allargare gli orizzonti di una realtà che, già allora, non veniva più percepita solo come “domestica”. Per questo genere di giornalismo, che nel dopoguerra ha dato alla radio esempi numerosi e spesso magistrali di capacità professionali, credo si possa legittimamente parlare di “neorealismo radiofonico”: un pedinamento costante, realizzato utilizzando le voci, i suoni, i rumori di un mondo esterno che entrava senza retorica nelle case degli italiani e vi portava un’aria di vita, di cose viste, di vicende a volte tristi o crudeli, così come di gioia e di speranza. Se la trasformazione dei vincoli familiari, l’irruzione di nuovi valori, la lenta ma progressiva laicizzazione della società concorreranno poi in seguito, come è noto, a preparare il terreno al nuovo modello televisivo, appartiene alla radio il primato di averne anticipato i caratteri.
Solo in seguito, dopo il suo primo apparire nello spazio sociale degli italiani, concluso il breve periodo sperimentale, la televisione inizia ad offrire al pubblico appuntamenti programmati con regolarità ed anche più frequenti di quelli forniti dalla stampa quotidiana e dai cinegiornali. Era un nuovo genere di informazione che, al suo primo apparire, sembrava complementare rispetto al consumo di spettacolo. Ma in realtà stava cambiando il rapporto fra le persone e la rappresentazione del mondo. Come osservò Edgar Morin in quegli anni, la cultura di massa era chiamata ad alimentare attività e valori sempre più concreti proprio in virtù di una visione immanente e razionale. La stessa cultura della transizione al capitalismo dei consumi non poteva più accontentarsi della formula dello stereotipo, e non a caso furono la radio e in seguito la televisione – la più moderna fra le innovazioni tecnologiche del XX secolo – i media che riuscirono per la prima volta a coniugare valori morali, innovazione formale e modernità; lasciando al giornalismo rosa dei rotocalchi popolari e dei cinegiornali la parte più effimera e residuale.
Da quel momento, anche se con tentativi ancora incerti, la televisione impone la propria originalità rispetto agli altri media operanti nell’industria culturale italiana. Essa va ben oltre la contemporaneità fra suono e ascolto, tipica della radio, per allargarsi a quella, del tutto nuova e più seducente, fra immagine e ascolto. Per la forza stessa della sua attrattiva, essa appare subito uno strumento autorevole di intervento sociale e un’occasione imperdibile per modernizzare la cultura di massa in Italia. Il 23 agosto del 1952 alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il pubblico che affollava l’atrio d’ingresso del Palazzo del Cinema guardava curioso e forse anche con sospetto le apparecchiature di ripresa televisiva. Un ponte radio di soli quattro chilometri aveva consentito agli spettatori del cinema-teatro Rossini di vedere, proiettato sullo schermo, l’afflusso di pubblico nel grande edificio del Festival, al Lido, e di ascoltare le brevi interviste alle personalità più note. Era la prima volta, in Europa, che si otteneva una ricezione televisiva per un pubblico già numeroso.
Due anni dopo, terminato il periodo sperimentale, il nuovo mezzo avrebbe rotto tradizioni consolidate ricomponendo settori produttivi fino ad allora separati. Alle soglie del miracolo economico, gli italiani chiedono alla tv non solo di essere informati sui fatti del mondo (un obiettivo che bene o male continuava a caratterizzare l’ultimo stadio del consumo settimanale di cinegiornali); chiedono di partecipare alla cerimonia del video, cioè a qualcosa di straordinario che avviene davanti ai loro occhi: «una miscela di distanza e di intimità» – come la definì Pierre Nora – che rappresentava per le masse la forma più moderna, ma anche la sola di cui potevano disporre, per vivere la storia contemporanea. I cinegiornali erano andati alla scoperta di un paese per molti versi ancora indecifrabile descrivendo, per frammenti di realtà, il diario di un io collettivo o favorendo le emozioni (caduche) di storie private, ma non avevano aggiunto nulla alle carenze di una sensibilità culturale che tardava a elaborare una memoria storica comune e a produrre una vera e profonda identificazione con il paese. Questo vuoto, anche se in un primo tempo era stata la radio a fronteggiarlo (come vedremo più avanti descrivendo nei particolari le issues del documentario radiofonico), fu in seguito riempito dalla televisione. E lo fece con una qualità di immagini informative che, pur inferiori di numero rispetto a quelle dei cinegiornali, erano ben più ricche di significato poiché cercavano quantomeno di allargare gli orizzonti dei telespettatori verso i problemi della contemporaneità. Per quanto uniformi e ripetitivi, i notiziari del telegiornale – che rispecchiavano, perfino nel volto del presentatore Riccardo Paladini, l’angustia del paese e della sua classe di governo – consacrarono definitivamente il successo del nuovo mezzo. Per molti italiani, che continuavano a non leggere il giornale, quei pochi minuti trasmessi in diretta ogni sera erano squarci di realtà, «folgoranti spezzoni di vita», come li ha definiti nella sua Storia dell’Italia contemporanea Silvio Lanaro. Era infatti l’intero paese che, per la terza volta, dopo la Grande Guerra e l’esperienza fascista, stava imparando a confrontarsi con scenari troppo a lungo ignorati.
Già al suo primo apparire, la televisione raccoglie dati, documenti, prove della realtà che descrive, esponendo un pubblico, fino ad allora assuefatto solo a schemi interpretativi del tutto apodittici se non addirittura dozzinali, ad una realtà più vicina all’esperienza vissuta. La televisione tende a forme di oggettività espressiva anche nei commenti parlati, del resto perfettamente rispondenti alla sua prima vocazione pedagogica, e i testi, i dati informativi e interpretativi, fin dall’inizio sono affidati a voci di speaker più umane e accattivanti. Essa dava il colpo di grazia, sia al ricordo dell’enfasi fascista dei cinegiornali LUCE, sia alla banalità dei cinegiornali INCOM. A quel dispositivo retorico, che aveva finito per consumare tutto il suo artificio narrativo, non era rimasto che un ruolo di pura seduzione, come nei melodrammi.
Non è difficile riconoscere oggi quale di questi due modelli abbia vinto e si sia imposto, non solo nelle consuetudini dei consumi di informazione, ma anche nei gusti degli spettatori. Solo poco tempo dopo la nascita della televisione, le trasmissioni del TG si moltiplicano rapidamente: 622 edizioni nel 1955, 228 ore complessive nel 1956, 745 edizioni nel 1957, 878 ore prodotte dai servizi giornalistici nel 1958. Il declino del cinegiornale sta tutto in queste cifre: esse dimostrano che esso era già morto da un pezzo e che fu assai facile per la tv raccoglierne il testimone. Nonostante gli obiettivi propagandistici, il rilancio imprenditoriale e l’accuratezza della proposta espressiva del prodotto “cinematografico”, il tempo della sua funzione era ormai scaduto, limitato all’episodicità dell’essere nient’altro che un “intervallo” all’interno della vicenda narrata dal film. Rimasto sempre in condizioni di minoranza, il suo stesso dispositivo aveva dimostrato che in realtà si trattava di un genere mai veramente nato.
Il cosiddetto “giornalismo popolare”, al quale il cinegiornale aveva cercato di ispirarsi, con il passare del tempo prenderà strade assai diverse. Ma anche il giornalismo televisivo finirà per abbandonare le tecniche di ripresa cinematografica – che ancora erano in voga negli anni sessanta in rubriche come RT di Enzo Biagi e TV7 di Giorgio Vecchietti e Brando Giordani – considerandole riduttive rispetto alla complessità dei fenomeni politico-sociali. La registrazione videomagnetica è l’ulteriore conquista tecnologica, diretta soddisfare le attese dei primi spettatori che in quegli anni hanno fame di notizie. Se al cinema toccava la favola, il racconto e le storie, alla tv restava la realtà, evocata attraverso parole e immagini che riuscissero ad avvicinare il pubblico all’oggetto che si voleva far conoscere, all’evento che si voleva rappresentare, alla tesi che si intendeva dimostrare. Solo dopo molti anni il connubio cinema-televisione avrebbe poi stabilito nuovi statuti e nuovi dispositivi, fino a diventare un comparto essenziale nell’industria dello spettacolo. Ma sarà in ogni caso la televisione – per le sue modalità di istantaneo confronto con le masse entro luoghi più privati e accoglienti rispetto a quelli della sala buia del cinema di quartiere – che finirà per fagocitare il principio stesso dell’immagine su pellicola, estinguendo del tutto quel filone di “cinema senza il cinema” storicamente rappresentato dal cinegiornale. Esso resterà un coadiuvante utile alla ricostruzione storica, ambientale e di costume di alcuni momenti del Novecento, laddove la televisione si imporrà nel tempo presente, entrerà nelle abitazioni, nei bar, negli uffici, riuscendo a rappresentare, agli occhi dei suoi spettatori, non solo una forma privilegiata di informazione, ma uno strumento efficace di narrazione, uno specchio della realtà di un intero paese e dei suoi abitanti, che nessun mezzo era stato in grado di raccontare con la stessa verisimiglianza prima di allora.
Era stata tuttavia la radio, tra anteguerra e dopoguerra, il mezzo che per primo aveva raccontato l’Italia. Come ho cercato di dimostrare in una mia recente raccolta di saggi, La chiamavamo radiotelevisione, pubblicata da Marsilio, in anni in cui da noi il sociologismo di massa aveva intravisto soprattutto nella televisione il terreno delle sue scorribande, in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Svizzera l’attenzione per la storia della radiofonia era già altissima e vantava contributi storiografici di grande valore. È una osservazione non di poco conto, dal momento che ho sempre ritenuto che l’eccessiva attenzione manifestata in Italia per la comunicazione televisiva sia stata in realtà una forma di provincialismo, ma anche – e forse più seriamente – un tentativo di spostare su ogni tavolo possibile il confronto tra l’estrema sinistra e la Democrazia Cristiana, ivi compresi i partiti laici suoi alleati. Insomma una maniera per evitare di mettere le mani su temi scottanti, come quelli dell’Italia fascista, che solo dagli anni Settanta si è iniziato a studiare con ben altro spirito di ricerca. Furono giovani studiosi inglesi, americani, tedeschi, ad approfondire – contemporaneamente all’uscita del mio libro su La Radio Italiana nel periodo fascista nel lontano 1976 – l’origine e lo sviluppo delle radiofonie europee così come si erano manifestate in particolar modo negli stati totalitari fra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso. Nel caso italiano l’enfasi sociologica si rivelerà del tutto penalizzante, al punto da rendere imprescindibili – oltre agli studi di Papa e Monticone, dei quali s’è detto – tutte le successive ricerche storiografiche di Anna Lucia Natale, Peppino Ortoleva, Enrico Menduni, Giovanni De Luna, Aldo Grasso e di tanti altri autorevoli studiosi che, in anni più vicini a noi, daranno risultati sorprendenti nelle università di Napoli, Roma, Siena, Firenze, Torino, Milano.
Nelle pagine che seguono cercheremo quindi di capire in che modo e con quali obiettivi la radio e la televisione abbiano raccontato l’Italia, quale idea questi mezzi si siano fatti del paese e quali benefici, in termini di progresso culturale e sociale, ne abbiano ricevuto gli abitanti. È un tentativo rischioso, e soprattutto ancora acerbo se messo a confronto con la mole di studi che riguarda la storia industriale, politica e sociale dei due mezzi. Nella ricca bibliografia degli ultimi trent’anni le ricerche sulla televisione si basano soprattutto sulla descrizione dell’apparato e del suo impatto sulla società. Sono le Facoltà di Sociologia della Comunicazione che si incaricano di studiare gli effetti prodotti sugli ascoltatori e sui telespettatori, arrivando anche a fondare nuovi statuti gnoseologici relativi alle ricadute dell’uso di questi mezzi sui consumi culturali. Nulla da eccepire, ma ciò che in questi lunghi anni si è prodotto da parte della ricerca sociologica non penso sia sufficiente rispetto al conseguimento di un obiettivo sul quale solo da poco tempo gli storici si sono soffermati: capire come sia stata raccontata l’Italia e quale sia stato il grado di “conoscenza di se stessa” che la radio e la televisione hanno prodotto nel pubblico dei radioascoltatori e dei telespettatori. Qualche tempo fa Aldo Grasso, Università cattolica di Milano, in un articolo del «Corriere della Sera» azzardò l’ipotesi che nel nostro tempo fosse soprattutto il genere della fiction a essere protagonista nel “racconto della nazione”. Si può discutere, e lo faremo più avanti, se il genere melodrammatico della fiction sia davvero il più appropriato nella descrizione di un paese che, dalla prima guerra mondiale ad oggi, ha attraversato vicende che lo hanno trasformato radicalmente. In ogni caso va tenuto conto che si tratta di un genere recente, che può quindi valere solo per anni vicini a noi. Sono del parere che sia stata tuttavia la radio a contenere, nella sua programmazione, tutte le caratteristiche innovative che si manifesteranno nei modi più diversi nel corso del Novecento e dei quali ancora oggi possiamo vederne gli effetti nell’ampiezza raggiunta dalla loro espansione.



2. Il racconto della nazione: la radio

È difficile rintracciare fin dal suo esordio, e per tutta la prima metà del secolo XX, una documentazione sonora attendibile del prodotto trasmesso alla radio. Dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta tutti i programmi, esclusi quelli musicali trasmessi da dischi, erano messi in onda in diretta, e di quelle trasmissioni non esiste più alcuna traccia. Tra tutti i media del primo Novecento, è la radiofonia che in ogni caso determina il primo, grande cambiamento nel flusso, fino ad allora conosciuto, dei mezzi di comunicazione. Attraverso la dimensione collettiva dell’ascolto, la radio contribuisce ad assicurare alla gran parte della società italiana che ne era stata fino ad allora esclusa un nuovo diritto di cittadinanza. La carica simbolica della radio, il suo “calore”, per citare McLuhan, sono parte integrante di una svolta di tipo tecnologico, antropologico e culturale che si manifesta per la prima volta contemporaneamente in tutto il mondo. Poter ascoltare da casa la voce del potere, quella di Mussolini, di Hitler, di Stalin, così come quella di Roosevelt e di Churchill, fu una conquista che rompeva l’isolamento dell’individuo trasformandolo da suddito in persona. Un altro grande cambiamento – non direttamente indotto dalla radio ma che finirà per utilizzarne la capacità di diffusione – si manifesterà durante un ulteriore e delicato passaggio, negli anni del secondo dopoguerra, quando la categoria statuale del potere inizia a misurarsi con quella sociale del popolo
Il mezzo radiofonico, già dalla fine degli anni Venti, funziona come agente moltiplicatore di grandi novità, all’interno di uno spazio sonoro protetto nel quale tutte le voci, dalla stampa alla scuola, dai pulpiti alle piazze, sono programmati per agire simultaneamente ed accrescere quell’effetto di fascinazione, che solo in parte era tipico della radio, ma che in realtà costituiva il rumore di fondo dell’intero paese, cioè l’Italia degli appartamenti, delle case, dei cortili, delle piazze. In una recente ricostruzione del mondo della radio in quegli anni Giorgio Simonelli, Università Cattolica di Milano, nel suo libro Cari amici vicini e lontani osserva che «la casa, dalla quale nei secoli precedenti era indispensabile allontanarsi per entrare nella dimensione del tempo libero e del divertimento, diventa il punto di riferimento della produzione dell’industria culturale, e il luogo a cui sono destinate le nuove tecnologie di diffusione dell’intrattenimento». In uno Stato dittatoriale, quale era l’Italia dopo l’affermazione del regime fascista, la radio fu la principale novità in grado di generare la sensazione di un «presente drammatico», come lo definì Rudolph Arnheim, vissuto dai primi ascoltatori attraverso la piena partecipazione ad un evento che, senza doversi allontanare dall’intimità dello spazio domestico, veniva comunicato loro nell’attimo stesso in cui accade. Era questo l’obiettivo dei primi notiziari del giornale radio dopo il 1929. E fu questa, dieci anni dopo, la scommessa vinta da Roberto Forges Davanzati con le sue Cronache del Regime, nate da un suggerimento di Galeazzo Ciano.
Un caso a parte fu il divieto di usare i dialetti, in obbedienza al progetto anti-regionalistico di unificazione ideologico-politica della nazione, che solo con l’inizio del conflitto mondiale avranno una prima e limitata diffusione. Come scrive Sergio Raffaelli nel suo ampio contributo al volume dell’Accademia della Crusca, Gli Italiani Trasmessi, a cura di Giovanni Sabatini, «l’EIAR cercò di disciplinare il parlato italiano delle sue trasmissioni, agendo su due piani: quello dell’elaborazione d’una sintassi e di un vocabolario che fossero confacenti alle peculiarità della radio; e quello dell’adozione di una pronuncia microfonica unitaria». E aggiunge una chiosa importante osservando «che la ricerca d’uno stile che avvincesse il pubblico composito della radio, puntando soprattutto sulla linearità sintattica e sull’elementarità lessicale, fu sempre coltivata più di quanto la storiografia non abbia finora rilevato». Allo stesso modo, anche l’attenzione ai “gusti del pubblico”, in merito ai quali l’EIAR aveva progettato il suo grande Referendum del 1939 – al centro di un fondamentale studio di Anna Lucia Natale, Università La Sapienza di Roma –, non fu solo una pratica aziendalistica, ma un autentico progetto di educazione all’ascolto radiofonico, strettamente legato alla prevedibile crescita del mezzo.
Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale la radio italiana crea dunque un flusso sonoro che, nonostante l’occhiuto controllo del regime, stabilisce un rapporto del tutto inedito con il pubblico: ciò avviene per mezzo di rubriche, documentari, canzoni, spettacoli teatrali, riviste, nonché riprese in diretta dai Teatri lirici di musica sinfonica e operistica che fanno conoscere l’eccellenza di grandi interpreti e grandi direttori d’orchestra – a cominciare da Arturo Toscanini – apprezzati in tutto il mondo. Non v’è dubbio che Ideologia, propaganda, indottrinamento, mito del Duce, imperialismo, sono i fondamenti con i quali l’EIAR vuol raccontare il paese, ma lo fa con grande cura, riconoscibile se non altro nell’impegno grandioso con il quale l’Italia fu dotata in pochi anni di una eccellente rete trasmittente. In quel periodo i programmi sono destinati a “creare pubblico” e incrementare il portafoglio abbonati, come accadde nel 1936 con la memorabile trasmissione di Angelo Nizza e Riccardo Morbelli che dette vita, dai microfoni di radio Torino, ad uno degli eventi più suggestivi di tutta la storia radiofonica italiana per la semplice ragione che quel programma, I quattro moschettieri – sponsorizzato dalla Buitoni e dalla Perugina, che avevano ideato un concorso a premi basato sulla diffusione nelle edicole delle famose “figurine” disegnate da Angelo Bioletto – divenne il primo fenomeno mediatico dell’Italia contemporanea, ove un pubblico ormai di massa, tanto di adulti che di adolescenti, si identifica, per la prima volta in maniera totalizzante, con l’ascolto della radio. Questo obiettivo di voler rappresentare gli italiani a se stessi sanciva, a mio avviso, il loro ingresso nella modernità. L’Ente radiofonico aveva bisogno di creare dei circoli virtuosi in grado di scatenare la partecipazione di grandi folle agli eventi messi in onda alla radio. Nascono così i cosiddetti “suono montaggi”, tra i quali il più grandioso – intitolato 18 BL dalla sigla dell’autocarro militare simbolo della Grande Guerra – venne rappresentato su un palcoscenico di 250 metri costruito sulle rive dell’Arno con un concorso incredibile di mezzi, di attori, di figuranti. Fu un evento al quale in seguito se ne aggiungeranno molti altri, allo scopo di creare pubblico e generare consenso. Una radio di opinioni comincia inoltre a lasciare spazio a una radio di notizie, come nei Commenti ai fatti del giorno che utilizzano, anche se cautamente, il modello anglosassone del giornalismo di cronaca.
A quasi quindici anni dal suo esordio, il mezzo radiofonico è divenuto adulto. Lo slogan “una radio in ogni casa” allude allo status symbol della famiglia, ma è anche un richiamo industriale a quei singolari pezzi di arredamento che le società radioelettriche (Radiomarelli, Phonola, CGE, Allocchio Bacchini, per citare solo alcuni dei modelli più noti) progettano, in forme sempre più eleganti e con l’impiego di legni pregiati, al fine di impreziosire gli interni domestici dei nuovi ceti borghesi, lasciando al più economico ma scadente apparecchio popolare la funzione di soddisfare i ceti più marginali. In pochi anni inizia a farsi sempre più sentire, dalla mattina alla sera, una voliera di suoni e di voci che pervadono gli interni delle abitazioni e che, nelle estati roventi, si possono persino udire nelle strade dei quartieri, dove arrivano attraverso le finestre spalancate insieme ai rituali appuntamenti del Giornale Radio. Nel film Una giornata particolare, c’è una descrizione straordinariamente realistica e suggestiva di un appartamento della Roma popolare, soffocata dalla calura estiva in una giornata qualsiasi dell’Italia fascista degli anni Trenta, fra le cui mura Sophia Loren e Marcello Mastroianni si amano con il sottofondo di una radio cronaca che sta celebrando uno dei tanti eventi di regime.
In realtà questa scena del film non riesce, come vorrebbe, a tenere in sottofondo, con ironia, l’immagine totalitaria che la radio manifesta nella cronaca degli eventi di regime. In Italia vi era già una nuova consapevolezza di appartenere a una nazione, con tutto ciò che ne derivava in termini, non solo di sviluppo della sua cultura di massa, ma soprattutto del suo ineludibile percorso verso la modernità. Sta nascendo un “pubblico di massa” verso il quale viene incoraggiato quel legame di fidelizzazione che avrebbe dovuto conciliare l’eterogeneità degli ascoltatori con la multiformità dei prodotti editoriali. Un pubblico che non a caso sarà conquistato soprattutto dallo sport, in particolar modo dalle radiocronache dei grandi incontri calcistici, dal Giro d’Italia. E, naturalmente, dalla canzone e dalla musica leggera. Così come – per un pubblico di nicchia – persino dalla musica colta, sinfonica e operistica, che trova un forte riscontro di ascolti grazie alla realizzazione di grandi strutture di trasmissione, tra le quali il bellissimo auditorium del Foro Italico a Roma. Il ruolo svolto dalle più importanti istituzioni musicali italiane, d’intesa con l’EIAR, fu essenziale per assicurare trasmissioni di altissimo livello e, conseguentemente, realizzare gli attesi incrementi del portafoglio abbonati. Un argomento sul quale si sofferma, attraverso interventi di vari musicologi, il recente libro La Musica alla Radio: storia, effetti, contesti in prospettiva europea: 1930-1950, a cura di Angela Ida De Benedictis e di chi scrive, pubblicato dalla Bulzoni Editore nell’aprile 2015.
Un altro obiettivo fu quello di diffondere il teatro nazionale e internazionale, così come l’operetta, attraverso la creazione di compagnie di prosa a Milano, a Torino, a Roma. Una programmazione leggera ed evasiva, che viene affidata a umoristi, show men, scrittori di fogli satirici, e cabarettisti, per incoraggiare l’ascolto e, di conseguenza, consentire gli obiettivi previsti nelle campagne di abbonamento. Quel genere leggero, ricco di battute comiche, unito alla piacevolezza che si prova ancora ai nostri giorni ascoltando le rare registrazioni di spettacoli simili, in anni recenti è stato rivalutato grazie alla riscoperta di personaggi del varietà, della rivista, dell’intrattenimento leggero – tra i quali va ricordato Marcello Marchesi, vero e proprio genio dell’umorismo piccoloborghese – che nel dopoguerra diventeranno le grandi star della radio, della televisione, del cinema.
Siamo alla fine degli anni Trenta. L’inizio della seconda guerra mondiale spariglia le carte. L’evento mobilita le trasmissioni radiofoniche come mai era avvenuto prima e come mai avverrà dopo. È una rappresentazione accorata, anche se di parte, sia delle operazioni belliche sia delle condizioni e delle aspettative del paese. Solo Mario Appelius ebbe il coraggio di raccontare agli italiani una versione degli avvenimenti meno edulcorata e più vera. E fu licenziato. Dopo i primi due anni, i rovesci militari si percepiscono ormai persino nell’aria e gli ascoltatori clandestini di Radio Londra, che si emozionano a udire la voce del Colonnello Stevens, e quelli della NBC che riconoscono da New York la voce di Fiorello La Guardia, anticipano le reazioni dell’intera opinione pubblica italiana, durante l’ultima e più dolorosa fase della guerra, spingendola alla definitiva condanna del regime. Dopo la costituzione del Regno del Sud, l’emittente di Radio Bari in mano agli alleati, già da tempo sbarcati in Sicilia, non solo si incarica di informare sulla verità delle operazioni belliche ma, soprattutto, di mobilitare militarmente gli italiani alla lotta antifascista. La trasmissione Italia combatte – prima e dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia – fu importante non solo per le informazioni che riceveva dagli angloamericani e ritrasmetteva ai partigiani, ma per il racconto che era in grado di fornire sullo stato reale del paese – anche attraverso il passaparola – a quella parte sempre più ampia degli italiani che avevano scoperto l’inganno del fascismo. Nella sua Storia politica della radio in Italia, già in anni lontani Antonio Papa aveva osservato che l’ascolto clandestino di massa delle emittenti nemiche fu uno degli aspetti sintomatici e clamorosi della crisi dello spirito pubblico. Questo genere di informazione, per quanto vietato, passa di casa in casa e da quartiere a quartiere. È un ascolto certamente minoritario ma che sfida i divieti del regime, e lentamente rende sempre più chiaro, sia ciò che sta realmente accadendo nel mondo, sia ciò che si sta preparando nello scenario italiano. Nel dopoguerra Marshall Mc Luhan razionalizzò ciò che era avvenuto fra il 1940 e il 1945 osservando che ogni guerra tende ad essere combattuta con tecnologie sempre più moderne, non escluse le tecnologie della comunicazione. Ma se le guerre sono formidabili acceleratori di tecnologia, sono anche responsabili delle trasformazioni di mentalità, costumi, consuetudini di vita. La seconda guerra mondiale in Italia contribuì in maniera decisiva alla diffusione della stampa di evasione, della radio, del cinema di quartiere, del teatro popolare, e della canzone, cioè di tutti quei media che in seguito avrebbero avuto una influenza profonda nel determinare l’immaginario nazionale del secondo Novecento.
Con la caduta del fascismo, programmi come Sulla via del ritorno e Ricerche di connazionali sono essenziali per ridefinire quel sentimento di pacificazione nazionale al quale il paese, in tutte le sue componenti politiche (nonostante frange estreme di violenza che sarebbero arrivate fino ai giorni nostri), si stava dedicando con forte senso civico. Con il ritorno alla democrazia, allo scopo di informare sempre meglio gli ascoltatori sui più importanti eventi nazionali e internazionali, la nuova RAI inaugurala rubrica giornalistica Voci dal mondo, diretta da Luca Di Schiena e arricchita ancora una volta dalla voce di Guido Notari, assai meno stentorea di quella d’anteguerra e riconvertita al nuovo clima politico. Una trasmissione che apre alla conoscenza, non solo dell’Italia, ma dell’intero pianeta, e dove la cronaca si gioca ora su una notevole quantità di formati e novità editoriali. Il paese stava cambiando pelle e occorreva che tutti gli italiani ne fossero informati. L’alluvione del Polesine del 1951, con la mobilitazione delle squadre della RAI in tutto il territorio allagato, all’inizio di un nuovo decennio di pace dimostrò infine quanto la radio italiana, in un momento di estrema sofferenza, fosse in grado di rappresentare degnamente una nazione libera.
L’Italia deve ora fare i conti con una ricomposizione del suo assetto sociale, ormai giunto a maturazione con il passaggio a ciò che Palmiro Togliatti definì il regime conservatore di massa. È una improvvisa e rapida identificazione delle classi subalterne con le classi popolari, delle quali il moderatismo cattolico fu l’incubatore principale ma che, nella radio dell’Italia democristiana, ebbe un ruolo decisivo per tutti gli schieramenti. Nel nome del “popolo” si apre la lunga serie di rivendicazioni parlamentari – avanzate dalle formazioni politiche e intellettuali della sinistra – per una informazione genuinamente pluralistica. Gli anni Cinquanta furono anni d’oro per tutti i populismi: quello reazionario, quello libertario, quello confessionale. L’impiego differenziato delle nuove tecniche di comunicazione ebbe l’obiettivo di saldare l’immagine privata con l’immagine pubblica in un paese che il fascismo aveva presentato agli italiani solo nei suoi lati positivi ed esaltanti ma il cui destino, in una nuova prospettiva storica, quegli stessi italiani si stavano preparando a riprendere nelle proprie mani.
Ciò che accade alla radio – con la svolta degli anni cinquanta – fu infatti una inedita presa di coscienza del nuovo ruolo comunicativo che stava assumendo il mezzo radiofonico nello spazio privato della familiarità e dell’intimità. Certamente era un effetto del ritorno alla democrazia, ma esprimeva un cambiamento che partiva da lontano, probabilmente dalla seconda metà dell’Ottocento – come ricorda Patrice Flichy –, allorché la diffusione di una oralità specificamente declinata sui registri della familiarità inizia a manifestarsi in modo pervasivo nelle abitudini delle persone: diari intimi, lettere ai giornali, confidenze legali, conversazioni da salotto, discussioni da club, conferenze di circondario, allocuzioni pubbliche, ecc. Sono documenti immateriali, prodotti dallo spirito pubblico borghese dell’età contemporanea, che il fascismo aveva vietato ma che anni dopo finiranno per confluire, in un primo tempo nella crescita della radiodiffusione e, in un secondo tempo, nell’uso di massa del telefono.
È necessario capire, a questo punto, in quale misura – in un arco storico che dalla sconfitta del regime fascista approda alla trasformazione democratica dell’Italia – la radio abbia contribuito a riconoscere e, in qualche caso, determinare cambiamenti di valori, comportamenti, culture. Già nel 1944, con la liberazione di Roma, molti intellettuali riprendono il loro compito nell’impegno di riportare il paese alla normalità: Ignazio Silone, Massimo Bontempelli, Alberto Moravia, Alberto Savinio, Guido Piovene, Sibilla Aleramo, Cesare Zavattini, Natalia Ginzburg, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Elio Vittorini, sono i nomi che daranno vita alla rubrica Scrittori al Microfono. Li ritroviamo, di li a poco, anche in altre trasmissioni della radio, che ora assolve a una funzione straordinaria di “traduttrice” di cultura e che infatti darà vita, anni dopo, alla nascita di un Terzo Programma dedicato alla musica e alla cultura letteraria. Se il Viaggio in Italia di Guido Piovene venne considerato una narrazione straordinaria dell’Italia appena uscita dalla guerra, in realtà tutta la programmazione in quegli anni sta cambiando volto. Persino in uno dei primi giochi a quiz radiofonici, quel Botta e Risposta di Silvio Gigli, si ritorna a suggerire agli italiani di conservare il loro buonumore. L’indubbia popolarità di questa trasmissione a mio avviso anticipa persino la stagione nazionalpopolare del quiz televisivo, che in seguito, e per molti anni, sarà un formidabile strumento di coesione nazionale. Nel nuovo magazine dei servizi giornalistici della RAI, Radio sera, il paese trova infine per la prima volta una voce autorevole in grado di raccogliere suggestioni, informazioni, e personaggi della cronaca che la radio porta in ogni casa.
Una incredibile quantità di programmi, documentari, rassegne, “raccontano” ormai l’Italia con ben altre voci. Già dopo la liberazione di Roma, nel 1944, Amerigo Gomez aveva trasmesso da Firenze una straordinaria radiocronaca dell’ultima battaglia sferrata dai partigiani per cacciare i tedeschi dalla città: un insieme vocale talmente definito e talmente nitido che resta ancora oggi uno dei documenti più straordinari della lotta partigiana. Come tante altre in quegli anni, si tratta di trasmissioni che raccolgono le espressioni, i rumori, i suoni di un mondo che per la prima volta entra, senza retorica, in tutte le case e vi porta un’aria di vita, di cose viste e udite, di fatti tristi o crudeli, come di vicende di gioia e di speranza. Documenti di quel singolare “neorealismo radiofonico”, cui ho già fatto cenno, raccolti recentemente in un DVD, Cento voci dall’Italia, prodotto dalla RAI e curato da Paolo Morawski e Raffaele Vincenti in occasione del 150° anniversario dell’Unità. Una straordinaria documentazione relativa a testimonianze giornalistiche, andate in onda dalla Liberazione fino ai giorni nostri, tra le quali spiccano, per la loro immediatezza, da un lato la voce di una giovane monaca in Clausura di Sergio Zavoli, dall’altro le radiocronache dell’alluvione del Polesine, del Vajont, del terremoto dell’Irpinia, e di tanti altri momenti, tragici o gioiosi, della recente vita nazionale.Nel lungo dopoguerra, nonostante la propaganda dell’estrema sinistra, la radio divenne, a mio parere, il rassicurante suggello di una ritrovata identità: sicura fu la scelta degli interlocutori sociali, sicura l’identificazione della famiglia come cellula elementare dell’ordine e della convivenza, sicura l’ispirazione cattolica dei suoi riferimenti ideologici. Le prime esilaranti trasmissioni di Alberto Sordi descrivono non a caso un paese nel quale la comicità rappresenta una valvola necessaria di sopravvivenza. Il passaggio da paese prevalentemente agricolo a potenza industriale stava certamente alterando gran parte delle premesse, culturali e sociali, che avevano legittimato quel nuovo modello di comunicazione, ma nei decenni successivi la radio pubblica assolse in modo egregio al compito di raccontare il paese. Il Festival di Sanremo – che nella sua edizione di esordio lancia il primo grande fenomeno mediatico della canzone italiana, ovvero Nilla Pizzi che vince con Grazie dei fior – ne rappresenta a suo modo una testimonianza.
Con l’inaugurazione nel 1960 del Terzo Programma radiofonico la RAI dà vita a un grande progetto di educazione civile e culturale strettamente legato alla concezione dell’azienda come servizio pubblico. Il Terzo, come veniva familiarmente chiamato, fu uno straordinario contenitore culturale che caratterizzava in sommo grado il significato di un servizio pubblico, sia dal punto di vista storico-letterario che, soprattutto, dal punto di vista musicale. Al Terzo collaborarono i più importanti intellettuali italiani del tempo e la sua funzione nella diffusione della musica sinfonica e operistica fu ben presto riconosciuta in tutte le sedi internazionali e, in particolar modo, nelle sessioni annuali del Prix Italia. A soli quindi anni dalla fine della guerra, la radio italiana era uno straordinario produttore, sia di alta cultura che di intrattenimento leggero. Molti nomi nuovi diventano subito popolari: Mike Bongiorno con Il Salvadanaio, Pippo Baudo con Il mondo del varietà, Maurizio Costanzo con Cabaret delle 22, Gianni Boncompagni con Bandiera gialla, ben prima che si cimentasse in Alto Gradimento, altro stupefacente contenitore radiofonico di intrattenimento intelligente e raffinato umorismo. Erano i risultati della grande riforma della radio voluta da Leone Piccioni nel 1966, un autentico rinnovamento di palinsesti e programmi, che apriva al pubblico giovanile, e che in seguito vedrà nascere un gran numero di trasmissioni basate sulla conversazione con i cittadini: tra le quali Chiamate Roma 3131 di Corrado Guerzoni. Non vanno inoltre dimenticate le molteplici edizioni ed i servizi del Giornale Radio che, di lì a poco, passeranno da 22 a 36 sulle tre reti. Ma la grande rivoluzione riguarda il mutamento del primato di ascolto che si sposta dalla sera al primo mattino e inaugura l’uso di massa del telefono. Come osservò a quel tempo Gianfranco Bettetini – «con la possibilità di domande e risposte in tempo reale la radio metteva in scena una performance continua della conversazione».
Alla radio viene di nuovo affidata una consistente offerta del genere drammatico, il più colpito dal predominio della tv, che presenta le prime performances di Carmelo Bene e Carlo Quartucci, i radiodrammi di Giorgio Bandini e le straordinarie regie di Giorgio Pressburger. Anche il genere della musica leggera, della canzone e del jazz, vive una strepitosa rinascita nelle trasmissioni di Adriano Mazzoletti diretta a rimodellare, sulle frequenze del Secondo Programma, tutto l’intero comparto che, in quel momento storico, ebbe una influenza decisiva nel determinare i gusti e consumi musicali di un paese in rapida trasformazione. In quegli stessi anni, comincia a farsi valere, nella produzione drammaturgica, una giovane donna, Lidia Motta, entrata alla RAI nel primo concorso del 1955. In un suo prezioso libro, La mia Radio, Bulzoni Editore, ella descrive con grande ricchezza di particolari la grandezza della produzione radiofonica del servizio pubblico fra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso. Una produzione all’interno della quale fu riservato un posto di rilievo proprio al genere del radiodramma, che fin dai tardi anni Venti era stato uno dei più adottati per rappresentare il paese. In questo nuovo contesto – il quindicennio che va dal 1960 al 1975 – l’epoca d’oro del radiodramma manifesta tuttavia un singolare paradosso: non furono tanto gli autori a dare forma e prestigio alla drammaturgia radiofonica, lo furono soprattutto i registi, che risposero con esiti notevolissimi, all’imperativo della diversità. Ma perché ciò avvenne? A mio parere perché, rispetto al passato, il flusso della radio contemporanea esigeva nuove procedure e nuove forme di racconto, ormai diffuse in tutta Europa, più rispondenti alle modalità della radiofonia contemporanea.
Nel 1975, dopo un faticoso accordo tra tutte le forze politiche di centrosinistra, prende vita la grande riforma della RAI, con la ripartizione in Reti e Testate giornalistiche affidate a singoli direttori, ciascuno dei quali è in quota a un’area politica. Tra i tanti cambiamenti dell’epoca la più interessante, dal mio punto di vista, fu la trasformazione del Terzo Programma nella nuova configurazione di Radio tre diretta da Enzo Forcella, un giornalista, ma anche uno storico, che proveniva da «Il Mondo» e da «l’Espresso». Fu egli a inaugurare in quegli anni la notissima, e tuttora in vita, rubrica mattutina di conversazione con gli ascoltatori, Prima Pagina. Alla quale verrà ad aggiungersi, nel pomeriggio, una Terza Pagina che, in breve tempo, rivela una straordinaria schiera di giovani intellettuali che ogni pomeriggio propongono rassegne su temi culturali discussi da storici, filosofi, sociologi, antropologi, artisti. Quasi contemporaneamente, sempre su Radio tre, la domenica mattina nasce agli inizi degli anni Novanta una inedita esperienza, civile e morale oltre che religiosa, rappresentata dalla trasmissione Uomini e Profeti condotta da Gabriella Caramore, che – nonostante il passare degli anni – continua a dimostrare che, persino dietro parole che esprimono fedi religiose, c’è sempre una richiesta laica di umanità. Un modello di radiofonia colta e intensamente spirituale che ancora dopo tanto tempo conserva i suoi caratteri universali e un ascolto privilegiato. Il pomeriggio di Radio tre subirà in seguito molti cambiamenti, sino all’attuale Farenheit creato da Marino Sinibaldi, che in ogni caso continua l’incontro fra cultura e ascolto della radio arricchito dalle telefonate degli ascoltatori.
Le innovazioni successive alla riforma del 1975 furono decisive per rimodellare tutta la programmazione della RAI ai cambiamenti, spesso anche dolorosi, che stavano avvenendo nella società italiana. Nel contesto di quegli anni, precedenti e successivi, le prime manifestazioni della lotta armata rappresentano una assoluta cesura nonostante quegli anni vadano considerati anche da una prospettiva diversa, ovvero quella di un risveglio democratico al centro del quale spiccano le grandi lotte per la qualità della vita, per le conquiste sociali, per l’istruzione, per l’informazione. Anni, frettolosamente sottovalutati, che manifestarono comunque un tasso di democraticità oggi persino impensabile. La stagione straordinaria, purtroppo conclusa, che visse allora la radio pubblica in tutta Europa, in Italia divenne occasione e strumento eccellente di servizio, modello irrecuperabile di informazione e di cultura, testimonianza di una opinione pubblica per la prima volta ispirata a un seppur moderato pluralismo politico. L’ampio dibattito sul ruolo dell’informazione, che non a caso in quegli anni andava sempre più spostandosi verso la definizione degli assetti proprietari della RAI, fu comunque decisivo nella definizione delle finalità della RAI, il ruolo della quale andava sempre più definendosi con le caratteristiche di un servizio pubblico. Un mutamento che fu all’origine di quel policentrismo economico, e di quell’equilibrio pluralistico, che in Italia eviteranno alla radio nazionale, sia di soggiacere alle esuberanze della radiofonia privata che di uniformarsi al modello della televisione commerciale
Nello scenario contemporaneo – ove si sono perduti molti riferimenti tradizionali annullati da quella categoria dei “non luoghi” preconizzati da Marc Augé – oggi possiamo dire che la radio è forse l’ultimo vero luogo dove si rivela l’esperienza esistenziale di ognuno. Un altro intellettuale francese, Georges Perec, qualche anno fa pubblicò un libro dal titolo assai esplicito, Je me souviens. Il libro comprendeva brevi spezzoni di memorie, ricordi personali, piccoli avvenimenti dimenticati, figure scomparse, insomma quei fatti minimi che non fanno storia, non fanno romanzo, ma soltanto costume, e che a volte riaffiorano, qua e là, nella memoria di ognuno con esiti sorprendenti. È un libro che parla molto anche di radio, rievocata in quella maniera affettuosa e nostalgica – alla Woody Allen, per intenderci – con cui si vuole esprimere la consapevolezza che un’intera epoca è ormai alle nostre spalle, quando la radio fu davvero “grande”, e che forse mai più potremo immaginare che ritorni ad essere ciò che era.
In Italia, nel corso di quattro decenni la radio era stata una fonte rapida di informazione accessibile a vaste categorie di popolo, uno spiraglio personale di intrattenimento e di svago, ma anche una importante fonte di cultura. Se è certamente vero che durante la dittatura fascista, o negli anni dell’egemonia democristiana, gli ascoltatori non possedevano strumenti per contestare o distinguere o interpretare i messaggi dominanti, è anche vero che le basi culturali degli italiani erano a quel tempo talmente esigue da rendere le trasmissioni dell’EIAR, e poi della RAI, una fonte di conoscenza ben più significativa, a mio parere, rispetto a quella ipotetica “fabbrica di consenso” che le sinistre temevano potesse condizionare negativamente le masse (e sulla quale ha fin troppo indugiato una storiografia ormai desueta). Quelle trasmissioni furono invece un volano essenziale di modernizzazione del paese, nonostante gli impedimenti economici e industriali della loro diffusione. La ricerca di uno specifico registro di comunicazione aveva creato le condizioni per un’arte dell’ascolto che aggiungeva nuova linfa alle teorie dell’immaginazione simbolica, come aveva intuìto assai bene Rudolf Arnheim nel suo testo principale, La radio cerca la sua forma, fin dal 1938. Proprio da questo studio, ma anche da quelli precedenti di Marcel Mauss e da quelli successivi di Paul Lazaresfeld, sappiamo che la radio riesce a dilatare al massimo le possibilità immaginative dell’ascoltatore attraverso la sola presenza della voce. Può essere una considerazione ovvia, ma assai di rado vi si riflette. È comunque un fenomeno che interessa tutte le radiofonie, perché il mezzo è ormai sempre più utilizzato non soltanto nella sua dimensione ancillare dell’oralità primaria ma come laboratorio di creatività, espressione di spettacolo puro, testimonianza d’arte.
Se è vero che la radio è un antidoto alla solitudine, la tendenza del futuro potrebbe essere una radio tutta nostra, tutta privata, esclusiva. Dall’Araldo telefonico dei primi anni Venti, così ben studiato da Gabriele Balbi, Università della Svizzera Italiana, alle fibre ottiche degli anni Novanta, alle Web Radio, il circolo si è chiuso: la tecnologia ancora immatura degli esordi ci appare una singolare anticipazione dei mutamenti resi possibili dalle tecnologie avanzate. Personalizzazione e radio da computer hanno reso obsolete, senza tuttavia lasciane prevedere di nuove, le vecchie forme dell’identità. Certamente alle grandi reti nazionali sarà sempre più riservata una funzione di servizio e informativa, e ai circuiti locali una funzione di intrattenimento, ovvero consolatoria, interpersonale, di sottofondo musicale, ecc. Ma se gli sviluppi e i miglioramenti tecnici del mezzo sono prevedibili, non sarà possibile conoscerne fino in fondo l’uso, l’applicazione, il tipo di ascolto, fin quando non sapremo prevedere i contesti istituzionali, le dinamiche di mercato, le connessioni economiche, i reali bisogni di informazione e di svago, la consistenza dell’audience, i rapporti con altri mezzi di comunicazione. In ogni caso, a mio avviso l’epoca di una radio che scopre e racconta il paese, che ne descrive i sogni, i desideri o le paure, è ormai del tutto finita. Naturalmente le epoche si aprono e si chiudono. La mia generazione, per quanto riguarda in particolar modo la radio, può ritenersi fortunata nell’essere stata testimone, ed anche protagonista, di questa epoca.



3. Il racconto del paese: la televisione

Almeno fino al primo quindicennio della sua vita, cioè dalla metà degli anni Cinquanta fino a tutti gli anni Sessanta, la televisione in Italia ha già qualche titolo per essere considerata una produttrice di immagini storicamente rilevanti. In una delle prime trasmissioni televisive di successo, I Viaggi del Telegiornale, viene intervistato un contadino, al quale si chiede che cosa gli sarebbe soprattutto piaciuto vedere sul teleschermo. La risposta è straordinaria. Il contadino dice che vorrebbe vedere un bacio, vorrebbe vedere la gente che si bacia. Ma perché? “Perché il bacio è proibito”, risponde. Scene di questo genere, che non erano rare allora sul piccolo schermo, credo che dicano molto sull’Italia di quegli anni, perché fotografano visivamente quella che sta per essere la sua imminente trasformazione. L’egemonia televisiva si impose subito su diversi livelli: innanzitutto l’evidente ritualità quotidiana del Telegiornale, nonostante il suo primo formato si ispirasse al modello arcinoto della Settimana Incom; in secondo luogo il fascino delle prime annunciatrici che rivelano un’immagine del tutto inedita della donna; in terzo luogo le facce dei politici. Fu tuttavia la nuova realtà del paese reale, alla quale si accompagnava la visione di una prima e inedita espansione economica, che contribuì a produrre in Italia un primo e inedito mutamento di mentalità e di comportamenti. E fu subito evidente che lo spettacolo televisivo avrebbe cambiato stili di vita e abitudini della gente molto più di quanto non avesse fatto la radio.
La televisione era la grande occasione per coniugare, nella mentalità dei primi spettatori, valori morali e modernità. Era inoltre un nuovo genere di consumo culturale che, non a caso, andava consolidandosi in un momento di debolezza dell’apparato cinematografico. Anche se con mezzi e procedure inizialmente ancora incerti, il nuovo medium tendeva a ribadire la propria originalità rispetto ad una industria culturale che appariva ancora provata dalla guerra. Una originalità costruita sul concetto di contemporaneità fra l’avvenimento e la sua riproducibilità, sul quale verrà poi basata l’ideologia della diretta e dello specifico televisivo. Per la tv questo aspetto della sua diffusione era fondamentale al fine di stabilire un rapporto stabile con il suo pubblico. I raduni spontanei caratterizzano la modernità del mezzo e la sua pervasività e gli spettatori sentono di avere un punto di riferimento nazionale e collettivo alle loro azioni private, al loro vissuto quotidiano. Non a caso la televisione ebbe i suoi maggiori picchi di ascolto proprio in quelle categorie sociali che si sentivano ancora escluse dalla società moderna. Come dimostrò la vicenda di Scarperìa – il paese toscano dove il giovedì sera, al fine di poter vedere Lascia o Raddoppia, i contadini scendevano nell’unico bar portandosi le sedie da casa – la televisione agiva su di loro come un rito di transizione, ma in realtà era essa stessa il principale fattore di questa transizione. In quel momento nessuno dei dirigenti o giornalisti della RAI, e neppure Mike Bongiorno, avrebbero potuto lontanamente sospettarlo.
Questa prima fase del consumo televisivo fu importante: rafforzava il sentimento di gruppo, come mai aveva potuto fare la radio; inoltre alimentava la discussione, e persino la “conversazione”, in un paese non abituato a questa pratica della convivenza. Nel 1960, Ugo Gregoretti con il suo programma Controfagotto tenta per primo di mostrare il costume italiano, cioè l’elemento più rivelatore del suo carattere di popolo, traendone esiti di raffinata arguzia tendenti a una forte finalità educativa. Fino ad allora nella televisione italiana non esistevano sperimentati modelli di tipo didattico, come già da tempo avveniva nelle televisioni anglosassoni. La novità non tarda a rivelarsi con il maestro Manzi e la sua trasmissione Non è mai troppo tardi. Così come faranno anche Mario Soldati e Cesare Zavattini nelle loro tenere peregrinazioni alla ricerca di quella nazione immaginaria che essi volevano raccontare ai suoi abitanti. Con l’inizio delle grandi inchieste, da La donna che lavora a Viaggio nella valle del Po, al bellissimo Viaggio alla ricerca dei cibi genuini, la provincia italiana rivela immediatamente il suo ricco patrimonio di Storia (se non ancora di storie, come avverrà molti anni dopo con la produzione di fiction), che i dirigenti della televisione hanno la sensibilità e l’autorevolezza culturale di riuscire a trasformare in un ricco giacimento di nuovi progetti.
Fra i Cinquanta e i Sessanta, nel teatrino pubblicitario di Carosello la sacralità dei divo di turno si stempera infine nella dimensione “qualunque” di ogni giorno, ed egli diventa per due minuti persona tra le persone gratificando con la sua presenza folle di impiegati oppressi e casalinghe frustrate. Associare il consumo di beni a uno stile di vita attraente non era una invenzione italiana; italiano fu però il suo adattamento, e relativo racconto, a una realtà molto più semplice e povera di quanto non lo fosse quella del grande paese che aveva scoperto la pubblicità televisiva. L’America sta sempre più entrando nell’immaginario degli italiani e, dopo averli liberati dal nazifascismo, adesso sembra volerli liberare persino dal bisogno. Duecento al secondo, gioco tra concorrenti che dovevano indovinare un motivo musicale condotto dal popolarissimo Mario Riva, era l’imitazione di un modello di successo statunitense. Così come americano – Una domanda da 64.000 dollari – sarà il format che darà vita a Lascia o raddoppia, il programma di quiz che in soli due anni, con più di trecentomila selezioni di partecipanti, realizzò uno screening insuperato del carattere, dei desideri, delle pulsioni e delle anomalie degli italiani. Nonostante la forte caratterizzazione del modello statunitense, quel quiz fu il vero specchio del paese nella fase del più grande cambiamento da esso vissuto nell’epoca contemporanea. Il momento in cui esso scopriva la tv era, al tempo stesso, anche il momento in cui la tv andava scoprendo l’Italia. La provincia italiana si affaccia con prepotenza dai teleschermi e l’apparecchio televisivo comincia a rivelare in pubblico lacerti di confessioni e richieste di solidarietà. L’America è sempre presente sul video, nei cinema e nella musica, e gli italiani ne percepiscono assai bene la presenza: non a caso i format dei programmi tv erano per la maggior parte americani, come quel Name that Tune che nella versione italiana diventa Il Musichiere, gioco di quiz musicali che fece conoscere uno strabiliante Mario Riva. Eppure, se l’America riuscì a imporre agli italiani la sua visione del mondo, la sua sovranità economica, nonché la sua cultura letteraria, musicale, figurativa, cinematografica, fu invece nell’esperienza televisiva – la più popolare che gli italiani avevano vissuto fino ad allora nel Novecento – che l’Italia, con le sue caratteristiche di antico paese mediterraneo, che si pose all’avanguardia dei nuovi modelli della narrazione elettronica.
La presenza dell’America verrà infatti progressivamente allontanandosi nelle scelte dei dirigenti della RAI per fare posto a stili, linguaggi, strutture di programmi tipicamente italiani. Nel 1959 nasce Campanile Sera, una gara tra regioni diverse, il più originale e illuminante ritratto dell’Italia di quel tempo, alla quale seguirà Il Gonfalone – inizialmente programma radiofonico – che si basava su uno dei caratteri peculiari della nazione, cioè la sua frammentazione in entità geografiche dotate di autonomia linguistica, culturale, etnica e politica. Certo i modelli americani continuarono ad alimentare la programmazione, ma ciò che importa in questa sede sottolineare è che il ricorso all’americanismo, cioè a un fenomeno che aveva trovato nella liberazione dal nazifascismo la sua legittimità, era non solo dettato dal tentativo di copiarne i formati di indubbio successo ma anche il richiamo a una società libera e opulenta, ovvero il modello a cui l’Italia aspirava in quegli anni. Il paese era cresciuto in virtù di una profonda trasformazione strutturale. La società italiana era diventata mediamente più ricca e nuovi processi culturali ne avevano modificato fisionomia e comportamenti. In quel primo periodo i dirigenti della RAI ricorrono ancora a modelli americani non solo perché erano efficaci e brillanti ma perché consentivano di realizzare programmi nei quali gli italiani potessero identificarsi, così come del resto si erano già identificati nella Coca Cola, nel chewingum, nelle Lucky Strike, nelle calze di nylon, e nelle stelle di Hollywood.
L’arrivo di Ettore Bernabei alla direzione generale dell’azienda, scelto da Amintore Fanfani, era l’uomo giusto per poter governare una radiotelevisione moderna, che si ispirasse con moderazione ad un paese che, non solo aveva vinto la guerra, ma era il nostro più influente alleato. In quei modelli narrativi, nelle radici della sua storia e delle sue sensibilità, gli italiani trovavano le motivazioni, ideali e concrete, per la loro rinascita materiale, sociale e culturale. Ricorrere ai modelli americani era solo in parte una strategia diretta ad ampliare il portafoglio abbonati della televisione; era più concretamente il proposito di soddisfare i sogni di un paese al quale, dieci anni prima, già i film del Piano Marshall avevano indicato possibili esiti di riscatto.
Dopo gli anni dell’esordio, scompare il consumo comunitario di televisione e si afferma quello familiare, al quale si accompagna l’alternativa di un secondo programma innovativo. Da quel momento l’offerta televisiva è sempre meno vissuta come occasionale e tende rapidamente a trasformarsi in abitudine quotidiana. La lenta ma tenace rinascita del paese andava, giorno dopo giorno, raccontata in tutti quegli aspetti che potessero confermare negli spettatori l’evidenza di un radicale cambiamento del proprio modello di vita. Un compito che tuttavia richiedeva l’ultima e decisiva conquista: la formazione di un pubblico popolare ed omogeneo. Se nel Processo alla tappa di Sergio Zavoli i campioni del ciclismo diventano veri e propri personaggi, che dicono davanti alle telecamere «cose che non avrebbero mai immaginato di poter dire», le gambe senza calzamaglia di Alba Arnova e di Alice ed Ellen Kessler, così come la maglietta aderentissima di Maria Luisa Garoppo, divenuta famosa nel quiz del giovedì, fanno sbarrare gli occhi a tutti i maschi maggiorenni che credono a stento a ciò che vedono. Per gli italiani la rivista televisiva del sabato sera è il coronamento di questa liberazione dei costumi, che si manifesta in tempi assai rapidi allo stesso modo con cui l’edizione televisiva del popolarissimo Festival di San Remo si incarica di raccogliere la forte domanda di canzoni e di musica leggera, riqualificandola in una modalità del tutto nuova del loro consumo.
Con la nascita del secondo programma televisivo – obiettivo indicato subito da Bernabei – la cultura e l’informazione vengono depurate da quell’eccesso di pedagogismo dimostrato nei primi anni dell’esordio e riproposte in una politica di programmazione attenta a utilizzare i modelli dell’indagine sociale, della ricostruzione storica, della riflessione sull’attualità e della divulgazione scientifica. Sarebbe qui faticoso e inutile scorrere decine di titoli, ciò che importa sottolineare è che la televisione di quegli anni, fra i Sessanta e i primi Settanta, adotta formule di tale originalità espressiva il cui scopo è sempre meno evasivo ma tende a conoscere, riconoscere e interpretare tutti i fermenti che stanno modificando il paese. La modernizzazione che a quel tempo interessò l’Italia fu certamente il risultato delle grandi opportunità che un modello di sviluppo economico crescente era in grado di offrire, ma fu del gruppo dirigente della RAI l’intuito di riuscire a manifestarlo – nelle forme dell’entertainement – all’intera comunità nazionale. Il genere che andava sempre più affermandosi aveva tali caratteristiche originali e autoriali da riuscire a realizzare un forte legame tra la specificità della proposta linguistica e la nuova domanda di immaginario espressa dal pubblico. Fu quella, a mio parere, la fase più omogenea di tutta la storia del consumo di televisione in Italia. Un passo decisivo in questa direzione venne poi effettuato nel 1963 dal regista Giacomo Vaccari con una eccellente versione del Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga, che può essere definito il primo film a puntate della televisione pubblica. È un momento importante. A partire da questa data le strade dello sceneggiato si biforcano. Ma se questo genere, realizzato all’interno dello studio tv, continuava ad ispirarsi – come ci avvertì a suo tempo Oreste De Fornari nel suo bellissimo libro Teleromanza – ai grandi modelli della letteratura, un’altra tipologia di prodotto, quella degli “sceneggiati filmati”, avrebbe poi prevalso adottando i modelli del cinema italiano ed europeo.
La televisione italiana tende a realizzare un progetto culturale ma, in seguito, tenderà anche a dare vita a uno specifico progetto drammaturgico, fondato sulla conoscenza sempre più attenta, da parte degli autori, del dispositivo elettronico. Questa conoscenza portò al progressivo abbandono del racconto televisivo di maniera, identificato con le cadenze statiche dello sceneggiato, e divenne la premessa indispensabile per cercare modelli narrativi diversi, soprattutto da parte di registi sperimentatori come Carmelo Bene, Luca Ronconi, ma anche registi classici come Giorgio Strehler e Luigi Squarzina. Permane comunque il modello ispirato ai canoni del teatro che tuttavia verrà progressivamente ridotto fino a scomparire. Il mulino del Po, dal romanzo di Riccardo Bacchelli, con la regia di Sandro Bolchi, introdusse per la prima volta – come è noto – vere e proprie scene cinematografiche girate in pellicola, inaugurando un nuovo corso della narrativa tv. Superata la fase artigianale, il teleromanzo all’italiana, pur continuando ad aderire ai codici espressivi di una oleografia piccoloborghese, si allontana dal suo modello letterario per affermare un genere creativo del tutto autonomo, e a mio parere persino più pervasivo di quello che, nel passaggio fra i due secoli, verrà poi chiamato fiction.
Con L’Odissea di Franco Rossi – una coproduzione RAI-ORTF realizzata da Dino De Laurentis – la televisione comincia ora a guardare, con sempre maggiore lungimiranza e maturità industriale, al prodotto narrativo, il più gradito da un popolo che, leggendo poco e male, assistendo alle trasmissioni iniziava a gustare trame letterarie nelle qual riconoscersi. L’Odissea divenne il prototipo di questo nuovo genere, ibrido quanto si vuole ma di sicuro effetto e di vasto gradimento, che segnò una svolta decisiva. Chiedendo la collaborazione dei registi cinematografici per opere ancora specificamente televisive, l’azienda pubblica va alla ricerca di una ulteriore identità stilistica e spettacolare, che da un lato sappia superare la staticità e la lentezza degli esordi ma che, dall’altro, voglia affrancarsi dai condizionamenti e dalle ipoteche del mezzo cinematografico. Una linea anticipata, durante tutti gli anni Sessanta, dal lavoro compiuto per la RAI da Roberto Rossellini, che della televisione aveva intuito le straordinarie potenzialità espressive. Da quella linea nacquero alcuni grandi capolavori realizzati per il piccolo schermo, da L’Età del Ferro, a Gli Atti degli Apostoli, a La presa del potere di Luigi XIV. Con la svolta degli anni Settanta la televisione italiana inizia a battere nuovi sentieri. Lo fa in maniera rabdomantica, con una consapevolezza che derivava più dal fiuto dei suoi dirigenti, tutti uomini di grande cultura, che dalle strategie commerciali (come invece avverrà alcuni decenni dopo, con la fitta e lunga stagione della fiction propriamente detta).
Antesignana di questa produzione fu la prima miniserie italiana, Tre donne, interpretata da Anna Magnani per la regia di Alfredo Giannetti, un real drama non eccezionale ma storicamente significativo. Il prestigio continuava ad essere affidato a grandi produzioni come L’Eneide, ancora di Franco Rossi, del 1971, oppure ad opere realizzate alternando pezzi di repertorio documentaristico a ricostruzioni originali, come La lunga strada del ritorno, sui reduci di guerra, di Alessandro Blasetti. Pur essendo esposta ai contraccolpi della crisi economica, la RAI riuscì a sfruttare con intelligenza – credendo sempre più nell’obiettivo aziendale di raccontare il paese – il capitale di credibilità accumulato negli anni precedenti. Altre opere, nate a distanza di tempo, in seguito fecero apparire errata la convinzione che l’azienda monopolistica fosse incapace di conseguire ascolti e successi da parte della società italiana: basterà citare Pinocchio di Luigi Comencini e il bellissimo Orlando furioso di Luca Ronconi. Senza contare che stava iniziando l’epoca delle grandi produzioni cinematografiche seriali: Mosè di Gianfranco De Bosio, Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, Sandokan di Sergio Sollima, La vita di Leonardo da Vinci di Leonardo Castellani, Verdi dello stesso autore, La Certosa di Parma di Mauro Bolognini, Marco Polo di Giuliano Montaldo, Cristoforo Colombo di Alberto Lattuada, ecc.
In tutta quella prima stagione, la più importante per quanto riguarda i comportamenti, le abitudini e gli stili di vita, la tv è stata uno specchio straordinario per la maggioranza degli italiani, che in essa hanno visto riconoscere la propria immagine, realizzare i loro sogni, rispettate le loro convinzioni. Il paese sente di avere un punto di riferimento nazionale alle sue azioni private e al suo vissuto collettivo. La tv è la principale occasione di unità familiare, allarga l’orizzonte della comunità domestica, ma al tempo stesso rende i membri di quella comunità consapevoli di una comune appartenenza. Persino il mondo popolare subalterno veniva strappato dalle sue tradizioni e spinto a riconoscersi in una grande platea nazionale. Prendiamo l’esempio di Carosello, il contenitore pubblicitario che apriva la serata. Esso rappresenta una storia del costume e, al tempo stesso, una rappresentazione di nuovi linguaggi espressivi. La provincia si andava affacciando sui teleschermi e la televisione svelava una patria, fortemente simbolica, fino ad allora sconosciuta agli occhi del suo stesso popolo. Sul fronte di quello che in seguito si chiamerà “intrattenimento” una trasmissione come Campanile Sera, gara collettiva fra differenti comuni, può essere considerato il più illuminante ritratto antropologico che mai fosse stato compiuto del popolo italiano. Così come, da un punto di vista tutto diverso, Tribuna elettorale e Tribuna politica ebbero una funzione fondamentale, non solo per allentare la tensione ideologica e attenuare lo scontro di classe, ma soprattutto per portare a compimento il disegno di consolidamento di una giovane democrazia repubblicana.
I frutti di questi lavoro si videro con particolare evidenza nelle narrazioni che prendevano spunto dalla recente storia del paese. Nacquero così Cinquant’anni di vita italiana, La lunga strada del ritorno sui reduci di Caporetto, Documenti di storia e di cronaca, Tutti gli uomini del Duce, L’Italia in guerra, e Nascita di una dittatura di Sergio Zavoli. Programmi di larghissimo ascolto realizzati nel presupposto di non dovessero mai interrompere, ma anzi di approfondire, il dialogo con il pubblico sui grandi temi della storia contemporanea. Ma ciò che interessa sottolineare è l’efficacia della politica produttiva dell’azienda pubblica nel momento in cui l’obiettivo di raccontare l’Italia diventa predominante. I tempi stavano cambiando: bisognava continuare a investire su un prodotto “pregiato” tanto più in un momento in cui i “barbari” erano già apparsi all’orizzonte. Fin dalla seconda metà degli anni Settanta, la nascita e il proliferare delle televisioni locali, che facevano ricorso nei loro palinsesti a film d’acquisto e a serie americane, aveva causato un cambiamento strutturale, sia nel consumo di televisione che nel riposizionamento industriale del settore. Alla fine di quel decennio la produzione cinematografica proveniente dai grandi circuiti internazionali era aumentata in maniera consistente e la concorrenza, non caso, si accese sui prodotti della fiction declinata in tutte le sue varianti. All’interno del palinsesto RAI comincia a verificarsi un complesso rimescolamento della gerarchia dei differenti settori, non solo per effetto della concorrenza fra le sue tre reti, ma soprattutto a causa della progressiva concorrenza con le reti commerciali.
Con legge di riforma del 1975 si aggiunge una terza rete regionale all’offerta complessiva della RAI. L’obiettivo è quello di contrastare l’offensiva delle reti private e assicurare, attraverso il decentramento ideativo e produttivo, occasioni di creatività e di lavoro alla provincia italiana. Purtroppo, tranne in qualche caso, come la produzione di uno splendido film, Maria Zef, realizzata dalla sede di Trieste, e la scoperta a Napoli del talento di Mario Martone, la fisionomia regionale non ebbe successo. Occorrerà aspettare ancora più di dieci anni per vedere la nascita di una rete identica alle altre per dotazione di budget e spazi nazionali: la grande Terza rete diretta da Angelo Guglielmi che manifestò, fra i tanti, uno dei segni più vistosi ed eccellenti della profonda trasformazione che la televisione stava iniziando a sperimentare. All’inizio del nuovo decennio, tutta la RAI, con le dirette dai luoghi del terremoto in Irpinia e con la pietosa vicenda accaduta nella località laziale di Vermicino – la tragica morte di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo – scrive una pagina straordinaria di giornalismo popolare e mostra all’intero paese la capacità di riuscire a raccontarlo con una narrazione intensamente umana. La seconda rete televisiva è all’avanguardia su questa linea e lo dimostra sia con una approfondita indagine sociologica, di grande suggestione, condotta in un paese del sud, Rocchetta S. Antonio, sia con Processo per stupro, un videotape underground realizzato da un collettivo femminista. Questo genere di televisione, tanto della seconda che della prima rete, si pone il problema di rappresentare, nella loro complessità, aspetti del paese che altrimenti resterebbero marginalizzati. È il risultato della grande riforma del 1975 dalla quale nacquero non a caso alcune delle rubriche d’informazione più seguite, Faccia a faccia, AZ, Stasera, Di tasca nostra, così come lo straordinario Gulliver di Giuseppe Fiori e Linea diretta di Enzo Biagi.
È un processo di forte mutazione dei generi televisivi che vuole rispondere alle nuove attese del pubblico e mostrarsi all’altezza del compito di raccontare il paese. Che sempre più velocemente sta cambiando. È il medesimo processo che, sul fronte dell’intrattenimento, darà vita a due fortunate trasmissioni domenicali di intrattenimento, L’Altra Domenica di Renzo Arbore e Domenica in… di Pippo Baudo. Da tutto ciò nascerà il primo formato del talk show, con Bontà Loro di Maurizio Costanzo e, soprattutto, Portobello di Enzo Tortora. Come osserva molto acutamente Aldo Grasso, nella prefazione a Storie e culture della televisione italiana, «sin dai tempi di Campanile sera Tortora sapeva come promuovere il ricco materiale umano della provincia, era l’unico, grande conduttore televisivo che sapesse toccare, con mano leggera ma ferma, i tasti dell’universo popolare», ma anche – aggiungo – le corde di quel localismo delle invenzioni e delle emozioni che radio e televisioni private rischiavano di sottrarre per sempre all’egemonia della RAI.
Qualcosa infatti sta cambiando. Il primato nel raccontare il paese sta regredendo sempre più. L’attenzione si sposta, dal paese, ai conduttori televisivi. Michele Santoro con Samarcanda, così come Giovanni Minoli con Mixer, divennero i protagonisti di un dramma seriale dove non era più di scena il racconto del paese ma il racconto di se stessi. È l’inizio di un nuovo cammino della rappresentazione per immagini chiamata “neotelevisione”, come abbiamo visto, che in poco tempo modifica la natura di un comparto primario dell’industria culturale, ridisegna il rapporto di coinvolgimento dello spettatore, inventa nuovi linguaggi. Deve esser chiaro, a questo punto, che la progressiva scomparsa di tanti programmi – in primo luogo la rappresentazione del paese reale – non è certo da addebitarsi a una malvagia volontà di abbrutimento mercantile ma è il risultato della funzione che un nuovo genere di spettatore attribuisce all’atto di vedere la tv in base all’evolversi, non dei gusti, ma delle convinzioni profonde che ne contraddistinguono il rapporto con la realtà che lo circonda. Come apparve dalla grande intuizione di Blob realizzato sulla Terza Rete da Enrico Ghezzi, la televisione si sta trasformando in un grande videogame in cui il gioco sostituisce sempre più la sacralità della rappresentazione. Gianfranco Bettetini ha descritto molto bene questo cambiamento laddove attribuisce alla paleotelevisione degli esordi un ruolo “materno”, attento alla formazione e all’educazione dell’utente, sostituito in seguito da un ruolo più paritario di “compagno”, che azzera tutte le barriere tra il luogo del gioco e quello della vita normale. Da tutto ciò nascono però in quegli anni i nuovi caratteri del discorso televisivo: la serialità, la conversatività, la trasgressività, e persino il demenziale di molti comici, attori, presentatori e politici. Sono caratteri peculiari dell’attuale fase della modernità che non si riscontrano certo solo nello spettacolo televisivo ma nelle arti figurative, nella moda, nel teatro, nel nuovo cinema, ecc. ecc.
Forse aveva ragione Lyotard quando alcuni anni or sono denunciò la scomparsa dei “grandi racconti”. Oggi sostituiti dai prodotti della lunga serialità americana, che manifesta non a caso una potenza di seduzione alla quale è difficile resistere, e di fronte alla quale l’ultima grande narrazione dell’Italia fatta dalla televisione pubblica, che possa reggere il confronto, è il programma di Sergio Zavoli sul terrorismo, La notte della Repubblica, che resta una delle testimonianze più intense di una intera generazione vissuta nell’Italia del dopoguerra. Tutte le altre narrazioni, cinematografiche o televisive, a mio parere non reggono il confronto. Perché? Perché io credo che il grande merito di quel programma è stato soprattutto quello di essere “raccontato” dai protagonisti, non di cercare a tutti i costi un colpevole. Nell’epoca della neotelevisione quel programma fu un magistrale esempio di racconto via via tessuto su una trama sottile e molto pericolosa. Ma fu comunque una eccezione rispetto a esiti assai diversi che hanno in seguito condizionato gran parte del giornalismo televisivo nel suo compito di descrivere il terrorismo in Italia. Sono decenni infatti che, da tale punto di vista, il tema della sicurezza costituisce un paradigma concettualmente molto interessante. Perché sulla ossessiva richiesta di sicurezza si scaricano tutte le contraddizioni sociali irrisolte, tutte le ansie psicologiche, e persino le turbe inconsce delle persone. E i media, oltre alla politica, accorrono con grande solerzia a suffragare le ipotesi più estrose d’ogni incombente stato di pericolo.
Ecco perché, nell’ambito del sistema audiovisivo contemporaneo, qualora si vogliano rintracciare reperti significativamente essenziali per l’analisi storica, relativi a un arco temporale, o ad una specifica comunità, o ad un insieme di eventi, non è tanto utile misurarsi con la quantità (che per la sua stessa smisurata grandezza finisce per essere addirittura inutilizzabile) quanto con la qualità della documentazione. Che pretende selezioni rigorosissime, poiché le immagini edite, dei film e dei servizi televisivi, non parlano di ciò che interessa lo storico – ovvero di ciò che sta dietro a quelle immagini – e, se lo fanno, ne mettono soprattutto in risalto la valenza spettacolare ed emotiva, cioè una connotazione astorica. La ricerca storica, come è noto, non tollera emozioni. Una fonte audiovisiva, documentaristica o narrativa, è a mio parere utile quando riesce “naturalmente” a dare il clima di un’epoca, la veridicità delle opinioni e dei sentimenti, lo sfondo evenemenziale nel quale collocare le azioni dei personaggi. I reperti di cinema, e da qualche decennio anche quelli di fiction, da tempo sembrano più utili ai fini della ricerca storica rispetto a quelli – con le dovute ma rarissime eccezioni – dell’informazione televisiva. Con l’avvertenza che deve sempre trattarsi di opere nelle quali lo spettatore sia in grado comunque di percepire uno stigma creativo. Altrimenti si dà spazio solo ad equivoci e generalizzazioni.
Il termine americano fiction entra in uso in Italia nel momento in cui la concorrenza tra l’azienda pubblica e la televisione commerciale inizia a trasformare totalmente lo scenario della comunicazione a distanza. Nulla meglio di questo termine rappresenta ormai il senso dell’intera produzione di immaginario popolare che distingue i palinsesti, tanto delle tv pubbliche quanto di quelle private: un macro genere, indifferenziato dal punto di vista dei contenuti, ma profondamente differenziato dal punto di vista dei format e, soprattutto, caratterizzato dalla sua predisposizione a coprire le diverse fasce che distinguono i palinsesti della “neotelevisione”. La fiction viene così a disporsi in collocazioni orarie del tutto diverse rispetto a quelle ricoperte in passato dai grandi spettacoli di narrazione storica o letteraria. Assume funzioni di traino agli appuntamenti dei telegiornali; di copertura delle nuove fasce di programmazione (mattutina, pomeridiana, preserale); di intrattenimento quotidiano; di differenziazione editoriale a seconda delle diverse politiche di rete. È cioè l’intera televisione, con le sue cadenze seriali, che si è trasformata in un formidabile strumento di intrattenimento. Se è sufficientemente noto che la “serialità” nasce fin dall’Ottocento con i primi vagiti dell’industria culturale, va anche chiarito che l’esperienza della serialità televisiva è qualcosa che va ben oltre quelle vecchie tipologie di consumo e rientra nella ferrea logica del profitto commerciale, sia dal punto di vista degli investitori pubblicitari e dei loro interessi, sia dal punto di vista dei consumatori (non più solo spettatori), i quali non possono sottrarvisi in alcun modo.
Avviandoci alla conclusione c’è ora una questione che va chiarita e l’autore di questa nota avverte subito che se è difficile chiarirla, quantomeno va discussa. Gli sviluppi della televisione, a cavallo fra i due secoli hanno posto, a mio parere, a tutti noi una questione dirimente: che rapporto esiste ormai fra la televisione, diciamo soprattutto la televisione pubblica, e il compito, tipico di uno Stato democratico, di documentare, rappresentare e narrarne le vicende. Da molte parti si sente dire, anche autorevolmente, che ormai è nella fiction televisiva domestica che si rintraccia quella rappresentazione del paese cui ogni democrazia dovrebbe tendere. È una opinione da considerare con attenzione, in particolar modo per il Regno Unito e la Repubblica Federale di Germania, che hanno dato all’Europa modelli notevoli in questo campo. Ma va precisato che sono paesi nei quali l’evoluzione del mezzo non ha sconvolto gli assetti istituzionali delle rispettive televisioni pubbliche, che hanno invece continuato a dare dato al resto d’Europa modelli straordinari di narrazione (per fare solo qualche esempio, pensiamo ad Heimat per la Germania). In Italia solo Gomorra può essere avvicinato al modello tedesco pur non essendo un prodotto del servizio pubblico.
Suscita allora qualche perplessità la relazione, particolarmente insidiosa, che in anni recenti è andata sempre più rafforzandosi in Italia fra la più popolare forma di diffusione culturale di massa e la storia politica e sociale della nazione. Se guardiamo all’esperienza italiana da questa prospettiva ci si accorge che essa lascia aperti molti di quegli interrogativi che, nel corso degli anni, si sono intrecciati con la funzione e il ruolo che la tv ha avuto nel destino degli italiani. Se infatti ieri la televisione fu il risultato di uno straordinario sforzo propulsivo, oggi è lo specchio dell’incapacità di continuare a sostenerlo. La mediatizzazione di tutta la vita nazionale è divenuta a tal punto pervasiva da non riuscire più a farne riconoscere i segni distintivi. Le criticità e le anomalie della situazione italiana sono note. Esse si riassumono in una modernizzazione senza sviluppo e priva di centralità strategica; nell’affievolirsi e, in alcuni casi, nella scomparsa dei grandi valori ideali e morali; nell’assenza di una forte e condivisa consapevolezza dell’identità nazionale. Un paese “mancato”, un paese “a civiltà limitata”, come lo hanno descritto, in due eccellenti libri, uno storico, Guido Crainz, e un economista, Paolo Sylos Labini. Come può allora una televisione nazionale riuscire a descrivere, o narrare, una nazione simile? Oggi una descrizione istituzionalmente, oltre che emotivamente forte della nazione italiana non può limitarsi solo a piccole storie private, ma deve trovare storie e argomenti forti all’altezza del popolo che vuol descrivere, a meno che tale popolo non meriti persino più di essere descritto. Il che non vale certo per l’Italia, che resta un grande paese, nonostante tutto. Credo allora che in questo momento il nostro servizio pubblico, nonostante le dichiarazioni e le promesse, sia debole proprio nella costruzione di un immaginario adatto a un’epoca tanto complessa, anche se tanto fragile. Ed è un vero peccato perché, come il lettore spero si sarà accorto, per molti, molti anni non è stato così.
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