Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVI - n. 4 > Saggi > Pag. 336
 
 
La storia dei partiti democratici e liberali italiani: lettura di un libro di Adolfo Battaglia
di Piero Craveri
Adolfo Battaglia, scrivendo Né un soldo né un voto. Memorie e riflessioni dell’Italia laica (pref. di S. Folli, Bologna, il Mulino, 2015), ha composto un’autobiografia “sui generis”, con un doppio io narrante che esprime le due nature della personalità dell’autore, l’osservatore competente che si impegna in una ricostruzione storica della vicende politiche a cui ha partecipato e solo qualche volta, in prima persona, il politico, ambedue animati dalla stessa passione civile. Perché Battaglia è stato un grande giornalista, definitivamente forgiato alla scuola di Mario Pannunzio, per divenire poi uno stretto, anzi strettissimo, collaboratore di Ugo La Malfa, svolgendo, anche dopo la sua morte, ruoli politici di rilievo nel suo partito, il partito repubblicano, e come ministro della Repubblica. Per un lungo tratto Battaglia poi ha steso un diario degli eventi a cui ha partecipato e da cui trae molti degli elementi di riflessione di questo libro e ce ne dà alcuni estratti molto interessanti.
C’è quindi insieme distacco storico e appassionata partecipazione politica in questo lavoro. Battaglia è nato nel 1930 ed ambedue queste inclinazioni sono già presenti nelle pagine dell’adolescenza e prima giovinezza, tra guerra e dopoguerra. Gli anni della seconda guerra mondiale e quelli del dopoguerra, come già a seguito della prima, hanno determinato un clima di particolare sviluppo degli ideali politici, accompagnato da fervide speranze, nella formazione delle generazioni che, in un modo o nell’altro, li vissero, per lentamente oscurarsi col tempo. I capitoli che Battaglia dedica a questa fase della sua vita sono quelli relativi alla Resistenza, all’avvento della Repubblica e alla Ricostruzione e vengono indagati soprattutto nell’ambito del mondo liberale e democratico, in cui egli si è formato, per le sue origini familiari e la stessa sua vocazione culturale e politica. Sono belle pagine, ricche di episodi rimasti inediti o poco ricordati. L’Italia liberale e democratica ha dato l’ultimo decisivo suo contributo costitutivo dei fondamenti della vita nazionale proprio in quegli anni, lasciando un segno profondo nel conseguire gli obbiettivi politici del dopoguerra e nell’avviare il nuovo sviluppo economico: nella lotta di liberazione, soprattutto grazie alla partecipazione delle formazioni partigiane azionistiche, fu seconda solo ai comunisti; nella lotta politica, perché ebbe grandi personalità che affiancarono De Gasperi nella fase costitutiva della nuova democrazia e inoltre contribuirono a ricongiungere l’Italia in un rinnovato rapporto con la comunità internazionale; nella politica economica perché prevalentemente suo fu il personale tecnico e politico che pose le basi del grande balzo in avanti degli anni ’50, proveniente quasi tutto da due filiere distinte, quella liberista, che ebbe in Einaudi il suo regista, e quella di tradizione democratica che aveva avuto i suoi antesignani in Francesco Saverio Nitti e in Giovanni Amendola e che in parte, negli anni ’30, era anche diventata protagonista nel dar vita al sistema di economia mista, che sarebbe stato poi il perno economico del secondo dopoguerra.
La pagina più scolorita del contributo liberal-democratico di questi anni è stata quella della partecipazione alla Costituente, diversamente dal giudizio che ne dà Battaglia. Nella formazione del testo costituzionale il peso determinante, sia nella prima parte che riguarda i diversi diritti del cittadino e la funzione politica e sociale dei corpi intermedi, compresa la Chiesa cattolica, sia la parte relativa all’ordinamento della Repubblica, fu dovuto soprattutto dal contributo dei grandi partiti di massa, segnatamente dei cattolici e dei comunisti, anche per la posizione dominante che questi avevano conseguito nell’elezione dell’Assemblea costituente. Fu per la prima parte un accordo, per la seconda un armistizio, definito, fin dal dibattito costituente, come un “patto”, non essendo nella sostanza tale e già durante la prima legislatura palesandosi in tutta la sua incompiutezza.
Battaglia sottolinea il ruolo del giurista repubblicano Tomaso Perassi, il cui ordine del giorno sulla “forma di governo” fu il punto di partenza della discussione su questo tema. I contenuti che in esso si propugnavano erano la sintesi di un modello classico di divisione ed equilibrio dei poteri costituzionali. Ma questi intendimenti iniziali ebbero esito assai diverso, che inclinò piuttosto verso un approdo di tipo assembleare nel rapporto tra esecutivo e legislativo, e questo fu il vero armistizio tra la DC e il PCI. Essendo ambedue allora incerti sull’esito delle seguenti elezioni legislative, si volsero ad indebolire le prerogative dell’esecutivo. Non fu un accordo costruttivo, ma appunto un armistizio basato sulla preoccupazione d’una possibile vittoria elettorale dell’avversario politico. Da parte sua Einaudi, che di queste cose era parte in causa come governatore della Banca d’Italia e per questo non partecipò alla redazione del “progetto di Costituzione”, ma fu un costituente attivo nel dibattito dell’Assemblea plenaria, si mosse con prudenza, cercando soprattutto di garantire gli spazi necessari ad un’economia di mercato; sulla “forma di governo” poi non interloquì, puntando tutto sulla legge elettorale, con una posizione di principio a favore del modello uninominale, che naturalmente non riuscì a far passare, com’era ovvio, almeno allora, e che lui stesso non credeva potesse realizzarsi. Ma la sua azione fu importante al fine di evitare che si imponesse il proporzionale come principio costituzionale. E quello che va sottolineando, ripercorrendo quei dibattiti, è piuttosto che la scarsa incidenza liberale e democratica nella fase costituente, pur considerando anche la presidenza della Commissione del 75 tenuta da Meuccio Ruini, fu un segno premonitore di quanto sarebbe in seguito successo.
Il ruolo dei partiti laici si esplicò dunque nel dopoguerra attraverso il governo, a fianco di De Gasperi e molto al di là dei rapporti di forza tra i partiti delle diverse coalizioni di governo, prima nell’Assemblea Costituente, poi nel Parlamento repubblicano, durante la prima legislatura. De Gasperi, nella sua azione di governo, fece perno sul personale politico, tecnico e burocratico di ispirazione liberal-democratica, in una visione superiore a quella dell’interesse del suo partito, ritenendo che il risultato trionfale della DC nelle elezioni del ’48 fosse a riguardo un riscontro sufficiente. Gli fu rimproverato, ad esempio da Dossetti, che aveva una concezione integralistica, per altro diffusa nella generazione democristiana che proveniva dall’Azione cattolica, ed insisteva costantemente su un’assunzione piena di responsabilità da parte del partito cattolico. Al congresso della DC del 1949 De Gasperi gli replicò duramente, sottolineando che riguardo ai “posti”, nel governo e nell’amministrazione, si atteneva al principio della “competenza”.
Ma per De Gasperi la “competenza” non era il solo motivo che lo legava al personale politico e tecnico allora presente nelle forze liberali e democratiche. Per la DC prendeva allora a fare la sua prima prova quella generazione, formatasi nell’Azione cattolica durante il fascismo, con un’impronta culturale e politica assai diversa dalla vecchia dirigenza popolare, che era venuta ad affiancare nei ruoli di governo e che nel volgere di un decennio avrebbe preso in mano tutte le leve del potere. Questo amalgama della classe dirigente democristiana si presentava dunque ancora come incerto e sperimentale. De Gasperi, dinnanzi ai rilevanti compiti nazionali a cui doveva far fronte, ne era perfettamente consapevole. Ma valevano per lui altri due motivi di più alto significato politico. Nel congresso della DC, alla vigilia delle elezioni alla Costituente, aveva dato alla DC un nuovo obbiettivo, quello di diventare il partito della “nazione”. Ma la DC era per sua natura partito “cattolico”, non “nazionale”, con la specificità di definirsi inoltre partito “dei cattolici”, a differenza della formula, meno impegnativa, del partito “di cattolici”, usata da Sturzo per il partito popolare. Il “centrismo”, inteso come alleanza di governo tra la DC da un lato, i liberali, repubblicani e la socialdemocrazia di Saragat dall’altro, assumeva così per De Gasperi, al di là del sostegno che garantiva alla sua maggioranza parlamentare due significati ulteriori.
Il primo di questi significati inerisce alla stessa natura storica di questi tre partiti. Essi erano gli eredi delle forze tradizionali e maggioritarie della democrazia prefascista. Lo si può dire anche della socialdemocrazia di Saragat nella quale non a caso era finito tutto il personale residuo del riformismo turatiano. Rappresentavano così, più di altri, la continuità del sistema politico fin dalle origini risorgimentali, dando sostanza al principio cardinale della continuità dello Stato, voluto dagli alleati dopo il 25 luglio ed accettato, col secondo governo Badoglio, da tutte le forze politiche del CLN, in base al quale si era potuta compiere senza contrasti la riunificazione tra l’Italia già libera con quella liberata il 25 aprile. Cosicché era stato inoltre possibile sciogliere i CLN, rimasti in vita nell’alta Italia, e adire liberamente alle elezioni della Costituente, sotto la garanzia non dei partiti ma dello Stato democratico. I partiti liberal-democratici rappresentavano poi anche un’altra cosa essenziale. Tra quelli che si potevano dire laici per il loro non rifarsi politicamente alla fede cattolica, come invece la Democrazia Cristiana, erano gli unici a professarsi fermamente contro ogni forma di totalitarismo, avendo tutti un passato indiscutibilmente antifascista e una presente avversione per il comunismo. Quest’ultimo elemento cementava l’alleanza di ciascuno di loro con la Democrazia Cristiana e quella tra loro stessi, che non avrebbe avuto molte altre ragioni di principio. Il centrismo ebbe dunque anche questo segno di emergenza nazionale. Raccoglieva le forze che nella politica estera erano legate all’Occidente democratico e nella politica interna ne applicavano i principi fondanti. Nel secondo dopoguerra la formula del centrismo, De Gasperi l’aveva voluta realizzare già nel novembre 1947, dopo che nel giugno aveva operato la rottura del precedente accordo postbellico con i comunisti e i socialisti, prima della Costituente e prima di proporre la DC come partito nazionale. Perché il carattere nazionale era proprio di quella coalizione e riproponeva un modello di democrazia che era peculiare della storia italiana.
Si può dire che “centrista” era stata la democrazia italiana prima del fascismo. Un insieme di classe dirigente che aveva dato vita all’unità nazionale e che doveva inizialmente giovarsi del suffragio ristretto, trovandosi al centro di un sistema di forze interne ed internazionali complesso a cui dovette subito far fronte, in particolare prima nei confronti delle insorgenze nel Mezzogiorno, poi nel contrasto con la Chiesa cattolica che aveva già caratterizzato il processo unitario e divenne permanente conseguita l’unità. Lo stesso Leone XIII, prima di lanciare la dottrina sociale della Rerum novarum, aveva proseguito la linea dei suoi predecessori nella ricerca di un appoggio, soprattutto della Francia, allora a guida determinante cattolica, contro lo Stato unitario italiano. E si era aggiunta poi, nella seconda metà del secolo XIX, la spinta eversiva che emergeva dalla nuova questione sociale. Nell’età giolittiana questa matassa aveva cominciato a dipanarsi con modalità che avrebbero richiesto più tempo di quanto il precipitare della Grande guerra doveva concedere. Con la fine della guerra la necessità di volgere lo Stato liberale in una democrazia di massa divenne dirompente, sgretolando il vecchio equilibrio e lasciando passare il fascismo.
Il secondo dopoguerra ripropose una situazione analoga, presto accentuata dalla “guerra fredda”, e la nuova centralità del sistema politico fu una necessità vitale per la democrazia repubblicana. A sinistra comunisti e socialisti uniti in una prospettiva politica che avrebbe portato la nazione fuori dall’ambito delle democrazie occidentali. A destra forze residue del passato che rifiutavano di allinearsi al nuovo assetto istituzionale. Rispetto ad ambedue i lati l’alleanza centrista era l’unica garanzia per la democrazia italiana. Il centrismo aveva poi un’altra intrinseca virtù, essendo composto da forze politiche che non erano tra loro omogenee, né dal punto di vista ideologico, né da quello propriamente politico. Questo permetteva al centrismo di configurare tra i diversi partiti una dialettica, che si espresse lungo tutto il periodo degasperiano, quella tra un centro destra e un centrosinistra, ai cui estremi v’erano i liberali e i socialdemocratici, ma attraversava tutti i partiti di quella coalizione, segnatamente la DC, che De Gasperi trascinò con estrema fatica sulla strada delle grandi riforme che segnarono l’epoca dei suoi governi. Fu nella sostanza una coalizione che guardava a sinistra, come ebbe ad esprimersi lo stesso De Gasperi, e per quanto concerneva le forze politiche, proprio per questa loro natura ancipite, poteva tenere anche una porta socchiusa verso i socialisti, che allora erano schierati con i comunisti, ma declinavano al loro interno una dialettica democratica e non avevano interamente dismesso la loro origine libertaria e il connesso loro senso di autonomia.
Il Partito socialista era stato l’unico tra quelli europei a non aver rotto, dinnanzi al sopravvenire della “guerra fredda”, il suo legame con i comunisti, basato sul principio dell’unità di classe. Dopo il ’48 ebbe un sussulto autonomista che si esaurì in breve tempo, piombando in una oscura simbiosi, anche dal punto di vista del modello organizzativo, con i comunisti e in un evidente legame di sudditanza verso l’Unione sovietica. Si addebita soprattutto a Pietro Nenni questa scelta così avulsa dalla prospettiva del socialismo italiano ed europeo. Ma va anche notato che il PSI, specie dopo la scissione di Saragat, nella maggioranza del suo tessuto militante era l’erede storico del vecchio massimalismo e terzismo, piuttosto che del riformismo socialista. Nenni sapeva bene queste cose e mutò radicalmente indirizzo solo nel 1956, di fronte al rapporto Kruscev che metteva inequivocabilmente a nudo il lascito totalitario dello stalinismo.
La lunga vacanza socialista fu indubbiamente causa di una distorsione profonda nella formazione del sistema politico italiano, lasciando alle forze democratiche uno spazio per consolidarsi come forze di governo, del quale solo la DC seppe approfittare e da cui non si sarebbe mossa neppure con il centrosinistra. Fu dunque in questi termini e in questi frangenti che la porta rimase schiusa ai socialisti. Si trova una testimonianza significativa di ciò in una lettera di De Gasperi a Sturzo. Quest’ultimo aveva polemicamente patrocinato, di contro alla impostazione proporzionalistica, con premio di maggioranza, della legge elettorale del 1953, il modello opposto del sistema uninominale. De Gasperi lo redarguiva ricordandogli che così si sarebbero spazzati via i partiti laici e in particolare quello di Saragat, chiudendo definitivamente la porta al PSI di Nenni, che per sua natura costituiva pur sempre una riserva democratica. Al contrario l’alleanza centrista doveva essere la condizione e il presupposto per allargare lo schieramento democratico rispetto ai comunisti e alle destre anticostituzionali, che in quella fase mostravano una temporanea riviviscenza.
La fedeltà al centrismo degasperiano permise di conseguire risultati decisivi per il rilancio politico ed economico del paese, ma i partiti liberali e democratici ne colsero molto parzialmente il frutto e ne pagarono anche un prezzo. La pressione clericale della Santa Sede fu in quegli anni molto pesante, solo attutita dai comportamenti di governo della DC e non fermamente contrastata, salvo nel “caso Sturzo” del 1952, per la formazione di una lista anticomunista nelle elezioni del comune di Roma con la partecipazione dei monarchici e dei neofascisti, patrocinata dalla Santa Sede. La reazione della DC ed anche di una larga parte del mondo cattolico, dinnanzi a questa pretesa, fu ferma. Ma certamente decisivo fu il ruolo dei partiti liberaldemocratici, che si opposero subito vigorosamente, il che diede a Sturzo la possibilità di ritirarsi dalla contesa. Pio XII fu così costretto a desistere dal suo progetto che aveva come esecutore Gedda contro De Gasperi. Ma l’episodio fu il caso emblematico di quella invadenza nella vita civile della nazione da parte del clericalismo cattolico, allora ancora fortemente militante, che suscitava la reazione della pubblica opinione laica e che segnò il ruolo dei partiti liberaldemocratici nei confronti di questo loro naturale elettorato, adombrando anche il loro apparentamento con la DC nella competizione elettorale del ’53.
Si cementò invero nel contesto di queste vicende la definizione dei partiti liberal-democratici come partiti “laici”, che non era l’unica, né la più pregnante definizione di ciascuno di loro, ma era soprattutto il segno della loro distinzione dalla DC con la quale avevano stretto un necessario patto di governo. Battaglia si pone due interrogativi pertinenti: perché nel contesto che abbiamo delineato i partiti “laici” non promossero un’“unità laica” delle loro forze, che invero fu La Malfa a suggerire, sulle colonne de «Il Mondo», negli ultimi anni del degasperismo? Fu questa la ragione, dopo aver dato nel dopoguerra un contributo così centrale per il rilancio della nazione, della loro progressiva perdita di ruolo? Le osservazioni di Battaglia a riguardo forniscono risposte conseguenti, che vorremmo qui mettere ulteriormente a fuoco.
Le elezioni del ’53, con il mancato raggiungimento del quorum, previsto dalla legge elettorale, per adire al premio di maggioranza (era del 50,01 per cento, vale la pena ricordarlo oggi), segnarono una sconfitta del “centrismo”, anche se lo scatto si era ampiamente verificato, come si vide dal calcolo successivo del milione e più di voti contestati dalle commissioni dei seggi elettorali, ed anche se alla fine il numero di seggi conquistati nelle due Camere dava una stretta ma sicura maggioranza ai partiti di quella coalizione che, pur se con qualche incertezza, resse i governi della seconda legislatura. Ma soprattutto fu una sconfitta di De Gasperi, non solo perché non venne confermato alla presidenza del Consiglio, ma perché vennero meno con lui i principali due obbiettivi che si era in ultimo proposto di conseguire. Cadde il progetto di una comunità politica europea per cui, proprio ad iniziativa di De Gasperi, si erano poste le premesse nella formulazione del trattato della Comunità europea di difesa (CED). La CED cadde nell’agosto del 1954 per il voto contrario dell’Assemblea nazionale francese. Ma De Gasperi aveva insistito perché l’Italia desse il suo voto favorevole prima che la Francia si pronunziasse, cosa che non fece e ciò indubbiamente facilitò la decisione di respingere il trattato da parte della Francia. Con il mancato scatto del premio di maggioranza venne meno anche il disegno perseguito da De Gasperi di un nuovo ciclo di riforme, dopo quello della prima legislatura, che investisse anche i problemi di riforma costituzionale che erano stati già formulati in progetti di legge, senza che fosse stato possibile dar loro seguito prima delle elezioni nelle due Camere: in particolare la legge sul referendum, la riforma del Senato, con lo snellimento dell’iter legislativo, la definizione delle prerogative costituzionali del presidente del Consiglio e il conseguente rafforzamento dell’esecutivo in Parlamento.
De Gasperi scelse Fanfani come suo successore e lo impose come segretario della DC come suo ultimo atto politico. La scelta fu dettata dalle provate capacità di governo dell’uomo, che De Gasperi considerava essenziali per un nuovo e necessario ciclo di riforme. Si scontrò su questo punto con il vecchio ceto dirigente di origine popolare che era stato al suo fianco in quegli anni e che diffidava di Fanfani. Ma De Gasperi ritenne, soprattutto dopo la sconfitta elettorale subita dalla DC, che fosse necessaria una personalità con forti capacità realizzatrici, proprio quelle che avevano caratterizzato l’azione politica e governativa di Fanfani. E fu scelta che portò la DC a conseguire un ruolo profondamente diverso da quello che aveva svolto sotto la direzione politica di De Gasperi. Questi aveva sempre inteso che nella gerarchia istituzionale prima venisse il governo, poi la maggioranza parlamentare, poi in fine i partiti. Quando, nella travagliata crisi di governo del 1950, Taviani, che era allora segretario del partito, gli aveva chiesto come configurasse il ruolo del partito, aveva risposto: «un ruolo organizzativo e di servizio». Con Fanfani il partito non si poneva più soltanto nel suo ruolo di servizio verso i gruppi parlamentari, collocati al centro della maggioranza di governo, ma si proiettava direttamente al centro delle istituzioni politiche. Con Fanfani si ha il passaggio del sistema di potere pubblico dalle forme classiche dei sistemi costituzionali liberaldemocratici a quella che sarà definita, ed ampiamente teorizzata, come la “costituzione materiale” della Repubblica, più volgarmente accusata d’essere, con riguardo al processo attraverso cui si realizzava, un’“occupazione del potere” da parte dei partiti, in particolare dalla DC. E questa in breve sarebbe divenuta la peculiare forma di partito di massa assunta dalla DC, perdendo via via, senza eliminarlo interamente, il peso che su di essa inizialmente avevano avuto le organizzazioni del laicato cattolico e la stessa struttura ecclesiale.
La DC invero, già con le elezioni politiche del ’48, si può dire che, di fatto, fosse già divenuta il partito della “nazione”, perché gran parte della società italiana, quella che si esprimeva con i suoi multipli interessi collettivi in diverse inclinazioni corporative nei rapporti con lo Stato, rimasta senza approdi sicuri nel volgere del primo dopoguerra, si riversò su di essa. La perdita di consensi elettorali non oscurava questa composita realtà strutturale e la direzione impressa da Fanfani e dai suoi sodali della corrente maggioritaria di “Iniziativa democratica”, tutti appartenenti alla seconda generazione della DC, andava verso un consolidamento organico di questi rapporti. Le voci di un diverso orizzonte di iniziativa politica, come era stata, ad esempio, quella di Vanoni, per una ragione o l’altra si spegnevano. In che direzione avrebbero dovuto marciare i partiti “laici” per riacquistare quel ruolo così rilevante che avevano avuto in passato? Avevano in realtà un’unica strada, quella di allargare lo schema centrista e fare entrare in gioco il partito socialista verso l’ipotesi di una maggioranza di centrosinistra. Fu la posizione che subito nel ’54 prese La Malfa e, dopo il ’56, anche Saragat. Si mossero dunque con orientamenti diversi, dividendosi più volte intorno a questo obbiettivo. Malagodi aveva assunto la guida del partito liberale ed agì invece in senso contrario. Provocò così una nuova scissione da parte della sinistra liberale, che faceva perno sul gruppo degli amici de «Il Mondo». Questa minoranza fondò il partito radicale, affiancando La Malfa e i repubblicani nel sostenere lo sviluppo dell’operazione di centro sinistra. Malagodi visse una contraddizione di schieramento che non aveva costrutto politico. Poiché la prospettiva di un equilibrio con i partiti di destra non aveva fondamento plausibile, sebbene su di essa convergessero di volta in volta le tentazioni tattiche della DC. Fece allora una difesa di principio di un centrismo, che nei fatti era sempre più soltanto una formula transeunte di governo, per cercare di formare poi un’alternativa di destra da lui rappresentata, proprio quando la DC, anche se lentamente, prendeva anch’essa a muoversi verso il centro sinistra. Le convergenze unitarie d’altra parte non furono possibili neppure tra i repubblicani e radicali da un lato, socialdemocratici dall’altro.
Una considerazione va fatta anche sulla natura elettorale di questi partiti liberal-democratici. Erano partiti di opinione. I liberali avevano rapidamente perso le clientele del loro notabilato, soprattutto nel Mezzogiorno e avrebbero acquistato un più ampio margine di opinione elettorale al Nord con Malagodi, per le loro più marcate posizioni di destra, soprattutto nella politica economica. Saragat non era riuscito a costruire un partito socialdemocratico che avesse capacità di indirizzo riformistico e il suo partito era un amalgama di posizioni clientelari e di residui dell’opinione più moderata della tradizione socialista. Di contro i repubblicani erano, come aveva acutamente notato Togliatti, “un piccolo partito di massa”, per il radicamento popolare in alcune limitate e circoscritte aree territoriali, la cui origine era negli ideali, ancora vivi, della tradizione mazziniana, a cui già nel ’48 Parri e La Malfa avevano portato l’ulteriore consenso di opinione che veniva dalla loro militanza azionista, e di cui poi La Malfa avrebbe esteso il raggio a partire dagli anni ’60. L’impatto sulla nuova DC, quale si configurava dopo De Gasperi, non poteva essere che scarso. Soprattutto La Malfa, ch’era il vero leader politico della piccola coalizione repubblicano-radicale, contava sui socialisti per aprire un varco ad una nuova iniziativa politica, non trovando mai la necessaria corrispondenza.
C’era infatti nei socialisti una venatura integralista che non avrebbero mai dismesso, neppure con Craxi. L’obbiettivo prioritario di Saragat era quello di vincere la partita del socialismo italiano, costituendo un partito che riflettesse le sue posizioni, almeno quelle che aveva enunciato con la scissione di palazzo Barberini. Si può dire che vi riuscì perché nel 1966 i due partiti si unificarono nella progressione ormai interamente svilita delle prospettive del centrosinistra, per tornare poi a dividersi nel 1971. Nenni invece si guardava le spalle dai comunisti, avendo chiaro nella sua mente che, fatta la scelta di centro, non poteva più tornare indietro, senza essere definitivamente risucchiato dal PCI. Pretendeva così di rappresentare la sinistra all’interno del governo, aspirando ad un “patto” esclusivo “tra socialisti e cattolici”, formula che sarebbe stata espressa in seguito dai comunisti, con altrettanto insuccesso. Si presentarono al tavolo delle trattative, per la composizione del governo organico di centrosinistra, con un programma che pretendeva prospettare un “riformismo” che aveva un accento “anticapitalista”, sostenuto in particolare da Riccardo Lombardi, che presiedeva alla politica economica del PSI.
Il socialismo italiano era in ritardo nella necessaria evoluzione che i tempi richiedevano. Se faceva un passo avanti sul terreno politico, rimaneva di numerose leghe indietro, specie se lo si compara all’elaborazione teorica e programmatica compiuta un ventennio prima dai partiti scandinavi e dal laburismo inglese e più recentemente dalla socialdemocrazia tedesca. Proprio questo era il punto: non avevano saputo evolvere in un partito socialdemocratico all’altezza dei compiti che la società italiana allora postulava. Nel congresso del PSI di Napoli, del 1958, il dibattito era stato vivace ed interessante, guidato da due esponenti che venivano dall’azionismo, Vittorio Foa e Riccardo Lombardi, ma con sfumature diverse il tema centrale non era stato propriamente quello del consolidamento democratico del grande sviluppo del capitalismo, che si stava verificando in quegli anni in Italia, mentre il sottotraccia rimaneva quello, anche se non apertamente dichiarato, della transizione al socialismo. Lombardi, su una posizione più sfumata di Foa (che nel ’64 avrebbe partecipato alla scissione del PSIUP, un partito che avrebbe finito per avere come caratteristica preminente il suo filo-sovietismo), spinse dunque il riformismo socialista verso soluzioni dall’accento anticapitalistica o almeno con una riserva punitiva nei riguardi di esso. Era inoltre evidente un’inclinazione, sempre presente nell’immaginario socialista, che in lui aveva anche una radice azionista, quella di essere nei fatti a sinistra del PCI. E quanto traspare dai maggiori provvedimenti varati dal primo centro sinistra, che furono realizzati dal governo Fanfani, la cui maggioranza era ancora basata sulla partecipazione del PSDI e del PRI e l’astensione del PSI. La cedolare secca, la riforma urbanistica e la nazionalizzazione dell’energia elettrica furono tutti provvedimenti mal calibrati per la loro radicalità e per l’impatto che ebbero sullo sviluppo economico. Nella nazionalizzazione dell’energia elettrica prevalse poi la tesi meno abrasiva, patrocinata da Guido Carli, il governatore della Banca d’Italia. La grande massa di rimborsi della nazionalizzazione furono devoluti non direttamente agli azionisti, ma alle imprese elettriche espropriate. Un ceto manageriale privato, anch’esso non preparato a sostenere un tale impiego di nuovi investimenti. Così il fallimento dell’operazione di centro sinistra si accompagnò a quello industriale della dirigenza delle ex società elettriche, confermando che quella peraltro era stata una debolezza storica, e rimaneva tale, dei ceti dirigenti di una parte del capitalismo privato italiano, in particolare quelli riuniti nell’Assolombarda e che nel modo più acerrimo avevano contrastato la nascita del centrosinistra.
Chi calò nel dibattito politico la carta decisiva ai fini di una prospettiva riformatrice, fu Ugo La Malfa, con la sua proposta di consolidare lo sviluppo italiano con una “politica dei redditi”. Del resto tutte le proposte prodotte per il centrosinistra dai repubblicani e radicali (considerando anche l’elaborazione programmatica dei convegni degli amici de «Il Mondo», in cui anche La Malfa ed altri esponenti repubblicani si erano impegnati a fondo) furono quelle più pertinenti ad un programma che tenesse conto del funzionamento di un’economia di mercato, mettendo, tra l’altro, l’accento sulla necessità di rimuovere gli ostacoli alla concorrenza, e che vedrà poi la sua maggiore realizzazione, purtroppo assai tardi, con la legge antitrust, proprio quando Battaglia assunse la carica di ministro dell’Industria (su cui questo libro dà ragguagli molto interessanti). La “politica dei redditi” era stata il punto di partenza del programma delle socialdemocrazie nordiche e come tale prendeva allora a realizzarsi nella Repubblica federale tedesca (in Italia per conseguire questo obbiettivo si dovette aspettare il 1993, quando il problema non era più quello di dividere il surplus prodotto, ma non poteva altrimenti vertere che su di una politica di controllo della crescita salariale). Questa proposta di La Malfa aveva allora, nel contesto italiano, un carattere rivoluzionario. Significava spazzare via le vecchie modalità del corporativismo italiano, centralizzando il rapporto organico tra lo Stato e le parti sociali, nelle loro rappresentanze di vertice, organizzazioni sindacali e padronali, e accompagnarla con una politica di bilancio congruente, che privilegiasse gli investimenti sociali e produttivi, per sostenere l’obiettivo della piena occupazione e sanare gli squilibri sociali e territoriali, specie quello del Mezzogiorno, ed affrontare il problema del welfare italiano, particolarmente urgente in quel momento di grande trasformazione e in presenza di un inarrestabile flusso di emigrazione interna. Questa, essendo accompagnata dalla precipitosa caduta dell’occupazione agricola, modificava tra l’altro la natura delle aree metropolitane del Nord, e non solo di esse, ed avrebbe richiesto di intervenire su questi processi. Il carattere rivoluzionario della proposta di La Malfa può misurarsi dalle motivazioni con cui venne respinta. A sinistra fu intesa esclusivamente come un tentativo di bloccare la crescita salariale che allora prendeva a realizzarsi in una ritrovata unità delle organizzazione sindacali, cosa che non era affatto, presupponendo un più ampio raggio di interventi e controlli, tra cui una più equilibrata redistribuzione dei redditi. Il dialogo con i sindacati del resto era un presupposto necessario della “politica dei redditi”. Il controllo dell’azione sindacale era tuttavia in larga parte nelle mani dei comunisti, per la loro posizione dominante nella maggiore confederazione sindacale, la CGIL. Il PCI aveva vitale interesse ad allargare il suo spazio politico attraverso la conflittualità sindacale che allora era in piena ripresa. Questo era il primo dei problemi politici che la “politica dei redditi” poneva. La Malfa aveva avviato questo difficile confronto politico, come ministro del Bilancio nel governo Fanfani. Non era facile proseguirlo, ma nemmeno impossibile.
C’era poi l’opposizione espressa dalle organizzazioni padronali. Ma quello che sottotraccia emergeva come l’ostacolo maggiore stava nell’inclinazione avversa della DC. Una coerente assunzione della “politica dei redditi” importava per essa la rinuncia a quella impostazione micro-corporativa con cui aveva consolidato la sua tenuta elettorale dopo l’insuccesso del 1953, perché richiedeva una diversa gestione del bilancio dello Stato e dell’apparato industriale pubblico, nonché una politica ferma nei riguardi delle sue affiliazioni sindacali, oltre alla rinunzia dell’assistenzialismo nella politica agricola e nella vasta area dell’impiego pubblico e para-pubblico, che costituivano principali volani del suo radicamento elettorale. Questa era peraltro la sostanza del suo interclassismo ed era determinata a non perderne le redini.
La Malfa aveva messo sul tavolo la sua proposta nel 1962. L’anno seguente non aveva voluto entrare nel governo organico di centrosinistra, essendo consapevole che il massimalismo programmatico dei socialisti era privo d’una dirimente proposta politica, quale era la sua, capace di determinare la svolta necessaria. Il ’63 fu l’anno in cui si palesò la prima crisi dello sviluppo italiano, che poté essere ancora superata senza intaccarne la corsa in avanti, e fu anche quello in cui, col primo governo Moro, si realizzò la partecipazione dei socialisti. Il ’64 fu poi invece l’anno della resa dei conti tra la DC e il PSI, che doveva spazzar via gli accenti massimalistici del programma di centrosinistra, voluti dai socialisti, lasciando sopravvivere un corpo senza anima.
La Malfa non abbandonò la sua posizione di centro nello schieramento politico, ma sapeva che l’esperimento di centrosinistra era morto sul nascere. Erano stati i “dorotei” a seppellirlo, non solo Segni, ma anche gli altri, con l’inerzia di Moro, che giustamente Battaglia stigmatizza. L’equilibrio della DC fu la scelta pregiudiziale, rispetto al consolidamento e al rilancio dello sviluppo economico del paese. A prendere le redini della politica economica fu l’asse Colombo-Carli. Battaglia ci fornisce elementi per individuare proprio in Colombo, l’esponente della DC che si muoveva in quella direzione, già da prima che si costituisse il centrosinistra organico. Questi strinse con Carli quello che si sarebbe rivelato un “pactum sceleris”. L’accumulazione del capitale veniva posta sotto l’egida della Banca d’Italia, attraverso un contingentamento del credito, che riduceva la platea sulla quale le imprese industriali private potevano attingere al loro fabbisogno creditizio e faceva dell’industria pubblica il principale polmone degli investimenti produttivi, a cui si aggiungeva il sostegno finanziario, anche attraverso gli incentivi statali, tra le altre scelte, dello sviluppo delle iniziative imprenditoriali nella chimica di base, già sovrastimato rispetto agli sbocchi possibili sul mercato. Scelte quasi tutte errate, il cui ciclo avrebbe preso a declinare nell’arco di poco più di un decennio. Ma c’era un altro elemento decisivo di questo “pactum sceleris”, l’abnorme dilatarsi della spesa corrente statale. Già nel 1971 il risparmio primario del bilancio dello Stato sarebbe venuto meno e la spesa per investimenti diminuiva e passava i deficit. Il sistema impiantato dalla DC, e incrementato anche dagli altri partiti, continuava ad alimentarsi nel modo tradizionale, portando alla stagnazione, piuttosto che allo sviluppo dell’economia italiana.
L’unico partito ad essere consapevole delle conseguenze che derivavano da tutto ciò fu quello repubblicano. La Malfa prese a centrare la sua attenzione sul continuo slittamento della politica di bilancio. Era questa una situazione, che La Malfa aveva previsto, in cui tutti gli attori politici, sindacali ed economici, giocavano le proprie carte in modo slegato, l’uno dall’altro. Mentre la pressione salariale faceva un balzo eccessivo in avanti, mossa da una vera e propria insorgenza sindacale, si complicava la situazione internazionale, portando, nel 1973, al primo shock petrolifero. C’erano anche altre personalità, nelle istituzioni, che erano consapevoli delle conseguenze di quanto stava accadendo, ma La Malfa era l’unico che ne tirava le conseguenze politiche. Nel ’74 era ministro del Tesoro. Respinse due volte la dimissioni di Carli, per darle poi lui stesso, prendendo pretesto da un disaccordo con il socialista Giolitti sulle clausole del prestito che il Fondo monetario internazionale aveva concesso all’Italia (sono interessanti i ragguagli che Battaglia fornisce su questo punto). Nel 1975 l’Italia precipitava nella più grave crisi economica dal dopoguerra e in una competizione elettorale amministrativa il PCI conseguiva un successo che faceva prevedere una modifica profonda dei rapporti di forza nel sistema politico.
Può dirsi, che sulla piattaforma delle idee espresse da La Malfa, il partito repubblicano fu allora l’unico a rinnovarsi profondamente tra i partiti liberal democratici. Negli anni ’70, mantenendo alcune delle sue positive caratteristiche tradizionali, allargò la sua sfera di partito d’opinione. Divenne il punto di riferimento di una minoranza consapevole e coesa nell’intendere qual era l’effettiva realtà italiana e quale avrebbe potuto essere la politica necessaria per uscire dalla sua condizione critica, mantenendo un elevato livello di civiltà e continuando a garantire il suo sviluppo economico. Battaglia ci fornisce nel suo libro preziosi elementi per ricostruire questa nuova ascesa. Notevole fu la mobilitazione intellettuale intorno al partito, che egli ci descrive. Fu una terza fase, dopo gli anni del dopoguerra e quelli della formazione del centrosinistra, di vivacità intellettuale e di formulazione di intendimenti politici. A quest’ultima metamorfosi partecipava soprattutto una nuova generazione, la cui esperienza aveva intere le sue radici nella Repubblica. E ciò a riprova che la tradizione liberal-democratica, anche in Italia, non tende a spegnersi, ma per manifestarsi sull’arena politica, molto dipende dai contesti in cui può svilupparsi e dalle analisi e prospettive che in essi vengono formulate. Né il partito di La Malfa poteva avere più seguito di quello che pure aveva, perché la soglia raggiunta dal paese come società del benessere, lo faceva scivolare lentamente su di un altro pendio, su cui necessariamente si sarebbe in parte consumato il credito acquisito e ridotta la ricchezza prodotta. A riprova, negli anni ’70, avvenne anche il passaggio della meteora radicale. Battaglie politiche e prove referendarie l’avevano fatta crescere. Le sue radici più solide erano collocate nel laicismo liberale della prima stagione radicale degli amici de «Il Mondo», che i radicali avevano saputo condurre a vittorie presso la pubblica opinione che, poco più di un decennio innanzi, sarebbero state inimmaginabili. Su quelle basi più antiche, i radicali erano anche riusciti a cogliere una folata di quel vento di mutamento antropologico che aveva investito anche l’Italia con il ’68. Ma trassero da esso anche le mitologie esistenzialistiche della “liberazione” e persero, in una rapida discesa i possibili punti di incontro con gli altri ceppi della tradizione laica. Il giudizio di Battaglia su Marco Pannella e sulla rapida metamorfosi del suo partito è da condividere ed è perfino troppo indulgente.
Ma col il 1975, a crisi economica aperta e difficile da chiudere, la “questione comunista” diveniva un problema urgente. La Malfa aveva il dono della bacchetta del rabdomante, quando si trattava di individuare i presupposti dell’equilibrio politico e i fondamenti della stabilità sociale. Era stato il primo ad aprire un dialogo aperto con i comunisti e, del resto, lo portava a ciò il suo schema originario di “politica dei redditi”, che negli anni ’70 si era volto innanzi tutto a considerare il problema della gestione del bilancio pubblico. Anche a proposito di questa fase della politica italiana il libro di Battaglia fornisce indicazioni preziose, ma sembra semplificare troppo la prospettiva politica che egli attribuisce a La Malfa. In una prima fase egli aprì il confronto con prudenza. Nella sua Intervista sul non governo, a Ronchey che lo interrogava sul significato del “compromesso storico” proposto da Berlinguer, notava che questo rispondeva ad una debolezza intrinseca dei comunisti, perché se essi avessero tentato la strada, pur possibile in quella crisi manifesta del sistema politico italiano, di un’alternativa frontale al blocco moderato guidato dalla DC, la loro autonomia nei riguardi dell’Unione sovietica sarebbe stata più ridotta, data la debolezza delle altre forze che si sarebbero aggregate in quell’impresa, a partire dai socialisti. Mentre l’accordo con la DC garantiva loro una maggiore autonomia. Giudizio acuto ed inedito che coglie in anticipo un punto sostanziale di quella vicenda, perché fu proprio l’autonomia, che quell’accordo richiedeva e permetteva, a separare il PCI dall’URSS, in un altalenare di incertezze, fino al limite della rottura, che Berlinguer sapeva avrebbe spaccato il suo partito, esito che nell’intimo suo rifiutava ed escludeva del tutto.
Dunque in una prima fase La Malfa fu assai cauto. Nel ’72 preferì, per la presidenza della Repubblica, Leone a Moro, con cui era in dissenso, proprio perché gli pareva accelerasse troppo la marcia di avvicinamento verso i comunisti. Appoggiò la svolta centrista, tenendosene fuori, ma sperando che con Malagodi al Tesoro, il governo Andreotti avrebbe fatto un passo avanti nel risanamento del bilancio statale, mentre la deriva fu disastrosamente opposta, fino alla crisi valutaria del 1974 che vide lui stesso al Tesoro per prendere atto che un governo di centrosinistra, quale era ancora quello Rumor di cui allora faceva parte, non poteva costituire la soluzione necessaria.
Gli eventi del 1975, con le dimissioni di Carli da governatore e il successo elettorale comunista, lo convinsero che occorreva voltare decisamente pagina. In quella difficile transizione si riavvicinò a Moro. Il 1976, con la sconfitta di Fanfani, fu l’anno di Moro nella DC. La Malfa condivideva con lui l’idea che occorreva affrettare i tempi e coinvolgere i comunisti nella responsabilità di governo. Un grande partito di opposizione, come ormai era il PCI, non poteva rimanere fuori da quella responsabilità. Dato il margine ampio di intervento, che con la fase consociativa iniziata dopo il ’68 gli era concesso, esso entrava ormai negli indirizzi politici dello stesso governo e soprattutto incrementava, a livello parlamentare, senza alcun freno, lo sviluppo della spesa pubblica, così da rendere indilazionabile questo passaggio. Tuttavia Moro non aveva affatto aderito alle tesi di Berlinguer. Legava la transeunte collaborazione coi comunisti ad una prospettiva più ampia di mutamento del sistema politico. Era cauto, non solo per le resistenze nel suo partito. Quando Forlani, ch’era ministro degli Esteri, gli comunicò il testo della mozione parlamentare sulla politica estera che i comunisti avevano sottoscritto (citata anche da Battaglia), si rabbuiò, perché conosceva i giochi di parole di cui si nutre la politica, soprattutto sapeva quali erano ancora i limiti della evoluzione comunista. Battaglia ci documenta la contrarietà di Moro alla crisi del governo Andreotti del novembre 1977, perché inevitabilmente comportava mettere sul conto delle trattative per il seguente governo il problema della partecipazione del PCI, uno scoglio che prima o poi avrebbe dovuto essere affrontato, ma che il leader della DC intendeva rinviare il più a lungo possibile. Individuava inoltre nell’atteggiamento di Andreotti, che aveva aperto la crisi, il tentativo di stringere nelle sue mani, come capo del governo, le redini di quei rapporti politici.
Come sappiamo sarà poi Moro a sciogliere la matassa incandescente così creatasi, prima del suo drammatico rapimento. Ma considerando il diverso ambito di responsabilità e problemi, tra lui e La Malfa, pensiamo che gli intendimenti non fossero molto diversi. Certo il leader repubblicano si espose nell’accreditare i comunisti in Italia e all’estero, scrisse anche un articolo in questo senso su «Foreign Affairs», una tribuna che è sempre stata offerta a pochissimi italiani. La parola di La Malfa aveva un peso, perché tra i politici era tra i più stimati e rispettati, e sebbene fosse il leader di un piccolo partito, nella vita italiana aveva un ruolo centrale, che gli veniva riconosciuto da tutti. Ma che condividesse la proposta del “compromesso storico” di Berlinguer, nel significato che dava ad esso il leader comunista, c’è da escluderlo. Ne coglieva il senso di responsabilità verso il paese e faceva propria la necessità di quella collaborazione, ma non il disegno politico. Battaglia fornisce una preziosa documentazione sul tergiversare di Andreotti nel 1978 sull’adesione dell’Italia al serpente europeo (SME). Questi sapeva che i comunisti erano fermamente contrari a quel provvedimento ed avrebbero messo in crisi il suo governo. Poiché era l’uomo del tanto peggio, tanto meglio, quando si trattava di valutare le proprie convenienze procedeva con bieco cinismo, prendendo così anch’egli ad inclinare per la non adesione a quel trattato. Fu La Malfa a forzare la mano di Andreotti e costringerlo a far approvare l’accordo sullo SME. Perché preferiva il vincolo esterno sulla politica economica, così rafforzato da quell’ultimo approdo dell’integrazione europea, piuttosto che cedere ad un equilibrio politico su cui transitoriamente si fondava il governo.
L’“appeasement” di Battaglia verso i comunisti in questo periodo storico francamente non si intende, al di là dei meriti indubbi che i governi di solidarietà nazionale acquisirono, migliorando in breve tempo, con una “success story”, come fu detto, la situazione economica del paese, senza riuscire tuttavia definitivamente a stabilizzarla. Basta leggere le Lettere a Berlinguer di Tonino Tatò per intendere che nel comunismo italiano rimaneva qualcosa di irrimediabilmente vetusto e profondamente immutabile. Le elezioni del 1979 furono una battuta d’arresto per il PCI. Da allora le sue fortune elettorali continuarono a scendere, invertendo l’irresistibile ascesa degli anni ’60 e ’70. Calava anche la DC e questa volta a vantaggio dei partiti liberaldemocratici. Qualcosa stava cambiando in Italia quanto al modo di orientarsi politicamente della pubblica opinione. Ma il mutamento necessario non poteva essere il pentapartito e nemmeno il governo Spadolini, perché l’uomo, con tutte le sue qualità, rimaneva un “doroteo” laico. Non lo sarebbe stato neppure il governo Craxi (il giudizio di Battaglia su Craxi è in larga parte condivisibile). Questi aveva intuito molte cose che andavano cambiate, ma in fine il destino gli affidava, dopo l’89, un compito che era quello di mutare la logica del sistema politico, assumendo la guida dell’intera sinistra italiana. Rimase fermo, nella gabbia della vecchia logica centrista, quando anche i repubblicani ne erano usciti nel 1991, mettendo in discussione, non senza contrasti interni, il loro rapporto con la Democrazia Cristiana. Proprio Craxi aveva posto per primo il problema di un mutamento istituzionale e politico, mettendo l’accento sulla “governabilità” del sistema Italia, che per altro era presente a tutti. E proprio Craxi allora si tirava indietro da quel disegno, trascurava di approfondire i problemi di transizione della sinistra italiana, che i comunisti avvertivano allora, sebbene confusamente, con l’intensità dettata dalle nuove circostanze storiche, e si chiudeva nel gioco di potere del suo accordo centrista con la Democrazia Cristiana, non cercando inoltre alcuna forma di rapporti privilegiati con le altre forze liberal-democratiche, per quella forma di integralismo socialista, che già ho sottolineato in occasione del primo centrosinistra come un errore di Nenni. Perché il corso della transizione del sistema politico ed istituzionale italiano andava inevitabilmente verso l’approdo dell’alternanza, cosa che, ad esempio, era chiara nel pensiero dell’ultimo Moro, salvo calibrarne i tempi, che alla fine degli anni ’70 si prospettavano a lui come necessariamente differiti nel tempo.
Ma alla fine degli anni ’80, essendo intervenuti mutamenti epocali sull’arena internazionale, riproponendosi per intero tutti i problemi di governo dell’economia italiana, i tempi si erano fatti più stretti. L’Italia in quel decennio era riuscita ad agganciare la positiva ripresa internazionale, aveva abbassato il saggio di inflazione, recuperato il controllo della liquidità monetaria, ma la politica di bilancio non era stata ridefinita e il rapporto debito-PIL sarebbe paurosamente cresciuto di 50 punti nel decennio 1982-1992. Non a caso gli anni ’80 sono stati definiti il decennio delle “occasioni mancate”. Perché il tempo prese a correre veloce, e il trattato sulla moneta l’avrebbe drammaticamente fatto precipitare. Questo, ad esempio, era chiaro nella mente del ministro del Tesoro, Guido Carli, che condusse le trattative sulla moneta unica, con l’abilità consumata che gli era propria, limando le clausole del trattato in modo che l’Italia potesse entrare nel nuovo sistema europeo. Intravvedeva le conseguenze, non solo economiche, e fece come Sansone con i Filistei, cogliendo l’occasione di una sua rivincita personale sulle vicende della crisi del 1975 di cui era stato, per altro, uno dei maggiori responsabili.
Bisognava, almeno in quello scorcio di legislatura, affrettare i tempi della transizione politico-istituzionale, incominciare a farsi carico di tutti i problemi aperti ed irrisolti del sistema economico e sociale italiano. Questa consapevolezza del tempo politico, che in alcuni momenti della storia diventa un elemento decisivo di responsabilità ed azione politica e che in breve si tramutò in evento storico per la democrazia italiana, mancò quasi interamente alla classe politica di allora e sembra ancora in parte mancare nell’accurata ricostruzione di quegli anni di Adolfo Battaglia.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft