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La Buona Scuola è quella italiana?
di Giovanni Carosotti
Il nuovo progetto di riforma della scuola, presentato dal ministro Giannini, ma in realtà concepito per essere immediatamente riferito all’efficiente opera riformatrice dell’attuale presidente del Consiglio, da cui mutua in parte lo stile comunicativo, sembra avere buone possibilità di andare in porto e di concretizzare un radicale e sconvolgente cambiamento negli assetti della scuola italiana, di realizzare finalmente quelle trasformazioni inseguite ormai da un ventennio da una lunga serie di ministri, che sembravano però scontrarsi contro un’istituzione tetragona a non voler rinunciare ad alcune sue identità caratterizzanti.
Se il decisionismo renziano riuscisse nei suoi propositi – e questo dipenderà innanzitutto dall’esito di alcune riforme collaterali, a partire dal fondamentale Job Act, con cui, come diremo, il progetto de La Buona Scuola presenta significativi punti di convergenza – il quadro che ne uscirebbe sarebbe di mutamento profondo, sia negli assetti strutturali e organizzativi (in particolare la composizione e la selezione dell’organico), sia per i contenuti didattici, con una ricaduta sicuramente considerevole sul processo formativo delle future generazioni.
Non è possibile tenere separate le due questioni (quella relativa al personale docente e la profonda modifica della metodologia didattica) che inevitabilmente si richiamano. Intendiamo però focalizzare la nostra attenzione soprattutto sul secondo aspetto, per individuare una logica coerente con i passati progetti riformatori, i cui primi tentativi risalgono ormai a due decenni fa. L’impressione è infatti che, nonostante l’enfasi sui caratteri di novità del provvedimento che l’attuale governo andrebbe a presentare, i principi su cui poggerà la nuova scuola siano già stati decisi da tempo e, rispetto ad essi, le politiche ministeriali dei vari governi hanno in questi anni proceduto con continuità.
Invero, respinti i due progetti di riforma organici che avevano tentato di sostituirsi all’impalcatura di origine gentiliana (quello proposto dal ministro Berlinguer e quello, successivo, dal ministro Moratti) anche per un’evidente difficoltà a piegare la resistenza dei lavoratori della scuola, gli esecutivi hanno mutato strategia per incidere in profondità sulla realtà scolastica: non più magniloquenti progetti riformatori, bensì singoli provvedimenti di carattere amministrativo (aumento di alunni per classe, cambiamento del quadro orario, nuove modalità di organizzazione dei concorsi), oppure l’introduzione di sperimentazioni didattiche (fra tutte quella della metodologia CLIL) che, pur non cambiando in apparenza il quadro d’insieme, producevano mutamenti che solo con il tempo avrebbero trasformato la didattica nella direzione desiderata. Questo modo di procedere ha in qualche modo sorpreso gli stessi insegnanti, incapaci di comprendere tali provvedimenti, di contestualizzarli in riferimento a un progetto organico, per poi accorgersi solo in ritardo degli effetti – dal punto di vista docente di indubbia radicalità – prodotti da tali decisioni.
Per farsi un’idea adeguata del progetto renziano bisogna partire proprio da qui: Matteo Renzi eredita un quadro d’insieme inesorabilmente mutato che rende più semplice la sua azione di totale stravolgimento dell’assetto scolastico, nei confronti di un personale ormai disorientato e a volte incapace di opporre una seria resistenza anche dal solo punto di vista teorico.
Le proposte di intervento sulla scuola sono state affidate a un documento pubblicato on line1, con un titolo ormai celebre, quello de La Buona Scuola. La determinazione, più volte esibita dall’attuale Presidente del Consiglio, di dare luogo a un’effettiva realizzazione delle riforme auspicate dal suo governo, superando le titubanze o le contrarietà di parte dell’opinione pubblica, può venire positivamente concretizzata solo se accompagnata da un’intensa campagna promozionale, finalizzata a sottolineare – in modo per lo più strumentale – il carattere di novità dei provvedimenti proposti.
La nostra riflessione intende articolarsi in tre momenti distinti, per offrire un quadro complessivo della problematica e dei conflitti che coinvolgono in questo periodo la scuola italiana, e che La Buona Scuola» è destinata ad accentuare:
1. un’analisi relativa al tema delle «competenze», principio teorico fondamentale delle nuove teorie pedagogiche e che rappresenta il denominatore comune e trasversale di tutte le politiche scolastiche perseguite in Italia dall’inizio degli anni Novanta a oggi. Tale concetto presenta notevoli difficoltà in merito alla sua fondazione e la letteratura a riguardo è impegnata in continui tentativi di ridefinizione dai quali dipendono poi le concrete scelte legislative;
2. una riflessione sul CLIL, acronimo con cui si indica una nuova metodologia didattica, forse lo strumento più efficace per introdurre nella scuola la «didattica delle competenze», destinata a sconvolgere le caratteristiche tradizionali della professione docente; i cui fondamenti teorici, però, risentono delle stesse difficoltà e contraddizioni proprie della teoria pedagogica che ha elaborato il principio delle competenze;
3. una considerazione del documento La Buona Scuola, in particolare dal punto di vista delle eventuali applicazioni didattiche e, quindi, dell’impatto culturale che è destinato ad avere – qualora si realizzasse – nel nostro paese, riconfigurando su un piano quasi antropologico le figure del docente e del discente.

Non bisogna però dimenticare, proprio in virtù della funzione specifica che la scuola riveste nel contesto di una nazione, che tale analisi – inevitabilmente di carattere specialistico – trova senso solo se considerata all’interno di una svolta di carattere culturale epocale, molto più vasta, in cui sotto attacco è l’intero ambito del “sapere umanistico”, giudicato secondo criteri di superfluità, tanto più accentuati in un momento storico in cui la grave crisi economica conosciuta dal Paese pretende risposte immediate, operative, piuttosto che analisi teoriche impostate sul lungo periodo2; la scuola non può non avvertire tale urgenza e, perciò, sarebbe chiamata a un atto di inevitabile subordinazione alle esigenze dell’economia e della produzione, il che implicherebbe una radicale revisione dei programmi e delle metodologie didattiche. Ciò comporta, come vedremo, una palese ostilità per qualsiasi impostazione disciplinare e didattica che possa richiamare una dimensione storicistica del sapere, troncando di netto il legame che la scuola in Italia aveva mantenuto con la tradizione più viva e feconda della cultura nazionale3 .
Anche se tale aspetto non è l’oggetto principale delle presenti pagine, pure ne rimane un punto di riferimento implicito. Tale strategia culturale è, a nostro parere, perdente e giustifica il punto di vista critico nei confronti di quelle riforme che, richiamandosi ad essa, vengono ritenute necessarie in questa fase storica. Esse, infatti, sono destinate a realizzare un classico caso di eterogenesi dei fini; ovvero a non favorire la formazione dei discenti anche rispetto a quelle esigenze di ordine economico e produttivo che il governo considera una priorità. Al di là del fatto – e anche questo emergerà tra le righe di quanto andremo considerando – se sia questo il fine più consono della scuola all’interno di una comunità nazionale.



1. Le competenze: un concetto chiaro?

Il concetto di «competenza», considerato dalle Istituzioni europee e italiane quale nuovo criterio didattico capace di individuare le acquisizioni che un discente deve dimostrare di possedere alla fine di un ciclo di studi, indispensabili per poter parlare di successo formativo, implica un’idea di scuola che, se si realizzasse effettivamente, ne cambierebbe completamente i connotati.
Il punto è che su tale concetto non c’è affatto chiarezza in merito al significato, il che genera evidente confusione nel momento in cui si propongono nuove modalità di didattica che dovrebbero fondarsi proprio sulla trasmissione di competenze. A dimostrare quanto in questi ultimi anni nulla sia cambiato rispetto ad una pluralità confusa di interpretazioni sulle quali ci eravamo già soffermati su questa rivista4, basti questa dichiarazione di Orazio Niceforo, un pedagogista che da anni sostiene una rivoluzione della didattica all’insegna di principi cognitivistici: «Come è noto, tuttavia, il dibattito sulle competenze non è mai approdato a una conclusione condivisa. Il termine, utilizzato originariamente nel mondo del lavoro, è stato poi esteso a quello dell’istruzione scolastica essendo stato individuato come elemento di collegamento sistemico tra i due mondi. Ma mentre, pur con molti distinguo, la nozione di competenza è stata accolta nel mondo del lavoro soprattutto con riferimento alle competenze tecnico-professionali (un po’ meno per quelle di base), più difficile è stato applicarla nella scuola, anche se non pochi sono i riferimenti giuridici che usano questo termine […]»5. È significativa l’ammissione del fatto che il legislatore continui a produrre normativa incentrata su un concetto la cui definizione non è affatto chiara; sorge naturale il sospetto che dello stesso se ne voglia fare un uso ideologico, nel momento in cui diventa riferimento normativo pur a fronte di una palese confusione concettuale. Evidentemente, sotto il tema delle competenze, si nasconde una volontà di modificare la natura della relazione didattica per fini che trascendono la semplice convinzione teorica; si avvalora semmai il sospetto che la presunta innovazione delle competenze costituisca esclusivamente un pretesto per portare avanti una linea politico-culturale già considerata, a prescindere da tutto, più funzionale al nuovo contesto storico.
Non c’è dubbio che questa debolezza teorica abbia costituito un vulnus per le politiche riformatrici, e che abbia consentito al corpo docente di opporre una ragionata resistenza a pratiche innovative che, al di là del linguaggio tecnicistico con cui erano formulate, manifestavano una chiara difficoltà a concretizzarsi in un orizzonte pratico. Questo proliferare di teorie a partire da concetti non adeguatamente fondati è in realtà una costante di molti studi, i quali, ricercando basi scientifiche per un modello d’istruzione la cui validità è già stata decisa a priori, prima ancora che tali basi siano state precisate nella loro fondatezza epistemologica, finiscono per autocontraddirsi fra loro, per avvolgersi in una spirale concettuale che non trova mai una soluzione definitiva e che nonostante tutto non demorde – né riconosce i propri limiti, pur di fronte a dati falsificanti – solo perché supportata dalle diverse autorità ministeriali le quali, a prescindere dal merito, agiscono già per trasformare la scuola secondo criteri che – come vedremo – fanno riferimento a una mentalità e a una cultura produttivistica6.
Vogliamo a proposito fare riferimento a un genuino tentativo di rilanciare il tema delle competenze, in virtù delle vistose lacune della pubblicistica in merito, da poco pubblicato da Giuliana Sandrone7. Un’analisi articolata che ci permette non solo di fare il punto sull’attuale stato del dibattito, e valutare se il concetto di “competenza” ha finalmente acquisito quello statuto scientifico da sempre rivendicato.
Come già Niceforo, la studiosa trae un bilancio della discussione sconfortante, in particolare nella sua applicazione normativa, dove «l’utilizzo spesso contraddittorio ha fatto sì che, tra ripetizioni, fughe in avanti e retrocessioni, la confusione, oggi, regni sovrana»8. In realtà il testo si scherma «evidenziando la complessità del termine competenza», il quale possiede «un ampio campo di referenza»9; si tratterebbe quindi di un fraintendimento, da parte del legislatore, del valore pedagogico più autentico di questo concetto, piuttosto che di un’intrinseca debolezza dello stesso. Fatto sta che non si capisce come, da tale confusione, sia derivata la decisione di fare di tale «attrattore strano» il «fine dichiarato del nostro sistema educativo nazionale», finalità che l’autrice non mette mai in discussione, in quanto «si è andato imponendo nella realtà istituzionale della scuola»10, a fronte dell’incomprensione che lo circonda.
In realtà questo fraintendimento nasce, a parere dell’autrice, da una distinzione che non è stata colta neanche da coloro che hanno recepito positivamente la nuova teoria. La competenza, ovvero, non è stata intesa in modo «personalista», bensì «oggettualista»11, vanificandone le potenzialità didattiche e impedendo alla scuola di rinnovarsi effettivamente.
A nostro parere, invece, tale distinzione è puramente strumentale e si fonda sulla retorica della “falsa contrapposizione”, frequente in questo tipo di letteratura12. In breve, la competenza «oggettualista» è quella propria del contenuto disciplinare, e valuta i risultati dell’azione didattica in relazione a standard definiti e riferibili all’argomento di studio. Quanto detto coincide con la pratica didattica oggi più diffusa e si ricollega a una posizione la quale ritiene centrale nell’azione educativa la trasmissione effettiva di sapere, concentrandosi sulle diverse discipline del curricolo; e che presuppone anche una relazione asimmetrica tra docente e discente, poiché quest’ultimo è tenuto a fare propri dei contenuti scelti dal primo i quali, in genere, coincidono con quel sapere che la comunità degli adulti ritiene necessario trasmettere alle nuove generazioni13.
Il punto fondamentale su cui riflettere è che tale impostazione non esclude affatto, come vorrebbe l’autrice, la personalizzazione del rapporto formativo, pedagogico e didattico, il quale rimane l’aspetto che più qualifica il lavoro del docente di Scuola superiore, nel momento in cui cerca di condurre l’alunno al superamento delle personali difficoltà. Ma l’obiettivo che egli si prefigge è quello di emanciparlo nel proprio bagaglio conoscitivo, di condurlo alla conoscenza critica di contenuti disciplinari che, probabilmente, egli farà fatica ad incontrare in modo approfondito nell’ambiente domestico, e senza i quali è impossibile realizzare una crescita personale in armonia con il contesto civile e culturale nel suo complesso.
Invece la «logica personalistica», privilegiata dalla Sandrone, attribuendosi illegittimamente l’interesse esclusivo di concentrarsi sulla persona, sostiene la necessità di «un’adesione autonoma della persona stessa che, dotata di libertà e responsabilità, diventa soggetto attivo e insostituibile di questo processo»14. L’equivoco di quanto qui sostenuto si basa proprio sulla falsa contrapposizione tra oggettivismo e soggettivismo: che la relazione educativa preveda l’adesione partecipata e coinvolta dell’allievo è un’ovvietà, e le migliori teorizzazioni in questo senso le troviamo già espresse chiaramente da Giovanni Gentile15. Vi è però una differenza sostanziale: se fine della comunicazione educativa sono i saperi disciplinari ritenuti necessari per l’emancipazione del discente, uno degli aspetti più qualificanti dell’attività didattica sarà proprio stimolare la motivazione verso tali contenuti; l’insegnante già oggi non deve limitarsi alla trasmissione asettica di questi saperi, bensì trovare – in un contesto formativo quale quello liceale – le strategie comunicative – anche e soprattutto di carattere individualizzante – atte a stimolare quell’interesse verso il nuovo e l’estraneo, che emancipa dalla rassicurante visione del mondo tutta incentrata sul proprio ego16. Non può dunque essere l’alunno a scegliere da sé i contenuti, pena proprio l’impossibilità di aprirsi veramente al mondo esterno e potervisi relazionare in modo creativo e produttivo.
Non a caso l’approccio personalistico conduce di fatto – per ammissione della stessa Sandrone – all’annullamento del sapere disciplinare: «l’apprendimento così inteso sposta la propria centratura dall’acquisizione dei contenuti culturali allo sviluppo di capacità che, attraverso quegli stessi contenuti, la persona realizza. […] Anche il più nobile oggetto culturale, a questo punto, non è più scopo (obiettivo) dell’azione educativa, ma diventa strumento indispensabile, questo sì, per favorire l’essere competente di ciascuno che sarà tale in quanto avrà trasformato l’acquisizione di sapere in una parte di sé, che gli permette in una dimensione di gratuità di agire bene, sia nella riflessione su di sé, sia nelle relazioni con gli altri»17. Il lettore poco avvezzo alla retorica pedagogistica potrebbe provare un’impressione di stupore nel vedere date per scontate così numerose relazioni inferenziali; la non focalizzazione dell’oggetto culturale, diventato strumento, quindi pretesto per sviluppo di capacità ad esso esterne, realizzerebbe il miracolo di trasformare quel sapere in parte di sé, migliorando l’autoriflessione e le relazioni esterne. Si tratta di affermazioni superficiali, non provate nella loro diretta contiguità. È ovvio che la rinuncia alla centralità dell’oggetto disciplinare prevede – come abbiamo già dimostrato – la rinuncia dello studio di una disciplina nella sua continuità storica; se infatti il contenuto diventa pretesto esso può essere diviso, spezzettato, considerato a prescindere dalle relazioni con ciò che lo precede o che lo segue, poiché da valorizzare sarebbe solo l’abilità che la riflessione su di esso è in grado di perseguire18. D’altra parte tale competenza, proprio perché dovrebbe mettere in evidenza le caratteristiche più proprie della personalità che, diventatane infine consapevole, saprebbe metterle in gioco nei campi più diversi, sfugge da qualsiasi valutazione oggettiva; anzi, «la competenza, così intesa, infatti, non è “insegnabile” e, in corrispondenza, deterministicamente acquisibile, proprio in quanto appartiene alla singolarità di ciascuna persona; ma essa può, anzi, deve essere promossa e favorita nel suo crescere e rafforzarsi, proprio dalle buone capacità presenti in ciascuno, ancorché in modo diverso»19. Ritorna quel “classico” di certa riflessione pedagogistica che consiste nell’accentuare il più possibile il carattere indeterminato del proprio oggetto, gettando il lettore in uno stato confusionale nel momento in cui cerca di tradurre quanto letto in una concreta situazione didattica. Anche perché la competenza non solo non è «insegnabile», ma neppure «valutabile» se non «qualitativamente ex post e in itinere». Diventa quindi «impossibile […] collegare univocamente la competenza a una singola disciplina, a un unico sapere culturale (parlare di competenze di matematica, per esempio), giacché l’azione competente, quale che sia il problema affrontato, si muove in una dimensione unitaria e non solo utilizza spontaneamente saperi diversi, ma mette in campo anche tutti gli aspetti della persona cha la compie (fisico, affettivo, sociale)»20.
Di fronte al carattere astratto e generico di tali indicazioni, la studiosa ha però il coraggio di proporre esempi didattici concreti che, a suo parere, dovrebbero dimostrare la limitatezza dell’approccio tradizionale, e le conquiste euristiche del secondo. L’esempio fa riferimento alla lettura in originale del Macbeth di Shakespeare. Se la logica oggettivistica fa coincidere l’obiettivo conseguito con l’acquisizione di diverse abilità passibili di essere giudicate in base a parametri standardizzati («possesso dei diversi contenuti culturali, dei processi di analisi e di rielaborazione, della coerenza e coesione linguistica, delle diverse performance in lingua inglese scritta che testimoniano l’avvenuto processo di acquisizione»21), essa palesemente non riesce a sottrarsi all’idea che l’obiettivo didattico debba portare a conseguire una piena padronanza della disciplina. Invece, secondo l’autrice, l’approccio «personalista» conseguirebbe risultati migliori. Francamente, si rimane sconcertati dalla genericità delle indicazioni della studiosa, e ci si ritrova di fronte a quella che, giustamente, Giulio Ferroni ha indicato come «una società del tutto ideale, in cui le regole e le pratiche definite dalla scienza sembrano magicamente poter dare luogo a un rapporto trasparente fra le generazioni e a una gratificante acquisizione del sapere», o meglio «verso un’identificazione di sapere e felicità»22. Vediamo infatti in che cosa consisterebbero queste ulteriori acquisizioni del personalismo; se nel primo caso ci troviamo solo di fronte al conseguimento di obiettivi e di abilità disciplinari, «quando un allievo potrà dirsi competente in relazione al sapere acquisito? Quando saprà apprezzare la bellezza espressiva del Macbeth e del suo messaggio, quando sentirà che questo studio lo ha reso “migliore”, permettendogli di guardare se stesso e il mondo in modo sempre più autonomo e personale, dandogli la possibilità, per esempio, di leggere, interpretare, affrontare questioni che riguardano il potere, le motivazioni che muovono l’uomo a cercarlo, a gestirlo, a combatterlo […] permette di agire con saggezza per risolvere problemi e situazioni che la vita gli presenta, a scuola, e fuori dalla scuola, rispetto, per esempio, alla questione del potere»23. A costo di ripeterci – ma questo tipo di letteratura risulta ripetitiva per tutto – le argomentazioni della Sandroni passano da impressioni generiche e non fondate (come si può trasmettere «l’emozione della bellezza»24 se non attraverso un’analisi dell’opera?), ad altre che non sono affatto originali, ma sono parte integrante del consueto lavoro docente di trasmissione del proprio sapere. Non si può infatti affrontare l’argomento del Macbeth e non fare riferimenti alla tematica del potere in generale e, anche rispetto alla contemporaneità, collettiva e personale; sarebbe assurdo per un docente non cogliere, quando gli argomenti in oggetto lo permettono, una simile relazione che porta a una maggiore comprensione sia del testo sia dell’esperienza esistenziale nel suo complesso. Peraltro possibile solo all’interno di una dimensione storica, che permetta anche di comprendere l’evoluzione – non solo semantica ma anche concettuale – di un’identica problematica dal passato al presente. Non si tratta affatto di intenzioni esclusive di un approccio personalistico; anzi, le stesse vengono indebolite al di fuori di una didattica disciplinare. In quest’ultimo caso, infatti, l’oggetto di studio verrebbe ridimensionato nel suo valore culturale generale, la ricerca frenetica di un tema capace di stimolare l’interesse spontaneo dello studente porterebbe a forzare in modo poco credibile gli accostamenti tra le varie discipline, si proporrebbe una forzata omogeneità delle stesse, che perderebbero le loro specifiche proprietà curricolari. Ancora una volta, dunque, una riflessione sulle competenze dimostra la sua fumosità, la sua impossibilità di tradursi in una didattica progressiva e non invece semplificante.
Risulta di conseguenza ovvia la ragione – che pure stupisce l’autrice – per cui la legislazione corrente, compresa quella europea – ha finito per declinare il concetto di competenza esclusivamente in un’ottica disciplinare («la logica in cui si muove il concetto di competenza resta preminentemente oggettualistica»25). Eppure, è sulla base di tali valutazioni che bisognerebbe ripensare l’intera organizzazione della vita scolastica, sia in riferimento ai compiti del Consiglio di Classe26, sia nella scansione temporale delle attività dei discenti27.



2. Le competenze del CLIL

Il progetto CLIL28 rappresenta una delle innovazioni più significative introdotte negli ultimi anni nelle pratiche effettive della didattica, già convertito in legge e – in teoria 29 – obbligatorio. Una decisione che ha sorpreso molti docenti, passata quasi in sordina, ma che ha in seguito suscitato perplessità e inquietudine quando, nel corso dei vari Collegi dei Docenti, ci si è dovuti confrontare con una novità già entrata nell’ordinamento e, parimenti, con una difficoltà di ordine pratico nell’affrontarla.
Ancora una volta, però, i docenti hanno mostrato scarsa reattività, non solo per carenza informativa, ma per l’incapacità di interpretare il provvedimento alla luce di una visione organica e unitaria, in riferimento ai più complessivi progetti di riforma della scuola.
Il CLIL sembrerebbe avere un ruolo secondario nelle nuove intenzioni riformatrici, e ad esso nel documento intitolato La Buona Scuola si fa solo un breve, però significativo, cenno30. Eppure, come cercheremo di dimostrare, il CLIL, sia per motivi storici sia per opportunità operative, è, dal punto di vista simbolico, un’innovazione che ne rappresenta al massimo grado lo spirito, e in riferimento al quale ci sembra necessario suscitare una discussione.
Un primo aspetto che risulta palese del progetto denominato CLIL sta nell’assoluta indifferenza di questa “pratica”31 didattica nei confronti della disciplina “ospitante”. Abbiamo utilizzato l’aggettivo palese, non nascondendo che si tratta di un impiego polemico; nelle dichiarazioni ufficiali, infatti, ci si sofferma molto sull’efficacia didattica di tale metodologia e non si parla affatto di semplice pratica formale indipendente dai contenuti32; per cui tale aspetto che abbiamo denominato come “palese” è, in effetti, volutamente mascherato, con un abile operazione ideologica. Diventa visibile per chi però affronta in modo serio la letteratura di riferimento e dimostra sufficiente senso critico; senso critico che dovrebbe inoltre costituire una delle finalità principali della comunicazione didattica e che invece, a nostro avviso, verrebbe definitivamente e volutamente compromesso nelle acquisizioni dei discenti, non solo per effetto del CLIL, ma per la cornice “riformatrice” entro cui tale progetto trova senso e contesto.
Vi sono delle dichiarazioni dei responsabili del progetto involontariamente rivelative e che, se adeguatamente meditate, aprono prospettive ermeneutiche nuove in merito alle loro intenzioni o, per fare riferimento a un altro contesto filosofico-culturale, rivelano la sostanza ideologica di determinate prese di posizione intellettuale. Gisella Langé, Dirigente Tecnico e Ispettore tecnico di Lingue straniere presso il MIUR, ha affermato: «il concetto di fondo è però capire che il CLIL deve essere sviluppato in base alle nuove linee di creazione di curricoli per competenze»33; in un’intervista a Radio 2434, la Presidente dei dirigenti scolastici della Lombardia, Mariella Ferrante, ha affermato che il CLIL interessa il progetto di riforma in quanto permette di introdurre nella scuola – immaginiamo in via definitiva – la didattica delle competenze. Di conseguenza, il CLIL avrebbe sì una finalità ben definita, che però non coincide con lo specifico didattico di cui esso si occupa, bensì con la volontà di mutare per via indiretta, una metodologia d’insegnamento di carattere più generale.
Il CLIL si rivela dunque come l’arma più efficace per obbligare i docenti a introdurre una nuova pratica di lavoro nient’affatto neutra, in quanto comporta la scelta rivoluzionaria di abbandonare lo specifico disciplinare, non più considerato essenziale per l’emancipazione formativa dei giovani. Viene così a recidersi quel legame tra funzione docente e competenza disciplinare sul quale si è retta la scuola italiana da sempre, e che oggi viene ritenuto obsoleto con argomentazioni – relative alla didattica delle competenze – tutt’altro che suffragate sia da teorie convincenti sia dalla ricerca empirica.
Un tentativo di innovazione metodologica condotto in modo molto abile, perché fa leva su un’esigenza, ovvero la conoscenza adeguata di una o più lingue straniere da parte degli studenti della scuola secondaria superiore, evidentemente avvertita dalle famiglie, e sicuramente ai nostri giorni necessaria nella formazione di qualsiasi giovane. Di conseguenza, in questo modo diventa più difficile per gli insegnanti proporre un’obiezione di merito, dovendosi scontrare contro un senso comune che, nell’ansia di fare acquisire ai propri figli un sapere oggi indispensabile, non riflette sull’effettiva qualità di tale metodologia, ovvero se sia efficace per raggiungere gli obiettivi prefissati35.
La tesi che si vuole sostenere in queste pagine riguarda la scarsa consistenza scientifica della letteratura sostenitrice del CLIL analoga, anche nell’impostazione retorica, a quella relativa alla didattica delle competenze; al di là di queste deboli argomentazioni, però, si individuano altre finalità, trasversali e non dichiarate, che presuppongono un modello di scuola molto diverso da quello della tradizione italiana, fondato – anche ma non solo – su una cultura idealistico-storicistica ormai oggetto d’attacco da più fronti intellettuali. La scelta delle autorità europee e italiane di sposare interamente tale nuovo progetto di educazione superiore ha fatto sì che attorno a tali ricerche si formassero solidi gruppi di studio (e di potere in ambito universitario), venissero incoraggiati specifici dottorati sul tema, producendo così una mole di materiale che, senza nulla risolvere sul piano teorico, vuole dare l’impressione di un campo di ricerca ormai egemone e i cui risultati debbano essere acquisiti dall’intera comunità degli addetti ai lavori.
La conoscenza di questa letteratura è però rilevante anche per chi ne valuta l’insufficienza sul piano della fondazione epistemologica, ne individua le contraddizioni metodologiche, nonché la pluralità di proposte, anche fra loro confliggenti, e una strumentalità ideologica che si nasconde dietro una presunta oggettività dell’impostazione di ricerca36. In sostanza, le stesse incertezze proprie della didattica delle competenze si ritrovano nella teorizzazione del CLIL, in una continua proliferazione di contributi il cui scopo è quello di correggere le lacune delle proposte precedenti, dando così l’impressione di un work in progress e mascherando volutamente gli evidenti limiti speculativi.
In primo luogo, in qualsiasi presa di posizione a favore della metodologia CLIL i presunti vantaggi della disciplina ospitante non sono mai presi in considerazione, se non con riconoscimenti di circostanza. Come appare lampante, la disciplina ospitante (ovvero la materia non linguistica) viene ritenuta solo un campo di sperimentazione i cui contenuti, rispetto ai presunti progressi linguistici, sono considerati sacrificabili. In linea con una tendenza culturale cui abbiamo già fatto riferimento, che tende a sminuire soprattutto il campo delle discipline umanistiche37. Nella logica già vista delle competenze, si valuta positivamente la scomposizione e disarticolazione di un programma, negato nella sua continuità storicistica, per farne una palestra per acquisire capacità altre.
Il CLIL in effetti realizza due principi fondamentali della didattica delle competenze: l’«integrazione curricolare» e il «ricorso a modi di insegnare e di situazioni flessibili»; l’affermazione però che «CLIL reclama pari dignità per ambedue le discipline coinvolte»38 non corrisponde a verità; tale pari dignità può aversi solo nell’esperienza della compresenza, ovvero di percorso contenutistico concordato tra insegnanti con competenze differenti che, insieme, sollecitano gli alunni sui momenti di convergenza possibile tra i rispettivi contenuti, valorizzati nel loro insostituibile contributo formativo dalla presenza dei due insegnanti di riferimento39. Mentre il «processo integrato», espressione coniata da Coonan40 che vorrebbe riassumere i pregi e le novità del CLIL, rappresenta rispetto a quella esperienza un passo indietro, con il quale si cerca di mascherare l’impoverimento contenutistico con una presunta fusione di orizzonti 41 che, vista l’asimmetria delle discipline coinvolte, non può essere attuata.
Valutiamo adesso più nel dettaglio l’analogia – a nostro parere evidente – con l’impostazione teorica propria della didattica delle competenze, non dimenticando che l’una e l’altra sorgono negli stessi anni, poco più di vent’anni fa, in un contesto di forte rinnovamento delle istituzioni scolastiche, cui furono in particolare obbligate quelle nazioni dell’ex blocco sovietico che, finita la guerra fredda, avevano la necessità di ripensare completamente la propria politica relativa all’istruzione. Com’era prevedibile, prevalse la dubbia decisione di importare un modello vicino alla tradizione anglo-americana, alla base delle nuove teorie. Risulta abbastanza evidente, d’altronde, come sia il concetto di competenza, sia l’invasività di un lessico specifico decisamente strutturato per anglicismi, nonché il riferimento a molteplici teorie cognitivistiche42, sono diventate lo strumento per imporre un modello di comunicazione didattica in linea con quelle tradizioni.
Un primo vantaggio che, insieme alla coltivazione delle competenze, il CLIL garantirebbe, sarebbe di tipo cognitivo. Il CLIL svilupperebbe il contemporaneo progresso in due discipline. Se però si va nel dettaglio delle argomentazioni notiamo come tale vantaggio si attiverebbe unicamente per l’apprendimento della lingua straniera, che costituisce l’unica autentica preoccupazione dei difensori di tale progetto43. Come già ricordato, è molto difficile trovare nella varia pubblicistica sull’argomento, così come nelle relazioni ai sempre più numerosi convegni organizzati sul tema, un riferimento privilegiato alla disciplina ospitante. In molti casi, quando tali motivazioni compaiono, sono proposte da esperti di lingua straniera che non hanno alcuna esperienza della didattica disciplinare al di fuori del proprio ambito, e manifestano prese di posizione addirittura imbarazzanti44. In verità è legittimo dubitare anche dei vantaggi sull’apprendimento della lingua straniera, dal momento che la comunicazione avverrebbe a studenti che non padroneggiano adeguatamente la stessa. Il CLIL, si ricordi, deve essere tenuto non dall’insegnante di lingua straniera; per cui, il docente della disciplina non linguistica dovrebbe acquisire competenze didattiche che non gli sono proprie, trasformarsi cioè in un insegnante di lingua straniera, il che non è un’acquisizione ovvia, anche se si padroneggia la lingua straniera senza difficoltà. Tenendo conto che le competenze da curare nei discenti (di carattere fonologico, grammaticale e lessicale45) sono specifiche dell’insegnamento linguistico, e non possono essere improvvisate da chi non è un professionista della didattica di quella disciplina.
Nello stesso tempo, la disciplina non linguistica verrebbe stravolta nella sua natura; ne risulterebbe compromessa, in particolare, la sua compattezza, garantita da una coerente impostazione storicistica. Già il fatto di doverla comunicare in un’altra lingua, ad alunni che quella lingua la stanno ancora imparando46, obbliga ad intervenire sui contenuti, nel senso di una loro drastica semplificazione: «Ovviamente, quando è richiesto di affrontare metà del programma nella lingua straniera, l’insegnante dovrà necessariamente rendere essenziali i contenuti e prestare una grande attenzione al lavoro sul lessico, in modo da assicurarsi che gli studenti comprendano effettivamente il significato dei termini utilizzati dall’autore»47. Il programma stesso dovrebbe essere scelto non sulla base di una coerenza contenutistica, senza la quale gli obiettivi formativi della disciplina non possono essere raggiunti, ma unicamente a vantaggio della lingua: «[…] un docente che si trovasse a spiegare l’idealismo di Hegel in inglese, dovrà presumibilmente fare delle scelte e snellire delle parti che normalmente affronta quando insegna in italiano, se davvero spera di portare a termine il programma e allo stesso tempo di comunicare qualcosa di comprensibile agli studenti»48. La conseguenza è inevitabile: è bene privilegiare gli autori in lingua inglese, dall’empirismo inglese al pragmatismo americano, sino all’epistemologia contemporanea49. Nonostante questo, la difficoltà di molti studenti di affrontare questi temi nella lingua originale obbliga a una semplificazione di contenuti: non più spiegazioni articolate, inviti alla riflessione in base a possibili relazioni con altre forme di pensiero studiate, bensì nuove strategie suggerite dagli esperti del CLIL, «come ad esempio l’utilizzo di risorse multimediali, che insieme a immagini, grafici, tabelle, diagrammi, mappe concettuali, timeline e sintesi rendono i messaggi in L2 più accessibili agli allievi»50. Ovviamente, tale procedura investe in modo decisivo anche il momento della valutazione, che si riduce alla «ricerca dei termini chiave, a «piccoli esercizi che permettono di capire se i ragazzi stanno cogliendo il punto della spiegazione»51, o simili. D’altra parte, l’insegnante non può evitare che tale sforzo coinvolga anche il 50% del monte ore rimanente, quello da veicolare attraverso la lingua italiana; se egli infatti agisce con un minimo di serietà, non può certo separare drasticamente i due momenti della proprio lavoro52, ma deve continuamente interagire fra di essi, per evitare al programma un carattere schizofrenico e impedire agli alunni uno stato confusionale nel recepire con modalità differenti contenuti che fanno comunque parte della stessa disciplina. Ciò del resto è previsto proprio dalla tecnica del «codeswitching» (la permutazione di codici)53, una delle modalità previste dalla metodologia CLIL: «That said, it is clear that the amount of codeswitching must be adjusted to the level of the students and that ignoring this could invalidate or impoverish the learning»54. È evidente che tale attenzione può essere svolta esclusivamente da un insegnante di lingua straniera, e necessita in ogni caso un’alternanza tra le due lingue che, per forza di cose, porta la metodologia CLIL a invadere l’intero programma, secondo quel criterio di selezione funzionale alla lingua e non agli obiettivi formativi di carattere prettamente disciplinare.
Quanto appena spiegato è assolutamente convergente con uno dei miti più duri da scalfire delle didattica delle competenze, ovvero la lezione frontale, concepita come un vero e proprio monstrum, responsabile della demotivazione degli alunni rispetto all’impegno di studio. Anche in questo caso la retorica è quella di presentare tale insostituibile momento didattico alla stregua di una caricatura; come se la lezione frontale non si modificasse a seconda del contesto, del gruppo classe, delle situazioni soggettive, non prevedesse continue sollecitazioni verso gli alunni con richieste di intervento, formulazione di problemi e tentativi di risposta da parte degli allievi55. Vi sono sicuramente altri modalità comunicative (dai laboratori, all’elaborazione di mappe concettuali, ecc.) di vitale importanza per l’acquisizione del sapere ma – se si parte dal presupposto che il fine principale dell’insegnamento siano i contenuti culturali della disciplina – acquistano valore solo se subordinati a conoscenze da comunicare in modo asimmetrico dal docente agli alunni. Niente di tutto ciò corrisponde alla figura retorica di un docente pigro, che ripete nozioni in continuazione, concependo i suoi alunni semplicemente come contenitori da riempire in base a prescrizioni puramente mnemoniche56. La lezione frontale, con i momenti comunicativi e dialogici che lo stesso docente deve sollecitare, favorisce invece la rielaborazione; è semmai il metodo CLIL che, concentrandosi su pochi contenuti trasmessi con un codice linguistico per forza di cose limitato all’essenziale, produce una semplice acquisizione mnemonica, e probabilmente la diminuzione d’interesse. Secondo uno dei massimi teorici del CLIL in Europa «[…] il docente dovrà “ripensarsi” dato che per accettare questa nuova sfida è necessario uno shift in thinking. Spesso noi insegnanti tendiamo a parlare e parlare, forse troppo, ma possiamo approfittare di quest’occasione per passare da un tipo di presentational talk all’explorary talk, facendo più domande, incoraggiando gli studenti a parlare e a “teorizzare” di più, incrementando così la loro autonomia e senso di responsabilità»57.
Anche i sostenitori del CLIL si fanno forti dell’argomentazione, presentata con modalità esclusivamente retoriche, che l’innovazione didattica da essi auspicata è in grado di meglio coinvolgere gli allievi. Forniremo solo qualche esempio in proposito; ciò che sembra più importante notare è quanto risulti svalutata la figura del discente, il quale ai loro occhi appare strutturalmente impossibilitato ad avere immediati interessi culturali, ovvero a orientare spontaneamente la propria curiosità intellettuale verso gli argomenti complessi relativi alle singole discipline del curricolo, se non attraverso strategie di comunicazione oblique che, secondo il noto stratagemma lucreziano, consentirebbero di far proprio un contenuto ostico e sgradevole presentandolo in modo accattivante. La strategia in questione – già teorizzata dalla didattica delle competenze – prevede che tutto debba essere riportato all’esperienza individuale dell’allievo, al suo vissuto, per non fargli cogliere la distanza fra il proprio orizzonte culturale per forza di cose limitato e la produzione vasta di cultura. Di conseguenza il fattore tempo, caratteristica essenziale di ogni problematica impostata in modo storicistico58, verrebbe vissuto come estraneo, in quanto produrrebbe inevitabilmente una distanza tra il proprio vissuto e l’oggetto di conoscenza. Si dà per scontato un principio che non è affatto tale per il docente; è proprio la distanza tra sé e il mondo, la scoperta di pensieri, contenuti e linguaggi diversi da quelli del proprio vissuto familiare a creare motivazione allo studio, a suscitare attrazione intellettuale. È evidente che è compito del docente, nel corso degli anni di studio, stimolare e motivare questo interesse, attraverso strategie adeguate, ma con un lavoro che è per forza di cose graduale, lento e che, questo sì, deve coinvolgere l’intero Consiglio di classe. Qualsiasi docente è in grado di valutare questo interesse nei confronti dell’estraneità, che d’altronde è lui stesso a dover sollecitare; non è affatto vero, del resto, che gli studenti manifestino questa indifferenza per il mondo esterno e per le vicende storico-culturali59.
Il CLIL invecesi fonda sul rifiuto assoluto della lezione frontale. In modo un po’ malevolo, questa strategia potrebbe risultare utile anche a mascherare le carenze linguistiche di un docente costretto a insegnare non nella lingua madre60.
Queste considerazioni sono probabilmente sufficienti per comprendere lo scadimento sul piano dei contenuti cui il CLIL obbliga le discipline non linguistiche, e la maggiore difficoltà di apprendimento delle stesse da parte di alunni che hanno difficoltà a padroneggiare una lingua straniera il cui studio è in via di compimento. Ma particolarmente umiliante per i docenti è prendere atto di suggerimenti metodologici talmente sprovveduti, che dimostrano l’impotenza effettiva di tali teorici quando devono fare riferimento al momento concreto della comunicazione disciplinare. Ritorna tutta l’ingenuità propria della didattica delle competenze, quando si ritiene, con pochi stratagemmi, di trasformare un alunno demotivato in un entusiasta collaboratore della vita didattica. Non si sa per quali motivi, il CLIL renderebbe i contenuti più divertenti («Inoltre può essere utile avvalersi anche di piccoli esercizi che permettono di capire se i ragazzi stanno cogliendo il punto della spiegazione, facendo uso di metodi meno scolastici e più divertenti»61) –, oppure facilitando incredibilmente l’attenzione sino a quel momento scarsa («Gli studenti non solo acquisiranno nuove conoscenze ma anche nuove competenze, imparando a imparare, tramite quello che può essere definito un size effect, un extra improvement in learning outcomes»62). L’ossessione per il divertimento a scuola sembra una preoccupazione costante di questi pedagogisti, bel al di là, probabilmente, delle esigenze degli stessi studenti63. Sia chiaro, l’utilizzo anche di momenti ludici, o dell’ironia nel corso dello scambio dialogico tra docente allievi (perché nella lezione frontale sempre uno scambio è in corso) è una delle strategie che il docente deve avere presenti per poter stimolare l’attenzione nei suoi confronti. Ma la convinzione che lo «humour» sia un atteggiamento didattico che il CLIL – non si capisce perché – è in grado di utilizzare al meglio non trova alcuna giustificazione, e non si spiega se non a partire dalla consapevolezza degli scarsi fondamenti epistemici della proposta che si va a sostenere64. La stessa studiosa a cui abbiamo fatto più volte riferimento valuta il proprio contributo di studio come un tentativo di superare tali lacune metodologiche65, riconoscendo che la ricerca nel merito e tutt’altro che conclusa. Ci troviamo così ancora una volta – com’era accaduto per la didattica delle competenze – di fronte a una situazione incredibile, laddove la legislazione fa riferimento a concetti la cui acquisizione sul piano scientifico è tutt’altro che stabilita.
Si realizza così una condizione paradossale (paradossalità pur abilmente ignorata dai teorici del CLIL), laddove si avrebbe uno scadimento di qualità nella comunicazione didattica per entrambe le discipline coinvolte. Constatazione tanto grave se si pensa a quanto il CLIL, coerentemente alla didattica delle competenze, è destinato a stravolgere la funzione docente, in linea con altri provvedimenti emanati in questi anni. Dalla sensibile riduzione della libertà docente nella programmazione disciplinare a favore di una falsa libertà docente di carattere collegiale66. Il docente, del resto, perderebbe la propria autorevolezza nei confronti degli allievi, dovendo insegnare una disciplina per la quale non è abilitato, e ciò aumenterebbe il proprio senso di insicurezza rispetto a richieste che, in tal senso, potrebbero provenirgli dalle figure dalla scuola a lui superiori nel grado gerarchico. Non è un caso come dai teorici del CLIL venga sostenuto che gli insegnanti debbano tornare a «imparare insieme agli studenti»67, in un senso che non va inteso nelle modalità sapientemente descritte da
Gentile – laddove la costruzione di sapere vale per entrambi gli interlocutori del processo educativo68 –, ma proprio come dovere di confrontarsi con un corpo di studi che è estraneo alla propria disciplina di competenza.
Tutto ciò per ottenere che cosa? Sicuramente uno scadimento della qualità contenutistica delle discipline ospitanti, ma anche dell’apprendimento della lingua stessa, che si avvantaggerebbe meglio di un aumento delle ore curricolari; del resto, se si guardano gli obiettivi raggiunti dalle sperimentazioni sinora effettuate, sono molto modesti. Quale utilità nell’acquisire parole chiave come induction, deduction, scientific system, verifiability, falsifiability (peraltro molto simili all’italiano), nel corso di una lezione non dedicata alla lingua straniera, a fronte di un impoverimento del contenuto complessivo dell’unità didattica? o scrivere a partire da questi termini qualche semplice definizione dalla quale risulta difficile proporre riflessioni approfondite, quali pure è possibile svolgere in un contesto liceale69?
D’altronde non esistono studi comparativi in grado di dimostrare l’efficacia di questa metodologia, sia rispetto alla lingua, sia rispetto alla disciplina interessata; a nostro parere, infatti, bisognerebbe proporre un confronto sui livelli di preparazione nella materia non linguistica da parte di studenti che l’hanno appresa avvalendosi oppure non avvalendosi della metodologia CLIL. Francesca Costa fa riferimento solo a un questionario di gradimento distribuito a 126 studenti70, e non risultano altre forme di controllo più affidabili. Ma, come spesso accade, si fa continuamente riferimento in questa letteratura ai notevoli risultati acquisiti, in ambito linguistico in particolare, senza peraltro recare dati probanti.



3. La Buona Scuola

Un primo elemento caratterizzante il documento La Buona Scuola è il linguaggio; non si tratta di un aspetto puramente formale, ma di una scelta di sostanza già di per sé capace di evidenziare la distanza tra l’idea di scuola propria della tradizione italiana e quella, nuova, che si vuole costruire. Si tratta di un linguaggio che, per chiunque abbia a cuore la cultura, risulta disturbante, volutamente di basso livello stilistico, come se volesse – attraverso un’esposizione non solo senza fronzoli, ma tutta tesa a porre in evidenza gli aspetti pratico-operativi dei provvedimenti auspicati, secondo uno stile mutuato dalla logica del marketing – già in questo modo segnare una distanza, far capire agli eventuali critici che non è intenzione dell’esecutivo accettare un piano di discussione consono una professione intellettuale. Non sarà attraverso un confronto dialogico-razionale, portato avanti attraverso riflessioni simili al presente saggio, che si stabilirà il dialogo con il personale interessato e se ne ascolterà il parere71. Il Ministero si è vantato di avere avviato una straordinaria consultazione di tutto il personale interessato, attraverso un questionario on line72; si tratta però di un formulario da riempirsi attraverso quesiti a risposta multipla, che dà l’impressione di un’interrogazione guidata, dove rimane poco spazio per avanzare perplessità di ordine critico che, essendo confinate in riquadri conclusivi, difficilmente possono entrare a far parte, nella contabilità finale dei risultati, tra i pareri complessivi, al pari delle altre questioni alle quali era possibile rispondere attraverso una crocetta. Nonostante questo, informazioni sindacali hanno lasciato trasparire che le proposte del governo avrebbero incontrato una decisa ostilità presso la maggior parte del corpo docente; il governo però ha recentemente affermato il contrario, e non sembra ci siano possibilità di valutare in modo imparziale questi risultati.
Ci siamo soffermati su queste caratteristiche preliminari perché esse, alla luce di quanto abbiamo argomentato sinora, portano immediatamente il lettore a interpretare i contenuti del documento in perfetta continuità con i progetti di riforma dei venticinque anni precedenti, nonché con le teorie didattiche che a questi hanno fatto da supporto. L’idea che della nostra scuola non si debba sostanzialmente salvare niente si evince già dalle pagine introduttive: «Per la Buona Scuola non bastano più azioni circoscritte o interventi mirati. È finito il tempo delle sperimentazioni. Occorre intervenire in maniera radicale. Accettando di uscire dalla comfort zone, dal “si è sempre fatto così”, perché questo alibi non ci ha portato da nessuna parte. Il rischio più grande, oggi, è continuare a pensare in piccolo, a restare sui sentieri battuti degli ultimi decenni»73. A nostro parere, invece, lo stravolgimento radicale prospettato non rappresenta affatto un elemento di originalità, ma – con un piglio decisionistico questo sì nuovo – si inscrive con perfetta continuità con quanto si è proposto (e in parte anche già realizzato) negli ultimi decenni.
Nonostante il linguaggio poco tollerabile da parte di lavoratori intellettuali quali ancora sono gli insegnanti (ma con ogni probabilità provocatoriamente voluto), la struttura retorica del documento prevede, nelle riflessioni iniziali di ciascun capitolo, un parziale e apparente accoglimento delle richieste di valorizzazione della cultura, almeno per gli aspetti al centro del dibattito pubblico. Una sorta di captatio benevolentiae, per mostrare comprensione e apprezzamento per le preoccupazioni manifestate dai docenti nei confronti dello scadimento dei programmi. Si spiegano in questo senso le due pagine dedicate all’educazione musicale e alla storia dell’arte74, che nelle decurtazioni orarie provocate dai provvedimenti voluti dall’ex ministro Gelmini erano state ulteriormente sacrificate. Al di là di alcune affermazioni scontate75, l’analisi di queste due discipline non viene proposta per valorizzare il loro contenuto formativo, nel quadro più generale delle discipline umanistiche.
Non a caso, dopo queste due pagine, all’interno dell’ampia sezione del documento intitolata «Ripensare ciò che si impara a scuola», ritorna la centralità delle «tre “i”»76. Per quanto concerne la lingua straniera, ci siamo già soffermati ampiamente in precedenza; il CLIL viene assunto in pieno come metodologia capace di incrementare la conoscenza nelle lingue straniere (nessun accenno viene invece fatto alle effettive ore curricolari riservate alle lingue e alla loro riduzione decisa in anni recenti) fino a configurare nella conoscenza della lingua straniera la qualità più importante che deve avere l’insegnante della disciplina non linguistica77.
Per quanto invece riguarda il riferimento alla “alfabetizzazione digitale”78, non stupirà il lettore venire a conoscenza che è questo l’aspetto della didattica che maggiormente preoccupa l’esecutivo e con l’introduzione del quale esso ritiene di poter conseguire maggiori consensi da parte soprattutto di genitori e alunni. L’idea di fondo non sta tanto nel mettere in condizione i ragazzi di poter usufruire della tecnologia digitale; su questo il governo si impegna nel favorire investimenti per far sì che ogni scuola sia messa in condizione di poter lavorare – in ogni settore della sua attività – potendo sfruttare la tecnologia più avanzata; si tratta indubbiamente di un proposito benemerito. Non contestabile è anche l’intenzione di mettere gli studenti nelle condizioni di praticare una tecnologia digitale che non si limiti all’uso consapevole degli strumenti, ma che investa l’attività della programmazione; per quanto questa idea vada poi, a nostro parere, considerata in modo diverso nei vari indirizzi di studio. Non c’è dubbio, in ogni caso, che è necessaria una riflessione sui programmi alla luce delle trasformazioni socio-tecno-economiche degli ultimi decenni, purché lo si faccia a partire da quelle che sono le corrette finalità che deve avere un processo formativo. Si tratta cioè di inserire nuove discipline – eventualmente anche riducendo il quadro orario di altre – qualora la loro conoscenza sia reputata decisiva nell’ambito dell’istruzione secondaria superiore. Ma nel documento non c’è solo questo aspetto. Il digitale viene considerato essenziale in quanto capace di cambiare in profondità la didattica: «Vogliamo che nei prossimi tre anni in ogni classe gli alunni imparino a risolvere problemi complessi applicando la logica del paradigma informatico anche attraverso modalità ludiche (gamification). A partire dall’autunno, dopo Stati Uniti e Inghilterra, lanceremo in Italia l’iniziativa Code org, aggregando associazioni, università e imprese, in una grande mobilitazione per portare l’esperienza nel maggior numero di scuole possibili»79. Più interessante è la precisazione metodologica proposta più avanti: «Concretamente, ogni studente avrà l’opportunità di vivere un’esperienza di creatività e di acquisire consapevolezza digitale, anche attraverso l’educazione all’uso positivo e critico dei social media e degli altri strumenti della rete. E imparando ad utilizzare i dati aperti per raccontare una storia o creare un’inchiesta, oppure imparando a gestire al meglio le dimensioni della riservatezza e della sicurezza in rete, o ancora praticando tecniche di stampa in 3D»80. Al di là di alcune idee che appaiono francamente improvvisate, il principio che gli alunni possano utilizzare risorse digitali per promuovere una ricerca o presentare una relazione che metta maggiormente in luce le loro capacità creative, è un’iniziativa già praticata dai docenti, e che può risultare utile come fase di consolidamento, ricezione e rielaborazione del sapere trasmesso. Come spesso capita nei suggerimenti didattici di natura pedagogistica, si confonde la parte per il tutto; ovvero quella che deve rimanere una pratica parziale81, di consolidamento per le conoscenze disciplinari, arriva a identificarsi con la totalità della proposta didattica, perdendo di vista una visione olistica di quegli stessi contenuti, la loro continuità storica, per ridursi a poche informazioni scandite da moduli isolati, verso i quali lo studente dovrebbe manifestare capacità strumentali, critico-operative. Ancora più discutibile, relativamente al nesso cultura digitale-didattica, è la precisazione riguardante l’uso delle Lavagna Interattive Multimediali la cui utilità, per le classi che ne sono provviste, è difficilmente discutibile, per poter arricchire di contenuti e di modalità comunicative la lezione frontale: «Il processo di digitalizzazione della scuola è stato troppo lento, non solo per mancanza di risorse pubbliche. Abbiamo anche investito in tecnologie troppo “pesanti”, come le Lavagne Interattive Multimediali (le famose “LIM”), che hanno da una parte ipotecato l’uso delle nostre risorse per innovare la didattica, dall’altra, parzialmente “ingombrato” le nostre classi, spaventando alcuni docenti (sic). La tecnologia non deve spaventare. Deve invece essere leggera e flessibile, adattandosi alle esigenze di chi la usa, allo stile dei nostri docenti, alla creatività dei nostri ragazzi. Non deve essere costrittiva e catalizzare l’attenzione, ma deve essere abilitante, diffusa, personale, discreta»82. Tralasciando il surreale riferimento ai docenti “spaventati” (non si capisce bene da che cosa), il contenuto più sorprendente è considerare la LIM uno strumento non adeguato in quanto ancora troppo legato alla pratica della lezione frontale, a un modo di concepire la lezione definito «costrittivo», ovvero – non ci sembra di alterare il valore del testo con questa nostra interpretazione – incentrato sulla comunicazione del sapere disciplinare. Addirittura, una delle caratteristiche più negative sarebbe quella di «catalizzare l’attenzione», come se questo fosse un atteggiamento da evitare il più possibile nel corso del lavoro in classe. La nuova tecnologia va bene, ma si preferisce che sia individuale, appartenente al singolo alunno, non monopolizzata da un’autoritaria figura docente; peraltro, una situazione contraria a quella auspicata dagli insegnanti, i quali hanno molta difficoltà a controllare l’uso personale in classe degli strumenti multimediali. È invece proprio la direzione affidata al docente, legata quindi ai contenuti specifici, a permettere un uso ben più responsabile e creativo delle nuove tecnologie, e una valorizzazione dell’importanza di queste stesse risorse, svincolate finalmente dall’uso prevalentemente consumistico che ne fanno gli studenti.
La terza e fondamentale disciplina cui La Buona Scuola fa riferimento, che dovrebbe divenire il cardine dei nuovi programmi, è l’economia. Prima però di valutare nel merito le osservazioni riportate, è bene proporre qualche osservazione sulle altre discipline. Nel documento non si parla di storia, di filosofia, né di letteratura, men che meno del latino o del greco; il riferimento alla musica e alla storia dell’arte, sembra – come già detto – artatamente inserito per venire incontro ad alcune critiche che hanno avuto una discreto eco presso l’opinione pubblica, senza però inserirle in un contesto più ampio relativo alle discipline umanistiche. Segno di un’indecisione su un problema rispetto al quale le autorità ministeriali stanno ancora riflettendo, in particolare per quanto riguarda le modifiche da apportare alle classi di concorso83. Non solo, ma alcune di queste materie potrebbero far parte di quelle discipline opzionali, scelte dall’alunno sulla base di una personale preferenza, e secondo un modello recepito direttamente dal sistema di istruzione anglo-americano. Il silenzio spesse volte comunica le intenzioni più autentiche; anche in questo caso, non ci sembra di esercitare una spericolata ermeneutica se interpretiamo questa mancanza come una condivisione, da parte dell’esecutivo, della svalutazione del sapere umanistico oggi diffusa84. Stante queste premesse, la disciplina dell’economia verrebbe intesa come introduzione alla tecnica finanziaria, e svincolata dal contesto storico-politico. Un modo di intendere il valore della disciplina – in un contesto formativo come quello liceale, non all’interno di una facoltà d’economia – quanto mai discutibile e probabilmente ideologico (anche se – anzi, forse proprio per questo – pretenderebbe di offrire della disciplina una descrizione avalutativa). Nel rapporto non si fa cenno alla molteplicità delle teorie economiche fra loro concorrenti e che, in un contesto formativo, andrebbero studiate congiuntamente a una contestualizzazione storico-filosofica; l’idea che si vuole proporre – molto discutibile, eppure considerata dagli estensori del documento quale un dato di fatto ormai acquisito – è quella di una disciplina il cui statuto epistemologico equivale a quello di una scienza esatta, per cui i suoi fondamenti non devono essere discussi a livello critico. Sulla crisi economica in atto, per esempio, non sarebbero previsti approfondimenti in merito alla fondatezza da cui deriva la politica di austerità e il giudizio di colpevolizzazione verso popolazioni che avrebbero consumato oltre le loro possibilità85. L’autonomia della disciplina da altri contesti viene addirittura palesemente incoraggiata: «Nel sistema italiano oggi manca un vero indirizzo di liceo economico: l’opzione economico-sociale rappresenta un’articolazione del percorso del liceo delle scienze umane, ma corre il rischio di non essere adeguatamente valorizzata a causa di una non piena autonomia. È per questo necessario procedere da un lato ad una modifica ordinamentale per la valorizzazione delle discipline economiche anche all’interno del percorso dei licei scientifico e classico»86.
Si tratta in effetti, di un progetto didattico che demolisce dalle fondamenta il principio formativo alla base dell’esperienza dell’Istituzione Liceo, concepita come luogo di istruzione superiore capace di comunicare una cultura di alto livello ritenuta indispensabile prima di individuare un percorso di specializzazione universitario, il cui apprendimento avverrebbe poi con maggiore consapevolezza. Secondo questa visione, tale specializzazione, totalmente indifferente a una contestualizzazione culturale di carattere generale e priva di qualsiasi interpretazione di carattere olistico, dovrebbe avvenire già nel percorso della secondaria superiore87. Per giudicare la validità di una simile proposta, è necessario valutare se, effettivamente, l’istruzione di carattere generale è in grado di qualificare al meglio il futuro laureato, e quindi di metterlo in posizione avvantaggiata nel contesto di una competizione globale.
Prima di esaminare questa tematica, prendiamo in considerazione l’aspetto più qualificante de La Buona Scuola: questo stravolgimento della scuola, e la fine del Liceo, costituirebbero una via obbligata alla luce delle trasformazioni economiche che avrebbero investito le società occidentali negli ultimi venticinque anni; in particolare, il fenomeno drammatico, particolarmente acuto nel nostro paese, della disoccupazione giovanile: «A fronte di un alto tasso di disoccupazione, le imprese faticano a trovare competenze chiave come nel caso, prevedibile, dell’industria elettronica e informatica. Ma anche competenze specifiche, come – ad esempio – quelle di diplomati commerciali e tecnici nei settori del legno, del mobile e dell’arredamento»88. Molto discutibile però, è l’affermazione per cui la disoccupazione giovanile in Italia non dipenderebbe tanto dal ciclo economico quanto dalla mancanza di un’istruzione adeguata: «Il 40% della disoccupazione in Italia non dipende dal ciclo economico (dati McKinsey 2014). Una parte di questa percentuale è collegata al disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare, e ciò che la nostra scuola effettivamente offre. Non si tratta quindi solo di un dato congiunturale dovuto alla crisi, ma di un dato strutturale legato al fatto che abbiamo perso nel tempo la nostra capacità di stare al passo con il mondo»89. L’impressione è quella invece di un’inversione delle relazioni di causa ed effetto: laddove non è la scuola a produrre disoccupazione, ma è la crisi economica a carattere sistemico che non permette di inserire nel contesto produttivo saperi cui pure la scuola ha dato luogo. Infatti, se si legge l’affermazione appena citata, ci si accorge come la percentuale di questo mancato incontro tra domanda delle aziende e risposta delle scuole sia percentualmente inferiore a quanto dichiarato e riguardi, perciò, alcuni indirizzi specifici di studio. Se la situazione fosse quella delineata dalla Buona Scuola, non si capirebbe la ragione del riconoscimento che, in ogni caso, gli studenti italiani con profitto eccellente continuano a ricevere all’estero, su cui torneremo alla fine di queste riflessioni. Il governo invece ne deduce la necessità di rendere obbligatoria, per qualsiasi indirizzo di studi del percorso liceale, un’alternanza di esperienza scuola-lavoro. Il limite a nostro parere di tale proposta sta proprio nel volerla estendere a qualsiasi corso di studi. Il documento infatti, propone una giusta valutazione sugli Istituti Tecnici, indirizzo di studio superiore dal quale sono usciti, negli anni del secondo dopoguerra, numerosi quadri professionali che hanno contribuito alla crescita dell’economia e della società italiane. Indirizzo di studio che è stato lasciato scadere in una colpevole trascuratezza, e che ha bisogno di essere rilanciato90. Ritenere però che anche percorsi di studio come il Liceo Classico abbiano bisogno obbligatoriamente dell’alternanza scuola-lavoro significa non coglierne la specificità e l’indispensabilità, cioè ancora una volta partecipare a quell’attacco nei confronti della cultura umanistica senza la quale, peraltro, non può invero esserci una critica e positiva cultura scientifica91. Ovvero, il limite di tale proposta sta nel giocarla, ancora una volta, in contrapposizione all’importanza formativa dei saperi umanistici.
Le nostre osservazioni potrebbero apparire eccessivamente critiche; esiste però una possibilità di valutarne la fondatezza, ovvero analizzarne la parte relativa alla figura docente, per mettere a fuoco se tali stravolgimenti ne modifichino la funzione, sino ad annullarla. All’inizio del documento92 vengono poste tre domande considerate «cruciali», e sono tutte riferite ai docenti. La prima è «cosa faranno questi nuovi docenti nella scuola italiana?»; la seconda: «Come verranno scelti in futuro i docenti e quindi: che prospettive avranno, dopo queste assunzioni, tutti gli altri che legittimamente aspirano ad insegnare nella scuola italiana?». Le domande si riferiscono all’intenzione, evidenziata all’inizio del documento, di assumere a tempo indeterminato buona parte del personale precario della scuola e «porre termine al fenomeno del precariato»; problematica che non è all’attenzione del presente saggio93. Apparentemente, la prima domanda appare priva di senso: i docenti dovrebbero entrare nella scuola per insegnare con capacità le loro discipline. È evidente come tale interrogativo assuma significato nel momento in cui questa funzione, sino ad ora primaria, non venga più considerata tale.
Si tratta di una considerazione di rilevante importanza, perché è all’interno di questa tematica che viene introdotta la questione del «merito», uno degli argomenti riferiti alla professione docente su cui maggiormente viene indirizzata l’attenzione dell’opinione pubblica, ovvero quell’insieme di capacità professionali proprie dei docenti, sui quali gli stessi dovranno essere valutati per decidere del loro futuro professionale (il loro inserirsi nella gerarchia interna dell’istituzione scolastica) nonché di quello stipendiale. Risulta chiaro che tale merito prescinderà dalle competenze professionali e anche dalle capacità didattiche, se queste vengono intese, in modo tradizionale, come capacità di saper trasmettere con efficacia e suscitando motivazione i contenuti della propria disciplina94. Che cosa sarà più importante nella nuova (buona) scuola? «La vera autonomia delle scuole deve quindi ripartire dalla possibilità di riqualificare la propria offerta formativa con attività integrative e facoltative, grazie ad un organico funzionale rafforzato (cap. 1), ad una maggiore mobilità dei docenti (cap. 2), ad una nuova organizzazione e gestione collegiale della scuola (cap. 3) e a risorse certe per l’offerta formativa»95. L’espressione magica, capace di svelare l’arcano, è quella di «organico funzionale», inizialmente da estendersi ai nuovi assunti, ma che finirà per coinvolgere evidentemente la totalità del personale. Ovvero un docente non conta nella sua scuola per le capacità professionali proprie, ma per la sua disponibilità a ricoprire diversi ruoli, anche fra loro molto diversi, in funzione di quelle che sono ritenute le necessità dell’istituto che -per essere chiari – non coincidono affatto con i contenuti disciplinari. Secondo tale impostazione, i docenti potranno essere spostati d’autorità in diversi istituti, anche distanti fra loro, sulla base di supposte esigenze superiori96. Il docente deve dunque cambiare la sua professionalità: «I docenti devono insegnare ai ragazzi a mettersi in gioco, ma per farlo credibilmente devono poter credere, loro per primi, che mettersi in gioco paga. E lo Stato, oggi, ha il dovere di risolvere questa equazione»97.
In che modo questa equazione può essere risolta? Ovvero obbligare gli insegnanti a mettersi in gioco, rinunciando a quelle che sarebbero false sicurezze? Ovviamente, con una minaccia di tipo coercitivo, grazie a un sovradimensionamento dei poteri del Dirigente Scolastico, da cui finirà per dipendere la stessa sicurezza del posto di lavoro occupato dall’insegnante.
Innanzitutto, la nomina dei Docenti sarà effettuata dal D.S., sia pure con modalità collettive ancora da stabilire, sulla base delle priorità di cui sopra, nient’affatto legate alla didattica. Questa azione autoritaria del preside viene mascherata come la vera realizzazione dell’autonomia: «Ogni scuola dovrà avere vera autonomia, che significa essenzialmente due cose: anzitutto valutazione dei suoi risultati per poter predisporre un piano di miglioramento. E poi la possibilità di schierare la “squadra” con cui giocare la partita dell’istruzione, ossia chiamare a scuola, all’interno di un perimetro territoriale definito e nel rispetto della continuità didattica, i docenti che riterrà più adatti per portare avanti il proprio piano dell’offerta formativa»98. Sino a ora, i docenti avevano concepito l’autonomia in modo diverso, come possibilità dal basso, in ragione della rispettiva competenza professionale e della relazione collegiale e paritaria garantita nel Collegio dei Docenti e, soprattutto, nel Consigli di classe, di potenziare la loro metodologia didattico-disciplinare. Per esempio organizzando compresenze, possibilità brutalmente azzerata con le innovazioni introdotte all’epoca del ministro Gelmini. Risulta evidente la realizzazione di una svolta in senso autoritario: del nuovo docente, non interesserà al D.S. la sua competenza disciplinare, ma il numero di lingue straniere conosciute e la sua disponibilità a effettuare il CLIL; oppure, nel campo specifico della filosofia, se sia disposto a comunicarla indirizzando la sua riflessione verso il pensiero computazionale e tralasciando gli argomenti più qualificanti99. Non ci sembra di esagerare se riteniamo la possibilità di attuazione di un simile provvedimento un attacco definitivo alla libertà d’insegnamento. Che tale possibilità si attui unicamente verso i nuovi assunti sembra poco significativo; produce comunque uno scardinamento della professione docente che finirà per investire, anche sul piano dei diritti, l’intero personale scolastico 100.
Si tratta del punto di maggiore convergenza, a nostro parere, con il più generale provvedimento del Job Act, che inaugura, eliminando la possibilità di riassunzione per licenziamento senza giusta causa, un controllo decisamente più arbitrario sulla forza lavoro. Qualora le ragioni di questo provvedimento venissero fatte valere anche nei confronti del pubblico impiego, in particolare la motivazione di scarso rendimento, essa potrebbe riguardare la volontà capacità di praticare il CLIL, o di declinare la filosofia verso il pensiero computazionale.
Per ora la minaccia più evidente riguarda la mobilità. Anche in questo caso il governo gioca, un po’ perfidamente, con l’espressione «reti di scuole», non più intendendola come collaborazione dal basso tra i docenti a progetti comuni, in nome della loro libertà didattica, ma come campo d’azione del Dirigente Scolastico che può, sulla base di necessità funzionali, spostare a piacimento i vari docenti, anche in scuole fra loro molto distanti.
Da questo punto di vista, la trasformazione della stessa figura del Dirigente Scolastico è significativa; egli perde qualsiasi legame con la professione docente, con i problemi specifici della didattica disciplinare, che pure è chiamato insindacabillmente a giudicare: «è necessario in primo luogo definire meglio il profilo professionale del dirigente scolastico […] è stato deciso di recente di prevedere che la selezione di chi sarà chiamato a guidare una scuola venga fatta tramite il corso-concorso della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, ossia dalla stessa istituzione che seleziona e forma tutti i dirigenti dello Stato»101. Come si evince, una formazione che metterà poco in grado di giudicare gli insegnanti dal punto di vista delle effettive capacità professionali, ma che li renderà unicamente funzionali ad altre logiche, di tipo amministrativo-organizzativo. Né gli insegnanti possono sperare in una loro capacità di condizionare il Dirigente Scolastico attraverso gli organi collegiali; da questo punto di vista, il ricorso all’autoritarismo è esplicito: «La governante mobilità interna della scuola va ripensata: collegialità non può più essere sinonimo di immobilismo, di veto, di impossibilità di decidere alcunché»102. Sotto questa temibile prospettiva vanno allora intesi i corsi di aggiornamento obbligatori, la cui frequentazione è «diritto-dovere del docente». Non momenti d’aggiornamento disciplinare, né della didattica disciplinare ma – reputiamo – contesti in cui si imparerà la didattica pedagogista per competenze, ci si confronterà con i fumosi fondamenti cognitivi di tale pedagogia, o si sarà costretti ad affrontare corsi in lingua inglese. Con la prospettiva di una verifica finale dalla quale dipenderà pure – immaginiamo-la valutazione dei docenti da parte del Dirigente Scolastico103.
In conclusione, non ci sembra arbitrario affermare che tale progetto di rinnovamento della scuola italiana sia stato concepito in continuità con i presupposti didattici ostili alla didattica disciplinare che imperano immeritatamente da più di due decenni. E che, stante le valutazioni negative che abbiamo cercato di motivare verso quella teoria pedagogistica, la Buona Scuola, se si realizzasse, rappresenterebbe un sensibile passo indietro nel campo dell’istruzione del nostro Paese, destinato ad avere negative conseguenza anche rispetto a quegli ambiti socio-economici che il governo vorrebbe tutelare.



Conclusioni propositive

Una valutazione così critica del documento diffuso dal governo, seppur supportata da una lettura puntuale – all’insegna delle continuità storica – degli indirizzi teorici e pratici delle politiche ministeriali in più di due decenni, può suscitare legittimamente l’impressione di un fronte del rifiuto, di un’opposizione preconcetta, che non riesce comunque ad affrontare gli effettivi problemi di rinnovamento che la scuola italiana si trova di fronte, situandosi su una posizione di pura conservazione o, peggio, corporativa.
Conviene dunque concludere la presente riflessione cercando di motivare come tali posizioni di chiusura – che in realtà non sono affatto tali, né di pura conservazione dell’esistente-, appaiono molto più adatte alle sfide globali della società contemporanea, e alle sfide che attendono i discenti una volta terminato il loro processo di formazione104.
Nostra intenzione è quella di difendere la tradizione della scuola come si è venuta costituendo in Italia, ritenendola di grande valore culturale e formativo, e capace ancora oggi di fornire una preparazione adeguata al mondo della lavoro che pure si va trasformando. Ora, una tale presa di posizione solitamente non viene neppure considerata dai sostenitori delle nuove tecniche pedagogiche in quanto, a parer loro, delegittimata in partenzadagli scarsi risultati ottenuti dagli studenti del nostro Paese nelle speciali classifiche OCSEPISA, destinate a monitorare il livello di istruzione su scala mondiale.
Due sono le risposte possibili a questa obiezione, la prima in merito al valore dell’istituzione internazionale che gestisce i sondaggi, la seconda, invece, sull’interpretazione da offrire relativamente ai risultati conseguiti dagli studenti del nostro Paese. Per quanto riguarda il primo aspetto, nonostante l’autorevolezza goduta dall’Istituzione OCSE, è giusto far notare che non si tratta affatto di un ente neutrale. Esso dà già per scontato che la finalità della scuola siano di carattere pratico-operativo e, quindi, ha già individuato gli obiettivi dell’istruzione nel conseguimento di abilità immediatamente da spendersi nel mondo del lavoro105; condividendo, conseguentemente, quella svalutazione del sapere umanistico che, da quel punto di vista, risulta meno rilevante. Tale natura ambigua – di un ente, come molti altri del resto che decidono degli indirizzi più vari della politica mondiale, imposto d’autorità e non selezionato attraverso un meccanismo trasparente ed elettivo106 – ha suscitato la perplessità di numerose personalità intellettuali di prim’ordine. La concretizzazione più eclatante di tale atteggiamento critico è un documento, una lettera indirizzata al direttore del programma, Andreas Schleicher, e firmata da numerosissimi intellettuali dei più svariati ambiti umanistici e scientifici, tra cui Noahm Chomsky, in cui si avanzano delle critiche specifiche al modo di condurre i test. Da una parte in relazione alle finalità che devono possedere le istituzioni scolastiche; la formazione non ha in vista solo l’inserimento in un contesto economico di efficienza, ma anche quella della crescita culturale, del senso comunitario di appartenenza a uno stesso consesso civile, di educazione alla legalità e alla cittadinanza che sono valori anche più preziosi di capacità operative – la cui importanza non viene affatto negata – ma che possono apprendersi poi nei concreti contesti di applicazione del proprio sapere107.
Sorge il sospetto che l’istituzione di un ente come OCSE-PISA sia stata concepita per estendere in modo omnipervasivo il modello di istruzione anglo-americano, in effetti quello a cui hanno fatto poi riferimento quasi tutti i Paesi un tempo orbitanti nell’area geopolitica guidata dall’Unione Sovietica. Così come identico scopo ha avuto la diffusione capillare di teorie cognitiviste – la cui possibilità di trovare completa applicazione nella pratica dell’istruzione è, come abbiamo più volte rilevato, discutibile-.
In merito alle caratteristiche dei test, essi – si rileva – sono impostati in modo tendenzioso, mirante cioè a verificare quelle capacità che già a priori si sono ritenute più rilevanti, spesso indifferenti alla natura concreta delle singole discipline e alle caratteristiche più specifiche, dal punto di vista teoretico, delle stesse108. È il caso, per esempio, della matematica, laddove i test presuppongono abilità esclusivamente calcolistiche109. Molti docenti di matematica italiani, infatti, hanno sollevato più volte perplessità sulla natura di quesiti che vanno a testare abilità meno significative, che non sono al centro della didattica disciplinare nei programmi nazionali. Non è probabilmente un caso che, una volta inseriti anche quesiti relativi al problemingsolving, il livello degli studenti italiani sia notevolmente migliorato. E non è neanche casuale che, nel proseguo degli studi universitari, per quanto concerne le facoltà scientifiche, non è affatto vero che si ripresenti un gap così elevato tra i nostri studenti e, poniamo, quelli finlandesi 110.
La seconda questione riguarda invece l’interpretazione da assegnarsi ai test eseguiti secondo le modalità previste, al di là dei dubbi che si possono avere sulla loro rappresentatività o legittimità. È indubbio che essi restituiscano un quadro dell’Italia profondamente diviso per aree regionali, con opportunità di conseguire risultati di alto profilo decisamente diverse. Negare questa divisione – di cui i risultati scolastici sono un sintomo – non ha molta credibilità, nonostante sia stato tentato da molti, in una classico atteggiamento ideologico che tenta di aggirare i dati falsificanti111. Gli stessi Campione e Tagliagambe ammettono che i risultati conseguiti dalle scuole dell’area del centro Nord sono a pari livello di quelli dei Paesi più accreditati. Il che sembra provare – a differenza di quanto sostenuto dai due studiosi – che il sistema è in grado di raggiungere risultati di eccellenza.
Ma al di là di tale polemica, ci chiediamo se sia credibile una valutazione ottenuta attraverso una composizione di studenti che non tiene conto delle effettiva percentuale di popolazione scolastica per ciascuna regione. Se si osservano infatti le composizioni degli studenti esaminati112, si nota che il numero di studenti lombardi è pressoché equivalente a quelli della Basilicata. Il che evidentemente, inficia il valore della media nazionale raggiunta. Il modo più corretto di leggere i risultati dei test OCSE-PISA, dunque, sarebbe quello di confrontare i dati regionali; se così si facesse, le conclusioni sarebbero decisamente meno distruttive e di maggiore conforto verso il valore del nostro modello educativo113.
A questo punto è dunque possibile proporre un’ulteriore valutazione. Nel corso degli ultimi venticinque anni, il dibattito relativo alla necessità di cambiare profondamente la natura della scuola italiana ha trovato due possibili giustificazioni: in un prima fase si è sostenuta l’esigenza di adeguarsi a un mondo che conosceva profondi cambiamenti e, in generale, alle caratteristiche di una società post-fordista. Tale retorica ha conosciuto anche prese di posizione bizzarre, che incredibilmente hanno trovato ascolto negli ambienti del ministero dell’Istruzione114. In questo contesto è stato inserito – come da noi già più volte ricordato, il concetto di competenza.
Successivamente, i processi riformatori sono stati sostenuti con ancora maggiore urgenza mano a mano che avanzava la crisi economica e si poneva il problema della compatibilità dei costi del sistema d’istruzione e, contemporaneamente, quello della diffusa disoccupazione, come necessità sistemica per far fronte a questo drammatico quadro sociale.
Non ritorniamo sulla questione dell’evidente inversione della causa con l’effetto, per cui non è il sistema d’istruzione a causare la disoccupazione ma è la crisi economica che, generando disoccupazione, non permette ai contenuti di sapere di essere efficacemente spesi nel mercato del lavoro. Vogliamo però avanzare un’altra ipotesi, di carattere maggiormente positivo: un sistema d’istruzione come quello consolidato dalla tradizione italiana consentirebbe di porre i nostri discenti in posizione di ben maggiore vantaggio nel contesto della concorrenza di un mercato globale. Ovviamente, aggiornando in parte sia i programmi sia le metodologie e le tecnologie d’insegnamento, sempre però nel rispetto della didattica disciplinare.
Il problema principale della scuola italiana, e che storicamente è di molto anteriore agli ultimi due decenni, sta nella drammatica dispersività scolastica, ancora oggi molto al di sopra della media di altri Paesi industrializzati. Di fronte a questo problema, la soluzione, che si è preferita adottare, è quella della semplificazione dei contenuti, ovvero dell’abbassamento del livello di sapere richiesto, senza peraltro che ciò comportasse la soluzione di un problema le cui cause si riferiscono a problematiche di ordine sociale che la scuola può al limite riflettere e non affrontare, almeno se non viene messa nelle condizioni di farlo. Laddove, a nostro parere, il modo più corretto di reagire al problema è quello di organizzare in maniera efficace la didattica di recupero, come viene effettivamente realizzato nei Paesi con minore dispersività scolastica. Da questo punto di vista, la proposta contenuta ne La Buona Scuola115 di mantenere aperte le scuole nel corso dell’intera giornata, potrebbe essere una giusta soluzione. Purché si preveda la presenza di un personale stabile e continuo, possibilmente alternativo a quello dell’orario curricolare, in grado di seguire con costanza gli studenti in difficoltà, ponendoli nella condizione di colmare le loro lacune, superando le problematiche incontrate nell’ambito familiare e non obbligandoli all’esborso di somme considerevoli nel tentativo di cercare ripetizioni private.
Un’argomentazione favorevole alla tesi ivi sostenuta, può fare riferimento alle cosiddette eccellenze che la scuola italiana produce e che danno origine a quel fenomeno – usiamo per il momento il gergo giornalistico con cui tale situazione è nota all’opinione pubblica – dei «cervelli in fuga». Nonostante infatti il giudizio così negativo sull’efficacia dell’istruzione in Italia, l’apprezzamento di molti laureati italiani all’estero è indubbio e ancora relativamente alto116. Sono studenti la cui formazione è stata a carico della collettività e il cui godimento va invece a beneficio di altre realtà nazionali.
Tale situazione conferma proprio l’apprezzamento in cui anche all’estero è tenuto il sistema d’istruzione italiana, il cui valore aggiunto sta proprio nell’ampio numero di materie curricolari degli anni liceali, che forniscono un habitus mentale decisamente più aperto e critico anche al sapere specialistico conseguito durante lo studio universitario. Tale preparazione non solo risulta articolata ed efficace, ma permette proprio di conservare posizioni di vantaggio nell’arco della concorrenza globale117.
Semmai il problema da affrontare riguarda quello di estendere tale livello di sapere il più possibile, superando un meccanismo eccessivamente selettivo attraverso la pratica costante del recupero e del sostegno allo studio118.
Nel momento in cui tale specificità formativa venisse meno questi nostri discenti si vedrebbero privati di quella posizione di vantaggio di cui ancora in parte godono nel contesto internazionale. Per cui anche la possibilità di una realizzazione professionale all’estero verrebbe meno, dal momento che il loro sapere sarebbe più o meno equivalente a quello dei loro coetanei delle altre nazioni. E non si capirebbe la ragione per cui all’estero, a quel punto dovrebbero avvalersi di loro in situazioni di particolare responsabilità.
D’altronde, è bene ricordare – perché si tratta di un argomento da sempre eluso da parte della retorica riformatrice – uno scadimento dei risultati della scuola italiana, cui le riforme vorrebbero porre rimedio, va datato proprio all’inizio del periodo riformatore. È a partire dagli anni Novanta, proprio in seguito alle semplificazioni dei contenuti imposte dalle politiche ministeriali, che tale situazione è andata via via peggiorando. Ed è stato solo il tenace lavoro di resistenza del corpo docente che ha impedito, in molte aree del Paese, che si concretizzassero questi effetti negativi di tale politica irresponsabile119.
Per cui difendere la specificità della Scuola Italiana, chiedere di preservarla e di metterla in condizioni di autentica concorrenza con gli altri sistemi d’istruzione, per testarne la validità con strumenti realmente neutri ed efficaci, rimane il miglior modo per affrontare la sfida di una competitività spietata, che sembra richiedere una completa rinuncia ai valori nazionali. Come hanno già scritto decine di intellettuali nella sopracitata lettera indirizzata all’OCSE: «Poiché l’OCSE-PISA ha trascinato molti governi in una gara internazionale per raggiungere posizioni sempre più alte nelle classificazioni, essa, di fatto, ha acquisito il potere di plasmare le politiche dell’istruzione a livello mondiale senza che vi sia stato alcun dibattito sulle reali necessità e i limiti concreti degli obiettivi perseguiti. È per queste ragioni che siamo profondamente preoccupati circa i metodi adottati per valutare i livelli di apprendimento in paesi con notevoli differenze culturali tra loro, con tradizioni, in materia di istruzione, così diverse tra loro; siamo perciò convinti che applicare un unico metro di giudizio tanto ristretto e condizionante si configuri, infine, come un danno irreparabile nei confronti della scuola e degli studenti»120.











NOTE
1 Il documento del governo è leggibile al seguente link: https://labuonascuola.gov.it/documenti/La%20Buona%20Scuola.pdf.^
2 «La cultura umanistica ha fatto il suo tempo. Deve diventare cool, figo diventare matematici. Lo dico sempre ai miei bambini»; queste affermazioni, rilasciate dal finanziere David Serra alla manifestazione fiorentina «Leopolda» il 24 ottobre 2014, hanno avuto molta eco sulla stampa e sono state capaci di produrre un’adeguata indignazione. Ma tale polemica nei confronti del sapere umanistico (su cosa debba poi intendersi con tale dizione, abbastanza generica, cfr. Luciano Canfora, Gli antichi ci riguardano, Il Mulino, Bologna 2014, cap.IV) ha conosciuto anche momenti più “alti”, come il «Processo al Liceo Classico», tenutosi al Teatro Carignano di Torino il 14 novembre 2014 cui, tra gli altri, hanno partecipato l’economista Andrea Ichino e Luciano Canfora.^
3 Ci riferiamo a un ampio dibattito che, negli ultimi due anni, ha coinvolto diversi intellettuali italiani, in merito alle caratteristiche proprie della cultura nazionale, e in specifico della sua tradizione filosofica, rispetto al contesto europeo e internazionale. Un gruppo di studiosi ha voluto prendere posizione contro le “degenerazioni” della corrente filosofica dell’ermeneutica, che hanno caratterizzato il pensiero “post moderno” (cfr. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012); punto di vista che in parte ha accolto, senza coincidervi pienamente, la polemica che la “filosofia analitica” ha da tempo rivolto contro tutte le forme di riflessione filosofica che non subordinano il loro metodo d’indagine a quello derivato dalle scienze esatte (cfr. D. Marconi, Il Mestiere di Pensare, Einaudi, Torino 2014). In tutti e due i casi risulta manifesta una contestazione della tradizione storicistica e della dialettica il che, come vedremo, presenta importanti conseguenze sul piano della riflessione didattica. A difendere la tradizione dell’ermeneutica contro questi attacchi è stato in particolare Gianni Vattimo (cfr. S. Zabala, G. Vattimo, Comunismo ermeneutico, Garzanti, Milano 2013), il quale però ha dovuto, rispetto alle posizioni del passato, recuperare in senso positivo la dimensione della storicità, per integrare l’esito filosofico del pensiero di Heidegger, che resta comunque per Vattimo il filosofo di riferimento. Il contributo più rilevante a difesa dello storicismo è quello di G. Galasso, Storicismo, filosofia e identità italiana, Quaderni di Biogem, Ariano Irpino 2012; sull’attualità della dialettica, pur su posizioni non coincidenti, cfr. S. Azzarà, Democrazia cercasi, Imprimatur, Macerata 2014, e D. Fusaro, Il futuro è nostro, Bompiani, Milano 2014.^
4 Ci permettiamo di rimandare a un nostro saggio, dedicato al tema: G. Carosotti, La didattica delle competenze, in L’Acropoli, 11 2010, pp. 631-680 (attualmente ne è possibile la lettura ai seguenti link: http://www.lacropoli.eu/articolo.php?nid=790#.VHsUvtJ5NvA oppure http://www.carosotti.it/files/La%20didattica%20delle%20competenze%202.pdf). Vi sono contenute alcune analisi, che fanno da premessa alle considerazioni presenti in queste righe; le quali hanno lo scopo di valutare se, nel lasso di tempo trascorso, le contraddizioni palesi allora rilevate, di carattere epistemologico, che coinvolgono il concetto di “competenza” siano state affrontate e risolte e se, eventualmente, se ne sia tenuto conto sul piano normativo.^
5 O. Niceforo, Il grande fratello INVALSI, in Tuttoscuola, n° 533, giugno 2013, p. 23. In nota Niceforo ricorda la definizione di competenze proposta dall’Ocse-DeSeCo, accolta anche dalla UE («comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro e di studio e nello sviluppo professionale e personale»), della cui debolezza evidentemente si accorge, per farne seguire la valutazione sopra ricordata. In effetti, risulta estremamente problematico proiettare i contenuti di tale definizione sulla concreta e quotidiana azione didattica.^
6 Cfr. M. Recalcati, L’ora di Lezione, Einaudi, Torino 2014, ebookpos. 120-126: «La Scuola neoliberale esalta l’acquisizione delle competenze e il primato del fare, e sopprime, o relega in un angolo stretto, ogni forma di sapere non legato con evidenza al dominio pragmatico di una produttività concepita in termini solo economicistici (per esempio la filosofia o la storia dell’arte nelle superiori)».^
7 G. Sandrone, Insegnare per competenze o promuovere le competenze. Dal significato alla valutazione della competenza, in L. Perla (a cura di), I nuovi Licei alla prova delle competenze. Guida alla progettazione, Pensa Multimedia, Lecce 2014. Il saggio è stato anche pubblicato in Nuova Secondaria, n° 1 2014, pp. 11-25 (i nostri riferimenti saranno a questa pubblicazione).^
8 Ivi, p. 11.^
9 Ibid.^
10 Ibid.^
11 Ibid.^
12 Cfr. G. Carosotti, La didattica delle competenze, cit., p. 640.^
13 M. Recalcati, in op. cit., pos. 1304-1310, precisa come la trasmissione del sapere «non implica nessuna simmetrizzazione falsamente paritaria della relazione didattica. Il maestro e l’allievo non occupano luoghi identici, non sono uguali. Una differenza simbolica ripartisce nettamente le loro posizioni: sono separati come lo sono il padre e il figlio, la vecchia e la nuova generazione. La trasmissione del sapere si inscrive sempre in un processo di filiazione».^
14 G. Sandrone, cit., p. 11.^
15 Cfr. G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica. I Pedagogia generale, Sansoni, Firenze 1954, p. 135: «Per intendere la vera indole, i bisogni, la vita del suo scolaro, il maestro non deve fermarsi all’astratta idea che egli sia, poniamo, uno scolaro di una certa classe, in cui si suppone l’attitudine a seguire uno svolgimento di un certo programma; questo è uno scolaro astratto; che non ha vita e che non può seguire nessun programma; è una cosa, creata dal pensiero inconsapevole della propria natura; non è una persona. Né basta che lo guardi in faccia, in cui pur lampeggia una luce a ogni istante nuova l’interno del fanciullo; ma deve entrare e studiarlo pacatamente nel suo animo, dove si raccoglie e concentra la vita di quel fanciullo. E per entrare bisogna che lo segua processo spirituale, perché quell’animo non è appunto se non un processo. […] Questo entrare dell’educare nel processo spirituale dell’educando non è punto uscire da sé medesimo, non è come un distaccarsi da sé per aderire a un processo estraneo, ma non è né più né meno che realizzare il proprio processo. Realizzarlo, s’intende sempre, nella determinatezza della propria soggettività».^
16 Cfr. M. Recalcati, cit., pos. 1197-1202: «La Scuola apre mondi. La sua funzione resta quella di aprire mondi. Non è solo il luogo istituzionale dove si ricicla il sapere dello Stesso, ma è anche potere dell’incontro che trasporta, muove, anima, risveglia il desiderio». Proporremo più di un riscontro con le osservazioni di Recalcati; il suo studio infatti propone, dal punto di vista di una disciplina specifica, la psicoanalisi, un modello di istruzione analogo a quello sostenuto nel presente saggio. E, nello stesso tempo, rivela l’intrinseca debolezza di tante convinzioni del pedagogismo.^
17 G. Sandrone, cit., pp. 14-15.^
18 Cfr. A. Scotto di Luzio, op. cit., p. 25: «La personalizzazione è una tecnica impiegata in modo simbolico per fornire agli insegnanti, agli studenti e alle loro famiglie la giustificazione di un agire che non è in grado di fare appello a nient’altro se non alle sue procedure interne, alle sue routine appunto tecnicizzate»; il che svela la vera natura della «pedagogia del fare» quale «pedagogia del già fatto» (ivi, p. 105). Quest’ultima considerazione richiama le convinzioni già di Gentile: «Le quali apparenze si fondano sul falso presupposto che una scienza, un’abilità, una virtù, un’arte o checché altro si consideri materia di educazione, sia qualcosa di ben determinato e chiuso in sé, una cosa già prodotta, una cosa anziché una forma spirituale», in G. Gentile, op. cit., p. 155.^
19 G. Sandrone, cit., p. 15.^
20 Ibid. Ci permettiamo di notare che, per un insegnante che sappia fare il suo mestiere, le componenti psico-fisiche della personalità sono da tenere in costante correlazione, dal momento che il processo formativo non è in sé escludente (non intende cioè espellere un individuo sulla base di difficoltà oggettive manifestate nel fare proprieparticolari conoscenze), ma si relaziona all’alunno nella sua singolarità, permettendogli di fare propri i contenuti disciplinari a partire dalle lacune individuali. È vero che tutto ciò si scontra con lo scarso peso che nella nostra scuola è dedicato alla didattica di recupero, sulla quale si dovrebbero concentrare gli investimenti, al fine di contrapporsi alla dispersività scolastica. Invitiamo però chi legge a considerare tutti questi aspetti, compresi i collegamenti pluri e interdisciplinari, in astratto, svincolati da un lavoro continuo e costante sulle discipline, per comprendere quanto quello qui descritto sia in fondo un contenitore destinato a rimanere vuoto.^
21 Ivi, p. 13.^
22 G. Ferroni, La scuola sospesa: istruzione, cultura e illusioni della riforma, Einaudi, Torino 1997, p. 83.^
23 Ivi, p. 15.^
24 Proprio la questione della “genesi del gusto” è in grado di evidenziare la debolezza di questa posizione; solamente un approccio oggettivistico-storicistico è in grado di rendere conto dello stesso sentimento del gusto, così come della formazione dei valori. Cfr., a proposito, A. Scotto di Luzio, La Scuola che vorrei, Bruno Mondadori, Milano 2014: «Il compito dell’educazione è allora coltivare il giudizio e cioè il pensiero che ci permette di scegliere, di distinguere tra ciò che è bello ed è meritevole della nostra ammirazione e ciò che deve essere senz’altro rifiutato. […] La cultura è il deposito naturale di questa possibilità di scelta. È il terreno su cui questo pensiero può essere coltivato ed è stato coltivato nel corso del tempo. Perché è il risultato di un lento deposito, di quel lavoro di dissodamento a cui si sono accinte generazioni successive. Non l’escogitazione di un congegno didattico o di un curricolo bene organizzato, ma il frutto dell’opera paziente dell’interpretazione. Prodotto di un lavoro critico di discriminazione, la cultura è essa stessa la base di esercizio della facoltà individuale di chiarificare e distinguere i significati, perché comporta il riconoscimento di un canone e di ciò che lo sfida ai suoi margini e continuamente lo rimette in discussione, sollecitando una ininterrotta opera di giustificazione razionale dei valori».^
25 Ivi, p. 19.^
26 Ivi, p. 24: «Sarà poi compito di ciascun Consiglio di classe elaborare, con coerenza istituzionale, una progettazione collegiale, prima, e disciplinare, poi, che delinei come si intenderà procedere per favorire lo sviluppo di questa competenza, quali contenuti culturali si utilizzeranno, quali situazioni di compito si attiveranno, quali saranno i criteri e le modalità di valutazione quantitativa delle conoscenze e delle abilità disciplinari e quelli di monitoraggio e valutazione qualitativa della competenza manifestata».^
27 Ibid.: «[…] in una organizzazione che dispone in modo rigorosamente separato e ripetitivo le diverse discipline, che distingue tra attività d’aula e attività di laboratorio, che definisce all’inizio dell’anno scolastico un calendario che resterà uguale a se stesso fino a giugno […] può davvero sembrare un amaro ossimoro parlare di sviluppo della persona e delle sue competenze».^
28 La sigla è un acronimo che sta per «Content and Language Integrated Learning»; nell’ordinamento italiano esso prevede che, nel quinto anno di qualsiasi indirizzo di scuola secondaria superiore, per il 50% del monte ore di una disciplina non linguistica, scelta dal Consiglio di classe, l’insegnamento venga effettuato in lingua straniera dal docente titolare. Per il Liceo linguistico il CLIL è previsto, coinvolgendo anno dopo anno sempre più materie, per gli ultimi tre anni di corso.^
29«In teoria» è espressione non adeguata per un provvedimento obbligatorio a norma di legge. Si tratta però di un classico provvedimento a carattere programmatico, poiché potrebbero non sussistere le condizioni materiali per una sua completa attuazione. Attualmente è in vigore unanormativa provvisoria. A detta della responsabile del progetto presso il MIUR, Gisella Langé, esso non potrà essere completamente realizzato se non nell’arco di dieci o quindici anni.^
30 La Buona Scuola, cit., p. 94.^
31 Come cercheremo di argomentare, il CLIL è pura metodologia ed è indifferente al valore dei contenuti disciplinari. Per cui definirla “pratica” ci sembra quanto mai corretto.^
32 Cfr. F. Costa, Defamiliarising Input Presentation Strategies in CLIL. What do Students Think?, in Nuova Secondaria, n° 5 2013, p. 112: «It can be undertaken at any school level, from primary school to higher education, and can involve any language and non-linguistic content».^
33 Intervento al Convegno: CLIL: dalla teoria alla pratica. Criticità e proposte per quest’anno scolastico e per la “buona scuola” del futuro, Cannareggio, Venezia, sabato 15 novembre 2014.^
34 L’intervista è andata in onda nella mattinata di martedì 13 agosto 2014. Anche Giorgio Israel riporta identica dichiarazione dagli ambienti ministeriali, Vuoi fare il medico? Parlami di Chomsky, in http://gisrael.blogspot.it/2014/04/vuoi-fare-il-medico-parlami-di-chomsky.html: «D’altra parte, arriva la notizia che il solito funzionario ministeriale ha annunciato (in nome dell’autorità che promana dal suo ruolo di burocrate) che l’introduzione per legge del CLIL in tutti i Licei e gli Istituti Tecnici, ovvero l’insegnamento di una materia tutto in lingua straniera, servirà a trasformare la scuola in un luogo in cui “non s’insegnano più materie ma abilità”. Insomma, volenti o nolenti, per via buro-tecnocratica, si sta imponendo la distruzione delle competenze disciplinari a favore di generiche abilità». Con piacere constato quanto le affermazioni di Israel coincidano con i contenuti del presente saggio, e quanto esse servano a fare chiarezza, oltre sull’importanza irrinunciabile delle competenze disciplinari, sull’inconsistenza di quelle che abbiamo indicato quali «competenze personalistiche», che invero si riducono a generiche abilità.^
35 Va da sé che, una volta ammessa la necessità che uno studente di Scuola superiore dimostri conoscenza adeguata di almeno due lingue straniere (cfr. G. Israel, La vana demagogia dei corsi globish, in dhttp://gisrael.blogspot.it/2014/07/la-vana-demagogia-dei-corsi-globish.html: «Ma l’unica via sensata che non si riduca a un corto circuito culturale pezzente, sta nell’accettare l’idea che il giovane studente europeo debba avere una conoscenza di due lingue basi fondamentali, oltre la propria»), bisognerebbe piuttosto aumentare l’orario curricolare dedicato alle lingue straniere, e non trovare forme di comunicazione in lingua da parte di persone non specialiste; al Liceo linguistico, paradossalmente, è avvenuto il contrario: le ore curricolari dedicate alla lingue straniere, in quel caso discipline d’indirizzo, sono diminuite.^
36 Sul carattere tutt’altro che vincolante di tali teorie cognitiviste, e in particolare delle inferenze che, a partire da queste, vengono tratte in merito alla metodologia didattica, devo ancora rimandare a G. Carosotti, La didattica delle competenze, cit., p. 645.^
37 È ovvio che il CLIL può essere applicato anche alle discipline scientifiche; anzi, quest’utilizzo sarebbe particolarmente auspicato, dai suoi teorici, nell’indirizzo scientifico. Anche in questo caso, però, le obiezioni sono rilevanti. In discipline come la matematica e la fisica, riservare il 50% del monte ore complessivo ad una comunicazione in lingua straniera, diminuisce la possibilità di curare il recupero per gli alunni che presentano difficoltà didattiche in quelle discipline, tanto più se quegli stessi studenti padroneggiano in modo non ottimale la lingua straniera.^
38 N. Cao, Perché credo vivamente nel CLIL, in I Quaderni del Lifelong Learning Programme, numero 18, p. 28. Il documento, in formato pdf, è consultabile al seguente link: http://www.programmallp.it/lkmw_file/LLP///2013%20Pubblicazioni/quaderno_18.pdf.^
39 La pratica delle compresenze, per gli insegnanti che in autonomia hanno deciso di avvalersene, è stata una delle esperienze più significative della scuola italiana nel periodo precedente il ministero Gelmini, il quale stabilì per decreto la fine di tale collaborazione fra colleghi. Si trattava di un incontro spontaneo, organizzato, rispondente a una condivisione di obiettivi, e di arricchimento per entrambi i docenti coinvolti, che inseriva la possibilità di un piccolo approfondimento monografico e interdisciplinare, oltre al confronto tra metodi, di particolare rilevanza per gli studenti, che si avvalevano di una relazione tra due esperti, e non di una simultanea presenza nella stessa figura docente, in modo per forza di cose diseguale, di competenze diverse.^
40 C.M. Coonan è uno dei principali teorici della metodologia CLIL; in lingua italiana il suo testo più significativo è CLIL: un nuovo ambiente di apprendimento. Sviluppo e riflessioni sull’uso veicolare di una seconda lingua straniera, Libreria Editrice Ca’ Foscarina, Venezia 2007.^
41 Cfr. Nicoletta Cao, cit.: «Il CLIL è stato ideato per richiamare soprattutto l’attenzione degli operatori sulla necessità che non si devono perseguire solo obiettivi di contenuto ma che si deve ricercare (quindi si deve stabilire) una direzione per la crescita della lingua veicolare». Da questa citazione, risulta evidente che la preoccupazione prima del docente sia quello di aumentare la qualità dell’apprendimento linguistico dell’alunno e che questo obiettivo acquisti la priorità rispetto a quelli di carattere didattico e formativo propri della disciplina non linguistica. Anzi, per i teorici del CLIL il vero pericolo è proprio che l’aspetto della comunicazione linguistica diventi secondario rispetto all’apprendimento dei contenuti disciplinari; cfr. Francesca Costa, cit., p. 112: «For the above-mentioned reasons language learning risks becoming of secondary importance with respect to content learning, given that content teachers tend, because of their education, give a prevalent role to the teaching of the subject matter».^
42 Ivi, p. 113: «Moreover, the value added of CLIL could also be cognitive in nature: that is, the fusion of language and content. It is still not clear, however, what this cognitive value exactly consists of».^
43 M. Luisi e F. Caracciolo in Filosofia in lingua inglese. Un esempio di didattica CLIL nella scuola secondaria superiore, in Nuova Secondaria, n° 10 2014, p. 110, parlano esplicitamente di una «semplificazione del programma, a favore di un potenziamento dei ragazzi nell’utilizzo e nella comprensione della lingua straniera».^
44 N. Cao, Perché credo vivamente nel CLIL, cit.: «Ad esempio, quando noi italiani studiamo la storia romana partiamo dal punto di vista dei conquistatori, mentre gli inglesi adottano il punto di vista dei conquistati». Come se le popolazioni della Britannia di allora avessero parlato la lingua di Shakespeare; e prescindendo dal fatto che l’Impero britannico, nel corso della sua storia, è stato più volte portato a identificarsi con il precedente storico dei Romani piuttosto che a considerarsene una vittima.^
45 Cfr. F. Costa, cit., p. 113: «There are various typus of focus on form: phonological, grammatical and lexical, according to the language aspect in question».^
46 Cfr. M. Luisi, F. Caracciolo, cit., p. 109: «All’interno della metodologia CLIL lo scaffolding è, appunto, quell’impalcatura, quel supporto linguistico e cognitivo al discente fondamentale durante il processo di apprendimento. Questa impalcatura è necessaria, perché gli allievi non possiedono ancora le risorse linguistiche adeguate, ossia la terminologia specifica della disciplina non linguistica, nonché tutte le competenze della disciplina stessa, per affrontare l’analisi e lo studio di testi autentici nella L2».^
47 Ivi, p. 110. Rendere i contenuti essenziali vuol dire di fatto impedire il raggiungimento dei contenuti formativi disciplinari, in quanto si tratta di comunicare la materia secondo criteri di complessità decisamente minori rispetto a quanto gli studenti sono in grado di recepire; quindi di impedire di fatto l’acquisizione di capacità critiche e rielaborative. Sulla base di queste premesse, come facciano poi le autrici a parlare di «indubbi vantaggi sul piano linguistico» (ibid), rimane un mistero; ma sulle verifiche del metodo torneremo fra poco.^
48 Ivi, p. 110.^
49 Cfr. ibid.: «[…] per il docente che si trova a utilizzare il metodo CLIL sarebbero temi da valorizzare in quanto permettono di sfruttare a pieno le potenzialità del metodo stesso». Una necessità volta anche a favorire, in ambito filosofico, la corrente analitica e di supporto al pensiero computazionale.^
50 Ivi, p. 109; sempre in ibid. altro esempio di semplificazione (notate l’utilizzo continuo di anglicismi): «lo scaffolding in questo modulo didattico viene fornito attraverso l’attività iniziale di brainstorming, la selezione da parte del docente di sezioni di testo che sintetizzino in poche frasi i nuclei fondamentali delle opere e guidino il discente alla lettura analitica dei passaggi conquistati e degli esercizi di comprensione del testo e del lessico che seguono l’attività di lettura»; più avanti, p. 109, le autrici parlano esplicitamente di «efficaci selezioni che sintetizzino in poche frasi i nuclei fondamentali».^
51 Ibid.^
52 Eppure, è stata ventilata l’ipotesi di dividere la comunicazione della disciplina tra due insegnanti, quello capace di comunicare in L2 e l’altro, che continuerebbe a fare lezione in italiano. Sintomatica a proposito la posizione del sindacato FLC scuola, al seguente link: http://www.flcgil.it/scuola/docenti/secondo-ciclo/clil-il-miur-fornisce-le-indicazioni-per-lanno-scolastico-2014-15.flc. «L’utilizzo del 50% del monte ore per la DNL non può significare in alcun modo lo spacchettamento del singolo insegnamento, con utilizzo del docente in possesso delle competenze specifiche in più classi oltre a quelle di pertinenza, assegnato in base all’orario settimanale previsto dai Piani orari di ogni indirizzo di studio. L’insegnante di classe svolgerà l’intero monte ore previsto, utilizzandone una parte (di norma il 50%) per la DNL».^
53 Cfr. F. Costa, cit.: «[codeswitching] that is, the alternation between L1 and L2 typical in contexts of bilingual speakers».^
54 Ibid.^
55 Cfr. ivi, p. 112: «They have defined [le strategie metodologiche del CLIL] as defamiliarising input presentation strategies because, from the lesson observations, it seemed they were adopted during moments of focus and greater attention on the part of the students». Sul valore pedagogico autentico della lezione frontale, cfr. G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica. 2 Didattica, Sansoni, Firenze 1982, p. 159: «Il maestro, che è maestro, non si ripete; ma si rinnova perennemente nello spirito dello scolaro. Vive, e perciò si fa, sempre diverso. Chi, dopo aver fatto un’ora di lezione, non vi ha imparato nulla, non ha fatto imparar nulla ai suoi scolari. […] E si badi: docendo discitur. Appunto perché metodo e sapere sono una cosa sola, s’impara in due sensi, che sono poi, a guardar bene, anch’essi un senso unico. S’impara cioè, perché il maestro viene a saper meglio quel che sapeva prima, e accresce in tal modo la somma del proprio sapere, e via via dà vita a un sapere sempre nuovo; e s’impara, perché si diventa maestro sempre più esperto, sempre più efficace».^
56 M. Recalcati ha giustamente capovolto la critica dei cognitivisti, rivolta agli insegnanti “tradizionali”, di trattare i loro allievi come “contenitori”, semplicemente perché ritengono di vitale importanza per i discenti apprendere determinati valori di cultura. Cfr. M. Recalcati, cit., pos. 157-163: «Nello scientismo, di cui l’ideologia delle competenze è espressione attualissima, il sapere anonimo e robotizzato dell’Altro domina senza limiti e riduce il soggetto a un contenitore passivo, da riempire di contenuti».^
57 Sintesi dell’intervento di P. Mehisto riportato in Quaderni del Lifelong Learning Programme, numero 18, p. 8. In realtà mi sembra che Mehisto valorizzi proprio gli elementi caratteristici della lezione frontale, che il CLIL, come abbiamo dimostrato dalle valutazioni precedenti, non può affatto concretizzare, fosse solo per l’esiguità lessicale con cui è costretto ad operare. È il caso di ricordare a proposito sia le prese di posizione dell’Accademia della Crusca (cfr. le dichiarazioni del presidente Claudio Marazzini al seguente link: https://www.facebook.com/notes/accademia-della-crusca/il-rischio-della-svalutazione-della-lingua-nazionale-nelladidattica-e-nella-con/768626506514306) sia quelle del linguista britannico R. Phillipson, il quale ha fatto notare come le discipline concettualizzanti possono essere apprese solo attraverso la lingua madre. E che tale acquisizione concettuale diventa in seguito produttiva anche nello studio della lingua straniera (cfr. R. Phillipson, Americanizzazione inglesizzazione come processi di conquista mondiale, Esperanto RadikalaAsocio, Roma 2013).^
58 Cfr. S. Rogari, La scienza storica, UTET, Novara 2013, p. 30.^
59 Sandro Rogari, in ivi, pp. 30 sgg., ha individuato nei concetti di «fattore di contesto» e di «presente di contesto» le due dimensioni temporali e culturali su cui si gioca, in una classica relazione dialettica, il sapere storiografico. Ed è proprio questa relazione dialettica a costituire la possibile attrattiva del sapere storico in quanto tale, producendo meraviglia e interesse nell’alunno. Una comunicazione didattica che rinunciasse alla complessità storiografica – e ciò vale per quasi tutte le discipline, non solo per la storia – e si limitasse a sintesi nozionistiche e a pratiche operative, non solo stimolerebbe in modo minimo l’intelligenza dei discenti, ma quasi certamente non sarebbe capace di suscitare il loro interesse verso gli argomenti affrontati.^
60 Cfr. M. Luisi, F. Caracciolo, cit., p. 110: «Ovviamente gli insegnanti che utilizzano il metodo CLIL devono aver ricevuto una formazione adeguata e devono certificare un certo livello di possesso della lingua inglese, eppure nei corsi si percepisce con chiarezza l’imbarazzo e la preoccupazione di docenti che si trovano a dover spiegare la loro disciplina in una lingua che non sentono totalmente propria. Per questo può essere di grande aiuto impostare la trattazione di un autore a partire da un testo, nel quale il filosofo stesso esplicita i termini chiave del suo pensiero e li spiega». Si potrebbero, a questo proposito, riportare le innumerevoli testimonianze, anche e soprattutto degli studenti frequentanti, relative alle lezioni in lingua straniera presso molte università italiane, che hanno fatto registrare una sensibile diminuzione della qualità e della profondità dello studio. Per sintesi, riportiamo ancora una volta le dichiarazioni, molto nette anche nei toni, di G. Israel. Cfr. La vana demagogia dei corsi goblish, al link http://gisrael.blogspot.it/2014/07/la-vana-demagogia-dei-corsi-globish.html: «È il solo corto circuito demagogico per venir fuori da una crisi che ha cause molto gravi e profonde. Tanto per dirne una, il sistema universitario italiano non offre infrastrutture d’alloggio agli studenti stranieri, non ha praticamente campus, è carente persino sul piano delle mense e delle aule. Altro che inglese… Basterebbe un minimo di analisi per rendersi conto che la maggioranza degli studenti stranieri che viene in Italia non lo fa certo per sentirsi parlare in inglese ma, al contrario, per apprendere l’italiano. Non sarebbe il caso di raccogliere le penose-comiche testimonianze di molti docenti costretti a fare lezioni in inglese mentre la stragrande maggioranza del pubblico è costituito da studenti di aree non anglofone, per cui tutto si risolve in un a sceneggiata degna delle gag Toto-Peppino? E poi la stessa Fregonara [consulente del MIUR, N.d’A] ammette che però l’inglese in gioco è il solito globish, consistente in qualche centinaio di parole e intessuto di strutture verbali primitive? Bisognerebbe assistere al patetico sforzo di docenti, costretti dall’istituzione a fare i corsi di globish, che si affannano a tirar via i 45 minuti di una lezione impoverita per rendersi conto di quanto questa trovata dei corsi in inglese sia senza capo né coda».^
61 Ivi, p. 111.^
62 In Quaderni del Lifelong Learning Programme, cit., p. 8.^
63 Cfr. M. Recalcati, cit., pos. 1576: «L’economicismo che stravolge il processo educativo si accoppia paradossalmente all’esigenza di evitare il pensiero critico. Non bisogna chiedere ai giovani di pensare ma occorre interagire con loro, farli divertire, distrarli, mettere l’accento sul valore dell’essere in relazione in quanto tale. In questo modo la Scuola abbandona la sua funzione e scivola verso qualcosa di inedito, che la riduce a una sorta di parco giochi dove si è esentati da ogni rapporto impegnativo col sapere. Gli insegnanti dovrebbero rinunciare al loro compito – che è quello di insegnare – per diventare compagni di giochi?».^
64 F. Costa (cit., pp. 113-114) dedica quasi un terzo del proprio saggio proprio all’humor: «Humour has the advantage of relieving the tension and it is a way to recognise affiliation. Along the same lines, anecdotes, especially if they are humorous, strengthen relationship; funny stories help to create a positive ideas of the person who tells them».^
65 F. Costa, cit., p. 113: «It is still not clear, however, what this cognitive value exactly consists of. […] This discordance surprise factor could make input more noticeable and therefore lead to a deeper learning process. This paper starts, in fact, from this assumption»; d’altronde la stessa autrice, a p. 112, afferma che le sue prescrizioni metodologiche non sono mai state considerate nel contesto del CLIL, segno di una ricerca, pur ventennale, che non ha ancora chiarito le sue strategie: «To the best of my knowledge no one has yet dealt with these categories in the CLIL context».^
66 Sul carattere strumentale della “libertà docente” intesa quale “libertà collegiale” cfr. G. Carosotti, La didattica delle competenze, cit., p. 661. Cfr. inoltre P. Mehisto, cit., p. 8: «[…] ci deve essere un accordo collegiale che coinvolge tutti gli attori del processo educativo, fuori e dentro la scuola: dal dirigente scolastico, in primis, ai diversi docenti, ad altre figure presenti nella scuola (DSGA, bibliotecari, assistenti se del caso e altre figure ponte) passando per gli allievi e spingendosi fino ai genitori, che devono essere resi consapevoli per poter a loro volta favorire l’apprendimento». Farei notare quell’«in primis» riferito ai dirigenti, che acquisterebbero un compito direttivo nei confronti della programmazione didattica dei loro insegnanti, oltre al previsto intervento di figure dell’organico che con la didattica nulla hanno a che vedere.^
67 Ibid. Tale obbligo si rivolgerebbe agli stessi docenti di lingua. G. Langé, cit., fa riferimento alla «necessità di attivare sia per i docenti di lingua sia per i docenti di disciplina dei momenti di progettazione congiunta. Il docente di lingua ha all’interno delle Indicazioni Nazionali e delle Linee Guida degli obblighi, tra virgolette (sic), di concertazione di contenuti. Cioè il docente di lingua non può più solo pensare alla classica scansione di contenuti […] deve avere anche contenuti afferenti l’ambito disciplinare di specializzazione che è messo in evidenza».^
68 Cfr. G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica. II Didattica, cit., p. 60: «Quando infatti si rifletta con ogni diligenza sul carattere del presunto possesso anticipato del sapere da parte del maestro, si vede, come osservammo altre volte, che anche quel sapere è un sapere astratto: astratto dall’attualità dell’istruzione, che è l’atto mentale comune al maestro e allo scolaro. Atto del tutto nuovo; poiché il maestro non ripete mai meccanicamente quello che sa; e in quanto ripete, non è vero maestro, e non realizza propriamente l’istruzione, di cui qui si tratta. Il maestro ricrea sempre di nuovo, giorno per giorno, insieme con lo scolaro, il proprio sapere. E lì attua il sapere effettivo, perché esso nasce ora ex novo così in lui, e nello scolaro. […] L’istruzione va guardata, dunque, dalla parte dello scolaro: e allora non si può più definire comunicazione di sapere, ma sì piuttosto generazione di sapere».^
69 Mi riferisco ai risultati dichiarati dal percorso didattico, relativo al pensiero di K. Popper, suggerito da M. Luisi e F. Caracciolo, cit., pp. 112-113.^
70 F. Costa, cit., p. 114.^
71 Il Presidente del Consiglio ha già annunciato, con una franchezza che gli è tipica, che non saranno effettuati convegni sull’argomento; che non è, cioè, attraverso una riflessione intellettuale di alto profilo – considerata superflua – che si affrontano i problemi dell’istruzione, i cui aspetti qualificanti sono, evidentemente, considerati estranei al mondo della cultura. L’appellativo di “professoroni” agli intellettuali e giuristi che avevano sollevato perplessità sul progetto di riforma costituzionale, era un modo sbrigativo per sottrarsi a critiche scomode e fondate, ritenendo ogni approfondimento del merito un’attività superflua, in quanto capace sia di sollevare perplessità presso l’opinione pubblica, sia di mettere in evidenza le palesi falle del ragionamento difeso dall’esecutivo. Va da sé che la presa di distanza verso ogni atteggiamento critico, fondato su ragionamenti approfonditi e di merito, va di pari passo con la diffidenza verso l’istituzione scuola, così come concepita nella nostra tradizione, la cui finalità sarebbe proprio quella di educare i discenti all’acquisizione di queste capacità “superflue”. Lascio al lettore il giudizio se, dietro tale presa di posizione, non vi sia la volontà proprio di limitare lo sviluppo delle capacità critiche, le uniche che potrebbero smascherare i trucchi comunicativi in auge nell’attuale fase storico-politica.^
72 La Buona Scuola, cit., p. 4: «Oggi lo offriamo perché sia oggetto di dibattito e confronto nei prossimi [sic] fino a novembre, nel quadro di quella che vogliamo diventi la più grande consultazione – trasparente, pubblica, diffusa, online e offline – che l’Italia abbia mai conosciuto finora» (grassetto originale). Si precisa subito dopo come i destinatari non siano, in primo luogo, i professionisti della scuola: «Lo offriamo ai cittadini italiani: ai genitori e ai nonni che ogni mattina accompagnano i loro figli e nipoti a scuola; ai fratelli e alle sorelle maggiori che sono già all’università; a chi lavora nella scuola o a chi sogna di farlo un giorno; ai sindaci e a quanti investono sul territorio».^
73 Ivi, p. 6 (grassetto originale); dove nulla viene giustificato in merito alle espressioni «non ci ha portato da nessuna parte», o «restare sui sentieri battuti degli ultimi decenni».^
74 Cfr. ivi, pp. 90-92.^
75 Cfr. ivi, pp. 91: «La capacità di leggere e di produrre bellezza è un elemento costitutivo del nostro essere italiani: dobbiamo valorizzarla, farne un vantaggio comparato che, come Italia, ci aiuti in prospettiva a mantenere un giusto posizionamento internazionale».^
76 Come si ricorderà, si tratta dello slogan inaugurato dal ministero Gelmini: centralità a scuola dell’inglese, di internet e dell’impresa.^
77 Cfr. ivi, p. 95: «Formazione con un’attenzione specifica alla preparazione dei docenti per l’insegnamento delle loro discipline in lingua straniera. In più, con l’aiuto di assistenti madrelingua, o con una specializzazione vera attraverso la formazione, possiamo aiutare i docenti a migliorare le qualità delle loro competenze linguistiche, anche negli istituti tecnici e professionali». Quanto questa precisazione possa avere conseguenze sul piano sindacale, in particolare sulla formazione dell’organico, sarà esaminato più avanti.^
78 Ivi, p. 95.^
79 Ivi, p. 97 (grassetto nel testo).^
80 Ibid. (grassetto nel testo).^
81 A partire da quest’anno, le scuole dovranno compilare un modulo di autovalutazione, sulla base del dpr del 28/03/2013, che sarà alla base di una classifica, resa pubblica, in grado di informare sulla qualità dell’offerta formativa dei singoli istituti. Il MIUR ha anche pubblicato un Indicatore di autovalutazione di Istituto (cfr. link: http://www.istruzione.it/sistema_valutazione/allegati/RAV_24_11_2014_DEF.pdf), cui le varie commissioni potranno fare riferimento per individuare la giusta collocazione del proprio istituto. Tra le varie attività che la scuola deve garantire per definirsi di qualità vi è anche la «diffusione di metodologie didattiche innovative», che non vengono ulteriormente precisate; il compilatore deve solo testimoniare della loro diffusione o del coinvolgimento di poche o più discipline. Quando però l’indicatore si riferisce al modello di eccellenza, miracolosamente questa didattica innovativa viene riempita di contenuti: «Gli studenti lavorano in gruppi, utilizzano le nuove tecnologie, realizzano ricerche o progetti come attività ordinarie in classe» (ivi, p. 28). Un classico esempio di quello che intendiamo di sostituzione della parte con il tutto; le attività di supporto dei contenuti del sapere disciplinare diventano attività ordinarie.^
82 La Buona Scuola, cit., p. 74.^
83 I ministro Giannini si è espresso a favore di un’unica disciplina umanistica ad ampio spettro, indifferente alle peculiarità epistemologiche della storia rispetto alla filosofia o alla psicologia. Cfr. Basta briciole per l’istruzione, Avvenire, 24 febbraio 2014: «Per mia formazione non mi piace affrontare i problemi con l’accetta. So quanto importante è la storia del pensiero nella formazione della cultura europea. Più che l’idea di tagliare una materia di qua o di là, vorrei si ragionasse di più su un approccio interdisciplinare delle materie, che mi sembra la vera questione da approfondire».^
84 Non è un caso che le incoscienti affermazioni di Davide Serra, di cui alla nota 2, siano state rilasciate alla Leopolda”, la manifestazione politico-culturale promossa a Firenze dal Presidente del Consiglio.^
85 Uno degli scopi dell’economia, secondo Andrea Ichino, in un suo intervento polemico verso i cultori delle discipline umanistiche, sarebbe proprio quello di far prendere atto delle loro responsabilità ai popoli “cicala”, in una concezione a dire il poco riduttiva quanto ideologica dello stesso sapere economico che egli vorrebbe difendere: «L’economia è la “scienza triste” perché una delle sue missioni è ricordare al mondo che ci sono dei vincoli di bilancio: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca […] Beni che altri Paesi avranno prodotto, come meschine formiche, ma che saranno disposti a vendere a noi, cicale erudite, solo se saremo in grado di pagarle. Per non parlare del debito pubblico che già abbiamo e che sarà difficile restituire solo con le orazioni di Cicerone. Il quale, però, credo ci ricorderebbe che onorare quel debito è in primo luogo un dovere morale», da Andrea Ichino, Lode allo scientifico ma anche a Cicerone. Basta licei a menù fisso, in Corriere della Sera, 17/11/2014.^
86 La Buona Scuola, cit., p. 97.^
87 Sulla volontà di destrutturare l’istituzione liceale quale elemento comune a tutti i progetti di riforma, mi permetto di rimandare, oltre che al citato saggio sulla didattica delle competenze, a un altro mio contributo: Berlinguer, Moratti e il destino del Liceo europeo, in L’Acropoli, n° 6, Novembre 2004.^
88 Ivi, p. 105.^
89 Ibid.^
90 Sugli Istituti tecnici e professionali quali «anello debole» del sistema d’istruzione italiano cfr. A. Scotto di Luzio, op. cit., pp. 99 sgg.^
91 Va di moda affermare che nel periodo in cui in Italia la cultura neoidealistica vantava una posizione egemone tra gli intellettuali, distribuendosi in tutte le aree politico-culturali, la cultura scientifica italiana era sostanzialmente osteggiata e poco sviluppata. Una semplice disamina degli studi, delle scoperte, nonché delle frequentazioni intellettuali del tempo basterebbe a smentire questa vulgata. Cfr. C. Ocone, Chi ha detto che Croce è nemico della scienza?, Il Riformista, 29 aprile 2011, risposta all’intervento di A. Massarenti, Così l’Italia azzoppò la scienza, Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2011.^
92 Esattamente a p. 21.^
93 Al tema è dedicato l’intero primo capitolo del documento, ampiamente pubblicizzato dallo stesso presidente del Consiglio; al di là dei numeri proposti dal governo – che sono inferiori rispetto alla concreta entità del fenomeno – e alle problematiche legate alle diverse graduatorie configgenti che si sono andate formando in questi anni, il personale in oggetto non entrerà con le stesse mansioni di quello attualmente in organico, ma quale «organico funzionale», ovvero come una sorta di avanguardia che dovrebbe anticipare la metodologia di lavoro, in futuro da estendersi all’intero corpo docente.^
94 Cfr. G.Israel, Teppismo a scuola, in http://gisrael.blogspot.it/2014/11/teppismo-scuola. html: «[Il ministro] Dice di non conoscere l’emendamento che propone una verifica delle competenze dei precari in inglese e informatica. Avrebbe dovuto dire che quell’emendamento è una follia. Dovremmo piuttosto essere certi che il nuovo assunto conosca l’italiano (la lingua che usa tutti i giorni in classe), che conosca i rudimenti della storia […], che abbia qualche competenza base di scienze. Ma pensare che l’alternativa a non verificare niente sia constatare se uno sa dire “goodevening” e pasticciare sulla tastiera di un computer (magari per fare il registro elettronico) è un’assurdità che non merita commenti».^
95 Ivi, p. 98.^
96 Sull’organico funzionale e su quanto questo è destinato a modificare la professione docente, si ascolti l’intervista concessa da A. Scotto di Luzio a Gilda TV (Organico funzionale: l’insegnante al servizio del Preside), al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=S4pO2Qoy9BU&list=PLMYqVxeoRcvwamMK0I1PAFnMc1DC2xtuN&index=7.^
97 La Buona Scuola, cit., p. 44.^
98 Ivi, p. 7. Faccio notare l’impressione di povertà concettuale provocata dal continuo uso di metafore calcistiche in un documento destinato a un’istituzione che dovrebbe trasmettere cultura.^
99 Si moltiplicano le dichiarazioni che vogliono orientare lo studio della filosofia verso l’approfondimento del pensiero computazionale, sempre nella logica di subordinazione di una disciplina scarsamente valutata dal suo specifico punto di vista veritativo, piegata a supposte finalità di ordine pratico.^
100 La problematica del “merito” non rientra, in senso specifico, all’interno di quanto discusso in queste pagine. Vanno però ribaditi due assunti: bisogna preliminarmente stabilire i criteri sui quali valutare il merito e, questi, a nostro parere, devono sempre fare riferimento allo specifico disciplinare; se si accetta questo assunto, la valutazione non può che avvenire sul campo, in un periodo di tempo prolungato, grazie all’azione di un personale ispettivo debitamente preparato. Le modalità ispettive dovrebbero essere attivate su richiesta del Dirigente Scolastico, di fronte a situazioni che, per segnalazione delle varie componenti della scuola, risultino problematiche. Sull’impossibilità di valutare la qualità del singolo docente attraverso test formalizzati ritorneremo, seppur marginalmente, alla fine di questo saggio.^
101 La Buona Scuola, cit., pp. 69-70.^
102 Ivi, p. 71.^
103 Nel documento si tratta di questo argomento nelle pp. 46 sgg. La Buona Scuola prevede, inoltre, l’istituzione di un «Registro nazionale dei docenti della Scuola», contenente un profilo ragionato dei diversi docenti. Sarà sulla base delle informazioni in esso contenuti che i Dirigenti Scolastici potranno selezionare la loro «squadra» (cfr. ivi, p. 58).^
104 Non abbiamo tempo – meriterebbe un saggio espressamente dedicato – di parlare diffusamente della LIP, la “legge d’iniziativa popolare” per la scuola, elaborato dal basso da un coordinamento nazionale dei docenti. A questo documento nessun esponente del ministero ha mai fatto riferimento, per spiegare le ragioni per cui esso non viene preso in alcuna considerazione, a favore di una riforma di segno nettamente contrario. Cfr. il link lipscuola.it, e la seguente intervista a F. Rebeschegg: http://www.gildatv.it/rubrica/4-rubrica/detail/566-una-lipalternativa-alla-scuola-di-renzi.html?tmpl=component.^
105 Cfr. Lettera ad Andrea Scheicher. La lettera è consultabile, in versione originale e in traduzione italiana, in diversi siti internet. Tra gli altri, in originale, al seguente link: http://oecdpisaletter.org/; in traduzione italiana: https://blogletteraturacapuana.wordpress.com/2014/05/15/traduzione-in-italiano-della-lettera-aperta-a-andreas-schleicher-ocse-parigi/:«Al momento, infatti, coloro i quali esercitano maggiore influenza sulle scelte valutative dei livelli di apprendimento dell’istruzione globale sono esperti di psicometrica, di statistica e di economia. […] sarebbe opportuno, dunque, far partecipare al tavolo delle decisioni circa i metodi e gli standard di valutazione degli apprendimenti anche organizzazioni internazionali che hanno a cuore, non esclusivamente gli aspetti economici, ma anche la salute, lo sviluppo personale, il benessere di studenti e docenti».^
106 Cfr. ivi: «A differenza di organizzazioni come l’UNESCO o l’UNICEF facenti capo alle Nazioni Uniti (ONU) che detengono un chiaro e legittimo mandato per migliorare l’istruzione e la vita dei bambini nel mondo, l’OCSE non detiene alcun simile incarico. Né tantomeno esistono allo stato attuale meccanismi di una reale e concreta partecipazione democratica nelle prassi adottate da questo organismo in merito alle decisioni assunte sull’istruzione […] «sarebbe opportuno consentire a gruppi di ispettori internazionali e super partes di verificare e controllare tutto il procedimento messo in atto per i rilevamenti OCSE-PISA, dal momento della compilazione dei test fino alla loro effettiva esecuzione, al fine di assicurare trasparenza nei parametri statistici adottati per la loro correzione e per fugare ogni dubbio sul condizionamento da parte di chi ha interessi finanziari, o di incorrere in paragoni ingiusti sul piano delle disuguaglianze socio-economiche; […]sarebbe opportuno fornire delle relazioni dettagliate in merito al ruolo svolto da enti privati e quindi con un chiaro interesse economico, nell’elaborazione, esecuzione e verifica dei rilievi PISA triennali per evitare che ci siano veri o presunti conflitti di interesse».^
107 Cfr. ivi: «Tuttavia preparare i giovani esclusivamente con l’obiettivo di ottenere un posto di lavoro ben retribuito non è l’unico, e forse nemmeno il principale, fine a cui tende l’istruzione pubblica, essa deve, al contrario, preparare i discenti a saper affrontare la libera partecipazione democratica dell’auto-governo, all’azione morale, e ad una vita di sviluppo, crescita e benessere personale».^
108 Cfr. ivi: «l’OCSE-PISA ha determinato un drastico aumento di siffatte tipologie di verifica ed ha, oltretutto, enfatizzato l’affidabilità delle misurazioni quantitative dei risultati ottenuti […] Ponendo l’enfasi su ristretti margini misurabili i rilievi OCSE-PISA trascurano aspetti impossibili da misurare, come gli obiettivi educativi di tipo fisico, morale, civico o lo sviluppo artistico, pertanto essi restringono pericolosamente l’immaginario collettivo su ciò che l’istruzione sia o debba essere».^
109 Illuminante, a proposito, il contributo di G. Israel, Il bluff della matematica finlandese e quel che insegna sui test, in http://gisrael.blogspot.it/2011/05/il-bluff-della-matematica-finlandese.html. Impossibile riassumere il contenuto dell’articolo; riportiamo i passi più significativi a sostegno del nostro discorso: «George Malaty ha osservato che “in Finlandia sappiamo che non avremmo avuto alcun successo in PISA se i test avessero riguardato la comprensione dei concetti o delle relazioni matematiche”. Da più parti è stato severamente osservato che le varie riforme introdotte in Finlandia hanno finito col generare un “oggetto didattico” che con la matematica propriamente detta ha in comune solo il nome e che serve a superare bene i test OCSE.PISA ma ha avuto effetti disastrosi sulla cultura matematica diffusa, oltre che su un declino accertato della conoscenza superiore nelle università e nei politecnici».^
110 Cfr. G.Israel, Che cosa dicono i sondaggi?, in http://gisrael.blogspot.it/2013/12/checosa-dicono-i-sondaggi-ocse-pisa.html: «Secondo il rapporto OCSE gli studenti italiani sarebbero più capaci di interpretare risultati matematici che non di formulare matematicamente situazioni concrete. Ma forse la conclusione è affrettata. Una visione più concettuale della matematica (magari maturata con studi altrove trascurati) può essere momentaneamente perdente su un test che verifica l’esito di abilità calcolistiche, e alla lunga vincente anche sul piano applicativo».^
111 Cfr. G. Campione, S. Tagliagambe, cit., p. 14: «Questi dati, pochissimo citati, riducono l’effetto consolatorio che qualche commentatore ha cercato di trovare nell’articolazione territoriale della performance degli studenti, che sembravano [in realtà trattasi di dati reali e inoppugnabili, n.d.A.] evidenziare la presenza di aree di qualità per quanto riguarda il Nordest e il Nordovest. […] Naturalmente questo non significa che, per quanto riguarda il tema delle differenza tra i diversi territori non abbia un’effettiva rilevanza. Certamente i dati del Centronord estrapolati come tali darebbero un “piazzamento ben diverso da quello modestissimo che l’Italia nel suo complesso raggiunge. […] Ma l’Italia è, appunto, “nel suo complesso” e non una porzione da scegliere di volta in volta a seconda della tesi da dimostrare». Un classico esempio per ignorare dati oggettivi in evidente contrasto con quanto si vuole sostenere.^
112 Il rapporto è consultabile al seguente link: http://www.invalsi.it/invalsi/ri/pisa2012/rappnaz/Rapporto_NAZIONALE_OCSE_PISA2012.pdf. Cfr. in particolare pp. 13-14.^
113 in questo caso ci sembrano illuminanti alcune osservazioni contenute nella lettera al Presidente dell’OCSE Andreas Schleicher, cit.: «nessun tipo di riforma dovrebbe essere fondata su una singola misura di rilevazione qualitativa; […] nessun tipo di riforma dovrebbe ignorare il ruolo importante di fattori che, seppur esulano dall’istruzione quale, ad esempio, le disuguaglianze socio-economiche presenti in un paese, sono al contrario di primaria importanza per il sano sviluppo degli individui».^
114 Ci riferiamo a prese di posizione come quelle di R. Maragliano, La scuola ora si metta in gioco, intervista a «l’Unità», 5 febbraio 1997: «Lei preferisce che un pilota d’aereo abbia fatto videogiochi o che abbia letto la Divina Commedia?».^
115 Cfr. La Buona Scuola, cit., p. 77.^
116 Nonostante un certo degrado prodotto dalla riforma voluta dal ministro Berlinguer che ha istituito la doppia laurea, il cosiddetto 3+2. Cfr. a proposito le osservazioni di L. Canfora, Gli antichi ci riguardano, Il Mulino, Bologna 2014, ebook pos. 50: «Analoga menzogna fu messa in atto quando fu inflitta, al corpo dell’Università italiana, la ferita mortale del cosidetto “3+2”. Inganno duplice: perché di fatto il risultato fu l’opposto (l’allungamento da quattro anni bene ordinati agli attuali cinque caotici e convulsi) e perché non era vero che ci si dovesse adeguare a norme già in atto “in Europa” (il fatidico “è l’Europa che ce lo chiede”)».^
117 Rispetto a un’eventuale educazione all’imprenditorialità sia «una questione tipicamente morale e non economica […] Questo tema della volontà e dello sforzo […] è in un rapporto molto stretto con la scuola e più in generale con i processi educativi». Ma «l’educazione[…] è un apprendimento di sé attraverso le richieste degli altri»; in A. Scotto di Luzio, op. cit., p. 107.^
118 Sia chiaro però che la finalità didattica prioritaria per l’istituzione scuola, così come per la professione docente, non è solo quella di creare eccellenze, ma di permettere comunque di migliorare le proprie capacità individuali di partenza, in maniera significativa, al di là del fatto che le personali capacità permettano di arrivare a conseguire i risultati in assoluto più soddisfacenti. Questo miglioramento del livello culturale generale è il servizio più utile che la scuola può realizzare per il proprio Paese e rimane l’obiettivo più significativo del lavoro di un docente che però – anche questo va ribadito – risulta difficilmente certificabile o valutabile con criteri tassonomici, ma solo attraverso una costante e ripetuta analisi del lavoro svolto sul campo.^
119 Risultano sorprendenti alcune valutazioni proposte dall’ex ministro dell’Istruzione, nonché autorevole studioso, Tullio De Mauro, in un’intervista a Radio Popolare, andata in onda il 17 dicembre 2014. Ciò che più stupisce, da parte di una personalità che ha ricoperto così delicati incarichi istituzionali, è l’inattendibilità dei dati proposti. Il ministro afferma, contrariamente a qualsiasi dato reale e all’opinione espressa da chiunque si occupi di scuola, che il vero problema della scuola italiana sia l’istruzione secondaria superiore, poiché è l’unica che – fortunatamente, diremmo noi – non ha subito radicali trasformazioni riformatrici. Al di là del fatto che è unanimemente riconosciuto che il periodo strategicamente più delicato nella nostra scuola sia la scuola media inferiore, De Mauro utilizza i dati OCSE-PISA (Istituzione di cui non mette mai in discussione la neutralità) per confermare la propria tesi. Per cui attribuisce quei risultati non agli studenti quindicenni (i veri protagonisti del sondaggio) bensì ai diciottenni, il cui grado di conoscenza non è oggetto di quelle consultazioni.^
120 Lettera ad Andreas Schleicher, cit.^
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