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Il secolo dell'intervento pubblico nel Sud
di Sandro Petriccione
Due guerre mondiali, la rivoluzione russa e la fine del comunismo, l’inizio della decolonizzazione hanno caratterizzato il XX secolo; ma per l’Italia oltre le guerre e il periodo del regime fascista, è rimasta aperta la “questione meridionale” cioè il divario economico e sociale tra il Centro Nord e le regioni del vecchio Regno delle due Sicilie dopo l’annessione al Piemonte nel 1860. Si deve dire che l’azione dello Stato per fare fronte alle forti disparità all’interno dello stesso Paese, caratteristica dell’Italia, ha avuto inizio proprio all’alba del XX secolo dopo un periodo nel quale le decisioni politiche di uno Stato fortemente accentrato tenevano scarsamente conto della specificità del Mezzogiorno, ed ha compreso il ventennio tra gli anni Cinquanta e quelli Settanta nel quale, per i concreti risultati conseguiti da un eccezionale trasferimento di risorse all’Italia meridionale, si poteva sperare che ci si avviasse al definitivo superamento del divario. Invece negli ultimi decenni del secolo, pressato da altre esigenze ritenute più urgenti, lo Stato italiano poneva fine allo sforzo di industrializzazione del Sud laddove proseguiva stancamente la politica di infrastrutture senza un disegno preciso, mentre nello stesso tempo si acuiva la piaga della disoccupazione e si andava rafforzando la criminalità organizzata.

1. L’inizio di una specifica politica volta a risolvere i principali problemi del Mezzogiorno risale al governo Nitti che fece approvare dal Parlamento la legge per Napoli nel 1903. In effetti l’attenzione degli osservatori più attenti era già stata richiamata dalla polemica in merito agli effetti sulle regioni meridionali della politica doganale che aveva visto economisti di primo piano come De Viti de Marco, Pantaleoni e Pareto e, su un piano diverso, Salvemini prendere posizione contro la politica protezionista del governo. Ma pur sempre si trattava di proposte che volevano tutelare gli interessi generali dell’economia agricola del Mezzogiorno contrapposti a quelli degli industriali che si rafforzavano nel Nord e degli agrari del Sud. Invece la posizione di Nitti, che concludeva una serie di interventi critici sulla politica seguita nei confronti delle province meridionali dopo il 1860, era tesa a sostenere le attività industriali nel Sud e in particolare a Napoli dove nel periodo borbonico si era sviluppata l’industria meccanica assai prima del Nord e che era stata più colpita dalle conseguenze economiche ma anche sociali dell’unificazione. Con fortunata espressione in tempi più recenti il ministro Giulio Tremonti per dare una spiegazione al degrado sociale oltre che economico della città disse “Napoli da grande capitale europea si trovò improvvisamente ad essere solo una prefettura del Regno di Sardegna” Il tentativo di Nitti, nonostante un inizio brillante, non riuscì poi a diffondersi e replicarsi in altre regioni del Sud ma rappresentò un punto di riferimento per chi voleva la trasformazione del Mezzogiorno.
Con l’avvento del regime fascista la politica per il Mezzogiorno subì una lunga fase di arresto; per far fronte al drammatico problema di occupazione nel Sud si puntò allora sulle avventure coloniali e solo appena prima della seconda guerra mondiale sui progetti di “bonifica integrale”. Eppure i cambiamenti derivanti dallo sviluppo industriale del Nord non rimasero senza effetti nel Mezzogiorno. In particolare l’industria elettrica che faceva capo alla Edison, colosso industriale finanziario che operava in vari settori, investì ingenti somme per la costruzione in Italia settentrionale di numerose centrali idroelettriche capaci di produrre energia che si sostituiva all’impiego del carbone importato. E oltre alla realizzazione di centrali idroelettriche passò alla costruzione di linee ad alta tensione che le collegavano alle aree di consumo e tra di loro. Ma nel Sud già operava la SME – Società Meridionale di Elettricità – costituita con capitali stranieri e dalla Banca Commerciale che da Napoli aveva esteso la sua attività a diverse regioni del Mezzogiorno.
Si trattava di società strettamente private che perseguivano fini di profitto ma che, nel caso della SME, contribuivano comunque alla modernizzazione dell’ambiente meridionale pur senza produrre significativi effetti di sviluppo.

2. Nel clima del regime, non certamente aperto alla discussione sulle prospettive del Sud e dei suoi cittadini, dove viveva oltre un terzo dell’intera popolazione italiana, è di particolare interesse quanto Rodolfo Morandi, ancora giovane e senza essere un accademico, nel suo libro del 1931 (Storia della Grande Industria in Italia) scrisse analizzando con grande lucidità i problemi dello sviluppo industriale che era avvenuto nel Nord dopo la prima guerra mondiale e del loro rapporto con quelli dell’economia del Mezzogiorno cominciando ad individuare delle soluzioni che poi, quando divenne ministro socialista dell’industria, cercò di mettere in pratica. Morandi accusa la classe imprenditoriale italiana, che era di fatto solo quella settentrionale, di non avere nemmeno tentato “l’avventura salutare nel Sud”e di avere tenuto conto solo degli interessi immediati delle loro imprese. Ma intanto gli investimenti per la produzione e l’impiego di energia idroelettrica, sia pure in minor misura di quelli del Nord, che ebbero luogo anche nel Mezzogiorno con gli impianti della Sila i quali dovevano fornire energia alla parte meridionale del Paese e quelli del Tirso che si proponevano di svolgere analoga funzione per la Sardegna, fecero sorgere una visione ottimistica: che lo sviluppo nel Sud della produzione di energia elettrica, il “carbone bianco” come si ripeteva allora, non avrebbe mancato di concorrere alla soluzione di quella che, ad avviso di Morandi era «la questione che maggiore importanza aveva di tutte, che gran parte delle minori sommava in sé e tutte le dominava: quella della trasformazione dell’arretrato regime economico delle province meridionali». L’idea che la mèra disponibilità di energia elettrica avrebbe provocato la trasformazione delle regioni meridionali si doveva presto rivelare un’illusione. Era invece indispensabile la creazione di impianti industriali. «il fatto che fino ad oggi nel Mezzogiorno non siano sorte imprese industriali che in esiguo numero e solo in ristrette zone [...] non vorrebbe dire di per sé che questa regione si sia mantenuta assente dalla vita moderna […], se mai che l’economia meridionale potesse aver rigoglio col solo sviluppo della sua agricoltura. Non di meno, ciò non è certamente, perché relativamente povero è il rendimento agricolo di quelle terre, perché troppo popolose sono quelle per poter prosperare con una economia puramente agricola». Cioè per la prima volta dopo Nitti, distinguendosi dalle correnti largamente maggioritarie che vedevano nell’agricoltura l’aspetto centrale della questione meridionale, Morandi afferma che solo l’industria può portare a soluzione i problemi del Sud e ciò in doppio modo: creando occupazione e concorrendo a formare un «animo industriale». «L’industrialismo dell’età nostra non è da veder semplicemente nel’apparizione dei grandi stabilimenti odierni che si sostituiscono alla bottega dell’artigiano ossia da considerare come un passaggio dalle precedenti forme della produzione al factory system, a quella meccanica della fabbrica».

3. Il 2 dicembre 1946 nasce a Roma l’Associazione per lo sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno – SVIMEZ-; il suo principale ispiratore era il ministro socialista dell’industria Morandi che appoggiò le idee che andavano maturando all’interno dell’IRI e che facevano capo al suo direttore generale Donato Menichella e al giovane funzionario Pasquale Saraceno che in anni successivi e per un lungo periodo ne doveva diventare il presidente1 e che concludeva le sue osservazioni sulle prospettive dell’economia italiana nell’immediato dopoguerra indicando come obiettivo prioritario quello della diminuzione della disoccupazione. Giova ricordare che nei primi anni di attività dell’associazione l’attenzione dei circoli politici e dell’opinione pubblica per ciò che riguardava il Mezzogiorno si concentrava ancora sui problemi dell’agricoltura e in particolare sulla riforma agraria che era addirittura prevista nella Costituzione appena approvata. Era chiara a tutti la drammatica situazione nelle campagne meridionali nel dopoguerra: un’economia che era stata quasi di pura sussistenza non era ormai in grado nemmeno di assicurare consumi essenziali e soprattutto di merci non agricole che lo sviluppo economico del Nord cominciava a mettere a disposizione, acuendo la situazione di miseria che faceva aumentare la pressione sulla terra specialmente nelle zone di latifondo. La situazione presentava non poche analogie con quella dell’Europa sud orientale tra le due guerre dove i partiti dei piccoli proprietari che esprimevano gli interessi e le aspettative dei ceti più poveri erano spesso stati determinanti sulla scena politica. In Italia il movimento cattolico aveva cercato anche prima della formazione del partito popolare, di rappresentare gli interessi dei contadini piccoli proprietari. L’occupazione delle terre da parte dei braccianti, un movimento spontaneo in varie regioni del Sud alla testa del quale si pose il Partito Comunista, fece andare in secondo piano la questione di un nuovo assetto organizzativo e proprietario dell’industria che si era posto ai tempi dell’Assemblea Costituente. Abbandonato infatti il Movimento dei Consigli di Gestione dopo le elezioni del 1948 la sinistra (soprattutto il PCI ed il PSI) insistette sull’esigenza di adottare una riforma agraria generale cioè estesa a tutto il Paese promuovendo agitazioni che nel Mezzogiorno provocarono non pochi scontri con le forze di polizia e numerose vittime. Si andavano precisando i lineamenti di una tendenza “agrarista” che accomunava i seguaci delle idee di Lenin a cominciare da Gramsci sull’esigenza di assegnare la terra ai contadini poveri e quelli del solidarismo cattolico di Sturzo. Dall’altra parte una visione “industrialista” era allora fortemente minoritaria, si limitava quasi solo al gruppo della SVIMEZ e auspicava non solo l’impianto di stabilimenti industriali nelle regioni meridionali ma anche il sorgere di quello spirito industrialista del quale parlava Morandi e che, alla fine del 1947, aveva trovato espressione nel Piano Socialista e del suo gruppo promotore legato ai nomi di Raniero Panzieri, Giulio Pietranera, Emanuele Rienzi e Ruggiero Amaduzzi, che aveva indicato per il Sud delle misure che dovevano nel 1954 essere riprese dal Piano Vanoni2.

4. Il decennio degli anni Cinquanta del XX secolo in Italia (che è anche quello del “miracolo economico italiano”) può essere definito quello del “riformismo degasperiano” che si manifestò in tre grandi complessi di riforme e cioè la riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno e, con minori dimensioni, il programma INA Casa; tutte misure volte a concorrere alla soluzione del problema della disoccupazione che assumeva caratteri particolarmente gravi nel Sud. La riforma agraria “stralcio” (perché limitata a specifiche aree di intervento in varie regioni ma in maggior misura nel Mezzogiorno) è legata al nome di Antonio Segni e si fondava sull’espropriazione con indennizzo in titoli di Stato non immediatamente negoziabili delle grandi proprietà ad agricoltura estensiva, cioè del latifondo, assetto proprietario che spesso trovava la sua permanenza nella irregolarità del regime idrologico e in altre difficoltà naturali. La terra fu assegnata ai contadini, non esclusivamente nei loro comuni di origine, in piccoli appezzamenti, spesso del tutto insufficienti ad avviare una attività agricola remunerativa ma che servì ad indebolire e poi finalmente ad arrestare il movimento di occupazione delle terre.
Strettamente legata alla riforma agraria fu la costituzione nel 1951 della “Cassa per Opere Pubbliche Straordinarie nel Mezzogiorno d’Italia” più brevemente “Cassa per il Mezzogiorno”. Il lungo titolo originario sta a ricordare come la “Cassa”, come continueremo a chiamarla in questa nota, fu istituita per realizzare opere pubbliche in tempi più rapidi e in forma più efficiente dell’amministrazione pubblica centrale e locale; quest’ultima si trovava a livelli di mancanza di capacità attuativa che al momento attuale è difficile immaginare. Alla nuova istituzione era indicato come primo obiettivo quello di creare posti di lavoro. Basti osservare che nei primi anni di attività della “Cassa” nei bilanci annuali era indicato l’ammontare di ore di lavoro relative alle opere e agli interventi finanziati. Ferve ancora oggi la discussione su di chi sia stata l’idea di un organismo straordinario ed autonomo per il Mezzogiorno, fermo restando che la decisione di investire nel Sud l’allora fantastica somma di mille miliardi di lire in dieci anni, e perfino la denominazione di “Cassa” fu del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Contribuì certamente con un ruolo non marginale il Direttore Generale dell’IRI, poi Governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella il quale prese ad esempio l’esperienza dell’agenzia del new deal roosveltiano, la Tenessee Valley Authority, volta ad affrontare sotto la direzione di David Lilienthal, i problemi di uno degli Stati più poveri degli USA. Nella realtà italiana di quel tempo – si usciva appena dall’immediato dopoguerra – si trattava di risolvere i problemi drammatici di centinaia di comuni senza acqua potabile e senza fognature creando allo stesso tempo posti di lavoro nelle costruzioni; ma soprattutto dare un sostegno ai Consorzi di Bonifica che erano stati istituiti durante il regime fascista con la legge Serpieri, rendendo possibile l’irrigazione, fattore vitale per i terreni espropriati. Così anche per la “Cassa”, oltre a quelli legati a delle modifiche strutturali, si posero obiettivi di breve periodo, a cominciare dalla bitumatura delle Strade Statali, molte delle quali erano nel Sud ancora a fondo naturale, alla costruzione nei casi più urgenti di acquedotti comunali e fognature per garantire un minimo livello di vivere civile alle popolazioni interessate; ma nello stesso tempo affrontare i problemi di lungo periodo legati all’irrigazione resa possibile solo con la costruzione di grandi invasi artificiali per conservare l’acqua in una situazione idrologica particolarmente avversa, nonché di colossali condotte per trasportare l’acqua, talvolta per centinaia di chilometri, dalle dighe alle aree di utilizzazione.

5. La creazione della “Cassa” fu salutata come uno dei momenti più alti della democrazia in Italia. Basti ricordare le parole di Ernesto Rossi sul «Corriere della Sera» Il programma della Cassa per il Mezzogiorno che sottolineava l’importanza della realizzazione di “complessi organici di opere” una innovazione importante nella politica dei lavori pubblici, che la legge prevedeva, e le prime osservazioni, ampliate negli anni successivi, di Giuseppe Galasso che doveva diventare uno dei maggiori storici italiani del XX secolo. Si trattava sia di opere pubbliche in senso stretto, sia di opere a queste assimilabili (Invasi, impianti di trasporto dell’acqua e di irrigazione) con un progetto poliennale – una novità per l’Italia – che doveva cambiare intere regioni del Sud. Il Partito comunista italiano, che seguiva la sua linea di intransigente opposizione, non dando alcun seguito alle pur timide aperture del Piano del Lavoro del Segretario della Confederazione del Lavoro Di Vittorio, votò contro la riforma agraria stralcio e contro la “Cassa” isolandosi da quanto di positivo stava avvenendo nel Sud ed a cui pure aveva esso stesso contribuito. Dal punto di vista organizzativo la “Cassa” operava sulla base di di “piani poliennali” che erano approvati da un apposito Comitato di Ministri per il Mezzogiorno, presieduto per anni dal ministro Campilli, con i quali si prevedeva l’attuazione di “complessi organici di opere” e di “programmi annuali” proposti dal consiglio di amministrazione della “Cassa” nei quali erano stabilite le opere da eseguire e i relativi finanziamenti. L’esecuzione delle opere si fondava sulla collaborazione tra “Cassa”ed enti territoriali; In generale si ricorreva all’istituto giuridico della concessione ad enti locali (comuni e amministrazioni provinciali) o a Consorzi di Bonifica e si sopperiva all’assenza quasi generalizzata di competenze con una vasta opera di assistenza tecnica fornita dalla “Cassa” il che spiega così il cospicuo numero di tecnici (ingegneri ed agronomi) presenti nell’organico fin dall’inizio dell’attività3. Come ente finanziatore la Cassa manteneva il controllo della spesa e quindi esercitava tutto il suo peso nei confronti degli enti concessionari; uno schema che entrò in crisi quando divennero operative le regioni tanto prive di competenza tecnica quanto ansiose di assicurarsi la gestione dei fondi della Cassa.
L’“intervento straordinario” come era denominata la politica della Cassa si fondava, secondo l’economista statunitense Rosenstein Rodan, consulente del governo italiano, sul principio della “preindustrializzazione” cioè sulla dotazione di un patrimonio di infrastrutture fisiche “il Patrimonio Fisso Sociale” come si diceva allora, che avrebbe reso possibile successivamente, insieme alla modifica di mentalità della popolazione, lo sviluppo di attività industriali. Si trattava di quello che, qualche anno dopo, Alfred Hirshman avrebbe denominato Sviluppo via eccesso di capitale infrastrutturale, contrapposto ad una industrializzazione “preventiva” che avrebbe provocato successivamente l’investimento in infrastrutture. Avendo scelto la prima delle due alternative la “Cassa” nel suo primo decennio rimaneva un ente di opere pubbliche che interveniva del tutto marginalmente a sostegno dell’iniziativa privata come era nel caso del finanziamento delle Serre e, più tardi, degli alberghi, mentre gli investimenti nell’industria per mezzo degli Istituti di Credito Speciale a Medio Termine (Isveimer, Irfis, e Cis) erano del tutto trascurabili come si può notare dalla tabella seguente

Investimenti della “Cassa” nel decennio 1951-1960 (in miliardi di lire)









Miliardi %sul totale
Infrastrutture 1014,84 100 83,6
Agricoltura 652,59 64,3 53,7
Infrastrutture 363,25 35,7 29,8
Civili
Contributi 100 16,4
Migl.fondiari 163,00 81,
Altri contributi 24,00 12,1
Industria-artig. 12,00 6,0


Fonte: Cassa per il Mezzogiorno bilancio 1961.

Inoltre la “Cassa” rimaneva un organo a sostegno dello sviluppo delle attività nelle campagne; gli interventi nelle principali aree urbane erano quasi del tutto irrilevanti. È qui il caso di mettere in luce, la netta distinzione tra il primo decennio della “Cassa” e il periodo della industrializzazione forzata dal 1961 fino al 1973, anno della crisi internazionale provocata dal brusco aumento del prezzo del petrolio e di tutte le materie prime al quale succede un periodo nel quale riprende il declino. Questa netta distinzione sfugge a parecchi osservatori che si propongono di dare un giudizio sul Mezzogiorno e da ultimo, anche se di notevole interesse, al libro di Emanuele Felice4 perché oltre all’ambizioso compito che si propone sembra riflettere i punti di vista del gruppo autorevole e politicamente orientato del Mulino di Bologna. La tèsi centrale del libro attorno alla quale si svolgono tutta una serie di considerazioni (con una mole di note e di riferimenti che appare spesso eccessiva) è che il declino del Sud dipende dai meridionali stessi ed in questo non aggiunge niente di nuovo rispetto a quanto era stato scritto da Salvemini e poi da Guido Dorso. Felice prende le mosse da lontano per sostenere che anche prima della conquista piemontese il Mezzogiorno era arretrato; ed ha certamente ragione per ciò che riguarda l’istruzione pubblica ma dimentica di ricordare che, come si direbbe oggi, il Regno di Napoli aveva i conti in ordine a differenza del Piemonte indebitato per le guerre e per una politica generosa di infrastrutture ed inoltre, come fu messo in luce da Cenzato e Guidotti nella nota per l’Assemblea Costituente5 nel 1860 l’industria meccanica a Napoli era di gran lunga superiore a quella del Piemonte e come del resto Felice riconosce in quegli anni il reddito pro capite del Regno di Napoli non era molto inferiore a quello del Regno di Sardegna e da allora è cominciato il declino che quanto meno non fu arrestato ed anzi favorito dalla politica della destra e dei governi successivi oggetto delle osservazioni e delle critiche di Nitti e di Romeo nei confronti delle quali Felice si avventura ad esprimere un giudizio negativo che alla luce delle tendenze manifestatesi nel corso del periodo successivo al 1960 si fa fatica a ritenere accettabile. La feroce politica fiscale, la coscrizione obbligatoria che favorì il fenomeno del cosiddetto banditismo furono non ultima causa dell’emigrazione di massa verso l’estero, tutto è ad avviso di Felice segno di una politica necessaria e, alla lunga favorevole al Mezzogiorno, la quale, come scriveva Nitti, ricorda la ricetta di un vecchio libro di cucina piemontese “La lepre ama essere scuoiata viva”. Ma anche fino alla metà del Novecento il divario tra Nord e Sud continua ad aumentare e si arresta solo con l’inizio delle riforme degasperiane, inizio del ventennio di sviluppo più rapido nel secondo decennio con il balzo in avanti della grande industrializzazione che si conclude con la crisi internazionale.
Un nuovo periodo di declino inizia quando, dopo la uscita del suo grande presidente Gabriele Pescatore, la Cassa riprende stancamente il suo ruolo di ente per le opere pubbliche e si avvia sulla strada della sua fine culminata con la trasformazione in “Agenzia per il Mezzogiorno”.

6. Verso la fine degli anni Cinquanta del XX secolo, alla conclusione di un decennio di eccezionale sviluppo, si animava la discussione sulle prospettive del’economia italiana e con esse degli investimenti industriali e della occupazione, alla quale prendevano parte anche socialisti e radicali presenti sulle principali riviste politiche e i più noti economisti e studiosi dei problemi del Sud. Riprendeva voce la corrente “industrialista” specialmente dopo che entrò al governo con la carica di Ministro (senza portafogli) per il Mezzogiorno Giulio Pastore, ex segretario generale della CISL, che sulla scorta degli studi di Alessandro Molinari e Nino Novacco i quali avevano preso lo spunto dalla teoria dei “poli di sviluppo” dell’economista francese F. Perroux, fece approvare una legge sulle Aree di sviluppo industriale nelle quali si dovevano concentrare gli investimenti dell’industria secondo lo schema organizzativo dei Consorzi di Bonifica, ma con la realizzazione delle infrastrutture a carico dello Stato, cioè della Cassa. Allo stesso tempo gli incentivi (cioè i contributi detti “a fondo perduto” cioè dei grants proporzionali all’investimento, nonché il “credito agevolato” praticato dagli Istituti di credito a medio termine e che consisteva in finanziamenti a tassi inferiori a quelli di mercato addebitando la differenza alla Cassa) che erano limitati alla piccola industria venivano portati a investimenti fino a 6 miliardi di lire o ai primi 6 miliardi per investimenti maggiori. Il nuovo orientamento della politica per il Mezzogiorno era stato preceduto ed aveva trovato ispirazione dal “Piano Vanoni” del 1954, dal nome del ministro delle finanze Ezio Vanoni che lo aveva presentato al Congresso della Democrazia Cristiana6, dovuto, oltre che al suo ispiratore, alla collaborazione in prima fila del professor Pasquale Saraceno. Il “piano”, termine fino allora inviso alle forze di governo perché ritenuto proprio delle esperienze sovietiche, aveva avuto un grandissimo rilievo tra i partiti e su tutta l’opinione pubblica italiana che lo aveva giudicato favorevolmente, e si fondava sulla creazione di quattro milioni di posti di lavoro in dieci anni che avrebbero consentito nel 1964 di giungere a una situazione di piena occupazione. I nuovi posti di lavoro sarebbero stati creati con lo sviluppo dell’industria, in particolare di quella piccola e media: «Gli economisti direbbero che come programma deve prendersi quello sul concetto di lavoro intensivo più che non di capitale intensivo»7. In effetti il “Piano” non trovò pratica attuazione perché si ritenne che l’impetuoso sviluppo dell’economia italiana avrebbe comunque consentito di raggiungere i suoi obiettivi. Si aprì in quegli anni una discussione spesso confusa sulla programmazione economica vista come il rimedio per tutti i mali dell’economia e della società italiana nello stesso periodo nel quale l’opinione pubblica veniva a conoscenza di un documento serio quale era la nota La Malfa8, la quale come premessa alle proposte intese a favorire lo sviluppo, dava un giudizio positivo sulla politica seguita negli anni Cinquanta laddove i socialisti e le correnti più radicali della sinistra non comunista, in attesa della “programmazione” che avrebbe risolto i principali problemi sul tappeto, criticavano tutte le istituzioni del riformismo degasperiano, riforma agraria e in primo luogo Cassa per il Mezzogiorno, definendole, in senso negativo, “piani settoriali”. Eppure, come ricordò La Malfa, la Cassa per le sue caratteristiche di efficienza era l’unico organo pubblico in grado di tradurre in investimenti le decisioni della politica di programmazione. In effetti si finiva col contrapporre la “programmazione” ispirata e diretta dagli ambienti socialisti e radicali, che avevano come punto di riferimento il Ministero del Bilancio di Antonio Giolitti, agli strumenti della politica speciale, Enti di Riforma e Cassa, dominati dalla Democrazia Cristiana. Il ministro Pastore, con i suoi principali collaboratori Enzo Scotti e Giovanni Marongiu, tentò di affiancare al Programma Economico Nazionale che intanto – con scarso senso del ridicolo, come osservò Fanfani, fu addirittura approvato per legge un piano di Coordinamento che avrebbe dovuto indirizzare l’opera della Cassa ma che, dopo un conflitto con gli uffici della programmazione che dipendevano dal Ministero del Bilancio, trovò forti difficoltà di attuazione. È in questo periodo che, con l’accordo esplicito o implicito di tutte le maggiori forze politiche cominciò il grande balzo in avanti dell’industrializzazione del Sud con massicci investimenti dell’IRI e dell’ENI (nonché della SIR dell’ingegner Nino Rovelli) che vennero agevolati – cioè sovvenzionati- con i fondi in misura crescente trasferiti alla Cassa9. La decisione di ricorrere a grandi investimenti nei settori di base, che creano pochi posti di lavoro in rapporto al capitale investito, prese le mosse dalla considerazione che, salvo poche eccezioni, la politica dei poli di sviluppo aveva dato modesti risultati anche in termini di nuova occupazione. Quanto ai soggetti che avevano la responsabilità della politica di industrializzazione si creò una situazione dualistica: da una parte gli uffici della programmazione dominati dai socialisti e in particolare da Giorgio Ruffolo che ne era il segretario, e dall’altra l’lRI di Leopoldo Medugno ed l’ENI di Eugenio Cefis (ed anche la SIR di Nino Rovelli) vicini alla Democrazia Cristiana. E anche quando, nel clima dirigista che dominava in quegli anni la politica italiana, furono ideati i cosiddetti “pareri di Conformità” (al piano economico nazionale) cioè di fatto un’autorizzazione ad investire (fruendo di incentivi finanziari e di infrastrutture finanziati dalla “Cassa”), la discussione si trasferì al Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica CIPE dove il peso politico della Democrazia Cristiana e la capacità di convincimento dei grandi enti delle partecipazioni statali, allora al massimo del prestigio nell’ambiente politico e nella pubblica opinione, faceva regolarmente pendere da una sola parte le decisioni. La scelta degli investimenti avveniva sempre per grandi impianti, in maggioranza nei settori di “base” -metallurgia e chimica- che davano luogo a ben scarsa occupazione mentre si rivelò del tutto marginale la creazione nei pressi dei grandi impianti di piccole e medie industrie ad essi collegate (il cosiddetto “indotto”) allo stesso tempo in cui nel Nord si sviluppava tutto un tessuto di industrie manifatturiere di medie e piccole dimensioni. Il finanziamento di queste iniziative avveniva oltre che con gli incentivi della “Cassa”, con l’aumento dei “fondi di dotazione” cioè delle somme trasferite dal Tesoro agli Enti di Gestione IRI ed ENI il che però aumentava il potere della politica sulle decisioni di investimento. L’aumento dei fondi di dotazione fu in parecchi casi giustificato in base alla teoria degli “oneri impropri” cioè dei maggiori costi derivanti da scelte sulla localizzazione degli impianti o più raramente a settori nei quali intervenire. Così furono frettolosamente decisi sotto la spinta di agitazioni e di turbolenze in alcune località del Mezzogiorno (Reggio Calabria, Ottana) gli investimenti del “pacchetto Sicilia e Calabria” che prevedeva investimenti per 2152 miliardi di lire) o a legittimare decisioni già prese o da prendere come era il caso del cosiddetto “piano chimico” elaborato dagli uffici della programmazione
Con il 1973 e l’improvviso e consistente aumento del prezzo del petrolio grezzo e di tutte le materie prime si pose il problema della riconversione di tutta l’industria italiana la cui parte di gran lunga più importante era ubicata ancora nel Nord e ad essa fu assegnata gran parte delle risorse pubbliche disponibili a discapito di quelle che potevano destinarsi al Sud e che erano ridotte alle esigenze finanziarie della “Cassa” per infrastrutture secondo lo schema che era stato adottato con successo nella prima fase dell’intervento straordinario ma che si proseguiva senza obiettivi precisi in mancanza di un disegno di ampio respiro di sviluppo del Sud. Si avviava verso il tramonto l’impostazione dirigista, fondata sulla preminenza dell’intervento pubblico a tutti i livelli, che aveva dominato la scena politica italiana per oltre venti anni. Si può ricordare lo scritto anticipatore di Morandi L’economia regolata Ma la tendenza a fare assumere allo Stato delle funzioni imprenditoriali si può far risalire al momento della svolta del 1939, alla vigilia della guerra, quando l’IRI da ente che doveva provvedere allo smobilizzo delle partecipazioni che aveva in portafoglio si trasformò in una colossale holding multisettoriale simile a quella che durante la prima guerra mondiale era stata ideata e sostenuta da Walter Rathenau. Vanoni e Saraceno dettero un grande contributo di idee ma fu tutta la democrazia cristiana, nonostante le preoccupazioni e le critiche di Sturzo, che, accogliendo la prassi politica del ministro, poi presidente del consiglio Emilio Colombo, fece propria la politica spesso spregiudicata dei grandi enti delle partecipazioni statali IRI ed ENI legittimando la loro influenza sulle scelte politiche e sui singoli uomini politici.
Il tramonto della grande industrializzazione lasciava al Sud un patrimonio industriale non irrilevante ma che per varie ragioni interne ed internazionali entrava in crisi portando addirittura all’abbandono di grandi impianti come quelli del’ENI ad Ottana e di Ursini a Saline di Reggio Calabria. Alla fine del secolo XX riprende il declino del Mezzogiorno che si protrae fino ai nostri giorni nel disinteresse di tutte le maggiori forze politiche e della pubblica opinione e proprio perciò non si può non ricordare la passione che animò nella seconda metà del XX secolo quelli che, meridionali e settentrionali, volevano la trasformazione del Sud ed operarono perché essa avesse successo.






NOTE
1 P. Saraceno, Elementi per un piano economico 1949-52, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1948 (un libro ormai raro del quale ho una copia con la sua dedica) sosteneva che «Ogni programma di sviluppo economico non può non avere come obiettivo l’innalzamento del tenore di vita della popolazione.Gli obiettivi specifici possono essere molto vari: in passato abbiamo visto indicare tra di essi l’industrializzazione, la preparazione alla guerra, la modernizzazione delle industrie, l’autarchia, lo sviluppo delle aree depresse, un più vasto sfruttamento delle risorse agricole, ecc. Nella situazione attuale del nostro paese […] che gli sforzi per elevare il benessere del popolo italiano debbano organicamente ordinarsi intorno a un’azione diretta a diminuire la disoccupazione.^
2 Il Piano Socialista Atti della prima Conferenza economica socialista, in «Bollettino dell’Istituto di Studi Socialisti Roma 1947-48».^
3 Cfr. S. Petriccione, La Cassa per il Mezzogiorno come io la vidi, in «L’Acropoli», 12(2011) pp. 306 sgg.^
4 E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna 2014.^
5 Ministero per la Costituente Rapporto della Commissione Economica II Industria; Giuseppe Cenzato e Salvatore Guidotti La situazione industriale del Mezzogiorno Roma, 1947.^
6 E. Vanoni, Discorso al quinto Congresso della Democrazia Cristiana Napoli 1954, in Discorsi sul Programma di Sviluppo economico, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1956.^
7 E. Vanoni, Ivi.^
8 U. La Malfa, Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano “nota aggiuntiva alla relazione generale sulla situazione economica del Paese presentata il 22 maggio 1962 in La Programmazione economica in Italia, a cura del Ministero del Bilancio, Roma 1967.^
9 Cfr. S. Petriccione, Impresa pubblica e Cassa per il Mezzogiorno protagonisti nel dramma industriale del Sud, in «L’Acropoli», 15 (2014), pp. 196 sgg.^
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