Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVI - n. 3 > Documenti > Pag. 245
 
 
Valdés e Napoli*
di Giuseppe Galasso
Non dovrebbe più essere in dubbio il rilievo del tutto particolare che la figura di Juan de Valdés ebbe nella storia religiosa europea della prima metà del secolo XVI. Non che si possa parlare di un qualsiasi elemento di carattere istituzionale che configuri una chiesa, una setta o una conventicola valdesiana o una «sinagoga de discipoli et discipule di Valdés», seconda la bizzarra definizione di un suo accusatore1. Tuttavia, una particolare ispirazione etica in cui l’ansia e il tormento della salute spirituale non annullano la serenità della contemplazione evangelica, una diffusa preoccupazione di autenticità religiosa e un non del tutto ben definito ma forte sentimento cristiano nel vissuto della propria esperienza, un’accentuata centralità della figura di Gesù Cristo (e più, se fosse possibile dir così, come Gesù che come Cristo) nella meditazione e nella prassi devota, un impulso spiritualistico profondo quanto spontaneo, un equilibrio precario ma costante fra slancio mistico e considerazione razionale della vita e del destino dell’uomo compongono, insieme con alcuni altri tratti di consimile profilo, un panorama, sia culturale e dottrinario che etico e religioso, facilmente riconoscibile nel contesto dell’epoca che fu del Valdés; e un panorama che, altrettanto facilmente e sicuramente, non potrebbe essere qualificato che come valdesiano. Né è meno sicuro che nel breve spazio della sua vita (si spense, come si sa, nel 1541, non molto più che quarantenne, se la data di nascita ne va fissata intorno al 1498) Napoli abbia rappresentato una tappa conclusiva oltre che decisiva del suo itinerario di vita e di pensiero.
A Napoli – in provenienza da Roma, dove si era recato per sfuggire alle noie dell’Inquisizione nella natìa Spagna – egli aveva ottenuto nel dicembre 1532 la nomina ad archivista della città, in sostituzione del suo defunto fratello Alfonso, che aveva ricevuto la stessa nomina nell’agosto precedente. Avendo la città chiesto la soppressione di questo ufficio, egli tornò a Roma alla fine del 1533, finché di nuovo fu a Napoli, stabilendosi in una villa della Riviera di Chiaia, zona allora di insediamento di molti dei napoletani e spagnoli più in vista. Qui egli godeva dell’ufficio dei «percettore delle significatorie» (ossia di esattore delle ingiunzioni di pagamento emesse dal Fisco) e, a quanto sembra, anche di «ispettore dei castelli»: uffici che gli dovevano procurare un discreto reddito (sappiamo che per quello di percettore nel 1536 gli venivano pagati 300 ducati) e che egli aveva certamente ottenuto per l’alta posizione del fratello presso Carlo V e per le influenti relazioni conservate dopo la di lui morte2. Questa sua posizione amministrativa era così conosciuta da determinare talora equivoci non lievi, come quelli del Simler, che, seguito dal Sandius e da altri, lo definisce secretarius regis neapolitani3.
Qualche precisazione sul suo soggiorno napoletano è, peraltro, opportuna. A cominciare, intanto, dal fatto che, giungendo a Napoli, il Valdés portava in sé e con sé già sostanzialmente formate le idee che avrebbero poi costituito il nucleo del suo magistero napoletano4. Quanto su quelle sue idee avesse influito Erasmo, ma come esse non si collegassero soltanto al vasto fenomeno dell’erasmismo spagnolo e facessero capo anche in maniera emisura forti al caratteristico fenomeno spagnolo eterodosso degli alumbrados, non occorre sottolineare5. Una inserzione, dunque, dall’esterno quella del valdesianesimo a Napoli, dove anche Erasmo non era, fino alla sua venuta, particolarmente influente, pur se certamente già conosciuto6. Frutto, invece, come si sa, di invenzione polemica di parte cattolica (ma non senza ascolti in campo protestante) è che a Napoli il Valdés giungesse dalla Germania, portando con sé scritti di Lutero, Zwingli, Butzer e altri, coi quali avrebbe influenzato per gli uni l’Ochino, per gli altri il Vermigli o entrambi7.
Fino a qual punto il valdesianesimo mise radici a Napoli?
È innegabile che gli adepti veramente napoletani di quello che con una certa improprietà viene definito il suo «circolo» rimasero talmente pochi da non autorizzare a parlame come di un vero e proprio movimento, anche se non li si può affatto considerare irrilevanti. La valutazione più ampia della diffusione protestante a Napoli – quella dovuta ad Antonio Caracciolo – parla, in base a elementi di difficile valutazione critica, di 3.000 persone8. Le notizie più o meno sicure che abbiamo di frequentazioni del Valdes o di conoscenza e lettura dei suoi scritti, se non di professione delle sue idee, riguardano poche diecine di persone. Si sa, peraltro, che in ogni caso, per poco rilevante che ne possa apparire il numero, lo stesso non si potrebbe dire della qualità sociale di coloro che variamente seguirono i discorsi e gli insegnamenti del Valdés.
Si tratta, infatti, di una serie di nomi di grande prestigio non solo nell’ambiente napoletano. Tra gli aristocratici sono ricordati il marchese di Vico Galeazzo Caracciolo, Mario Galeota, Gian Francesco d’Alois detto il Caserta, Ferrante Brancaccio, Scipione d’Amitto; e gentildonne come Giulia Gonzaga (con una sua «creata», Lucrezia Poggiolo), Dorotea Gonzaga, Vittoria Colonna, Caterina Cibo duchessa di Camerino, Maria d’Aragona, Costanza d’Avalos, Isabella Bricefio (moglie di Garcìa Manriquez, governatore di Piacenza), Brianda Sanchez (moglie del tesoriere del Regno, Alonso Sanchez), Isabella Villamarino (moglie dello sfortunato Ferrante Sanseverino principe di Salerno, della quale risulta che possedeva il Beneficio di Cristo e scritti valdesiani, il che potrebbe aprire la via a ritenere in qualche modo coinvolto in questi interessi anche il marito, al quale il viceré de Toledo imputò infatti propensioni ereticali). Monache come una suor Bernardina del monastero di San Francesco in Napoli e, forse, una suor Giacoma, già badessa della stesso monastero, e una suor Aurelia, sempre di San Francesco. Tra gli intellettuali gli umanisti Scipione Capece e Marco Antonio Flaminio. Figure singolari come quella di Pomponio Algieri. Tra gli ecclesiastici l’arcivescovo di Taranto Pietro Antonio di Capua, il vescovo di Cava Gian Tommaso Sanfelice, il vescovo di Isola Onorato Fascitelli, il vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo, il protonotario apostolico Pietro Camesecchi, l’agostiniano PierMartire Vermigli, l’olivetano Lorenzo Tizzano, il benedettino cassinese Germano Minadois, l’abate Marcantonio Villamarina, l’agostiniano siciliano Lorenzo Romano (coi suoi discepoli Jacobetto Gentile, fra Vincenzo Jannelli, Pietro Taulli dottore in legge, il medico Scipione Jannelli), il sacerdote cosentino Apollonio Merenda, il sacerdote Ranieri Gualandi, il cappuccino Bernardino Ochino, l’abate Girolamo Busale e il fratello Matteo. In altri campi sono ricordati Sebastiano Mufioz, governatore dell’ospedale degli Incurabili, Girolamo Scannapieco, Antonio Imperato, Giovan Vincenzo Abbate, Giovan Tommaso Bianco, Antonio d’Alessio, il cognato del Galeota Ranieri Manzella, Ambrogio da Pozzo, Juan de Villafranca collaboratore del Toledo, il medico Donato Antonio Altomare9.
Di non tutti costoro, e degli altri i cui nomi si potrebbero fare, i rapporti col Valdés sono davvero indubbi o consistenti. Se ne è dubitato, ad esempio, per una personalità rappresentativa, quale è di certo quella di Vittoria Colonna 10. Se, poi, si considera che la maggior parte dei nomi citati non sono di napoletani, si comprende meglio la parte dello spagnolo nella storia della Riforma in Italia, che sempre più si è dimostrata di non piccolo rilievo 11. E per la stessa ragione ci si sorprende di meno, correlativamente, del dato di fatto che del valdesianesimo restò poi nella tradizione culturale napoletana ben poca traccia diretta.
Non che sia mancato uno sforzo o un vagheggiamento di tenerne vivo e di proseguirne il ricordo e le idee. Soprattutto vi pensò Giulia Gonzaga, malgrado quanto affermato da qualche suo tardo biografo, che, per scagionarla dal sospetto di aver condiviso l’eresia attribuita al Valdés, tende a negare i loro rapporti, «poiché non è probabile che signora vivente in monastero con tal cautela avesse troppa familiarità seco lui»12. La Gonzaga, infatti, con la collaborazione di altri come il Minadois e il Mufioz, si adoperò, come è noto, in questo senso. Curò la divulgazione di scritti valdesiani (in particolare l’Alphabeto cristiano, proprio a lei dedicato dall’autore e da lei fatto tradurre a opera di Marcantonio Magno nel 1545). Libri di sua proprietà, «che li havea facti el Valdés spagniolo», furono, ad esempio, ritrovati nel 1548 presso il bresciano Giusto Seriato, aio e letterato in varie case napoletane, testimone nel processo al Galeota13. Sovvenne, inoltre, finanziariamente varii adepti del Valdès, non esclusi coloro che erano emigrati altrove per evitare molestie inquisitoriali.
Secondo il Seripando, ancora nel 1549 era, poi, popolare la definizione di spiritati, cioè «spirituali», per indicare i seguaci del Valdés 14. Si trattava, però, di postumi di un fenomeno ormai in via di estinzione. Nella dialettica viva e più operosa della cultura e della vita morale napoletana è davvero molto difficile ritrovare persistenze e tracce autentiche di valdesianesimo.
Si può dedurre da ciò non tanto il carattere altamente di élite delle conversazioni napoletane del Valdés (per cui qualcuno, come il Tizzano, «vedendo che teneva molta reputazione», smise di frequentarlo)15 quanto una loro forma più o meno assolutamente elastica, informale, occasionale, estemporanea, che dové agevolare la circolazione e la penetrazione delle idee valdesiane. Il valdesianesimo si configurerebbe, in tale prospettiva, come suggestione di una intuizione e atmosfera di una ricerca piuttosto che come vera e propria posizione culturale e religiosa. Una grande sollecitazione e suggestione delle coscienze, dunque, piuttosto che una dottrina formalizzata in schemi e principii precisi; e un maestro di vita prima che un maitre-à penser.
Ciò che in questa prospettiva rende ancor più interessante la figura del Valdés sarebbe, allora, la stretta congiunzione in lui di componenti politiche e letterarie con quella etico-religiosa. La considerazione della sua attività e dei suoi scritti nella pienezza di questa congiunzione è piuttosto infrequente16, così come è ricorrente la prevalenza dell’interesse per il riformatore religioso rispetto all’interesse per altri aspetti della sua biografia. Sull’importanza di quegli altri aspetti (politica, letteratura) della sua personalità non è, però, possibile ingannarsi anche negli anni napoletani, così pieni del suo impegno religioso, ma così fortemente caratterizzati, fra l’altro, anche nella loro prima parte dalla composizione del Diálogo de la lengua: ossia, di un’opera che non a caso è apparsa degna di molta considerazione dal punto di vista sia della storia dell’estetica che della linguistica, oltre che della storia della lingua spagnola e della «questione della lingua» nella Spagna e nell’Italia del tempo17.
Degli uffici ricoperti nell’amministrazione napoletana abbiamo fatto cenno. Si aggiunga che, letteratura a parte, si sa dei suoi frequenti contatti e buone relazioni col viceré Toledo, verso il quale il suo atteggiamento appare deferente e il cui governo egli non solo non critica, ma, al caso, giustifica. Se ne ha la diretta testimonianza nella corrispondenza del Valdés stesso col cardinale Ercole Gonzaga, del quale fu in effetti l’abile agente politico e informatore in Napoli, e con uno dei maggiori collaboratori di Carlo V, ossia il Cobos, su varii e importanti problemi concernenti la vita politica e amministrativa del Regno18. Come è naturale, la specificità della sua figura sul piano della storia morale e religiosa del suo tempo rimane egualmente fuori discussione, ma in nessun modo appare possibile trascurare il fatto che questa specificità si manifesta nel quadro di un’esperienza di vita non limitata all’orizzonte religioso.
Può darsi che nell’ambiente napoletano del tempo la forte percezione di questa varietà di aspetti della figura del Valdés abbia contribuito a restringere la diffusione, se non l’efficacia, del suo magistero? Certo è che, al di fuori della cerchia dei suoi amici e adepti il giudizio napoletano sul Valdés non fu, in generale, ispirato a una particolare attenzione alla sua figura. Antonino Castaldo, uno dei cronisti dell’epoca più attendibili per la diretta esperienza delle cose narrate, e una delle fonti più interessanti circa la diffusione del verbo protestante nella Napoli di allora, non lo menziona affatto. Per lui il vero predicatore di idee religiose nuove a Napoli è l’Ochino, alla cui influenza egli fa risalire la diffusione del protestantesimo nella città19. Egualmente nessuna menzione del Valdés si ha nel Summonte, ossia nel principe dei cronisti cittadini del secolo XVI, e in Camillo Porzio che nella Storia d’Italia, scritta in continuazione di quella del Giovio, parlò della Napoli degli anni ’40 alquanto diffusamente. Lo menziona il Costo, ma in termini che sono molto eloquenti. Anche per il Costo, infatti, il vero propagatore della Riforma a Napoli è l’Ochino, al quale dice- «furono anche in ciò compagni et aiutori [...] un don Pietro Martire prete ed un certo Valdes, spagnuolo, ambi eretici e non meno scelerati di lui»20.
Nello stesso senso, ma ancor più negativo, è il giudizio coevo di Antonio Caracciolo: «litteris tinctus iis quae ad comparandam eruditi opinionem satis vulgo essent, placido aspectu quique innocentiam prae se ferret, comitate suavitateque sermonis», ma in realtà «teterrimam impietatem incredibili vaframento occultabat», attraendo a sé «multos his artibus illectos deceptosque». Per il Caracciolo il Valdés è, anzi, è, con l’Ochino e col Vermigli, uno dei «Satanicae Reipublicae Triumviri» che a Napoli avevano sparso falsi dogmi nelle più importanti materie di fede, finché il cardinal Cajetano «rem odorari coepit»21.
La preoccupazione degli autori napoletani, di cui vedremo altri casi, sia nel tacere del Valdés, sia nel sottolinearne la provenienza dalla Spagna, è, del resto, facilmente comprensibile. Si trattava di costruire una linea secondo la quale l’eresia era estranea a Napoli, alla sua tradizione e alla sua gente. Se vi aveva in qualche modo attecchito, lo si doveva, per l’appunto, all’opera nefasta di quei forestieri che ve l’avevano introdotta.
E che tra essi fosse un suddito dello stesso sovrano a cui Napoli apparteneva corrispondeva addirittura a un pregiudizio diffuso circa la miscredenza degli Spagnoli22.
D’altra parte, fino a che il Valdés visse non si levò a Napoli, per quanto se ne sa, alcuna voce a rilevarne la particolare influenza religiosa e, tanto meno, a denunciarne deviazioni luterane o comunque eretiche. Alla sua morte il Cobos chiese, anzi, notizia al viceré Toledo su quanto egli aveva lasciato di suo e il Toledo gli inviò una nota sul testamento del Valdés redatta dal Sanchez, tesoriere del Regno23: il che non sarebbe potuto accadere da parte di così alti esponenti dell’establishment spagnolo e con tanta facilità, se vi fosse stato anche solo un sospetto di eresia.
Del resto, anche fuori di Napoli accuse e sospetti nei confronti del Valdés non vi furono esplicitamente fino a quando nel 1544 non si ebbe il ben noto attacco del domenicano Ambrogio Catarino Politi al Beneficio di Cristo, ossia all’opera che, senza recare un’esplicita paternità valdesiana, si sapeva riflettere fedelmente le idee dello spagnolo. Eloquente, da questo punto di vista, è la dichiarazione del Carnesecchi nel suo processo, per cui fino al 1540, fino all’anno, cioè, in cui egli era venuto in rapporto col Valdés, l’affermazione della salvezza per fede, che gli risultava approvato «da persone dotte e cattoliche» non gli era parsa di stampo ereticale, e che solo in seguito egli aveva maturato la convinzione che quel principio rendesse inutile il sacramento della penitenza e la pratica delle opere per recuperare una salvezza già abbondantemente assicurata, appunto, dal «beneficio di Cristo»24. Dopo di allora l’accusa di eresia si fa nei confronti sia del Valdés che dei valdesiani fin troppo frequente, e dal processo del Tizzano nel 1553 a quelli del Morone nel 1555 o del Galeota nel 1566 è una continua rivelazione di nomi di adepti, frequentatori, conoscenti dello spagnolo nel suo soggiorno napoletano.
I già riferiti giudizi del Costo e del Caracciolo sulla sua scelleratezza eretica si inseriscono, dunque, senz’altro in una tradizione negativa più che consolidata nel solco dell’azione antiereticale iniziata coi famosi provvedimenti del Toledo negli anni ’40. Parallelamente, la raffigurazione del Valdés cambia completamente cifra: dalle note che esaltano la profonda suggestione della sua umanità, cultura e pietà, di cui è documento soprattutto la famosa lettera di Jacopo Bonfadio al Carnesecchi25, si passa a quelle opposte di un uomo passionale, collerico, insofferente di contraddittorii, lontano da dolcezza e carità evangeliche, di cui nel 1566 già si parla nella deposizione di Ambrogio Salvio da Bagnoli, il domenicano fondatore della grande confraternita dei Bianchi dello Spirito Santo, nel processo al Galeota: una immagine di cui, in vita del Valdés, non erano mancati elementi26, che avevano, tuttavia, generalmente ceduto a quelli di stampo più favorevole. In quel quarto di secolo fra la morte del Valdés e il processo al Galeota le cose cambiarono, dunque, radicalmente per l’immagine dello spagnolo, e ben presto ai difetti del carattere saranno aggiunti quelli della cultura e della buona fede, ancor più generosamente imputatigli.
Non è possibile dire se la più autorevole biografia di don Pedro de Toledo, sotto il cui memorabile viceregno si svolse l’esperienza napoletana del Valdés, dovuta a Scipione Miccio, e che è più o meno degli stessi anni degli scritti del Costo e del Caracciolo, si rifaccia del tutto e soltanto a questa ormai consolidata tradizione negativa. La testimonianza del Miccio, generalmente poco posta in evidenza, se non trascurata o ignorata, è, comunque, particolarmente importante. Essa confermava la communis opinio che introduttori dell’eresia in Napoli erano stati l’Ochino e il Vermigli e aggiungeva che, malgrado «la prudenza del Viceré e la fedeltà e salda dottrina di Napoli», ne rimasero «alcuni magagnati, chi per ignoranza e chi per arroganza». A capo delle «congregazioni e consulte» di costoro si diceva che fosse «un certo Valdes, spagnolo, uomo ignorante e balbo, il quale fu stretto amico di fra Bernardino e di don Pietro Martire». Al Valdés si attribuiva di fare «professione d’intendere la Sacra Scrittura senza ajuto di glosa ordinaria, ma solamente col perverso suo giudizio, con pensare d’essere illuminato dallo Spirito Santo», per cui «erano chiamati spiritati». A costoro – conclude il Miccio – «il Viceré ovviava con ammollirgli e minacciargli»27.
Il particolare della balbuzie del Valdés induce a ritenere che vi fosse ancora un ricordo orale della sua presenza a Napoli. Anche in atti inquisitoriali della prima metà del secolo XVII rimane memoria di lui e del suo «circolo» come di una fonte attiva e pericolosa di eresia28. Agli inizi del secolo XVIII il gesuita Schinosi ne tracciava un profilo ancor più negativo. Il Valdés – egli scrive – già venuto dalla Spagna a Napoli con la speranza di trovare «miglior sorte al suo veleno»; non privo di «qualche ornamento dallo studio della Sacra Scrittura», ma solo per quanto necessario «per adulterarla»; giurista di professione, era «insieme oratore eloquente ed avvenente». In quanto «vago» di «belle lettere» e fornito di «varia erudizione», era «fiorito dicitore», ma si serviva di ciò per «intrecciar tra quei fiori i suoi nappelli». Il padre Bobadilla si era avveduto di questi «nappelli» e, ritenendole in errore ma in buona fede, lo aveva «amichevolmente» esortato a ravvedersi. Senonché, il Valdés, irritato dal danno che riteneva così apportato alla sua fama, aveva sfidato il Bobadilla a un pubblico contraddittorio «dinanzi a gente numerosa, erudita e buona parte patrizi». Il dibattito aveva visto nettamente vittorioso il Bobadilla. Allora il Valdés, trovatosi «in una grande strettezza di ridirsi o di scuoprirsi, [...] caldo di vergogna e di collera, pose mano ad un coltello che teneva segreto al fianco», avrebbe attentato alla vita del suo contraddittore, se il duca di Monteleone Ettore Pignatelli o altri dello stesso casato non lo avessero trattenuto, ond’egli avrebbe riposto «lo stiletto nel fodero, la vendetta nel cuore» e si sarebbe allontanato29. Come si vede, il gesuita Schinosi attribuisce al gesuita Bobadilla quel disvelamento del carattere ereticale delle tesi valdesiane che il teatino Caracciolo aveva attribuito al teatino Cajetano. Per di più, confermando l’immagine irascibile e violenta delineata già da Ambrogio Salvio, lo Schinosi vi aggiunge la storiella della tentata aggressione al Bobadilla, che davvero è un particolare di sorprendente improntitudine narrativa. Poco più tardi Pietro Giannone, con la tecnica a lui consueta di utilizzazione delle fonti, confermava i varii tratti già esposti della tradizione napoletana intorno a Valdés, e fra questi l’assunto che lo spagnolo fosse uno di quelli «a sé tirati» dal Vermigli: «un certo catalano [?] chiamato don Giovanni Valdes, ch’era anche stretto amico di fra Bernardino da Siena». Giannone attribuisce, invece, specificamente alla «strettezza che tenevano col Valdes» l’opinione allora diffusasi che anche dame come la Colonna e Giulia Gonzaga, oltre ad «alcuni nobili», fossero state «contaminate da’ suoi errori»30. Ma si tratta di tracce ormai sempre più sfumate e ripetitive.
Spentisi, al più tardi negli anni ’60 del secolo XVI, gli ultimi diretti echi valdesiani, le fonti e la tradizione napoletana tendono, insomma, da un lato a dare un ritratto via via più negativo del Valdés (balbuziente, ignorante, dottrinariamente presuntuoso, irascibile, aggressivo), dall’altro a subordinarne l’iniziativa e l’influenza a quelle dell’Ochino e del Vermigli, e ciò anche quando ne riconoscono la parte, e addirittura non ne ignorano o ne tacciono la presenza e l’attività napoletana. Più difficile è dire se e in quale misura sia maturata già a Napoli, negli stessi ambienti valdesiani, o si sia determinata nell’ambito di altre influenze protestanti la raffigurazione di un altro aspetto del pensiero e dell’opera del Valdés nella cultura europea.
Un episodio importante e relativamente precoce a questo riguardo può essere considerata la biografia di Galeazzo Caracciolo pubblicata nel 1587 da Nicola Balbani a Ginevra. Al Valdés si attribuiva qui «qualche conoscenza e sentimento della verità dell’evangelo, e specialmente della dottrina della giustificazione», onde aveva potuto cominciare «a ritirare alcuni gentilhuomini dalla ignoranza e dalle false opinioni della propria giustizia e de’ meriti delle opere, e conseguentemente da molte superstizioni». I discepoli di Valdés, pur essendo allora a Napoli e nel Regno «sparsi molti anabatisti e arriani», non erano, però, andati più avanti di ciò, non cessando «di frequentare i tempii e di ritrovarsi con gli altri alle messe e alle ordinarie idolatrie»31.
Non sembra troppo azzardato ritenere che il biografo echeggi qui sentimenti e pensieri dello stesso Caracciolo e che questo rilievo di troppo timido e limitato approccio alle idee protestanti abbia costituito il veicolo per un giudizio negativo sul Valdés anche da parte protestante. Quando Balbani scriveva del Caracciolo, già da tempo circolavano le lettere teologiche di Théodore de Bèze, nelle quali il Beneficio di Cristo era attaccato come un libello, anche secondo il giudizio di Calvino, «a spiritu anabaptistico multis locis non multum dissidente», di cui si sapeva «ex idoneorum hominum testimonio quantum nascenti Neapolitanae Ecclesiae [...] detrimenti attulerit»32. Che questi «idonei homines» fossero napoletani, in grado di testimoniare sulla «nascente chiesa napoletana», conferma quanto si è detto sul Caracciolo ed è ancora una volta più che probabile. Beza, pur criticando le dottrine del Beneficio, non la persona di Valdés, è, comunque, piuttosto severo nei suoi confronti. Malgrado una certa potenzialità di fede e di pensiero che gli viene riconosciuta, in quanto spagnolo Valdés presenta per lui pur sempre i tratti negativi della sua nazionalità spagnola, tarda alla conoscenza cristiana, tenace nelle superstizioni, madre dei due terribili mostri del secolo, ossia Ignazio di Loyola e Serveto: «sume Valdesii considerationes pro exemplo, id est, evanidas speculationes, prae quibus mirum ni mulierculis et imperitis hominibus ipsum Dei verbum sordeat»33.
La valutazione negativa in campo protestante, che fa da pendant – sia pure con tutt’altro tono per la qualità della persona – a quella cattolica, ci sembra, così, connessa all’itinerario seguito dai valdesiani (intendendo per tali coloro che si aprirono all’influenza del Valdés nei termini sopra indicati) nel prosieguo della loro vicenda religiosa. Questo itinerario si sviluppò, come è noto, in due direzioni: da un lato, coloro che presero atto della incompatibilità delle dottrine valdesiane con quelle cattoliche, dalle quali molti non avevano mai pensato di essersi allontanati, e si adeguarono più o meno di buon grado e compiutamente alla disciplina della Chiesa tridentina; dall’altro lato, coloro per i quali il luteranesimo e più ancora il calvinismo, e in qualche caso posizioni ancor più spinte, rappresentarono un esito più o meno travagliato del loro cammino spirituale. Evidentemente, fu soprattutto da questo secondo filone valdesiano che derivarono in campo protestante le notizie più dirette circa la persona, la dottrina e l’azione del Valdés a Napoli.
La reazione protestante alla riflessione e alle suggestioni del Valdés sembra, tuttavia, procedere tempestivamente anche per vie più indipendenti dalla immediata tradizione valdesiana. In realtà, le vicende religiose a cui diede avvio nell’Europa moderna la Riforma, confermarono che quello di Valdés, pur nella forma duttile e suggestivamente indefinita di cui abbiamo parlato (e che in parte era pure dovuta a esigenze nicodemitiche, esoteriche sia di prudenza politico-religiosa che di propensione e stile pedagogico), fu un vero magistero spirituale. Come tale, esso non si risolse unicamente nell’esperienza vissuta della sua frequentazione e delle suggestioni morali e religiose che ne potevano derivare. Seminò, infatti, anche un nucleo di intuizioni e di pensieri, che si rivelò in grado, da un lato, di rispondere ad ansie, aspettative, speranze, inquietudini, opinioni, sentimenti, ideali correnti nello spirito del tempo; e, dall’altro lato, di prestarsi a svolgimenti aperti in varia direzione, ma sempre particolarmente pregnanti nel contesto di quello che fu allora il travaglio della coscienza europea in una delle fasi di suo più drammatico, profondo e coinvolgente impegno. Per il primo di questi aspetti, il valdesianesimo, in Europa ancor più che a Napoli, si poté dimostrare capace di una circolazione estesa ai più diversi livelli sociali e culturali: da quelli di nobili e gentildonne, alti prelati e raffinati intellettuali a quelli della gente comune e di modesta condizione, da quelli degli ortodossi a quelli degli eterodossi sia del campo cattolico che di quello protestante. Per il secondo aspetto, non appare eccessivo parlare di un presenza valdesiana che, sia pure diffusa e latente, si può avvertire in un’ampia gamma di svolgimenti dello spirito religioso e morale del Cristianesimo e dell’Europa moderna.
In questo senso l’impressione che Valdés fece a Napoli e l’influenza che vi ebbe non furono il fenomeno di un ambiente particolare e limitato, periferico o marginale nella vita culturale e morale del tempo, né l’effetto di una suggestione estemporanea e fugace. Furono un episodio di significato europeo rivelatore di movimenti profondi della coscienza di quell’epoca. Dei semi che egli spargeva in questo ambiente imprevistamente ricettivo – e nel quale egli era presente anche come agente politico e uomo dell’amministrazione, oltre che letterato – Valdés fu in tutto e per tutto consapevole? Da questo ambiente egli derivò un qualche incremento rilevante del patrimonio di idee già ben formate col quale, come abbiamo detto, vi giunse? Questo ambiente fu così ricettivo del suo influsso anche e proprio perché egli stesso ne trasse elementi che, se non modificarono il fondo delle idee con cui vi era giunto, tuttavia le colorirono diversamente e diedero ad esse un più accentuato carisma nel senso dello spiritualismo che ne costituiva la nota essenziale?
Ciò che Napoli (e, cioè, il mondo italiano, di cui Napoli era una espressione) in relazione a tali interrogativi diede a Valdés costituisce ancora materia di una discussione storico-critica che non si può considerare esaurita o giunta a conclusioni pacificamente accettabili e che, peraltro, come ogni vero problema storico o, più in generale, di pensiero, non può essere considerato suscettibile di «conclusioni» preclusive di qualsiasi altro svolgimento.
Che da Napoli derivasse un’accentuata inserzione di spirito e cultura umanistica nello spiritualismo «illuminato» che Valdés portava con sé dalla sua formazione e vicenda spagnola e che gli era costato le noie dell’Inquisizione per cui era emigrato in Italia, è più che plausibile. Il termine stesso di «spiritati» col quale i suoi adepti venivano designati a Napoli – probabile deformazione ironica o sarcastica della loro autodefinizione di «spirituali» – indica che fu generale e precisa l’identificazione dello spiritualismo come motivo etico e dottrinario caratterizzante del valdesianesimo; e, anzi, la deformazione popolareggiante del termine può far pensare che fosse anche da lui pienamente esplicitato e, di riflesso, generalmente percepito il rapporto di Valdés con gli alumbrados spagnoli. Che l’influenza umanistica abbia potuto significare un’apertura a motivi razionalistici potrebbe essere altrettanto verosimile, ma non richiamerebbe di per sé a una specifica influenza italiana acquisibile solo con un soggiorno in Italia. Valdés proveniva da una Spagna nella quale l’influenza erasmiana era già diffusa, e si trattava di una influenza umanistica alla quale il motivo razionalistico era tutt’altro che estraneo. D’altra parte, proprio lo spiritualismo, tanto più in quanto segnato dall’impronta degli alumbrados, marcava una linea divisoria assai netta nella suscettibilità valdesiana di recepire l’umanesimo, erasmiano o non erasmiano che fosse. Gli stessi motivi razionalistici, in qualsiasi forma si delineassero, avevano efficacia nell’ispirazione e nella riflessione valdesiana solo in quanto si riportavano alla spinta religiosa spiritualistica di fondo. Quella spinta era così forte e caratterizzante da dare un senso molto pregnante alla centralità del Cristo nel dramma umano e storico del peccato e della redenzione. Era solo nella latitudine di questa vicenda spirituale, culminante nel «beneficio di Cristo», che umanesimo e ragione potevano farsi valere, e, beninteso, come ancelle della fede, nel pensiero del Valdés quale si atteggiò e fu recepito a Napoli.
Questo equivale a dire che il soggiorno napoletano (italiano) non aggiunse nulla allo spirito e al pensiero di Valdés? Sarebbe una deduzione tanto facile quanto impropria. Fu negli anni napoletani che, oltre il Diálogo de la lengua, vennero composti l’Alphabeto cristiano e le Cento e dieci divine considerazioni e venne scritto dal benedettino mantovano Fontanini34, ma sotto la sicura ed evidente influenza e a stretto contatto del Valdés35, il Beneficio di Cristo, ossia le opere a cui fu consegnata l’espressione più matura e completa dello spirito e del pensiero valdesiano. La città fu, cioè, per Valdés, il teatro della piena presa di coscienza della propria vocazione, della propria ispirazione, del proprio sentire. Anche il nodo costituito dai varii aspetti della sua personalità, sul quale abbiamo richiamato l’attenzione come un problema non abbastanza tenuto presente, sembra negli ultimissimi tempi della sua vita sciogliersi, in qualche modo, nella città in cui doveva spegnersi. Sciogliersi, precisamente, col graduale prevalere degli interessi etici e religiosi su ogni altro e col delinearsi della sua figura come quella essenzialmente di un grande riformatore, ortodosse o eterodosse che suonassero le sue dottrine.
Non fu qualcosa di definitivo. Finché visse il loro maestro, molti, e non dei meno significativi, tra i valdesiani poterono – come si è detto – pensare che tra le sue dottrine e una riconoscibile ortodossia cattolica non vi fosse contraddizione. Contemporaneamente, però, già in quegli stessi anni napoletani altri valdesiani marciarono in direzione opposta e si avviarono alle prossime emigrazioni e secessioni che, quando non al rogo o in carcere, li portarono apertamente in- campo protestante e, come accadde all’Ochino, ancora più oltre, proprio – secondo Théodore de Bèze – in dipendenza dei cattivi influssi da lui assorbiti a contatto del Valdés (e si ricorderà che fonti napoletane affermano addirittura che quest’ultimo la sera innanzi facesse recapitare all’Ochino un biglietto contenente i temi da sviluppare nelle sue prediche dell’indomani)36. Bisogna, inoltre, aggiungere che, se ancora negli anni napoletani la reale posizione del Valdés non apparve in una luce chiaramente eteredossa, ciò fu dovuto solo in parte alla vena nicodemitica ed esoterica37 o ai «contorni mobili e sfumati del suo profilo dottrinale»38, per non parlare di perduranti oscillazioni del suo insegnamento. In altra parte fu dovuto al fatto che la stessa Chiesa romana sembrava allora ancora aperta a ipotesi di riforma anche dottrinaria in varia direzione. E ciò dovrebbe portare a chiedersi in maniera molto più stringente di quanto non sia stato fatto se l’impressione di non aver varcato i limiti ultimi dell’ortodossia cattolica non sia appartenuta al sentire dello stesso Valdés39.
La chiara testimonianza del Carnesecchi sulla convinzione di un’ortodosso cattolicesimo che rimase sempre propria di Giulia Gonzaga è da recepire anche da questo punto di vista. Ma che a Napoli già in vita del Valdés, e prima dell’attacco del Caterina, si percepisse qualche sospetto sulla completa attendibilità della sua ortodossia traspare abbastanza dalla testimonianza del già ricordato Castaldo, che non menziona – come si è detto – esplicitamente il Valdés, ma parla di un ambiente cittadino reso preoccupante sul terreno religioso dal diffondersi della discussione sui punti più ardui della dottrina cristiana ai più bassi livelli sociali e di cultura. Il pensiero dell’eresia progrediente Oltralpe e minacciosa anche in Italia era già vivo a Napoli quando Valdés vi si stabilì. Già nel 1524 Clemente VII aveva ingiunto anche all’arcivescovo di Napoli, oltre che ai suoi colleghi di Trento e di Verona, di far bruciare i libri «luterani», e l’ordine era stato ripetuto nel 1531, mentre all’afflusso a Napoli delle truppe germaniche reduci dal sacco di Roma si attribuiva una prima penetrazione di idee riformate40. A rinfocolare l’allarme dové certamente valere la circostanza che durante il suo soggiorno napoletano Carlo V fece pubblicare (il 4 febbraio 1536) «uno editto, da pubblicarsi ancora per tutti li Regni suoi, che nessuno abbia prattica o commercio con persona infetta di eresia o sospetta dell’eresia luterana sotto la pena della vita e di perdere la robba». Poi Carlo V decise di partire da Napoli senza finirvi la Quaresima per la guerra scoppiata in quell’anno con la Francia, ma lasciò memoria che ancora «ci stesse parecchi giorni e si delettasse molto sentire fra Berardino Ochino di Siena Cappucino che predicava a San Giovanni Maggiore con spirito e devozione grande, che faceva piangere le pietre»41: lo stesso Ochino, cioè, che sarebbe stato protagonista di una clamorosa adesione alla Riforma e di cui Gregorio Rosso ricorda qui, con una endiadi che non si potrebbe pensare più perfetta da un punto di vista valdesiano, lo «spirito e devozione grande».
Anche la premura del biografo del Toledo nel segnalare gli ammonimenti e le minacce del Viceré ai tre maggiori devianti a Napoli dal retto sentiero della fede tra gli anni ’30 e ’40 (Valdés, Ochino e Vermigli) appare quasi un mettere le mani avanti per allontanare dal suo eroe l’eventuale taccia di aver trascurato o tollerato o di non aver capito un fenomeno così grave: una ipotesi tutt’altro che gratuita se si pensa che il Castaldo concludeva il suo excursus sull’eresia a Napoli – di cui, con lo stupefacente silenzio sul Valdés, faceva responsabile l’Ochino per gli «spiritati» da lui lasciati in città – con un ammonimento ai «principi che reggono e governano» affinché badino, insieme «con i prelati de’ luoghi loro», che «vengano a predicare persone di santa vita e dottrina»42. E quel silenzio, connesso all’ammonimento ai principi a stare attenti ai predicatori ai quali si permette di predicare, è forse a sua volta un’altra esile, ma non trascurabile spia di riserve e dubbi sul Valdés e su ciò che egli insegnava già prima della sua morte. Il che confermerebbe, dunque, che Napoli, il suo ambiente sociale e culturale, la sua apertura ad altre voci e ad altre esperienze abbiano costituito per Juan de Valdés qualcosa di più di un semplice luogo di raccoglimento e di riflessione.
Non sappiamo ciò che Valdés avrebbe fatto se la morte non gli avesse risparmiato le scelte drammatiche di tanti valdesiani e non valdesiani. Non sappiamo nemmeno quanto, in tale eventualità, avrebbe contato per lui il suo indubitabile lealismo ispanico e dinastico, dalla cui notorietà dové dipendere anche il suo buon rapporto col Toledo, dopo che, proprio all’inizio degli anni ’40 e mentre egli si spegneva, il suo Sovrano assumeva la linea di intransigente repressione, anche militare, dell’eresia, che sarebbe rimasta poi tradizionale della monarchia di Spagna. Ma possiamo certamente dire che, nello spirito ancor prima e ancor più che nelle idee il Valdés, di queste eventuali scelte sarebbe stato molto diverso da quello che approdò a Napoli per vivervi gli ultimi e più intensi anni di una vita breve nel tempo, non nel significato e nella diffusione dei motivi spirituali che la animarono.











NOTE
* Diamo qui il testo del saggio su Juán de Valdés preparato alla fine degli anni ’90 per una pubblicazione francese che non fu poi realizzata. La versione originaria è stata lasciata immutata, non sembrando che le acquisizioni posteriori di studi e ricerche abbiano sensibilmente modificato il quadro problematico e critico qui tenuto presente. Per un aggiornamento bibliografico si veda M. Firpo, Juán de Valdés and the Italian Reformation, Farnham (U.K.), Ashgate, 2015, che raccoglie in traduzione inglese anche i saggi dell’autore ripetutamente citati in questo articolo.^
1 Di una «non spernenda ecclesia piorum hominum» fiorita a Napoli intorno, a quanto si capisce, al Valdés parla il Simler nel suo scritto su PietroMartire Vermigli nel 1573: cfr. E. Cione, Juan de Valdés e la sua vita e il suo pensiero religioso, Bari 1938, pp. 150-151, n. 163. Ma neppure gli scrittori napoletani più avversi al Valdés dicono questo. La definizione di «sinagoga» è del domenicano Ambrogio Salvio da Bagnoli, del quale si riparlerà più avanti: si veda P. Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli. Mario Galeota e le sue vicende col Sant’Uffizio, Napoli 1976, p. 112. L’esistenza di una «iglesia» valdesiana a Napoli è indicata anche da J.C. Nieto, Juan de Valdés y los origenes de la Reforma en España e Italia, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1979 (ediz. riveduta e aumentata dell’originale inglese, Genève 1970), p. 245. A nostro avviso è già, in qualche modo, troppo parlare di «strutture articolate e flessibili del gruppo valdesiano» (M. Firpo, Tra alumbrados e «spirituali». Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze 1990, p. 43) per indicare quella che, secondo ogni apparenza, fu una pratica sociale di frequentazione, di riunioni, di affetti, di stima reciproca di varie persone, in cui la figura del Valdés ben presto prese a imporsi come un punto di aggregazione non solo mondana e culturale, ma che non sembra averlo mai adottato per capo, se non nel senso della suggestione e della guida morale.^
2 Per queste notizie sul Valdés a Napoli cfr. C.J. Hernando Sanchez, Castilla y Nápoles en el siglo XVI. El virrey don Pedro de Toledo, Salamanca 1994, p. 449 e relativi rimandi bibliografici.^
3 Cfr. i riferimenti in Cione, op. cit., p. 147, n. 155 e 153 e p. 150, n. 162.^
4 Di grande interesse al riguardo ci sembra restare l’introduzione di M. Bataillon alla sua edizione del Diálogo de doctrina cristiana, Coimbra 1925 (si veda il confronto fra quest’opera scritta in Spagna e passi dell’Alphabeto cristiano scritto a Napoli, a pp. 143-144), oltre che, naturalmente, dello stesso Bataillon, l’ormai classico Erasme et l’Espagne, Genève 1912.^
5 Per un’acuta delineazione dell’itinerario spirituale e culturale del Valdés si veda l’introduzione di M. Firpo all’edizione da lui curata dell’Alphabeto cristiano, Torino 1994, che ai problemi dell’erasmismo di Valdés dedica una particolare attenzione. L’allargamento del quadro formativo e ideale del Valdés agli alumbrados è il tema principale di J. C. Nieto, Juan de Valdés etc., cit., per il quale si vedano le osservazioni di M. Firpo, Dal Sacco di Roma all’Inquisizione. Studi su Juan de Valdés e la Riforma italiana, Alessandria 1998, pp. 82-88 (il volume riunisce varii studi dell’A. e, come l’altro suo di studi in materia Tra alumbrados e «spirituali», cit., è tra i riferimenti fondamentali in materia anche per le indicazioni bibliografiche ivi fornite).^
6 Oltre al sempre fondamentale B. Croce, Erasmo e gli umanisti napoletani, in Idem, Aneddoti di varia letteratura, Bari 19532, vol. I, pp. 166-178, cfr. passim S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia. 1520-1580, Torino 1987.^
7 Questa affermazione si ritrova sia nel Sandius, nel de Raemond e in autori transalpini che in autori napoletani.^
8 Questo ammontare è dato da Antonio Caracciolo nella sua vita di Paolo IV (per cui vedi Cione, op. cit., pp. 142-143), qui cit. secondo il ms. italiano in Biblioteca Nazionale di Napoli, Ms. X D 28, c. 47.^
9 Questo elenco riprende, con l’aggiunta di qualche nome e senza alcuna pretesa di completezza, quelli offerti da varii autori, e, ad esempio, da Nieto, Juan de Valdés etc., cit., p. 241, n. 26, e da E. Pontieri, L’origine della riforma cattolico-tridentina a Napoli, in Idem, Divagazioni storiche e storiografiche, s. II, Napoli 1971, p. 213, n. 35.^
10 Si veda, ad esempio, J. F. Montesinos, introduzione a J. de Valdés, Dùilogo de la lengua, Madrid 1946, p. XXXIII; e già prima di lui L. Amabile, Il Santo Ufficio dell’Inquisizione a Napoli, Città di Castello 1892, vol. I, p. 125. Ma - come fa presente, fra gli altri, R. H. Bainton, Bernardino Ochino, tr. it., Firenze 1940, p. 44, n. 3 - «deve pur dirsi che Vittoria fu a Napoli ed ebbe intimi rapporti coi membri del gruppo valdesiano».^
11 Oltre gli studi via via citati di M. Firpo (e in particolare Il problema storico della Riforma italiana e Juan de Valdés, in Idem, Dal sacco di Roma etc., cit., pp. 61-88), sia lecito limitarsi qui a ricordare C. Ginzburg-A. Prosperi, Juan de Valdés e la Riforma in Italia: proposte di ricerca, in Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempo de Alfonso y Juan de Valdés, Actas del Coloquio interdisciplinar (Bolonia abril de 1976), Roma 1979, pp. 183-197.^
12 Cfr. I. Affò, Memorie di tre celebri principesse della famiglia Gonzaga etc., Parma 1787, p. 22.^
13 Cfr. l’interrogatorio del Seriato edito in P. Lopez, Il movimento valdesiano etc., cit., p. 137. Sui rapporti valdesiani e l’attività della Gonzaga post mortem del Valdés si veda – oltre B. Nicolini, Giulia Gonzaga e la crisi del valdesianesimo, in Idem, Studi cinquecenteschi. I. Ideali e passioni nell’Italia religiosa, Bologna 1968, pp. 119-153 – soprattutto M. Firpo nell’introduzione alla cit. edizione dell’Alphabeto cristiano, pp. CX segg., e per le prosecuzioni valdesiane in generale pp. CCXXVII segg.^
14 G. Seripando ad Augusto Cocciano, 10 agosto 1549, cit. in Pontieri, Le origini della riforma etc., p. 221.^
15 Cfr. L. Amabile, Il Santo Ufficio dell’Inquisizione etc., vol. I, p. 159.^
16 Tra i pochi a farne conto, sia pur senza trarne – ci pare – tutti gli sviluppi possibili nel senso accennato nelle considerazioni che sono esposte nel nostro testo, Cione, Juan de Valdés etc., pp. 61 segg. (che parla anche impropriamente, a p. 63, di un «piccolo dramma personale che pose fine alla carriera politica» del Valdés), e M. Firpo, nell’introduzione cit. pp. LI-LXII.^
17 È noto che al Valdés del Diálogo rivolse la sua attenzione anche Croce nella sua Estetica (I ediz., 1902).Per l’opera valdesiana si veda ancora l’introduzione già cit. del Montesinos all’edizione da lui curata.^
18 Cfr. anche qui il già cit. Hernando, Castilla y Nápoles, I. cit. e passim.^
19 Cfr. Dell’Istoria di notar A. Castaldo [....] Napoli, Nella stamperia di Giovanni Gravier MDCCLXIX, pp. 73-75.^
20 Cfr. P. Collenuccio, M. Roseo e T. Costo, Compendio dell’lstoria del Regno di Napoli [...] con le annotazioni del Costo, In Venetia MDCXIII, p. 226.^
21 Così in A. Caracciolus, De vita Pauli IV P. M etc., Coloniae Ubiorum, pp. 239-241.^
22 Sulla fama di miscredenza degli Spagnoli e sul peccadillo diffuso tra loro di non credere alla dottrina della Trinità cfr. B. Croce, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari 19494, pp. 222-227.^
23 Hernando, Castilla y Nápoles, cit., p. 449.^
24 Cfr. Pontieri, Le origini della riforma etc., cit., p. 219 n. 42; e, in generale, il capitolo su Pietro Carnesecchi a Napoli in M. Firpo, Tra alumbrados e «spirituali», cit., pp. 24-43.^
25 Vedila riportata, fra l’altro, nel breve, ma bel profilo del Bonfadio tracciato da B. Croce, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari 19582, pp. 239-240.^
26 La testimonianza del Salvio si può vedere in Lopez, Il movimento valdesiano etc., cit., pp. 113-114; inoltre, cfr. J. F. Montesinos, nell’introduzione alle Cartas inéditas de Juan de Valdés al Cardenal Gonzaga, Madrid 1931, p. CXVII.^
27 S. Miccio, Vita di don Pietro di Toledo, in Narrazioni e documenti di storia sulla storia del Regno di Napoli dall’anno 1522 al 1667, a cura di F. Palermo, in «Archivio Storico Italiano», 9 (1846), pp. 27-29.^
28 Ci riferiamo in particolare agli atti del processo a suor Giulia de Marco, per cui vedì il rinvio ai mss. romani e napoletani in Pontieri, Le origini della riforma etc., cit., p. 219 n. 42 (e per la de Marco: E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne, Milano 2001, pp. 161-189). Negli atti del processo si legge che nel 1535 «il fiero et infemal Saggittario», per diffondere «le pestifere eresie» anche nell’Italia meridionale, «tutta cattolica e costantissima alla fede vera», vi inviò «un suo ministro, il quale aveva nome di Giovanni Volterra [!], di natione spagnola, catalano, huomo di bello e gratioso aspetto, di persuadente loquela, letterato in tutte le scienze, ma perfido eretico». A parte la deformazione del nome, si riconoscono tutti gli elementi della mutata immagine di Valdés, di cui si parla nel testo. A lui si attribuiscono in Napoli tre discepoli - Ochino, Vermigli e Flaminio: dunque, non napoletani – dei quali l’Ochino sarebbe stato smascherato dai teatini Gaetano da Thiene e Giovanni Marinoni da Venezia, poi santificati. A parte viene citato per la sua azione ereticale dal 1540 Lorenzo Romano, agostiniano siciliano apostata, che poi, fuggiasco perché anch’egli smascherato, si sarebbe pentito e presentato a giudizio in Roma nel 1552, denunziando «molti discepoli nel Regno e nella città di Napoli, fra’ quali erano persone eminenti e molte dame nobili titulate le quali professavano belle lettere». Alcuni dei discepoli – Pietro Torello dottore in legge e Scipione Jannello medico – avrebbero, però, continuato ad arrecare «danni notabili». Contemporaneamente sarebbe stato denunciato il padre Fiamma, «famoso predicatore», mentre l’energica azione del Cardinale teatino avrebbe portato al rogo fra Vincenzo Jannella, eremita, e Jacobita Gentile, nonché varii altri, e avrebbe costretto molti all’abiura, più o meno sincera, «e cossì nettò il Regno di questo contaggio ». Infine, anche il Carnesecchi, «nobilissimo fiorentino eretico», viene citato fra coloro che seminarono le loro «pestilenze» in Napoli. Oltre che per qualche dettaglio di fatto, questi brani processuali dimostrano il consolidamento, in tutti gli ambienti sociali e nel canone politico-amministrativo-giudiziario, di una certa visione dei rapporti fra Napoli e la Riforma.^
29 Cfr. F. Schinosi, ]storia della Compagnia di Gesù appartenente al Regno di Napoli, Parte prima, Napoli 1706, pp. 6-7.^
30 Istoria civile del Regno di Napoli, lib. XXXII, cap. V, 1.^
31 N. Balbani, Historia della vita di Galeazzo Caracciolo chiamato il signor Marchese, a cura di E. Comba, Firenze 1875, p. 14.^
32 Epistolarum theologicarum Theodori Bezae Vezelij liber unus. Secunda editio ab ipso auctore recognita, Genevae 1575, pp. 40-41.^
33 Ivi, p. 235. B. Croce, Vite di avventure, di fede e di passione, a cura di G. Galasso, Milano 1989, p. 269 n. 3, concordando sulla identificazione del Caracciolo come oggetto del riferimento del Beza, già affermata dal Boehmer nella sua edizione delle Cento e dieci divine considerazioni (Halle in Sassonia 1860, p. 585, nota), non esclude che il detrimentum prodotto dalle dottrine valdesiane fosse visto dal Caracciolo «anche nel verso opposto, cioè nella tendenza di molti valdesiani a non romperla con la Chiesa di Roma»: che sembra ipotesi acuta e da tener presente.^
34 L’identificazione del Fontanini come autore del trattato si deve a C. Ginzburg, Due note sul profetismo cinquecentesco, in «Rivista Storica Italiana», 78 (1966), pp. 190-198. Dello stesso Ginzburg e di A. Prosperi si veda Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino 1975, dove in appendice è dato il testo del trattato.^
35 La dipendenza valdesiana del Beneficio non è generalmente ammessa: cfr. T. Bozza, Nuovi studi sulla riforma in Italia. I. Il Beneficio di Cristo, Roma 1976, del quale è particolarmente importante, per la dipendenza calvinista del trattato, che egli sostiene, l’osservazione che la Institutio di Calvino era già nota nei monasteri benedettini subito dopo la sua edizione ampliata del 1539.^
36 La circostanza è ripetuta da pressoché tutti coloro che hanno trattato di Valdés e dell’Ochino: cfr., ad esempio, Pontieri, Le origini della riforma etc., cit., p. 218 n. 41. Che nell’Ochino vi fosse piena consonanza con il Valdés anche negli anni napoletani è, tuttavia, alquanto dubbio: cfr. Bainton, Bernardino Ochino, cit., pp. 40-46 e 65-67.^
37 Il nicodemismo valdesiano, negato in Bozza, Nuovi studi etc., cit., p. 95, è sostenuto, a nostro avviso a piena ragione, da M. Firpo nella cit. introduzione, p. LXXIX-LXXXII, e Tra alumbrados e «spirituali», cit., pp. 75-77, coi relativi rimandi bibliografici (Bataillon, Cantimori, Ginzburg, Nieto, Ossola, Rotondò). È, tuttavia, sempre da osservare che il problema del nicodemismo non coincide appieno con quello dell’esoterismo, anch’esso da considerare come un carattere forte dell’insegnamento del Valdés anche in dipendenza della sua derivazione dagli alumbrados.^
38 Così, molto bene, M. Firpo, Tra alumbrados e «spirituali», cit., p. 43.^
39 È noto che anche uno studioso come il Bataillon, Erasme et l’Espagne, cit., vol. I, p. 549, esprime la convinzione che Valdés sia morto da buon cattolico al pari del Flaminio, nella suggestione della «maniera» cattolica del Pole. M. Firpo, nell’introduzione cit. p. CX n. 348, nota che della convinzione del Bataillon non c’è alcuna base documentaria. È vero. Si consideri, però, che, se il Valdés fosse morto nella Napoli del 1541 senza i conforti religiosi e senza tutte le debite forme richieste da un funerale cattolico, la cosa avrebbe fatto molto rumore e ne sarebbe rimasta palese e ampia notizia. Ciò sarebbe, infatti, servito da forte elemento aggiuntivo alla persecuzione contro i seguaci o ritenuti tali dello stesso Valdés e avrebbe fatto parte integrante cospicua della damnatio memoriae a cui lo si sottopose. L’argumentum e silentio non equivale, ovviamente, a una prova documentaria, ma ha la sua logica ed è una ragione decisiva per porsi la questione in maniera organica e pregnante.^
40 Si veda per tutto questo Pontieri, Le origini della riforma etc., cit., pp. 209-210.^
41 Gregorio Rosso, Storia delle cose di Napoli sotto l’impero di Carlo V dal 1526 al 1537, ed. Gravier, Napoli 1770, pp. 69-70.^
42 Castaldo, Dell’istoria, cit., 1. cit.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft