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Dopo l'Italicum
di G. G.
Il successo di Matteo Renzi nell’approvazione dell’Italicum era prevedibile, ed era stato previsto dalla maggior parte dei commentatori delle cronache italiane. Non era stata, invece prevista la tenacia sicura e intransigente con la quale Renzi ha condotto all’approvazione un disegno di legge contro il quale si poteva e si doveva temere un’opposizione a sua volta tenace e intransigente sia di una gran parte della Camera dei Deputati, sia dello stesso partito di cui Renzi è segretario.
L’opposizione degli altri ha fatto quello che voleva e poteva fare: parlare e parlare con toni sempre più accesi, minacciare referendum abrogativi (qualcuno anche il ricorso alla piazza) e gli ormai rituali ricorsi alla Corte Costituzionale, tentare un po’ di ostruzionismo nel lavoro parlamentare, e così via dicendo. Mancando dei voti necessari, l’opposizione poteva solo sperare, per fermare la marcia dell’Italicum, in una tale diffusione ed esplosione dell’opposizione a Renzi all’interno del Partito Democratico da far cadere in malo modo su un tale inciampo l’intransigenza di Renzi nel volere non solo l’approvazione, ma anche un’approvazione entro i termini di tempo assai ristretti da lui in ultimo fissati. Senonché, accanto al successo di Renzi, proprio l’evanescenza dell’opposizione interna al Partito Democratico ha finito col costituire il dato politico più importante emerso nell’ultima tappa parlamentare della nuova legge elettorale.
L’evanescenza – a quanto si può dire a posteriori – è dipesa da più fattori. In primo luogo, la netta prevalenza di Renzi nel partito è stata più che confermata in tale occasione. Bersani ha detto che i 55 o 60 voti contrari alla legge nel segreto dell’urna attribuibili a parlamentari del suo partito sono molti e non trascurabili. Ha ragione, ma ha omesso di chiedersi fino a qual punto questi voti contrari abbiano un rilievo politico che vada al di là del dato numerico. In secondo luogo, infatti, l’opposizione interna al partito ha mostrato una varietà di componenti che non la fa apparire soltanto minoritaria, come già si sapeva. La fa anche apparire frammentata in modo tale da sembrare difficilmente amalgamabile in un’azione politica di tale spessore da poter effettivamente preoccupare Renzi e determinarne una caduta. La convergenza di queste diverse componenti nell’opposizione a Renzi si configura quindi ancor più difficile a coagularsi in un fronte unico di effettivo ed efficace vigore politico di quanto non lo sia un cedimento della maggioranza del partito che fa capo a Renzi. E qui subentra la notazione che in terzo luogo si deve fare al riguardo. L’opposizione interna al partito ha, infatti, una molto grande varietà non solo di componenti, ma anche di posizioni, di orientamenti e di prospettive politiche. Nel marciare contro Renzi i suoi oppositori interni hanno dato l’impressione di andare ciascuno per conto proprio in una sua diversa direzione. Il velo più fitto appare steso sugli obiettivi politici e programmatici delle singole componenti. Il partito come Renzi lo sta definendo e atteggiando non piace. Ma quale sia o debba essere il partito a cui pensano i varii Civati, Cuperlo, Fassina e altri nessuno ha capito perché nessun elemento chiaro e persuasivo di giudizio si ha a tale riguardo. E nessuno se ne ha, in effetti, neppure per quanto riguarda la componente che fa capo a Bersani, perché anche per essa non si è affatto capito quali dovrebbero essere le strategie e le finalità da indicare al partito in luogo di quelle di Renzi. È, anzi, lecito il sospetto che se a chiarirle la componente Bersani fosse puntualmente chiamata, anche in essa si rivelerebbero tendenze e divisioni tali da invalidarne la concreta consistenza.
Renzi può allora dormire sonni tranquilli sulla posizione di potere e di predominio politico senza precedenti, che Stefano Folli ha efficacemente illustrato su «la Repubblica» del 5 maggio? Folli osservava, in sostanza, che Renzi non solo ha completamente vinto la minoranza del suo partito, ma ha acquisito nei fatti, prima ancora che si modifichi l’ordinamento in tal senso, i poteri del premier nell’ordinamento britannico; che, di conseguenza, egli può anche decidere i tempi di un eventuale scioglimento delle Camere e di un ricorso a nuove elezioni; che nuove elezioni lo consacrerebbero quale premier nel senso britannico anche con il collaudo e la consacrazione del suffragio popolare; che come tale Renzi può avere un solo interlocutore, che è il presidente della Repubblica, col quale ha perciò di fatto instaurato quello che si potrebbe definire un condominio.
Per conto nostro aggiungiamo, a rincalzo dell’analisi di Folli, che, certamente, il presidente della Repubblica Italiana ha poteri maggiori, tutto sommato, di quelli del sovrano nell’ordinamento britannico, ma altrettanto, anzi ancor più certamente non può che attenersi ai responsi delle urne, per cui una nuova vittoria elettorale di Renzi renderebbe quest’ultimo inattaccabile anche per il presidente della Repubblica.
Anche così, problemi vi sono, però, sempre per Renzi, comunque, e, anzi, vi saranno tanto più quanto più è cresciuto e crescerà il suo potere. Problemi – intendiamo – di rapporti e di equilibri politici in Italia, a prescindere dai problemi, di molto più gravi, che derivano dalle condizioni materiali del paese e dalla necessità sempre più urgente e sempre più grave di superare e lasciarsi alle spalle la crisi economica e le difficoltà sociali fra le quali il paese si dibatte ormai da troppi anni, e che solo oggi sembrano avviarsi a un inizio di effettiva e consistente ripresa. Problemi – questi economici e sociali, più immediati e urgenti – che sono poi quelli sui quali innanzitutto e soprattutto si misurerà in ultima analisi il successo della sua azione di governo.
Vero è che, del tutto a ragione, Renzi ripete sempre che anche questi problemi economici e sociali e la ripresa dell’economia del paese dipendono in modo imprescindibile da quell’insieme di riforme istituzionali alle quali si è rivolta così energicamente e insistentemente la sua attività politica dall’inizio del suo governo, all’insegna del motto, senz’altro condivisibile: «se non la cambiamo, l’Italia non ce la potrà fare».
Però, sia per cambiare l’Italia, sia per risolvere i problemi politici nascenti dal suo stesso affermarsi in maniera così forte nel quadro istituzionale del paese, occorrerebbero chiarezze e formule che a tutt’oggi nelle parole e nell’azione di Renzi non si vedono a sufficienza. Che cosa vuol dire, ad esempio, in concreto, quell’ipotesi di «partito della nazione» più volte adombrata da Renzi? La modificazione del sistema elettorale garantisce a Renzi nel prossimo futuro una direzione politica del suo partito e delle cose italiane più sicura. Potrà, però, sicuramente reggere a opposizioni eterogenee, populistiche, di scarso o nullo significato e contenuto politico e programmatico, ma di facile ascolto mediatico e di demagogica popolarità? Potrà sostenere – senza un grande rafforzamento programmatico e culturale della sua azione politica e di governo – il peso di un’opposizione interna che, partendo dalla sua attuale non del tutto trascurabile consistenza, si riqualificasse precisamente su quel terreno programmatico e concreto che è stato finora per essa così deficiente? Potrà affrontare a cuor leggero quelle complicazioni della scena internazionale, quei problemi di politica interna ed estera che sono sul tappeto (a cominciare da quello sempre più corposo e difficile delle immigrazioni via Mediterraneo) e che gli sviluppi della congiuntura economica possono comportare allontanando o complicando i problemi della ripresa? Potrà reggere facilmente all’usura che in ogni posizione e azione politica fatalmente si determina col tempo senza una costante, profonda ed efficace revisione e rilancio delle posizioni e dell’azione di cui si tratta?
Sono interrogativi che si poneva in parte già anche Folli. Crediamo, tuttavia, che le carte di Renzi quale rinnovatore del mondo politico italiano, come egli si presenta ed è stato accolto dalla pubblica opinione, siano ancora molto buone. Le sue qualità di uomo politico e di governo appaiono indubbie e non facili a ritrovarsi nei suoi tanti critici e competitori. Il cammino che ha percorso finora è stato lungo e aspro, ma non gli ha ancora procurato quel consenso e quei riconoscimenti di superiore livello che hanno avuto altri uomini politici italiani fino a vent’anni fa. Crediamo, per quanto ci riguarda, che sarebbe una buona cosa per l’Italia se egli avesse un pieno successo. Riteniamo che l’Italicum sia una legge suscettibile di qualche critica, ma per nulla pericolosa, come a ragione ha detto Ugo Di Siervo su «La Stampa» del 5 maggio. Il timore di una “deriva autoritaria”, di cui Renzi sarebbe il portatore e il protagonista, non appare resistere ad alcuna seria analisi dei fatti. Ma, anche detto tutto ciò, si deve pur concludere, anche dopo l’Italicum, che – malgrado il vecchio proverbio per cui «chi ben comincia è alla metà dell’opera» – non si può per nulla ritenere che Renzi sia davvero alla metà dell’opera che si è proposto e che ci ha proposto.
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