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“Nazione napoletana”
di Giuseppe Galasso
L’idea di una “Storia del Mezzogiorno” da affiancare alla “Storia di Napoli” in quindici volumi, diretta da Ernesto Pontieri, del cui Comitato scientifico io ero stato segretario, e alla “Storia della Sicilia” in dieci volumi, diretta da Rosario Romeo, nacque nell’ambito della Casa editrice di tali Storie, la ESI (Edizioni Scientifiche Italiane). La ESI era nata nel dopoguerra, per iniziativa soprattutto dell’industriale farmaceutico Costantino Cutolo, che ne aveva affidata la cura al dottor Claudio Andalò, un dinamico e operoso professionista di Reggio Calabria venuto a Napoli intorno al 1930 e subito impostosi all’attenzione di Cutolo. Forse per influenza del fratello Alessandro, uno studioso di storia napoletana (del quale nessuno avrebbe potuto prevedere allora le posteriori, notevoli fortune televisive) gravitante nell’ambito di casa Croce, la ESI gravitò anch’essa per le sue pubblicazioni negli ambienti crociani. Pubblicava, fra l’altro, la “Rivista Storica Italiana”, allora diretta da Federico Chabod, che vi dirigeva anche un’apprezzata collana si studi storici.
A pensare a una storia del Mezzogiorno fu, in effetti Massimiliano Vairo, singolare e non trascurabile figura anch’egli della cultura e della società napoletana di quegli anni. Il suo progetto entusiasmò subito Andalò, che ne volle parlare con me e ne ebbe una convinta adesione e decise che, appena conclusa la “Storia di Napoli”, vi ci si sarebbe pensato. Andalò non ebbe, però, il tempo neppure di vedere la conclusione della “Storia di Napoli”, nel 1974, essendosi purtroppo spento l’anno precedente.
L’idea di Vairo rimase, perciò, come sospesa mentre la Esi passava alla realizzazione della “Storia della Sicilia”. Conclusa anche quest’opera nel 1981, l’idea fu immediatamente ripresa, e trovò un convinto sostenitore in Claudio Signorile, ministro per l’intervento straordinario nel Mezzogiorno nel governo Spadolini (1981-1982), che divenne anche presidente del Comitato promotore e guadagnò all’opera la sponsorizzazione del Banco di Napoli, che riuscì essenziale per la sua riuscita.
Signorile, mi invitò a un colloquio presso la sede del Ministero. Gli sembrava – mi disse – quanto mai opportuna quella “Storia del Mezzogiorno” alla quale si pensava e che sapeva che sarebbe stata affidata alla mia direzione. Gli esposi allora il mio punto di vista e lo informai anche di aver già redatto un piano dell’opera, stampato in un opuscoletto a uso interno della ESI. Egli ne fu lietissimo, e mi domandò, inoltre, se io avessi nulla in contrario ad associare a me, nella direzione dell’opera, Rosario Romeo, del quale lo stesso Signorile era stato, a suo tempo, assistente, che aveva intanto diretto la “Storia della Sicilia”. Risposi con un lieto e divertito sorriso: tutti sapevano del forte rapporto di amicizia che da tanto e tanto tempo legava me e Romeo, e di conseguenza questo punto fu subito dato per cosa scontata.
Seguirono poi varie vicende societarie, e l’opera finì con l’essere realizzata in 15 volumi, col marchio delle Edizioni del Sole, patrocinate dallo stesso Signorile. Romeo ed io ci mettemmo, intanto, subito al lavoro.
Riprendemmo il piano dell’opera già da me preparato, che, divenne con poche modificazioni, quello adottato per la nuova iniziativa. Non lavorammo, però, soltanto al piano dell’opera. Cercammo anche di formulare una linea direttiva, un concetto storico, una dimensione storiografica da imprimere, nella misura del possibile, a un’opera collettanea, per evitare, quanto più si potesse, che essa non fosse soltanto una silloge di saggi chiuso ognuno nel proprio orizzonte. E fummo subito d’accordo che avremmo potuto seguire – né scolasticamente, né pedissequamente – quell’idea di “nazione napoletana”, che era stata un filo non secondario nella storia della storiografia napoletana e che aveva trovato da ultimo una forte espressione nella “Storia del Regno di Napoli” di Benedetto Croce.
Avemmo a questo scopo, fra il 1981 e il 1983, una serie di riunioni a Roma, a casa di Romeo o presso la sede delle Edizioni del Sole, alle quali assistettero spesso anche altri amici studiosi (e ricordo, fra essi, Giuseppe Talamo, amicissimo di Romeo e mio, e sagace e acuto studioso di storia del Risorgimento). Romeo pensava a una larga prefazione che dichiarasse per esteso i criteri seguiti nella preparazione dell’opera e che avrei dovuto redigere io, per visionarla poi con Romeo e dare ad essa la sua forma definitiva. Io non riluttavo affatto al compito di stendere un tale testo. Ritenevo, però, che fosse molto più opportuno non pensare a una lunga prefazione, bensì, piuttosto, a una prefazione breve, anche se altrettanto chiara circa i criteri dell’opera. Rimandammo, comunque, la decisione ultima a tale riguardo a quando fossimo venuti a capo di che cosa in dettaglio avremmo dovuto parlare in fatto di “nazione napoletana”. Per ciascuna delle riunioni di cui sopra io preparai di volta in volta piccoli documenti che servissero da traccia della discussione. Non sempre e non in tutto seguimmo rigidamente il tema che ci eravamo prefissi. Come è facile immaginare, riprendemmo il filo di frequenti, innumerevoli conversazioni e scambi di idee che fin dagli inizi degli anni ’50 avevamo avuto tra noi due o insieme con altri in materia di storia napoletana, e di storia e storiografia in generale. Molto spesso divagavamo, quindi, per il piacere della divagazione, ma anche per quanto di reciprocamente istruttivo ritrovavamo in quelle discussioni e divagazioni. E molto spesso parlammo anche dei nostri rispettivi lavori che ci eravamo trovati reciprocamente a recensire, e riprendemmo la relativa discussione.
Poi l’opera cominciò ad apparire, nel 1986, coi volumi IV e VI, e venne terminata nel 1992, malgrado la fatica non lieve di ottenere i contributi dei collaboratori in tempi ragionevoli: fatica nella quale si prodigò largamente Atanasio Mozzillo, per la casa editrice della “Storia di Napoli”, aiutato da Alfredo Profeta, specialmente per la grafica e per l’iconografia, e poi, con le Edizioni del Sole, il dottor Mario De Rossi.
Proprio all’inizio della pubblicazione, nel 1987, venne meno, ad appena 63 anni, Rosario Romeo: una perdita grave, oltre che per la storiografia italiana, anche per la vita civile del paese. L’opera proseguì, quindi sotto la mia sola direzione e finalmente venne conclusa, nel 1992 con i volumi VIII e XIV, gli ultimi ad apparire. La prefazione, cui avevamo pensato, venne perciò scritta da me nella forma breve che preferivo, mettendo anche da parte i materiali che nelle riunioni con Romeo avevamo discusso, e fu pubblicata nel volume I dell’opera, apparso nel 1991.
Il succo delle numerose discussioni preliminari che avevamo avuto al riguardo restò, peraltro, impresso in me forte e chiaro, come tuttora è. Ed è in omaggio a questa esperienza cara e felice di collaborazione col mio grande amico che si pubblicano qui – a puro titolo di memoria e di documento – le tracce che avevo preparato per alcune delle riunioni romane, che non sono tutte quelle che scrissi (altre sono andate perse, o, scritte com’erano a penna, si sono troppo deteriorate per essere utili), ma danno bene, credo, l’idea di quel che quelle discussioni furono.



I.


Questo appunto fu portato da me nel primo o in uno dei primissimi incontri di cui sopra. Era inteso a fissare alcuni punti di riferimento essenziali per articolare al meglio possibile l’idea di “nazione napoletana”, alla quale pensavamo di doverci attenere.

Nazione napolitana
1) Natio quia nata: anche per Napoli il termine è antico. Quel che occorre chiedersi è quando abbia acquisito o cominciato ad acquisire un significato non puramente geografico
2) La risposta è relativamente semplice: non prima che col Vespro si rompesse l’unità politica del Mezzogiorno.
3) Non mancano elementi anteriori: Ruggiero II, Dante, eventualmente altri.
4) Duplice paradosso: l’individuazione è opera prima degli stranieri che dei meridionali; e avviene su note molto negative.
5) Approfondire, però, la vicenda letteraria dal ’300 all’Umanesimo, e in particolare di quest’ultimo.
6) Gli elementi della nazione napoletana nella grande sistemazione istituzionale del secolo XVI.
7) Variazioni di questa sistemazione nel ’6 e ’700 e loro rilievo e significato.
8) Come si riflette tutto ciò nella storiografia italiana da Machiavelli a Denina.
9) Come si riflette nella storiografia straniera.
10) Regionalismi e napoletanità nella cultura meridionale dell’età moderna (analogie con l’arte e la letteratura?).
11) Le storie napoletane da Giannone a Croce (osservare che in Giannone già, ma molto di più in Cuoco, vi sia una nazione napoletana è ormai un fatto scontato); la fisionomia della nazione napoletana nella cultura illuministica da Vico a Filangieri.
12) Nazione napoletana e mito del 1799.
13) Si può studiare meglio la contrapposizione fra Sicilia borbonica e Mezzogiorno napoleonico nel Decennio?
14) L’«italianismo napoletano» di Murat: come lo si può caratterizzare? Quale significato? Quali echi?
15) Il cammino dell’idea italiana soppianta le nazionalità preunitarie, ma questo significa che non vi siano ulteriori definizioni e approfondimenti storici di tali nazionalità preunitarie? Si dovrebbe rispondere in dettaglio. Il Mezzogiorno, per molti, miccia del Risorgimento (basta pensare a Mazzini).
16) Ci sono particolarità, c’è una via napoletana all’italianità che abbia connotati particolari? Dove e come vederla?
17) Qual era il grado di preparazione al 1861?
18) Esiguità del rivendicazionismo posteriore.
19) La storia della questione meridionale come prosecuzione della storia napoletana sia nel piano della riflessione e del pensiero politico, sia sul piano della strutturazione culturale e materiale del paese meridionale.



II.


Nella discussione sia sul documento precedente che in linea più generale, venne in questione ciò che io avevo scritto nelle mie “Considerazioni intorno alla storia del Regno di Napoli”, pubblicate nella «Rivista Storica Italiana» e poi comprese, come capitolo iniziale, nel mio volume “Mezzogiorno medievale e moderno” (Torino, Einaudi, 1975), che Romeo aveva recensito sul «Corriere della Sera» in un articolo intitolato “La ‘nazione’ meridionale”, del 7 gennaio 1966; e, come si vede, anche già in quel titolo ricorreva il termine “nazione” in rapporto ovviamente con quanto da me esposto in quel volume. Per riassumere il mio punto di vista nella discussione che ne seguì scrissi quanto segue:

L’osservazione critica principale di R. è che quanto io affermo sul carattere di fondo della storia meridionale – non regionale, ma nazionale – è contraddittorio. E perché? Perché – dice R. – io affermo, altresì, che «la ricorrente insufficienza delle forze politiche e sociali del Mezzogiorno a risolvere nel quadro dell’antico Reame i problemi dell’avanzamento morale e civile del loro paese non può essere considerata come un dato accessorio o secondario della storia meridionale». E ciò urterebbe frontalmente con quanto io stesso dico sul fatto che nel Mezzogiorno «una nazione […] non è propriamente mai maturata, ma ha sempre rappresentato una possibilità più o meno prossima e più o meno concreta, una potenzialità che il corso ulteriore delle cose ha più o meno ridotto rispetto ad alcuni momenti più felici». E, francamente, questo è piuttosto sorprendente che venga osservato da un lettore della qualità di R.
Egli stesso nota che la negazione in questione si riferisce a un concetto di nazione inteso «in senso – scrive – più largo del crociano ceto intellettuale». E questo è vero. Ma in quel mio saggio io non solo avevo contestato la concezione crociana della equivalenza “ceto intellettuale- nazione”, bensì avevo anche molto problematizzato, per non dire radicalmente negato, la nozione di quel ceto e la sua funzione nella storia del Mezzogiorno quali sono delineate da Croce con una critica che (voglio dirlo fuori dai denti) è l’unica grande critica alla Storia del Regno di quel grande che sia stata formulata con rigore di metodo e con adeguato spessore storiografico (e non solo per il ceto intellettuale, ma per la periodizzazione, per le tematiche discusse etc.). Mi ero, infatti, chiesto, nel momento cruciale della mia riflessione sulla Storia del Croce, che cosa mai fosse quell’ethos che non diventava mai kratos; e da questo interrogativo avevo fatto discendere tutta una serie di esplicite e, ancor più, implicite deduzioni, che insieme portavano, per una parte, a un sostanziale rifiuto critico della tesi crociana e, per un’altra parte, la ricevevano e la convertivano in un nodo problematico molto più complesso. Perciò avevo parlato di «nazione nel suo significato più elementare di una comunità caratterizzata da una chiara e definita fisionomia etico-politica, nella cui affermazione convenga la parte maggiore e migliore del paese sulla base di valori comuni, del comune ordine istituzionale e di una unità di obiettivi».
È questa la nazione che io sostengo non maturata nel Mezzogiorno. Ma dire questo significa forse negare ogni sviluppo nazionale in questo paese? La conclusione di quella negazione è, infatti, che qui «la nazione si è venuta atteggiando attraverso il tempo come una realtà composita, multiforme, contraddittoria; non dialetticamente stretta in unità da una forza interna e spontanea, ma tenuta insieme dalla forza delle cose, da elementi catalizzatori assai spesso stranieri, senza che la mediazione politica dovuta alle forze più dinamiche e progressiste – prima la monarchia e gli uomini d’armi e di affari ad essa legati; poi, con le limitazioni sopra accennate, il crociano ceto intellettuale; poi ancora altri elementi – fosse sufficiente ad imporre ad una società, rimasta per lunghissimo tempo ancorata a moduli agrari-feudali assolutamente peculiari ad essa, equilibri e condizioni radicalmente nuovi».
Una nazione, dunque, che non ha maturato la tempra nazionale da me negata, ma che, tuttavia, [sussiste] con le sue particolarità e i suoi problemi, ma con tutta, anche, la specificità nazionale sua propria. Tanto è vero – aggiungevo – che «non è un caso che proprio le parti meno “attive” (nel senso crociano) del popolo napoletano abbiano conservato, bene o male che ciò sia, un senso più vivo e immediato, anche se per molti aspetti gretto e provinciale, della tradizione meridionale».
Una nazione – debbo ancora notare – nella quale il rapporto fra Stato e società è stato tale da configurare lo Stato come elemento motore autentico del dinamismo e dello sviluppo sociale assai più di quanto non configuri la società come forza di propulsione e di trasformazione della struttura politica del paese. Che è poi la ragione per cui, nel saggio sul Regno di Napoli sotto Carlo V (molto ammirato da R.), ebbi a scrivere che «l’assestamento di una più forte struttura dello Stato dev’essere considerato, in quella prospettiva storica e in quella situazione economica e sociale, come un presupposto essenziale per lo sviluppo posteriore di una società più moderna».
Una nazione, insomma, dalla storia turbolenta e, per qualche aspetto, di corto respiro. «La visione che il Croce aveva costruito della storia meridionale fino a tutto il periodo viceregnale – afferma R. – come di un processo troppo spesso interrotto e spezzato, e respinto indietro da brusche cadute e ritorni, dovrebbe essere estesa anche ai due secoli successivi, in cui matura la crisi finale dell’autonomia meridionale». Ma questa prospettiva, intanto, non contraddice per nulla a quanto io sostengo, ché anzi ne viene completato e rafforzato; e, inoltre, si presta ad almeno due osservazioni.
La prima è che quella plurisecolare vicenda di cadute e involuzioni, di ritorni e di sviluppi non è un moto senza senso e senza direzione. Ritenere che anche per questo aspetto della maturazione nazionale il Regno della fine del secolo XVI sia tale e quale quello di due secoli prima o che alla fine del secolo XVIII esso continuasse a essere sempre lo stesso, è talmente antistorico da poter essere respinto a priori. In realtà, il Mezzogiorno, al suo modo incerto e precario, ha tutto un suo svolgimento che lo qualifica su molti piani e da molti punti di vista anche come “nazione”: ossia – detto in termini assai semplici – come un corpo politico con una sua inconfondibile fisionomia nel quadro italiano ed europeo. Questo essere nazione non è, evidentemente, quello della nazione post-rivoluzionaria, romantica, otto e novecentesca. Ma questo è da dirsi del Mezzogiorno come di ogni altro paese europeo, nella varietà, si intende, degli svolgimenti e delle fisionomie di ciascuno di essi. Nel ceto intellettuale del secolo XVIII (che è quello sul quale costruisce il suo modello interpretativo il Croce, per il quale il 1799 è la chiave di volta di tutta la sua visione storica a questo riguardo) la specificità “nazionale” meridionale si espresse al massimo e al meglio. Ma essa è ugualmente reperibile (tanto per fare un solo esempio) nell’assidua e sempre ripetuta e affermata rivendicazione dei privilegi, delle immunità, dei diritti del Regno e della sua capitale rispetto alla pur consentita e indiscussa autorità sovrana: una rivendicazione di cui il ceto forense e i corpi privilegiati del Regno (città di Napoli, grandi uffici regi, altre istanze politico-istituzionali) furono attori costanti, ma non esclusivi. E, del resto, il formarsi di una storiografia del Regno, almeno dal Collenuccio in poi, lo attesta in modo fin troppo evidente.
La seconda osservazione è che al confluire del Mezzogiorno nell’unità italiana difficilmente, molto molto difficilmente può essere attribuito «un carattere – come dice R. – di sostanziale rinuncia e abdicazione», e questo proprio «per gli uomini migliori del Risorgimento meridionale»: tesi che sorprende di ritrovare sotto la penna di uno storico del Risorgimento qual è R. Egli si rifà, invero, anche in ciò, all’altra affermazione del Croce, per cui quegli uomini, «poiché non era possibile far che l’Italia meridionale entrasse energicamente da sola nella nuova via nazionale, la legarono al carro dell’Italia». Che se ne sia consapevoli o meno, una tale affermazione costituisce la più inattesa delle convalide per le tesi dell’unificazione come “annessione” al Piemonte e, per il Mezzogiorno, come “conquista piemontese”: inattesa e incredibile in autori come Croce e R. Si prescinde, infatti, così dal dato storico fondamentale, e ad essi caro ancor più che noto, della formazione di un’“idea italiana”, sorretta dal nuovo concetto della “nazione” quale massima espressione della vita etica e politica, nonché da tutte le idee della sovranità popolare, dei diritti dell’uomo e del cittadino, del regime costituzionale di libertà, del Parlamento e delle elezioni come base di questo regime: insomma, da tutto ciò che dal 1789 in poi corroborò l’idea di nazione e ne fu parte integrante. È vero – e io stesso l’ho più volte messo in rilievo – che agli «uomini migliori del Risorgimento meridionale» non riuscì di realizzare i loro ideali né col riformismo settecentesco, né nel 1799, né nel 1815, 1821, 1848; e che, quando vinsero, o nella misura in cui vinsero, essi lo dovettero all’aiuto o all’impulso di stranieri (l’ho detto anche più su). Questo, però, non è un dato solo napoletano. Ancora io stesso (ad esempio, nel libro Potere e istituzioni in Italia) ho fatto spesso notare che questa necessità di aiuti esterni caratterizza l’intera storia del Risorgimento italiano: la caratterizza dalla fase che si apre con la discesa in Italia di Napoleone nel 1796 a quella finale del 1859, che ebbe un esito tanto diverso da quello del 1848 giustappunto per la nuova discesa italiana del nipote del primo Bonaparte.
In realtà, un motivo di critica per la mia posizione in materia di “nazione meridionale” ce l’ho io – credo – molto più fondato rispetto alle Considerazioni intorno alla storia del Mezzogiorno. Ed è questo: lì io qualifico di “nazionale” la storia del Mezzogiorno (come della Sicilia) in contrapposizione al carattere “regionale” della storia di altre parti dell’Italia. Potrei dire che qui la penna tradiva il pensiero, ma è chiaro, comunque, che della penna è responsabile chi la maneggia. Il vero è che non avevo ancora chiaro a me stesso il criterio di quella antagonistica contrapposizione. In un certo senso, pensavo la storia del Mezzogiorno molto più vicina a quella delle monarchie occidentali, e, soprattutto, della Francia che non a quella degli altri Stati italiani. Che era poi, a ben pensarci, un tirare la storia meridionale fuori del quadro italiano, se non farla, insieme, più “europea” di quella della restante Italia. Nel che c’è, o può esservi, qualcosa di vero, ma non tale da non farmi ben presto superare le mie vedute nelle Considerazioni (1963). Nei miei successivi volumi Potere e istituzioni (1974) e L’Italia come problema storiografico (1979) ho trasformato appieno la mia veduta al riguardo. Ho parlato dell’Italia come di una realtà nazionale plurinazionale, e della sua storia come di una “storia multinazionale”, senza alcuna lesione di quella “unità nella diversità” che è l’altra faccia di questo pluralismo storico dell’Italia e che rende del tutto legittimo parlare di Italia e di nazione (o nazionalità, ho specificato nel 1979) come di un soggettooggetto storico unitario e individuo. Il caso della Germania (anche considerando l’elemento costituito dalla cornice sempre sussistita, fin dai tempi degli Ottoni, del Reich) è poi tanto diverso?
Qui, dunque, debbo fare ammenda, e la faccio tanto più volentieri per aver avuto a censore me stesso.



III.


Sull’argomento continuammo poi a discutere, per l’importanza che attribuivamo al tema, e anche perché alla nota precedente io feci poi seguire questo altro appunto.

Quanto alla recensione di R. (La “nazione” meridionale, Corsera, 7-I-1966), ancora poche osservazioni.
Sorvolo, ma non sarebbe da sorvolare, sull’aggettivo “meridionale”. Nella sua materialità geografica l’aggettivo è ineccepibile, ma, per l’appunto, non è di geografia che si tratta. Necessariamente è “napoletana” l’aggettivo da usare. Solo dopo l’unificazione del 1861 l’aggettivo “meridionale” acquistò diritto di cittadinanza nella terminologia storica e politica per indicare gli Italiani del Mezzogiorno già uniti nella monarchia meridionale fondata dai Normanni. Fino ad allora l’aggettivo unico per indicarli era stato quello di “Napoletani”. Anche dopo di allora fu a lungo così vivo questo uso che l’imputazione dequalificante e sprezzante di essere “un Napoli” fu diffusa nel Nord dell’Italia (in particolare in qualche luogo, come Torino) per indicare i meridionali dell’intero Mezzogiorno (e non saprei dire se in quel caso fossero compresi i Siciliani: forse, se non sempre, certo in singole occasioni).
Ma che vuol dire che questa nazione venisse definita “napoletana”?
In più di un luogo ho sottolineato che l’unità politica di cui Napoli si trovò a essere, dalla fine del secolo XIII in poi, la capitale non fu una creazione della città di Napoli. Il Regno, insomma, non fu quel che lo Stato veneto fu: ossia l’opera di Venezia; il che è altrettanto vero, come è tanto ben noto, per la Lombardia, la Liguria, la Toscana, opera rispettivamente, in quanto Stati regionali, di Milano, Genova, Firenze. Il caso di Napoli fu analogo a quelli del Piemonte sabaudo, dello Stato pontificio, della Sicilia e della Sardegna: il caso cioè, di Stati formati non già dalle esuberanti energie di una città capitale e dominante, per cui la tradizione storiografica italiana parlava (vedi Anzilotti) di “Tramonto dello Stato cittadino” nel secolo XVIII, e non aveva tutti i torti. Era, invece, il caso di una costruzione politica dovuta alla iniziativa e alla volontà politica di piccole e grandi dinastie (nel caso pontificio, naturalmente, la dinastia era costituita dalla serie dei papi, e, cioè, in effetti, dalla Curia romana nella sua mutevole fisionomia storica).
Come è facile intendere, ciascuno di questi casi “monarchici” aveva una propria, distinta fisionomia. In Piemonte la dinastia era locale, e nel progressivo ampliamento dei suoi dominii in quella regione riuscì a formare, col tempo, un senso vigoroso di appartenenza, identità e lealismo dinastico, che già nel secolo XVI e nel XVII appare evidente e che indubbiamente fu tra i fattori che consentirono a quella piccola monarchia di giocare il ruolo che fu suo nei conflitti europei dell’età moderna. Nello Stato pontificio nulla di simile: l’unità sotto Roma rimase sempre un dato di fatto geopolitico, favorito nella sua durata (lunga) dalla eccezionale posizione del papa quale sovrano temporale di una Chiesa, che aveva una dimensione tutt’altro che temporale, dalla quale il papa stesso derivava le ragioni e gli strumenti di un potere tendenzialmente assoluto. Ciò è tanto vero che, post fata, nulla o quasi è rimasto di vivente e operosa memoria politica pontificia di quello Stato, nel quale sotto il manto pontificio continuarono a vivere memorie e coscienze regionali, provinciali e cittadine, rimaste, invece, vive e operose pur dopo l’unificazione italiana. In Sicilia e in Sardegna (e in specie nella prima) l’elemento dinastico eterogeneo e dominante è stato sempre bilanciato dal senso invincibile e invitto della propria particolarità insulare, radicato in Sicilia sulle vicende dei Vespri e in Sardegna in una ancor più remota tradizione, anche più autonoma, di insularità politica. Il che ha poi consentito e consente alla due grandi isole di mantenere la loro identità e coscienza unitaria a dispetto delle interne, fiere divisioni e rivalità che fanno parlare di almeno due Sardegne e tre Sicilie.
Tutt’altro è il caso di Napoli, il cui rapporto col Mezzogiorno e il cui ruolo nella costruzione dell’identità nazionale del suo Regno seguirono percorsi diversi da quelli sopra accennati; e io credo di poter ben dire che il chiarimento di questo caso ha costituito la maxima pars del mio lavoro storiografico, non senza – credo – qualche consistente e importante merito.
Infine, non in relazione a Romeo, ma da un punto di vista più generale, e, però, imprescindibile si deve anche notare che la questione del carattere nazionale o regionale delle storie degli Stati italiani pre-unitari ne coinvolge un’altra di non minore rilievo.
Si tratta, infatti, della storia d’Italia nel suo insieme. A me è apparso sempre più chiaro che, qualificando come “regionali” le storie di quegli Stati, noi assumiamo implicitamente l’idea che la dimensione propria della storia nazionale italiana sia quella unitaria e che tutta intera questa storia sia stata destinata fin dagli inizi alla finale soluzione unitaria che, a tredici secoli dalla fine dell’unità formata da Roma e dissolta dai Longobardi, si ebbe nel 1861.
Ora, che questo conclusivo epilogo della storia di quei tredici secoli sia stato un evento legittimato da tutto il precedente corso di tale storia dovrebbe essere del tutto fuori discussione. La nazione italiana non è stata un’invenzione dell’ultimo momento, quello risorgimentale, della alfine realizzata unità. Tanto meno è stata un pretesto di classi politiche e dirigenti coinvolte nella “conquista piemontese” e interessate ad essa. Già nel mio libro del 1974 e in quello del 1979 ho esposto le ragioni per cui la nazione è in Italia ben più antica dello Stato unitario nato nel 1861. Citano tutti in questo torno di tempo, e specialmente dalle celebrazioni del centenario del 1961, la frase attribuita a d’Azeglio: “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”; e devo ammettere che anch’io ne sono stato a lungo suggestionato e l’ho ritenuta pertinente al caso. Mi sono poi, però, a ben riflettere, convinto del contrario, e cioè che quel che bisognava fare era proprio l’Italia, poiché gli italiani esistevano – e lo sapevano tutti in Italia e fuori – da secoli e secoli. Che poi si trattasse di italiani senza una completa “coscienza italiana”, perché chiusi nelle coscienze “nazionali” degli Stati preunitari e per altre varie ragioni, è un altro discorso.
Un altro discorso, dal quale esce, comunque, ribadito proprio, anche, il carattere nazionale di quegli Stati la cui struttura politica e istituzionale e la cui fisionomia civile hanno formato per secoli e secoli il concreto orizzonte non solo etico-politico, ma (direi) psicologico degli italiani di allora. Un orizzonte che si disfece in gran parte dalla fine del Settecento in poi e che, tuttavia, era così saldo che molto di esso è variamente sopravvissuto alla stessa unità del 1861. Ma, anche, un orizzonte il quale non impediva per nulla che tutti quegli Stati e i loro cittadini si sentissero e fossero sentiti come Stati italiani e come popoli italiani. Si dice che questo dell’italianità era un velo sottile che non riguardava la massa di quei popoli, e che fu questo velo sottile (ossia questa esigua consistenza di classi agiate, classi colte, aristocrazie e borghesie di vario timbro) a fare il Risorgimento e a imporre l’unità. Io non credo che fosse proprio e del tutto così. Ma, anche ammesso che così fosse, si crede, forse, che in quegli antichi Stati pre-unitari vi fosse un coinvolgimento delle masse nello Stato totale o, comunque, maggiore di quello, che viene ritenuto così esiguo, nello Stato italiano dal 1861 in poi? Chiunque, sia pure guidato soltanto da un minimo di buon senso storico, non potrà che rispondere negativamente a un tale quesito. Eppure, non per questo, il popolo della Serenissima sapeva di essere e si professava veneziano; e quelli dello Stato di Milano, di Genova, degli Stati sabaudi, dei Ducati padani, del Granducato toscano, dello Stato Pontificio e delle monarchie meridionali e insulari sapevano e facevano altrettanto (è significativa di questo l’espressione napoletana “’e fore Regno” per indicare uomini e cose straniere o le destinazioni di chi viaggiava o emigrava).
Indiscutibile, quindi, la realtà del fondamento nazionale dello Stato italiano unitario. Nulla, però, ci autorizza a dire che l’unità fosse scritta nel libro del destino degli italiani. Ve la scrisse – e, ripeto, con pieno fondamento e con una naturalezza che sembrò addirittura, senza esserlo, destino – il caso della storia europea, che irrobustì fortemente il velo (che non era affatto così sottile come si dice) della italianità da secoli in essere e portò a una più che sufficiente maturazione l’idea italiana e la consapevolezza della italianità, trasformandole nella concreta volontà politica che, ormai pienamente “nazionale”, animò il Risorgimento e i suoi protagonisti negli sforzi e nei pensieri che portarono alla fine all’Italia unita e allo Stato nazionale unitario del 1861.



IV.


In progresso di tempo mi venne poi fatto di osservare che la conoscenza dell’italiano quale lingua parlata era scarsa anche, ovviamente, negli Stati pre-unitari, senza che ciò impedisse a questi Stati di scrivere, comunicare e diffondere in italiano le loro leggi, le loro disposizioni amministrative, le loro sentenze e atti giudiziari, con un distacco, quindi, dalla prassi parlata dei rispettivi popoli non minore di quello tanto deplorato nello Stato italiano unitario. Alla discussione precedente appartiene, comunque, questo appunto, che ne fissava un punto particolare: il carattere composito della “nazione napoletana”.

Un ultimo punto da valutare potrebbe e dovrebbe essere quello del carattere composito della “nazione napoletana”. Un punto, per la verità, mai toccato, in sostanza, dagli storici del Regno e del Mezzogiorno.
Il livello al quale ci si ferma è quello dei diversi “caratteri del popolo” delle diverse province del Regno, di cui abbiamo nella cosiddetta “relazione” del Porzio al Mondejar uno dei primi, se non addirittura il primo, importante documento. Collocata su questo piano di precoce, benché rudimentale, antropologia sociale, la diversità dei caratteri popolari di ciascuna delle province del Regno rispetto a quelli di tutte le altre non assume il più generale significato che era suscettibile di assumere. Il quale più generale significato rimane poi sepolto – è vero – già nel ’500, ma ancor più nel ’6 o nel ’700, sotto la grave mora dell’idea di nazione napoletana, che è intanto maturata.
Il che è, in pratica, il risvolto ideologico di quella omologazione, anche culturale, che, preannunciata in epoca aragonese, tocca presto il vertice nel periodo spagnolo. Effetto, cioè, di questa omologazione, che è il pendant culturale dell’accentramento politico-istituzionale, a cui anche corrisponde il molteplice e cospicuo privilegiamento della capitale rispetto al Regno. Sicché il triplice binario o percorso parallelo di «formazione e definizione del concetto di “nazione napoletana”», di «accentramento politico-istituzionale» e di «monopolio politico e amministrativo, mercantile e culturale di una gigantesca [= ingigantita] capitale», forma un complesso, ma unitario processo, sulle cui varie articolazioni e sulla cui generale unitarietà non si è riflettuto abbastanza.
Ne poteva discendere, fra l’altro, e di fatti in non esigua misura discese, una più sostanziale problematicità, il cui senso si sarebbe potuto apprezzare appieno solo a grande distanza di tempo. Ed è per questa ragione che da un bel po’, ormai, alcuni storici parlano di una provincializzazione di tutte le periferie del Regno rispetto al molteplice, ma complessivo centralismo, in cui la storia napoletana, la storia del Regno, la storia del Mezzogiorno confluisce a culmina già tra ’400 e ’500, ma soprattutto con gli Spagnoli.
Si dice, di solito, che una reazione a questo centralismo si ha solo nel ’700, con la polemica delle province contro la capitale-monstre che, come dice Filangieri, è un’enorme, apoplettica testa sovrapposta a un corpo debole e rachitico, con danno sia dell’una che dell’altro. La polemica è indubbia, ed è rilevantissima nella storia del Mezzogiorno. Nella scia di questa polemica nascerà, poi, l’impronta fortemente provinciale del costituzionalismo meridionale, come si vede benissimo già nel 1820-21. E in ultimo nascerà poi anche quella rapida dissoluzione del primato napoletano nel Mezzogiorno che si avrà dopo il 1860 e che all’indomani della guerra del 1915 apparirà già completo. Anzi, nella scarsa sensibilità al problema provinciale del governo borbonico dopo il 1815 (era stato, a suo modo, più sensibile quello francese del Decennio) va anche ravvisato, a mio avviso, uno dei fili sui quali si annoda la crisi finale della monarchia.
In realtà, però, già nel ’500 e ’600 si può e si deve ravvisare una reazione provinciale al monopolio napoletano anche sul piano culturale, oltre che amministrativo ed economico (finanziario e mercantile). È vero che la dipendenza culturale delle province dalla capitale (una dipendenza che si estende a tutte le manifestazioni e gli aspetti della vita sociale) fu pressappoco totale. Ma la dipendenza non significa passività e assenza di reattività. Le espressioni di questa reattività vanno individuate e studiate. Liquidarle – come si fa – quali cultura provinciale o locale può non essere errato, ma certamente è del tutto insufficiente.
Già, ad esempio, sul piano ecclesiastico le diocesi e arcidiocesi meridionali formano dei centri di tradizione e di identità che non si sciolgono mai o molto poco dinanzi alla qualità di primate del Regno rivendicata dall’arcivescovo di Napoli. Qualche arcidiocesi – in particolare Benevento – ha tradizioni e identità che non cedono per nulla a quelle napoletane. Le sinodi diocesane procedono parallele in tutte le regioni del Regno, e non si ha mai l’impressione che un sinodo si limiti a costituirsi come fotocopia di un altro, né mi pare che le decisioni sinodali napoletane siano mai prese a modello e riprodotte nei sinodi delle altre diocesi meridionali quale modello per tutto il Regno.
Dietro i sinodi vi sono anche, ovviamente, culti e pratiche dei varii luoghi, e anche in ciò non mi pare che si possano registrare culti praticati in tutto il Regno quali culti, appunto, del Regno e non già dei singoli luoghi o diocesi. E, se si aggiunge che ogni culto postula o evoca un’agiografia, una tradizione narrativa orale o scritta, una prassi di pellegrinaggi e di celebrazioni, il punto può diventare più importante.
Non so se sia in qualche modo paradossale, certo è, però, che una facies e una considerazione più generalmente meridionale sembrano assicurarla piuttosto gli Ordini religiosi, con i loro ordinamenti provinciali, in genere comprendenti tutto il Regno, e con le loro individualità culturali e cultuali che si riflettono, perciò, sull’intera estensione del Regno. Anche per gli Ordini religiosi questo conosce, però, eccezioni quando essi sono organizzati in più province nel Regno o in province che comprendono spazi regnicoli e spazi extraregnicoli. Una considerazione su questa linea di considerazioni potrebbe utilmente, credo, integrare lo sviluppo del tema del quale parliamo.
C’è, poi, tutta la letteratura antiquaria, cronachistica, enciclopedizzante, letteraria, artistica etc., che riguarda le singole province, città, famiglie del Regno. In Tuttitalia, l’opera di geografia, storia, economia e cultura, edita dalla Sansoni fra il 1961 e il 1967 e divisa regione per regione, si ritrova già una storia della letteratura, dell’arte, dei dialetti etc. di ogni regione. Nel 1968 Sapegno e Binni raccolsero le parti letterarie dell’opera nel volume Storia letteraria delle regioni d’Italia, che può essere un riferimento al riguardo. Ma gli elementi che si possono raccogliere al riguardo – ora che con l’avvio delle Regioni nel 1970 si è intensificata l’attenzione alla loro storia e fioriscono tante iniziative al riguardo – sono certamente numerosi e andranno crescendo nel tempo.
Nella Storia del Mezzogiorno – secondo il piano che avevo preparato per la ESI (casa editrice della Storia di Napoli) – alla storia regionale doveva essere, perciò, riservato uno spazio particolare e specifico, almeno per tutti i sette o otto secoli della monarchia meridionale. Se ora cerchiamo di variare e di perfezionare quel piano, ce ne dobbiamo assolutamente ricordare. E continuo qui a parlare di regioni per le esigenze di spazio e per altre esigenze dell’editore. In realtà, dovrei, però, parlare di province, e, naturalmente, delle province dell’antico ordinamento del Regno, durato fino al 1860, perché le province attuali non corrispondono del tutto ad esse. Anzi, non vi corrispondono neppure le regioni attuali sia per le amputazioni subite dai confini storici del Mezzogiorno a favore del Lazio, sia per qualche variazione interna dovuta soprattutto a divisioni delle vecchie province e, inoltre, a qualche cessione di territori dall’una all’altra.
Sono le province vecchie ad aver costituito il quadro effettivo della vita storica delle popolazioni del Mezzogiorno da ogni punto di vista, da quello istituzionale a quello culturale; e sono le province ad avere costituito l’ambito storico-politico di cui si aveva più coscienza e di cui più si partecipava al di là dei confini della propria comunità. La nozione stessa del Regno, che certamente ha una fortissima tradizione nella coscienza e nella cultura delle genti del Mezzogiorno (si ricordi l’espressione: “’e fore Regno”, per indicare l’estero e gli stranieri), vive, in concreto, nella ben più diretta e partecipata esperienza delle province.
L’ideale, dunque, sarebbe di mantenere le antiche circoscrizioni del Mezzogiorno come delimitazione della nostra Storia nella parte che vogliamo riservare alle periferie del Regno, facendo intendere all’editore che le sue esigenze possono essere soddisfatte ancora meglio con questo taglio, e rassicurandolo sull’ampiezza complessiva di questa parte della Storia.
Naturalmente, ciò dovrebbe presupporre una trattazione a parte della storia cittadina di Napoli, parallela a quella delle singole province. In generale, la storia cittadina di Napoli finisce con il ridursi a poco più di una figura evanescente, dato l’aggio fortissimo della funzione di capitale rispetto alla fisionomia cittadina di Napoli. Io ne so qualcosa, essendomi trovato di faccia a questo problema, innanzitutto, quando ho scritto la storia della Napoli spagnola post-masanielliana. Non che sia ottimista sul problema, perché quella storia cittadina napoletana continua a essere troppo largamente assorbita dalla storia della capitale, e, quindi, de Regno. Ma più sforzi si faranno in questa direzione, e meglio ne verrà stabilita una dimensione fondamentale della storia meridionale.



V.


Com’era da attendersi, più la discussione andava avanti, più sorgevano nuovi problemi. Uno, tra i primissimi, fu quello di una distinzione fra “storia del Regno di Napoli” e “storia del Mezzogiorno”, e riguardo ad esso scrissi ciò che segue.

A me pare evidente che di un problema di distinzione della storia del Regno da quella del Mezzogiorno noi dovremo preoccuparci solo appunto, per la durata del Regno. Prima, non essendoci una unità politica del Mezzogiorno, si ha a che fare unicamente con la storia delle separate unità politiche che ne caratterizzavano la geografia politica, sicché sussiste, piuttosto, il problema dei tratti comuni o unitari che la storia del Mezzogiorno può contemplare in quei periodi. Altro problema è distinguere la specificità – se e quando c’è – della storia del Mezzogiorno all’interno delle unità politiche in cui esso si è trovato compreso, come è accaduto nell’età antica per l’ambito dell’unificazione della penisola operata da Roma e durata fino all’arrivo dei Longobardi nel VI secolo, e come è poi accaduto nell’Italia unita dopo il 1860, e come, per la verità, è accaduto pure nel primo periodo della storia della monarchia meridionale, prima del Vespro siciliano (invece, non mi preoccuperei di tale problema, o, almeno, non me ne preoccuperei troppo per il periodo ultimo della monarchia, col Regno delle Due Sicilie, perché mi pare che l’unità di questo Stato fosse una forzatura, malgrado la quale storia meridionale e storia siciliana abbiano sostanzialmente continuato a camminare fianco a fianco con scarsi condizionamenti unitari: ma dovremo controllare questa questione).
Per quanto riguarda il primo periodo della monarchia prima del Vespro e il periodo post-1860 io mi atterrei a quel che ho detto nelle Considerazioni intorno alla storia del Mezzogiorno d’Italia. Ho chiaro, però, che per il post-1860 la linea lì suggerita da me ha bisogno di molte specificazioni e sviluppi.
Manterrei fermo che la “questione meridionale” rappresenta l’unica dimensione storicamente concreta e indagabile in cui si può parlare di “storia del Mezzogiorno” nel quadro della storia italiana unitaria. Bisogna vedere, però, fino a quale punto la “questione” è vista e sentita come problema italiano, problema nazionale della giovane nazione ora costituita in Stato nazionale; e quanto, invece, è sentita come riflesso o preoccupazione di una storia chiusa; e, forse, ma è molto probabile, credo, che si debba pure vedere fino a qual punto si debba parlare non di riflesso o prosecuzione, ma di una storia interrotta, perché mi pare che si tratti di tre visioni diverse (si intende sempre riflesso, prosecuzione, interruzione come percezione che del rapporto tra storia pre-unitaria e storia unitaria del Mezzogiorno hanno coloro che scrissero del Mezzogiorno di prima e di dopo dell’unità, sia nell’ottica della “questione meridionale”, sia in altre ottiche).
Faccio anche notare come storie complessive del Regno dopo il 1860 non se ne siano scritte (salvo mio errore o ignoranza). Bisogna per questo rifarsi alle parti riservate al Mezzogiorno nelle opere di storia d’Italia o di storia settoriale (giuridica economica politica etc.). Abbondano, invece, le opere di storia locale, provinciale, regionale che si presentano sub specie di opere dedicate a particolari figure o periodi. Tanto è vero che, quando apparve la Storia del Regno di Croce, la si giudicò una novità importante anche perché forniva un quadro generale più recente della storia del Regno, di cui da tempo si avvertiva la mancanza. E chi legge la bibliografia apposta da Croce a quella Storia ha modo di constatarlo molto facilmente (le ultime storie generali del R. sono della seconda metà del Settecento).
Ciò non toglie che della storia del R. si parli molto e che su di essa si esprimano giudizi, per lo più, drastici e negativi. Ad andare a vedere, questi giudizi sono fondati proprio su quella storiografia settecentesca, e più ancora sui riformatori e illuministi napoletani di quel periodo, proseguiti e accresciuti, senza essere riveduti, dagli uomini del Risorgimento. Notevole è pure che neanche i borbonizzanti diano luogo a visioni e interpretazioni generali della storia del Regno, limitandosi per lo più, in pratica, al secondo periodo borbonico. L’unico a tentare la via di giudizi generali sulla tradizione storica del Mezzogiorno è Cenni; e non è, perciò, un caso che da una discussione con lui prenda le mosse la Storia del Croce. Gli altri che si pronunciano (sempre molto criticamente) sul passato del Regno non sono in rapporto col Cenni, che rimase sempre, se non erro, sostanzialmente, un isolato, ma con la letteratura pre-unitaria, alla quale ho accennato. Un’altra eccezione (se questo termine non è eccessivo) nello stesso senso può essere considerato il Carabellese nel suo Nord e Sud (forse, anzi senza forse più interessante per il tema che si prefisse della lunga durata del dualismo italiano che per il modo in cui svolse il suo assunto e per le sue riluttanze).
In ogni caso, poi, coloro che fecero riferimento al passato del Regno si muovevano nello spirito e secondo le convenzioni della nazione italiana, o, meglio, poiché neppure i più radicali borbonici avrebbero mai negato il carattere italiano del Mezzogiorno o la sua appartenenza al quadro generale della storia e della civiltà italiana, si muovevano nello spirito e secondo le convenzioni dello Stato nazionale unitario, al quale la storia d’Italia era approdata.
È vero che qua e là si possono notare affermazioni e riferimenti che appaiono più vicini o senz’altro da identificare con sentimenti e atteggiamenti napoletani pre-unitari. Ma nei “patrioti” (un Nitti, ad esempio, e, molto episodicamente, perfino in un Fortunato) simili atteggiamenti e sentimenti vanno visti come semplici momenti o strumenti del reale sentimento nazionale italiano, nel cui ambito nascono e vengono gestiti. Nei cripto-borbonici o nei borbonici refoulés (che – comunque – osservano, poi, appieno i modi e le forme dell’ortodossia nazional-unitaria) si tratta di movenze polemiche all’interno delle loro lotte e delle loro posizioni nel quadro politico del nuovo Stato.
Si può, inoltre, riconoscere che – dialettici, come nei “patrioti” italiani, o polemici, come nei variamente borbonizzati – quegli atteggiamenti e sentimenti possono pure dar luogo a variazioni o squarci, del discorso di tutti coloro ai quali accenniamo, animati da autentica malinconia o nostalgia storica e da un nobile pathos dell’immaginazione storica.
In ogni caso, però, il modello di storia meridionale di gran lunga prevalente – per non dire senza pratiche alternative – è, più o meno, sempre quello fissato tra la fine del Seicento e la metà dell’Ottocento: una grande storia del Mezzogiorno o della sua monarchia, minata dall’anarchia feudale e spenta o compressa e rigettata indietro sotto gli Spagnoli, che sembra riprendersi nella seconda metà del Settecento, ma viene poi soffocata dalla reazione del secondo periodo borbonico.
Questa è, certo, una linea troppo scheletrica, ma coglie l’essenziale di quella vicenda storiografica. Da essa derivava pure, come si sa, la linea meridionalistica che riportava l’arretratezza del Mezzogiorno, ritenuto un paese fin troppo favorito dalla natura, al plurisecolare malgoverno degli stranieri prima e della monarchia restaurata poi, che aveva nella lunga durata del feudalesimo e nelle sue sopravvivenze il contrassegno storicamente maggiore della sua negatività.
Poi Fortunato cominciò, come è noto, a scuotere l’idea del paese favorito dalla natura. Solo col Croce, però, fu avviata una nuova storiografia del Mezzogiorno, che, malgrado tutte le critiche da essa sollevate, ha segnato, nei suoi varii motivi e nelle sue molte (e tutt’altro che concordi) voci, il corso della storiografia posteriore, opponendosi, fra l’altro, anche a tutta la corrente storiografica, che alla storia del Mezzogiorno guardava come una pagina di storia italiana, soggetta, come tutte le altre pagine della storia italiana nelle sue molteplici espressioni regionali, a un’unica logica: la logica di una storia predestinata ab initio alla finale conclusione unitaria, per cui ogni sua tappa ha un significato eminente, dominante, e cioè di costituire un progressivo avvicinamento alla meta della inevitabile unità.
Come credo che si veda da tutto ciò, il problema di distinguere fra i secoli XIV-XIX (o XII-XIX, se si vogliono comprendere i periodi normanno e svevo) storia del Mezzogiorno e storia del Regno richiama una più ampia problematica storica, nella quale può e dev’essere inquadrato. Per quei secoli, poi, il problema potrebbe anche, ipoteticamente, porsi come un problema di distinzione fra una dimensione di storia sociale e culturale e una dimensione di storia politica e istituzionale. È un’ipotesi percorribile, ma io sono molto contrario alla “storia a cassettini”, così come sono contrario alla storia enciclopedica, ossia che comprenda ed esaurisca tutti gli aspetti o forme del moto storico. Per ora, mi fermerei a rilevare il problema e a proporre una migliore delibazione.



VI.


Non saprei dire come, ma a un certo punto venne anche in discussione la mia “Intervista sulla storia di Napoli” (Bari, Laterza, 1978), anch’essa recensita molto positivamente da Romeo (“Il Giornale” 10 marzo 1978), tranne che per il capitolo iniziale.

Ammetto senza difficoltà che nel mio giudizio sui “disoccupati organizzati” mi sono sbagliato.
Voglio anche spiegare, però, il senso di quel che dissi nell’Intervista (e che fu l’unico motivo di essa suggerito da Allum: tutto il resto, domande e risposte, è – come ben sapete – farina del mio sacco).
Quando il fenomeno si delineò, parve non soltanto a me, ma a una serie di amici di qualche valore e competenza nelle cose napoletane, passate e presenti, che effettivamente vi fosse un motivo nuovo in quel movimento che appariva fresco e spontaneo nel suo sorgere e nel suo porsi come attore consapevole e per nulla elementare e primitivo, delle vicende di Napoli odierna.
Il punto essenziale era questo: nella tradizione napoletana e meridionale il primo, massimo e “naturale” (naturalissimo) modo di rimediare al problema basilare, centrale e mai del tutto risolto del lavoro era quello di rivolgersi a un molto terreno, molto terrestre, molto specifico e concreto «santo in paradiso», ritenuto in grado di fare il miracolo di fornire, come sappiamo, non tanto, e semplicemente un lavoro, ma un posto: denominazione magica e mistica, che dava concretezza di vita vissuta alla fede riposta nel «santo» e alla speranza, per cui si era rivolti a lui.
Poi accadeva spesso che il miracolo avesse luogo, con la esultante letizia degli interessati. Ma anche con l’invidia o altri sentimenti non lieti di chi aveva nutrito uguale, o anche più fede e speranza, ma non aveva ricevuto la grazia della carità miracolosa. E peraltro, anche il solo nutrire fede e speranza aiutava a vivere, e ben pochi o nessuno capiva che su una robusta dose di fede e speranza che presente nei ceti più diseredati si fondava largamente o, comunque, si giovava il potere sociale dei molti «santi», autentici e comprovati o proclamatisi e presunti tali, che giravano nella società napoletana.
Con i “disoccupati organizzati” il quadro mutava. La domanda di occupazione si trasformava da molecolare e disorganica in collettiva e organizzata. Non era più una grazia che si domandava, ma un diritto che si rivendicava. Il modo di domandare si trasformava da privato e riservato in pubblico e ostentato.
Non era una grande novità? È vero che fino ad allora questi momenti collettivi, organizzati, pubblici si erano manifestati attraverso i partiti e, molto meno, i sindacati. Ma, anche a prescindere dalla qualità di tali canali, sempre molto dubbia, e spesso deteriore, a Napoli e nel Mezzogiorno, c’era il fatto che verso i partiti e i sindacati per lo specifico punto della loro capacità ed equità come canali occupazionali si era diffusa una notevole sfiducia; e perciò si usciva fuori del loro quadro per cercare canali nuovi.
Uno degli elementi paradossali di questa congiuntura era che, nello stesso tempo, partiti e sindacati, mentre continuavano nel loro ruolo quali canali occupazionali, sul quale non apparivano più soddisfacenti o lo apparivano sempre meno, riscuotevano, per altro verso, una molto più generale adesione quali forze rappresentative e trasformatrici della società. In nessun modo era possibile parlare, perciò, di una loro crisi. Tutt’altro! A Napoli si produsse allora un inatteso, ma molto importante cambio di direzione politico-amministrativa che dura ancora, anche se molto indebolita. E, di conseguenza, che si uscisse fuori da partiti e sindacati per “organizzare i disoccupati” ben poteva rafforzare l’impressione che si fosse di fronte a una svolta originale e positiva della vita pubblica della città.
Poi non ci volle molto a capire che non era così. Nel “movimento” emersero subito una serie di capi e capetti, che facevano tutta evidenza solo il gioco loro e dei loro accoliti. Partiti e sindacati misero ben presto i loro tentacoli sul “movimento” e sulle sue richieste e aspettative, «ci marciarono» parecchio, aggregandolo, clientelizzandolo o disgregandolo. Il “movimento” stesso – inizialmente presentatosi come una grande e pacifica azione di presenza e di rivendicazione di gruppi di cittadini che chiedevano il riconoscimento di un loro diritto – degenerò ben presto in azioni violente, disordinate, turbolente per principio, speso vandaliche, che ne allontanarono anche chi aveva più simpatizzato per esso.
Oggi tutto è chiaro. Il “movimento”si è risolto in una serie di clan parapartitici o antipartitici, in pieno accordo con l’estremismo istituzionale imperversante da anni etc. etc. Io stesso, se dovessi rifare l’Intervista, non ce lo metterei più, per niente, quel capitolo iniziale, o lo formulerei in tutt’altro modo.
Ci fu chi vide tutto prima? Va bene. Accade sempre che qualcuno veda prima e altri dopo. Ma quanto a dire che indulgere sul punto dei “disoccupati organizzati” fosse un atto di resa a quanto imponeva la retorica (interessata) di una parte politica e sociale, o – peggio – un atto di conformismo opportunistico, ce ne corre; e io non lo potrò mai accettare, non perché non riconosco un errore sempre più evidente, ma perché la vera storia di quel capitolo dell’Intervista è la storia che ho narrato qui.



VII.


Un altro punto particolare emerse col ricorrente discorso sulla dimensione ideologica della storia alla cui pubblicazione ci accingevamo. Eravamo allora già nel pieno di quella condanna della “ideologia” considerata come elemento surrettizio e distorcente in generale, che raggiunse poi i vertici allora non previsti di una totale demonizzazione. Alcune delle cose allora dette mi spinsero a scrivere l’appunto che segue.

Debbo davvero fare alcune osservazioni, e non per pignoleria o per altro, ma solo perché mi pare essenziale, su quel che alcuni di noi hanno detto a proposito della ideologia.
Anche per me la considerazione dell’elemento ideologico appare imprescindibile. Mi sembra, però, anche indispensabile avere un’idea chiara su ciò che si debba intendere per ideologia e, soprattutto sul ruolo che essa occupa nello svolgimento storico.
Non posso, in sostanza, convenire su nessuna posizione per la quale l’ideologia sarebbe un elemento surrettizio, sopravvenente o autonomo del processo storico: una specie di intruso, insomma, più o meno potente o prepotente. Tanto meno, poi, posso accettare che l’ideologia sia o possa essere l’elemento motore del processo.
Per questo secondo aspetto, l’esempio che è stato fatto della formazione dello Stato di Israele, nato dalla ideologia sionista che – è stato detto, in pratica – ha mosso le montagne, non va affatto bene al caso in questione. La proposizione è da rovesciare. Fu la formazione di gruppi israeliani che avevano maturato coscienza e capacità di classe dirigente e di (per quanto esigua) forza politica a dare vigore e a diffondere l’ideologia sionista. Il riferimento da far valere a questo riguardo non è il fantomatico protagonismo dell’ideologia. Il riferimento dev’essere alla storia europea dell’800. La trionfale affermazione del principio nazionale che dai maggiori centri europei portò alla diffusione del movimento nazionale anche nei paesi minori (che talora, però, precedettero: si pensi alla Grecia): ecco l’elemento determinante del formarsi del moto nazionale sionistico, e, quindi, del sionismo nel suo complesso, che fuori di tale contesto è difficilmente pensabile e comprensibile.
È, a ben vedere, la questione di tanti altri momenti e problemi storici. È stato il marxismo, Marx a suscitare il movimento operaio e socialista dell’800-900, o è stato questo movimento nel suo lento formarsi iniziale (e, soprattutto, nelle condizioni sociali che lo sollecitarono) a determinare il trionfale successo ideologico del marxismo in questi due secoli?
L’ideologia non ha parte, allora, nel movimento storico? Ne è un di più, un ornamento, un estraneo ospitato per buona volontà? Neppure per sogno. L’ideologia è fondamentale da ogni punto di vista, ed è per questo motivo che io rifiuto anche l’altro dei due punti sopra indicati.
L’ideologia fa organicamente parte del movimento storico non come un intruso, né come un estraneo sopravveniente, né come il motore di tutto. Ne fa parte semplicemente come un protagonista fra gli altri, coessenziale, contemporaneo e coagente, a volte in più rilevata posizione, altre volte in meno rilevata posizione, e a volte nella piena consapevolezza dei suoi portatori, altre volte in una loro minore consapevolezza.
Pensare un periodo storico o un processo storico o una realtà storica di cui essa non sia parte organica nel senso sopradetto significa pensare una storia mutilata di uno dei suoi elementi costitutivi; e la rappresentazioni storiografiche ispirate a un tale modo di pensare sono di per sé insufficienti e gravemente carenti.
Il caso dell’Italia è, al riguardo, certamente esemplare, ma non è meno conforme a quanto ho detto per la storia napoletana.
È indubbio che la coscienza storico-politica della napoletanità si sia andata formando sulla base della personalità geopolitica del Regno. Il permanere plurisecolare dello stesso quadro istituzionale e territoriale va certamente considerato un fattore primario nella genesi della personalità storico-politica come coscienza non solo delle classi superiori del Regno.
È sintomatico che, per quanto agitata fosse la vita interna del Regno, e per quanto spesso in crisi e mal ridotto il potere regio, mai vi fu dall’interno una spinta a una divisione del Regno o un accenno in tal senso quando qualcosa si ebbe di questo genere, fu dovuto a forze e potenze esterne come per la divisione del Regno tra Ferdinando d’Aragona e Luigi XII; e fu piuttosto un’eccezione. Una spartizione del Regno fra i potentati interni non fu accennata neppure nelle fiere lotte di famiglia nel tempo dei sovrani angioini, che furono sempre lotte dinastiche per il potere su tutto il Regno.
Non meno significativo è che, in tanta agitazione aristocratica e feudale nei riguardi dei sovrani volta a volta regnanti, nessuno dei Grandi del Regno rivendicò mai la Corona, se non faceva parte della famiglia reale; nessuna delle massime famiglie del Regno si pose mai come antagonista di quella reale quanto al diritto al trono. È impossibile non cogliere il risvolto ideologico di questo rispetto, di questa superiore considerazione della regalità. La Corona, vertice dello Stato e del potere, non è disputabile. Ciò di cui i Grandi, i più potenti disputano e contestano alla monarchia è il rapporto fra potere regio e potere baronale. Ma, anche se fosse ridotto a un’ombra, il rango del re resterebbe al di fuori di ogni contestazione. Se il Regno è il Regno, il re dev’essere il re. Ecco un elemento che generalmente sfugge agli storici odierni del Regno.
Il punto strategico della questione sta, a questo punto, in un quesito che si potrebbe formulare così: quand’è (e come) che questa coscienza geopolitica della personalità storico-politica quale ragione fondante e caratterizzante, quindi, anche della personalità storico-politica dei regnicoli, si trasforma in consapevolezza politica soggettiva e in coscienza civile? e quali sono gli attori e i protagonisti, le circostanze e le forme di una tale trasformazione?
Sono interrogativi ancora anch’essi assenti o ignorati o marginali nella storiografia napoletana, se si eccettua il Croce che attore e protagonista di quella trasformazione fa il ceto intellettuale in epoca relativamente tardiva: cioè, se interpreto bene, dalla ripresa culturale nella seconda metà del Seicento, che egli sottolinea con molta cura. Io non posso non riconoscere il valore di queste indicazioni, ma non le trovo del tutto persuasive. Anzi, per la verità, le ritengo fuori strada.
Sul primo punto non credo di dover ripetere qui le mie critiche al primato o, anzi, esclusivismo degli intellettuali nel rappresentare la nazione napoletana e nel formare la coscienza culturale e civile. Quanto al secondo punto, pur condividendo con Croce l’indicazione del secondo Seicento come un momento di svolta e come l’inizio di una nuova fase storica, in particolare appunto, nel campo culturale, non posso convenire sulla tesi generale.
Trovo, infatti, difficile accettare che la seconda metà del Seicento non sia collegata organicamente con tutto lo svolgimento precedente. Forse, più ancora che in Croce è nella tradizione crociana che il secondo Seicento venga considerato un nuovo inizio (penso, ad esempio, a Cortese e, in larga parte, anche a Nicolini), ma, comunque anche in Croce si tratta di una ripartenza su basi del tutto nuove. E non voglio affatto neppure negare che per quanto riguarda la storia intellettuale del Mezzogiorno questo si possa più o meno largamente affermare. Voglio soltanto dire che per quanto riguarda la storia politica, e in particolare della coscienza politica meridionale, non è così.
Certo, ha un enorme valore il fatto che la prima Storia del Regno sia stata scritta da un non meridionale, qual era Pandolfo Collenuccio. Ma mi chiedo se una tale Storia avrebbe potuto essere scritta se non fosse già stata corrente la nozione del Regno come una tradizione politica nel più pieno senso del termine e ormai del tutto consolidata. E dove poteva essersi avuta la genesi di questa nazione se non nel Regno stesso?
Secondo me, è alquanto superficiale, e, comunque, irricevibile che, come è stato detto qui, il Regno di Napoli come realtà e tradizione politica sia stato scoperto o inventato o definito e rifinito da forestieri, non dai regnicoli, e ben più che dai regnicoli. A me pare un’assurdità anche metodologica.
Perché dico: metodologica? Penso alla nota – e giustissima (e, detto per inciso, ortodossamente crociana) – convinzione per cui non è soltanto o per eccellenza nei libri di poesia o di filosofia o di altro che vanno unicamente ricercate la poesia, la filosofia, la morale o altro. Allo stesso modo – mi pare – non è solo nei lavori storiografici (a partire dalle cronache) che va cercata la storiografia. Nel caso del Mezzogiorno questo è particolarmente valido in quanto in età normanna e sveva si era già avuta una notevole stagione storiografica, che aveva esplicitamente a suo oggetto il Regno (allora Regno di Sicilia). In epoca angioina questa stagione non trova seguito? Io esiterei a dirlo. Dirci piuttosto che trova il seguito consentito dalle agitatissime vicende interne del Regno (ormai di Napoli). Lotte fra sovrani e baroni, lotte fra pretendenti al trono, lotte interne alla famiglia reale, lotte contro mene e intrusioni o pretese dall’esterno concorrono a dare alle cronache quotidiane del Regno un andamento spezzato, tortuoso, involutivo, esasperante come un vizioso andare e venire fra le medesime sponde, gli stessi viottoli e vicoli ciechi, con l’apparenza dominante che plus ça change, plus c’est la même chose.
Tale è la parvenza cronachistica della storia napoletana, e conforme è l’andamento delle memorie storiche napoletane nella (non ricca: questo è vero, ma andrebbe indagato a meglio) serie delle cronache che ce ne sono rimaste.
Come, però, non è vero affatto – ed è questo il punto principalissimo – che tutto rimanga sempre allo stesso punto, così non è vero che nella memoria storiografica del tempo non si abbia alcuna manifestazione o sedimentazione di una coscienza storico-politica. Esigua, frammentaria, contraddittoria o impolitica quanto si voglia, manifestazione e sedimentazione vi si ritrovano di sicuro, e bisogna intenderne bene il carattere e il significato.
A me sembra che il dato essenziale che in queste fonti cronachistiche o di altro tipo si impone – dal punto di vista che ci interessa – è che nessuno mai e in alcun modo mette in dubbio o dimentichi che tutto quel caos, tutte quelle lotte, tutti quei giri viziosi e andare e venire sono il caos, le lotte e le vicende del Regno. Si dà, cioè, sempre per presupposto – esplicito o implicito che sia – che c’è un’entità storica e politica, giuridica e civile in cui quella storia convulsa si produce e si sviluppa, e questa cornice istituzionale, questa entità politica e civile indiscutibile – e, di fatto, effettivamente, mai discussa come tale – è il Regno (ormai, come ho detto, di Napoli).
Napoletano è il Regno, napoletani sono i sovrani o pretendenti al trono, napoletani i baroni e gli altri eventuali protagonisti (ad esempio, le città) che lottano per l’una e l’altra delle parti in campo, contro i napoletani o a loro favore intervengono le presenze esterne. E che questo non sia una generalizzazione eccedente è provato, appunto, dalla finale affermazione di Regno di Napoli per indicare questa entità storico-politica. Non più, dunque, Regno di Sicilia citra Pharum, né Regno di Apulia, e tutto indica che questa mutazione onomastica non viene dall’esterno, ma è un’abbastanza rapida scelta che viene dall’interno.
La parte del nome e della relativa scelta nel corso di un processo di autoidentificazione non ha bisogno di essere sottolineata; ed è certo che vi si deve ravvisare uno dei primi elementi, anche in ordine cronologico, della nascente coscienza della napoletanità.
Qui si ha, tuttavia, una dialettica che non sembra meno importante: la posizione, cioè, delle dinastie regnanti rispetto al paese. Tutte straniere, ma, in effetti, in un modo o un altro, e in varia misura, identificatesi nel Regno. Lasciamo il Regno di Sicilia. Dopo, l’estraneità degli Angiò è chiara anche ai loro fautori, mentre essi stessi continuano a considerarsi innanzitutto principi della casa reale francese. Solo con Giovanna I si ha una napoletanizzazione dinastica effettiva, o, meglio, l’inizio di tale napoletanizzazione. Poi con Alfonso d’Aragona il problema si riproduce per appianarsi a breve termine col regno di Ferdinando I. Il complesso rapporto tra dinastia e paese non è mai stato esaminato ex professo; eppure, è un iter fondamentale. Le napoletanizzazione dei sovrani significa che il Regno ha ormai acquisito una personalità tale da imporsi come elemento di identificazione anche ai suoi dinasti.
Come questo si traduca in una documentazione storicamente apprezzabile non mi sento per ora di dire. Nella Storia del Regno che ho cominciato a preparare da qualche anno per la mia Storia d’Italia dell’UTET vorrei in qualche modo toccare questo problema: cronache, legislazione angioina e aragonese, letteratura cultura e popolare, arti figurative dovrebbero fornire qualche elemento al riguardo. Penso poi anche al linguaggio delle cancellerie sia nelle relative corrispondenze e istruzioni, sia nei trattati interstatali, sia nella concessione di privilegi, immunità e altro.
Quando Collenuccio scrive, tutto questo è già dietro le spalle sue e del Regno e forma una diffusa communis opinio sulla natura e sulla genesi del Regno e sui loro leite motiven. Collenuccio, insomma, non parte da zero, così come non nasce da zero il suo aspro giudizio sul paese, grande per le misure del tempo, e vieppiù in Italia, ma riottoso e fragile perché è un organismo politico, il cui equilibrio interno è minato alla radice dalla prepotenza e indisciplina dei baroni e dalla debole capacità di fronteggiarli del potere regio: il giudizio sulla «inciviltà» della classe baronale napoletana che fu proprio, come si sa dal Machiavelli, che certo conosceva il Collenuccio.
Tutto questo progresso è rimesso largamente in crisi con la caduta del Regno nel 1501 e il successivo avvento della dinastia asburgica. I nuovi sovrani furono sempre riconosciuti come sovrani legittimi, ma non altrettanto come sovrani napoletani di Napoli. Occorsero più di due secoli perché si avesse un “re nazionale”: il che fu con Carlo di Borbone; e anche dopo di allora occorse un po’ di tempo perché si avesse l’idea di un re proprio, come fu con Ferdinando e col definitivo distacco della corona napoletana da ogni interferenza con quella spagnola. E – cosa molto significativa – questa percezione di un re e di un regno nazionali furono paradossalmente rafforzati (a mio avviso, anche se nessuno lo nota) dall’unione di questa corona con quella siciliana: non nacque infatti nessuna coscienza di una “duplice monarchia”, e i due reami del Sud rimasero del tutto separati formalmente, nella comune casa dello stesso sovrano.
Quei due secoli non furono, però, affatto due secoli perduti per la storia civile del Regno. Anche a Giannone non si arriva per caso, e l’enorme forza di novità della sua Storia non nasce dalla subitanea invenzione di un dramma storico nazionale: nasce dalla esperienza politica e sociale, culturale e istituzionale di quei due secoli intercorsi. E una prima guida a ciò ce la dà precisamente Giannone stesso, ripercorrendo quella storia del Regno, “civile“, e non già politica nel senso banale e corrente del termine che egli promette fin dall’inizio e traduce nel titolo del suo magnum opus. La storia dei grandi corpi istituzionali, delle personalità che li rappresentarono e li presiedettero, dei rapporti di classe che ne erano alla base, dei relativi sconvolgimenti o sviluppi, dell’antagonismo con la Chiesa quale elemento fondativo della personalità del Regno, e di varii elementi di solito poco apprezzati. Ed è perciò che nel mio Aspetti dell’Illuminismo ho citato da Eleonora Pimentel il suo riconoscimento di G. come “quasi” fondatore di una nuova nazione. Come poi meglio spiegherò, parlando anche del ruolo che nella sua “storia civile” egli assegna agli intellettuali ben prima di quando Croce li vede emergere come protagonisti della nostra storia nazionale.



VIII.


Tra le carte superstiti di quei miei appunti figurano anche queste, relative al problema, del quale pure discutemmo, circa il “terminus ad quem” da adottare dal punto di vista di quel concetto di “nazione napoletana” che avevamo deciso di avere come punto di riferimento base.

La formula di Romeo – “dalla nazione napoletana alla questione meridionale” – io non posso che sottoscriverla appieno. È, infatti, né più né meno che il succo di ciò che mi è parso affermare in chiusura delle mie Considerazioni intorno alla storia del mezzogiorno d’Italia.
Lì io esaminavo, sia pure in breve, il problema riguardante «la possibilità di una storia del Mezzogiorno d’Italia dopo l’unificazione italiana»: e concludevo, in pratica, che la storia della questione meridionale offre una tale possibilità, purché la si cerchi e la si individui come possibilità «che la stessa storia d’Italia nel secolo trascorso dall’unità ad oggi ci offre».
Rinvio, quindi, alle argomentazioni che ho sviluppato in quelle Considerazioni per il sostegno di una tale affermazione. Qui mi provo ad aggiungere qualche ulteriore elemento, frutto del quasi ventennio trascorso da quelle Considerazioni ad oggi.
Si tratta, in primo luogo, della lunga durata della fin troppo famosa “questione” che riguarda il Mezzogiorno. Se si esclude che quella del 1860 sia stata la “conquista piemontese” di un Mezzogiorno violentato nella sua storica personalità e autonomia; se si ritiene, invece, che del 1860 (e, quindi, del moto risorgimentale unitario) il Mezzogiorno non sia stato puramente e semplicemente una vittima, ma, al contrario, benché non nella maggioranza della sua classe politico-amministrativa e delle sue classi dirigenti, un attivo protagonista e fautore, allora quella che Fortunato ai suoi tempi e recentemente Pasquale Saraceno hanno definito «mancata unificazione italiana» sul piano economico deve assumere un significato specifico, che occorre chiarire. E alla stessa osservazione si giunge anche se non si ritiene che la storia unitaria della nuova Italia nata dal Risorgimento sia stata ispirata dal costante proposito di considerare e trattare il Mezzogiorno come una “colonia interna”.
Che il 1860 dovesse sconvolgere tradizioni, prassi, equilibri, interessi della società meridionale quale risultava nel suo assetto dalla Restaurazione in poi, era postulato da tutti i fautori dell’unità italiana, e – innanzitutto e soprattutto: non lo si sottolineerà mai abbastanza – dai suoi fautori meridionali. Lo stesso, del resto, ci si proponeva di fare negli Stati del Papa e in altre parti della penisola. Si trattava di fare una “nuova Italia” seguendo i principii e i criteri del liberalismo e della democrazia moderna (la divisione fra i liberali e i democratici era di non piccolo rilievo sui problemi istituzionali, politici, sociali, economici, culturali del nuovo Stato unitario, ma non toccava minimamente la loro comune convinzione della necessità di un profondo rinnovamento della realtà italiana).
Su questa linea si era messo, fin dal 1848 il Piemonte sabaudo, e appunto per questo e per il conseguente orientamento a fare altrettanto poteva sembrare che l’unificazione comportasse anche una “piemontesizzazione”; ed è solo in questo senso del tutto particolare che quel riferimento al Piemonte può essere ammesso: il Piemonte, cioè, ancor prima che guida, e ancor più che guida, come “modello italiano” della nuova Italia (ma senza neppure dimenticare che la Torino degli anni ’50, meta di tutti i principali emigrati politici ed esiliati delle altre parti d’Italia, o quasi tutti, fornì già una concreta anticipazione di quella che sarebbe stata la futura classe dirigente e politica nei primi decennii di quella nuova Italia).
Il Mezzogiorno borbonico era nel 1860 molto lontano da questo modello? È davvero difficile, a mio parere, negarlo. E ciò specialmente se si intende che il modello piemontese non era solo un modello politico-istituzionale, bensì anche un più generale modello di riforma e di sviluppo economico e sociale.
Comunque sia di ciò, il certo è che la trasformazione etico-politica, premessa del modello politico-istituzionale adottato e ad esso intimamente connessa, non vi fu in misura sufficiente, anzi vi fu in misura alquanto scarsa nel Mezzogiorno. Gli strumenti operativi dello Stato nazional-liberale sorto nel 1861 che potevano essere più determinanti ai fini di una tale maturazione etico-politica (gli strumenti costituiti dall’istruzione obbligatoria a scala nazionale, il servizio militare, la prassi del regime parlamentare, riti e cerimonie del nuovo regime, l’influenza conformatrice dell’ortodossia politica richiesta dal nuovo regime nel linguaggio e negli atteggiamenti pubblici…) operarono in misura e con efficacia ridotta sia per una certa debolezza dell’impulso impresso dal centro alla loro azione, sia per le resistenze dell’ambiente. Per quanto debole (relativamente parlando) fosse quell’impulso, e per quanto forti fossero quelle resistenze, mi sembra indubbio, però, che il Mezzogiorno del 1915 fosse e si sentisse molto più italiano che nel 1861. Allora l’italianità era stata una nozione e un sentire delle classi alte, colte, agiate, con riflessi nelle classi medie più ampi di quanto non si voglia o non si usi credere, mentre i riflessi nelle classi popolari furono certamente alquanto scarsi e, nella misura in cui vi furono, erano probabilmente dovuti in massima parte all’influenza sociale e culturale delle classi alte. Nel 1915 il panorama offerto dall’italianità nel Mezzogiorno era certissimamente di gran lunga più ricco, e lo si potrebbe dimostrare con numerosi elementi e indizi (professione di italianità degli emigrati e volontari dall’emigrazione per la “grande guerra”, per esempio). Si rimaneva lontani, certo, dalla totalità, ma rispetto al punto di partenza l’avanzata dell’italianità era stata, indubbiamente, ragguardevole al punto da far ritenere che tra “meridionale” e “italiano”, al livello più generale, non vi fosse, ormai, più distinzione.
Anzi, con quello che mi sembra un paradossale rovesciamento di posizioni, se era stata una minoranza a sostenere e praticare fino al 1861 l’italianità, fu una minoranza – e una minoranza dello stesso tipo culturale e sociale – a tener viva dopo il 1861 la nozione di Mezzogiorno e a coltivare lo studio e a promuovere la causa della realtà meridionale quale si era ritrovata nell’Italia unita. La “questione meridionale” fu la forma che allora assunse questa permanenza di un senso della meridionalità, distinta nell’insieme dell’italianità, anche se organicamente correlata ad essa. Il nostalgismo borbonico, il rivendicazionismo napoletano, la loro larga professione a livello borghese, ma anche popolare, sarebbero sopravvenuti molto più tardi, dopo che nel periodo fascista il senso dell’italianità era diventato un’ortodossia totalitaria ed era stato imposto molto al di là di prima, e posteriori sono, quindi, anche le contestazioni dell’Italia unita in nome di una realtà meridionale rappresentata nei termini più rosei, come si è cominciato a vedere negli ultimi anni. Tuttavia, già nella discussione meridionalistica si affacciarono chiaramente ed energicamente i concetti della “conquista piemontese” e della “colonia interna”, mentre per la cultura della sinistra post-risorgimentale l’identificazione o equazione Mezzogiorno=contadini favorì anch’essa la permanenza di una peculiarità meridionale non risolta per nulla nell’italianità.
Una caratterizzazione meridionale anche più forte si sviluppò sul piano economico e sociale per effetto della ben diversa geografia economica e sociale che fece parlare già nel primo ventennio unitario di “questione meridionale” su questo piano, adottando, come si sa, la definizione data con riferimento al brigantaggio per il problema del dualismo italiano, nel quale il Mezzogiorno si trovò a rappresentare la peior pars.
Il problema potrebbe, quindi essere, a mio parere, formulato così: possono la realtà materiale della questione meridionale e l’elaborazione e la discussione culturale che ne fece il meridionalismo essere assunte come linee concrete e probanti di una storia meridionale specifica e distinta dopo il 1861, sia pure nell’ambito della storia nazionale unitaria dell’Italia avviatasi in quell’anno?
È dalla risposta a questo interrogativo che dipende il pieno, possibile senso della formula suggerita da Romeo. Nelle mie Considerazioni a quell’interrogativo io risposi affermativamente, come ho già detto. Riconosco, però, che quella era una risposta di principio e di massima. Per dare ad essa lo spessore dovuto per assumerla come una effettiva linea di analisi e di interpretazione storiografica occorre sostanziarla con un forte lavoro di ricerca sulla cultura storica e politica dell’Italia unita, in parallelo, ma non necessariamente in congiunzione, con un analogo lavoro di ricerca sui tratti della storia economica e sociale del Mezzogiorno nell’unità italiana che possono essere più significativi per la questione che ci poniamo. Né – beninteso – basterà starsi alla cultura storica e politica, perché sarà necessario allargare lo spettro della ricerca a tutta la cultura e alla vita morale del periodo considerato per cercare di cavare qualche ragno dal buco, e quindi, non solo la “cultura alta”: non solo Fortunato o Salvemini, ma anche un Ferdinando Russo, tanto per dire.



Fin qui le carte da me ritrovate, e che sono state vivamente richiamate alla mia memoria (anche emotiva) sia da un casuale ritrovamento che da frequenti, stimolanti conversazioni con Aurelio Musi, che già fra il 2013 e il 2014 ha intrapreso un ampio lavoro sul tema della “nazione napoletana” e lo ha, a mio parere, felicemente avviato, con una scelta che mi pare da salutare con favore in una stagione storiografica poco propensa a certi temi, e ancor più se sono di ampio respiro.
Gli appunti qui riprodotti sono stati, ovviamente, lasciati così com’erano, tranne qualcosa di assolutamente irrilevante (qualche virgola o punto e virgola o parentesi, qualche “lapsus calami”, qualche evidente salto di parola: in tutto pochissimi casi). Essi risentono, quindi, della implicita oralità a cui erano destinati per le discussioni alle quali servivano. Per la mia personale attività di studio della storia napoletana, ma non soltanto di questa storia, essi furono utilissimi, poiché rappresentarono un momento particolarmente sentito e vissuto nel mio pensare ed elaborare idee, giudizi, orientamenti, canoni e tutto quanto serve e ferve nell’incubatrice del lavoro storico. In varia prospettiva avevo già toccato più volte il tema della nazione quale elemento portante della storia europea, culminato nella sua centralità in tutto il quadro storico dell’Europa post-napoleonica almeno fino alla seconda guerra mondiale, poi discusso fin quasi a una radicale “damnatio”, ma, in effetti, ancora attivissimo e, anzi, estesosi fra il XIX e il XX secolo. Ne avevo, infatti, trattato riguardo all’Italia in varii scritti di storia italiana a partire dal volume “L’Italia come problema storiografico” (Torino, Utet, 1979), riprendendo poi il tema nei miei molti studi di storia del Risorgimento e dell’Italia unita (“L’Italia nuova. Per la storia del Risorgimento e dell’Italia unita”, 7 voll., il VII in corso di pubblicazione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011-2015). Ne ho poi trattato anche gli aspetti e gli sviluppi teorici, ideologici e storici a livello globale, nella voce “Nazione” della “Enciclopedia del Novecento. Terzo Supplemento” (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. II, 1998, pp. 309-334), che continuava e aggiornava la stessa voce redatta da Rosario Romeo nella stessa “Enciclopedia” (vol. IV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1979, pp. 525-538).
Il punto specifico della “nazione napoletana” non nasceva, dunque, per me come tema storico particolare, bensì in una visione europea e più che europea del problema; e, per quanto riguarda il Mezzogiorno, ne avevo scritto, come si vede anche da questi appunti, più volte, tra il citato volume “Mezzogiorno medievale e moderno” del 1965, e quello del 1982, “L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d‘Italia” (Milano, Mondadori), coevo delle discussioni qui rievocate. Ugualmente, in vario modo ne trattai in successivi volumi di storia napoletana e meridionale, e in particolare in “Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo. Secoli XVI-XVII” (Torino, Einaudi, 1994); e ne “‘La filosofia in soccorso de’ governi’. La cultura napoletana del Settecento” (Napoli, Guida, 1989). Tutto è confluito poi nella mia “Storia del Regno di Napoli” (6 voll., Torino, Utet, 2006-2011), in cui i temi degli appunti sono ripresi e fusi con tutti gli altri ai quali ricerche e riflessioni mi avevano portato nella stessa e in altre materie, nelle stessa e in altre prospettive. Una “Storia” che neppur essa ha significato, pur ampia com’è, un approdo totale e definitivo: piuttosto, un giro di boa per riprendere e continuare, finché durerà, una navigazione che non è mai stata di diporto o turismo storiografico.
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