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Tommaso Cornelio nella Napoli degli Investiganti
di Antonio Borrelli
Diversamente da altri celebri consessi coevi, come le Accademie dei Lincei (1603) e del Cimento (1657), caratterizzati al loro interno da un clima di riservatezza quasi iniziatico, l’Accademia degli Investiganti, nata formalmente nell’autunno del 1663, si costituì per svolgere una funzione direttamente pubblica, spesso in competizione con le istituzioni ufficiali. I suoi soci sfoltirono il più possibile i rituali tipici delle accademie secentesche e ne limitarono sensibilmente lo spirito elitario. Non intesero discutere di scienza nell’ovattata atmosfera assicurata dal mecenate di turno, in un ambiente isolato dai problemi della vita reale, ma dedicarsi proprio a questi problemi, compresa la gestione della cosa pubblica, grazie alla “nuova scienza”, legata soprattutto ai nomi di Bacone, Galileo e Cartesio e alle dottrine atomistiche. Vollero, per così dire, sporcarsi le mani, uscire dai palazzi, farsi conoscere; convincere le persone che la “nuova scienza” non solo era vera nei suoi fondamenti teorici e nelle sue applicazioni pratiche, ma anche utile all’uomo e alla società. Si trattò dunque di creare un gruppo solidale e coeso, pronto a fronteggiare gli avversari sul piano culturale e politico1.
Fra alterne vicende, è ciò che fecero nella seconda metà del Seicento a Napoli, e soprattutto a partire proprio dal 1663, Carlo Buragna, Tommaso Cornelio, Francesco D’Andrea, Leonardo Di Capua, Sebastiano Bartoli, Lucantonio Porzio, Giuseppe Valletta e molti altri. Gli Investiganti, sebbene appoggiati da Andrea Concublet, marchese d’Arena, non si mossero in una logica di patronage, non dovettero glorificare, con la loro attività accademica, qualche principe o un’intera casata. Essi furono espressione del cosiddetto “ceto civile”, cioè della nascente borghesia delle professioni intellettuali. Si trattava, in particolare, di docenti universitari, medici e avvocati.
Una tale sfida alla scienza tradizionale, alla filosofia aristotelico-scolastica, alle scuole gesuitiche e in genere agli ecclesiastici, richiedeva l’elaborazione di una strategia comunicativa specifica e articolata, ad ampio raggio, capace di raggiungere un vasto pubblico e soprattutto le giovani generazioni. In altre parole, il gruppo degli Investiganti avvertì con molta chiarezza che l’affermazione della “nuova scienza” non poteva avvenire, in una grande città come Napoli, solo attraverso le dispute accademiche e le opere a stampa, la cui risonanza rimaneva pur sempre limitata, ma anche attraverso la diffusione delle nuove idee in riunioni, talvolta clandestine, tenute in case private, nelle biblioteche, nelle librerie e nelle spezierie, attraverso la circolazione di testi manoscritti, spesso anonimi, che per il loro contenuto dottrinale difficilmente avrebbero superato il vaglio del sistema censorio, e ovviamente attraverso l’insegnamento. Si utilizzarono, a seconda delle circostanze e degli interlocutori, generi letterari diversi: il trattato, l’epistola, il dialogo, l’ode e il poema eroico2. Erano testi che avevano, sotto l’aspetto della costruzione retorica, il carattere e spesso il titolo di “difese”, ma in realtà erano “attacchi”, sferrati nello stile delle scritture forensi, con l’adduzione di prove e testimonianze. Erano, in qualche modo, testi da “tribunale”, che richiedevano una notevole padronanza delle tecniche di persuasione. Fatto che non deve sorprendere se si pensa che alla fine degli anni Ottanta iniziò, fra Napoli e Madrid, il “processo agli ateisti”, che durò più di un decennio e che comportò l’incarcerazione di alcuni giovani ricercatori legati agli Investiganti, accusati di ateismo, libertinismo e perfino costumi licenziosi 3.
La prima manifestazione ufficiale degli Investiganti fu la pubblicazione, nel 1665, proprio di un componimento poetico anonimo: l’Ode in lode della famosa Accademia degli Investiganti, nel cui proemio erano sintetizzati con queste parole il programma e le finalità del gruppo: «Lodasi l’istituto dell’Accademia d’investigar le cagioni de gli effetti naturali, secondo la maniera insegnatane dal gran Galileo, per mezzo delle sperienze, professando con assoluta indipendenza da qualsivoglia setta, una intiera libertà di filosofare»4. Gli Investiganti avrebbero quindi operato eleggendo come guida Galileo, adottando come metodo d’indagine quello sperimentale e come credo ideologico la libertà di pensiero. L’Ode inaugurava una sorta di narrazione dell’esperienza degli Investiganti, l’esposizione della loro concezione della natura e dell’uomo e, a pochi anni dalla fondazione dell’Accademia, avviava la costruzione di una tradizione culturale, opposta a quella degli avversari, che si andrà consolidando sempre più con le opere successive, in particolare con quelle filosofiche di D’Andrea e quelle storico-erudite di Valletta5. Si dette vita a un nuovo sistema di pensiero e di valori che cercava le sue radici nelle antiche teorie corpuscolari greche, riprese da Lucrezio e, in epoca moderna, da Galileo, Cartesio, Gassendi, da alcuni esponenti della scuola galileiana, e infine da Alessandro Marchetti con la sua traduzione del De rerum natura6.
Nell’Apologia in difesa degli atomisti, scritta nel 1685, l’anno successivo alla morte di Cornelio, D’Andrea s’impegnò a dare, con una serie di “prove” documentarie, una versione cristianizzata dell’atomismo, sostenendo che aveva un’origine antichissima, che era nata circa un millennio prima della nascita di Democrito, se non addirittura nell’epoca remota in cui gli «huomini cominciarono a filosofare»7, che era stata insegnata da Pitagora nella città di Velia e poi abbracciata da molti filosofi meridionali. A proposito di Pitagora e della sua setta, della quale fecero parte Parmenide, Zenone e Leucippo, D’Andrea scriveva che erano stati «nel culto e nella pietà verso Iddio» e avevano vissuto nella «continenza e nella castità»8. Per quanto riguarda, invece, l’origine meridionale dell’atomismo, scriveva che, «avendo la dottrina degli atomi avuto principio nelle provincie del nostro Regno, ben per questa ragione, quando non altra, dovrebbono dimostrarsele più favorevoli o men severi»9. Su questioni come queste D’Andrea e i suoi amici potevano controbattere in modo convincente agli avversari e reclamare legittimamente l’“autorizzazione” a professare l’atomismo. Viceversa diventava molto difficile, per loro e non solo per loro, a Napoli e altrove, difendere l’atomismo dall’accusa principale e più compromettente sul piano teologico: di essere cioè una dottrina che metteva in discussione, se non vanificava, il dogma della transustanziazione nell’Eucarestia. Se si ammetteva, come facevano gli atomisti, che ogni prodotto naturale era un rigoroso aggregato di atomi, diventava impossibile sostenere che dopo la consacrazione da parte del sacerdote il pane e il vino, pur continuando ad avere «colore, sapore e odore», non fossero più tali, ma diventassero realmente il corpo e il sangue di Cristo10.
D’Andrea, insieme a Di Capua, Porzio e Valletta, cercava – lo dicevo sopra – una tradizione culturale per le dottrine professate dagli Investiganti, un lavoro indispensabile per poter «trasferire i modelli scientifici elaborati alla sfera ideologica, in modo da conferire loro i connotati della cultura nel suo insieme»11. Gli Investiganti stavano elaborando infatti una “nuova cultura”. E ogni nuovo progetto culturale ha bisogno di una tradizione che lo legittimi, di una storia o anche di un mito che lo consolidi. Tutto ciò non serviva alla scienza che essi professavano per operare, ma per essere accettata e condivisa.
Tommaso Cornelio rappresentò, senza dubbio, il personaggio-simbolo dell’Accademia degli Investiganti12, non solo per esserne stato uno dei fondatori, ma soprattutto perché, proprio nel suo costante desiderio di vivere appartato, la sua stessa persona sintetizzava sia gli ideali dell’Accademia sia la formula espressiva della “risposta” agli attacchi della tradizione. Ne furono consapevoli in molti e prima fra tutti D’Andrea, che sapeva che Cornelio aveva scelto di vivere in «un luogo remoto», in una «casetta» lontana dalla città, per evitare, sono parole del cosentino, «l’importuno commercio col volgo»13. Un ozio volontario che lo faceva ormai apparire come «morto al mondo et a se stesso», scriveva D’Andrea a Francesco Redi il 17 settembre 168014. Il filosofo-giurista sapeva bene che il ritiro a vita privata di Cornelio era una decisione grave e pericolosa, che incideva negativamente sull’azione del gruppo degli Investiganti, fra l’altro in un momento difficile, proprio perché lo scienziato era di fatto il simbolo e il mito di quella loro battaglia per il rinnovamento culturale, politico e civile del Viceregno. Egli temeva che gli avversari avrebbero interpretato quella scelta del maestro come una resa, il preludio della sconfitta.
Il ritorno di Cornelio a Napoli, alla fine del 1649, aveva rappresentato un momento altamente simbolico, ricordato dai suoi amici e da personaggi di spicco della cultura napoletana del Sei-Settecento, da Pietro Giannone a Giambattista Vico, destinati a essere seguiti nell’Ottocento da Francesco De Sanctis e nel Novecento, fra i tanti, da Benedetto Croce. Quel ritorno segnò un momento di rottura con il passato, l’inizio di un’avventura intellettuale e di un’epoca di profondi cambiamenti. Sempre D’Andrea, negli Avvertimenti ai nipoti, ricordava quel momento in questo modo: «[…] venuto in Napoli l’anno 1649 il nostro signor Tommaso Cornelio a cui la nostra città deve tutto ciò che oggi si sa di più verisimile nella filosofia e nella medicina, io fui il primo che abbracciassi quella maniera da lui propostaci di filosofare, con far venire in Napoli le opere di Renato delle Carte, di cui sino a quel tempo n’era stato a noi incognito il nome»15. Parole forti, significative, destinate a durare nel tempo. Alla fine del Seicento, quando D’Andrea stendeva gli Avvertimenti ai nipoti, si doveva a Cornelio la conoscenza a Napoli della buona filosofia e della buona medicina, benché avesse esercitato la professione medica solo occasionalmente. In altre parole, il ritorno di Cornelio rappresentò l’avvio di una potente opera iniziatrice, come ce ne saranno altre, forse troppe, nella storia del Mezzogiorno. Cornelio fu il maestro di buona parte degli Investiganti, come tanti gli riconosceranno, a cominciare proprio da D’Andrea. Gli studi di semiologia hanno sottolineato «l’importanza che riveste, per una cultura, il momento dell’insegnamento» e quindi la «figura del suo iniziatore: di colui che ha insegnato, fondato, scoperto il sistema, e che lo ha introdotto nella coscienza della collettività»16.
Cornelio diventò un simbolo da difendere per una tradizione da formalizzare e perpetuare. Il suo funerale è proprio la testimonianza della consapevolezza di tale intento. Celebrato alcuni mesi dopo la sua morte, avvenuta il 28 novembre 1684, ebbe come grande architetto ancora una volta D’Andrea17. Si trattò di un rito spettacolare che se da un lato tradiva, in un certo senso, la riservatezza della vita privata di Cornelio, dall’altro testimoniava proprio dell’efficacia del suo insegnamento, la cui memoria, nel farsi pubblica ostentazione, reclamava il suo futuro nei termini di un’esplicita intenzione di sopravvivenza etica e morale. D’altra parte, D’Andrea nel difendere la memoria di Cornelio e, di lì a qualche anno, quella Di Capua, difendeva un ideale di vita e di pensiero che si confondeva con la sua stessa persona. Non casualmente, già alla fine del Seicento, dopo circa un cinquantennio di attività, D’Andrea e Valletta iniziarono a formalizzare l’esperienza degli Investiganti nel chiaro proposito di trasmetterla alla storia.
Cornelio morì quando la gioventù studiosa napoletana cominciò ad abbracciare «a tutta voga» la filosofia atomistica, con quella determinazione e improntitudine tipiche dell’età. Proclamarsi atomisti e libertini diventò un fenomeno alla moda. In una lettera dell’11 agosto 1685 al principe Gian Andrea Doria, D’Andrea scriveva: «In questa città da pochi anni in qua lo studio di questa filosofia si è talmente dilatato e si va ogni dì dilatando, che ormai par che quella che si insegna nelle scuole si debba dir esser di pochi e di nessuna stima»18. Insomma le scuole gesuitiche stavano perdendo terreno. Era il periodo della giovinezza di Vico, che, come altri suoi coetanei, s’invaghì dell’atomismo, dottrina verso la quale diverrà in seguito un critico severo e ingeneroso, tanto da definirla, nella sua autobiografia, «una filosofia da soddisfare le menti corte de’ fanciulli e le deboli delle donnicciuole»19.
La massiccia diffusione dell’atomismo preoccupò molto la Chiesa che decise di intervenire con vigore e su più fronti, da quello della disputa filosofico-teologica a quello giudiziario. La morte di Cornelio, il massimo rappresentante degli Investiganti, fu per i tradizionalisti l’occasione buona per sferrare un attacco in grande stile. Giuseppe Galasso ha scritto, giustamente, che la morte di Cornelio rivestì la «stessa importanza simbolica che aveva avuto il ritorno [del filosofo] a Napoli nel 1649»20. Per screditare l’immagine di Cornelio gli avversari degli Investiganti avevano messo in giro la voce che, per aver professato l’ateismo, il suo corpo doveva essere disseppellito e dato alle fiamme, come un eretico impenitente, e le ceneri sparse al vento. Non si trattava di una diceria, tanto è vero che nella lettera del 17 luglio 1685 – una vera e propria relazione sul funerale – D’Andrea aveva scritto preoccupato al principe Doria che non era «credibile quanto questa cosa» si fosse accresciuta «in una città piena di gente ignorante, e facile a credere»21.
Attaccare Cornelio anche post mortem significava che i suoi avversari capivano e temevano che da quella esperienza poteva generarsi non solo un maggiore consenso presso l’opinione pubblica, ma anche una storia. D’Andrea comprese la portata dell’attacco e ne studiò le controffensive. Superando non pochi problemi, organizzò, nella primavera del 1685, il funerale dell’amico nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone22. Poiché Cornelio era stato accusato di ateismo e attaccato soprattutto dai Gesuiti, riuscì a far pronunciare l’orazione funebre a don Luca Rinaldi, canonico della cattedrale di Capua, un gesuita noto per le sue simpatie verso le teorie corpuscolari e il galileismo. Il funerale ricalcò il modello di quelli riservati esclusivamente ai nobili. La chiesa fu ricoperta di «composizioni bellissime» in varie lingue; la castellana «fu ricchissima d’argenti», fatti giungere da tutte le chiese della città; il pubblico fu quello delle grandi occasioni: vi partecipò «tutta la nobiltà, la maggior parte de’ ministri», i vari ordini religiosi, e perfino sedici Gesuiti. Fu una grande vittoria per d’Andrea, che considerò l’organizzazione del funerale dell’amico il gesto che gli aveva procurato «maggiore soddisfazione» nella vita: «[…] per gli applausi che mi furon fatti – scriveva al principe Doria sempre il 17 luglio 1685 – fu per me uno specie di trionfo e ne ricevei le congratulazioni di tutti i letterati à quali ne diedi parte per l’Italia»23.
La vittoria di d’Andrea non pose comunque fine agli attacchi a Cornelio. Evidentemente il cosentino da morto continuava a fare paura come da vivo. Sei anni dopo la sua scomparsa, nel pieno del “processo agli ateisti”, Giovan Battista Ferace di Monte Ercole si presentò in Curia spontaneamente come testimone per scagionare Cornelio dalle solite accuse: di non credere, cioè, nell’immortalità dell’anima e nelle pene dell’Inferno. Viceversa, nel 1692, Felice Pisano aveva accusato il matematico Giacinto De Cristofaro e il poeta Basilio Giannelli, due giovani seguaci degli Investiganti, di aver fatto parte della «setta nova» e che, colpa gravissima, «havevano praticato con Tomase Cornelio»24.
Gli attacchi a Cornelio e alla cultura dei novatori, accusati, senza andare troppo per il sottile, di essere ateisti, libertini e persone di facili costumi, non ebbero gli effetti sperati. Il “processo agli ateisti” si chiuse, infatti, con la sconfitta dei Gesuiti e dei nemici degli Investiganti. Il loro massimo esponente, il gesuita Giovanni Battista De Benedictis, detto Aletino25, nel 1696 fu costretto a lasciare il Regno. Con tutto ciò, in quello stesso anno, la domenica 4 marzo, in concomitanza con la processione delle Quarant’ore, un domenicano, «predicando con fervore e zelo» in Largo di Castello, prese il Crocifisso in mano e, rivolgendolo verso i presenti, minacciò Napoli di gravissimi castighi, perché affermava, irato e sgomento, che in città vivevano indisturbati «venticinquemila eretici»26.
Intanto, oltre a Cornelio era morto nel 1695 anche Leonardo Di Capua. Tre anni dopo nella «piccola terra» di Candela morirà, in totale solitudine, Francesco d’Andrea. Con la loro scomparsa si chiudeva definitivamente un’epoca: la stagione degli Investiganti, che con le loro opere e il loro pensiero avevano portata Napoli e la cultura napoletana al centro della ribalta italiana ed europea.















NOTE
* Intervento tenuto alla Giornata di studio 1614-2014. Quattrocento anni dalla nascita di Tommaso Cornelio, organizzata dal Comune di Rovito, dalla Biblioteca Universitaria di Napoli e dall’Istituto per la Storia del Pensiero filosofico e scientifico moderno - CNR e tenuta presso la Biblioteca Universitaria di Napoli, sabato, 13 dicembre 2014.^
1 Sull’Accademia degli Investiganti cfr. M.H. Fisch, L’Accademia degli Investiganti, trad. it. in «De Homine», 28 (1968), pp.17-78; M Torrini, L’Accademia degli Investiganti. Napoli 1663-1670, in «Quaderni storici», 26 (1981), pp. 845-83.^
2 Cfr. M. Rak, Di alcuni documenti dell’ideologia della ricerca atomistica e dei suoi modelli di comunicazione (1681-1708), in Il libertinismo in Europa, a cura di S. Bertelli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980, pp. 435-63.^
3 Sul “processo agli ateisti” cfr. L. Osbat, L’Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti 1688-1697, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1974; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica cultura società, Firenze, Sansoni, 1982, 2 voll., II, pp. 443-73.^
4 L’Ode, uscita a Napoli nel 1665 e riedita a Perugia nel 1672, è ora ripubblicata in A. Borrelli, Un’ode per l’Accademia degli Investiganti nel nome del «gran Galileo», in «Giornale critico della filosofia italiana», 91 (2012), pp. 9-31: 19-27.^
5 Su questi aspetti dell’attività di Valletta e D’Andrea cfr. soprattutto, per il primo, M. Rak, La parte istorica. Storia della filosofia e libertinismo erudito, Napoli, Guida, 1971; ID., Introduzione a G. Valletta, Opere filosofiche, a cura dello stesso, Firenze, L.S. Olschki, 1975, pp. 9-74; per il secondo, A Borrelli, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica della Napoli di fine Seicento, Napoli, Liguori, 1995.^
6 Sulla fortuna, anche editoriale, del De rerum natura cfr. Lucrezio la natura e la scienza, a cura di M. Beretta, F. Citti, Firenze, L.S. Olschki, 2008, in particolare il saggio di M. Beretta, Gli scienziati e l’edizione del De rerum natura, pp. 117-224 (consultabile anche sul sito: http://www2.classics.unibo.it/Didattica/LatBC/BerettaScienziatiDRN.pdf).^
7 F. D’Andrea, L’Apologia in difesa degli atomisti, in A. Borrelli, D’Andrea atomista, cit., pp. 59-109: 69.^
8 Ivi, p. 77.^
9 Ivi, p. 80.^
10 Su questo tema, soprattutto in relazione all’atomismo di Galilei, cfr. P. Redondi, Galileo eretico, Torino, Einaudi 1983 [nuova ed., con Postfazione, Roma-Bari, Laterza, 2009]; ID., Atomi, indivisibili e dogma, in «Quaderni storici», n.s., 20 (1985), pp. 529-73; e M.P. Donato, Scienza e teologia nelle congregazioni romane. La questione atomistica, 1626-1727, in Rome et la science moderne entre Renaissance et Lumieres. Études réunies par A. Romano, [Rome], École française de Rome, 2008, pp. 595-634 (consultabile anche sul sito: http://books.openedition.org/efr/1963?lang=it); F. Beretta, Atomismo, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, con la collaborazione di V. Lavenia, J. Tedeschi, Pisa, Edizioni della Normale, 2010, 4 voll., I, pp. 120-21.^
11 A. Borrelli, L’Apologia in difesa degli atomisti di F. D’Andrea, in «Filologia e critica», 6 (1981), pp. 259-80: 268.^
12 Su Cornelio rimane fondamentale M. Torrini, Tommaso Cornelio e la ricostruzione della scienza, Napoli, Guida, 1975.^
13 Lettera di Cornelio a Marcello Malpighi del 18 settembre 1677, pubblicata in H.B. Adelmann, The Correspondance of Marcello Malpighi, Ithaca and London, Cornell University Press, 1975, II, p. 769.^
14 F. D’Andrea, Lettere a G. Baglivi, A. Baldigiani, A. Magliabechi, M. Malpighi, A. Marchetti, F. Redi, L. Porzio, a cura di A. Borrelli, in «Archivio storico per le province napoletane», 115 (1997), pp. 113-258: 230.^
15 F. D’Andrea, Avvertimenti ai nipoti, a cura di I. Ascione, Napoli, Jovene, 1990, p. 203.^
16 M. Lotman, B.A. Uspenski, Tipologia della cultura, trad. it. Bologna, il Mulino, 1975, p. 70.^
17 Cfr. A. Borrelli, Il funerale di Tommaso Cornelio, in «Nouvelles de la République des lettres», I (1990), pp. 61-82.^
18 Lettera citata in R. Colapietra, L’amabile fierezza di Francesco D’Andrea. Il Seicento napoletano nel carteggio con Gian Andrea Doria, Milano, Giuffré, 1981, p. 375.^
19 G.B. Vico, Autobiografia. Seguita da una scelta di lettere, orazioni e rime, a cura di M. Fubini, Torino, Einaudi, 1977, p. 18.^
20 G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, cit., p. 408.^
21 Lettera citata in R. Colapietra, L’amabile fierezza di Francesco D’Andrea, cit., p. 360.^
22 Cfr. A. Borrelli, Il funerale di Tommaso Cornelio, cit.^
23 Lettera citata in R. Colapietra, L’amabile fierezza di Francesco D’Andrea, cit., p. 364.^
24 L. Amabile, Il Santo Officio dell’Inquisizione in Napoli. Narrazione con molti documenti inediti, Città di Castello, Lapi, 1892, 2 voll., II, p. 59.^
25 Su De Benedictis cfr., fra i tanti lavori di G. De Liguori, La reazione a Cartesio nella Napoli del Seicento. Giovambattista De Benedictis, in «Giornale critico della filosofia italiana», 75 (1996), pp. 330-59.^
26 G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, cit., II, p. 471.^
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