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Per Francesco d’Avalos, in margine alla sua Autobiografia
di Daniela Tortora
Nella primavera del 2014, soltanto pochi giorni prima della scomparsa del principe musico napoletano, è stata licenziata la versione definitiva dell’Autobiografia di un compositore […] di Francesco d’Avalos (1930-2014)1, già presentata in anteprima a Napoli nell’ambito delle celebrazioni gesualdiane del ’13 promosse dal Conservatorio San Pietro a Majella2. Il volume costituisce dunque l’ultima impresa portata a termine dal Maestro e s’impone per la densità e la vastità dei suoi contenuti come opera-testamento, oltre che come osservatorio privilegiato per l’inquadramento della vicenda umana e artistica dell’autore nel contesto storico-culturale partenopeo, nonché in quello più vasto della musica d’arte del Novecento e di talune sue costellazioni dimenticate, anche in ambito italiano.
La messa a punto del volume, in ispecie se si tiene conto della sua mole, del numero totale di pagine, dei capitoli e dei paragrafi che lo articolano, della enorme quantità di dati, di riferimenti bibliografici, di nomi (l’indice ne contiene oltre un migliaio), è stata tutto sommato veloce e la via della pubblicazione individuata nel giro di pochi mesi a cavallo dell’estate 2013 nell’ambito della collana “I discorsi della musica” dell’editore Aracne di Roma. Ciononostante, è opportuno insistere sulla lunga gestazione che ha preceduto la comparsa dell’Autobiografia: pur accogliendo soltanto un frammento del progetto originario, essa rivela la propria indole di libro-mondo, nel duplice senso di un libro che abbraccia la totalità dell’esperienza di un artista, la totalità del suo mondo, ma anche nel senso che prospetta una ben precisa visione/concezione del mondo, e costituisce una lettura attualizzata dei diari e degli appunti biografici accumulatisi nel corso dei decenni giovanili e avviata ben prima della comparsa, che ad essa si allaccia, dell’altro volume, La crisi dell’Occidente e la presenza della storia, edito nel 2005 per i tipi della casa editrice Bietti di Milano.
A fronte di una materia così vasta e magmatica, problematica per qualsivoglia lettore non iniziato alla molteplicità dei discorsi che il Maestro vi intrattiene, il libro si rivela oltremodo attraente, non di rado spiazzante, comunque critico sensibile avvolgente:
Sono nato a Napoli l’11 aprile 1930, tra le 2 e le 3 del pomeriggio, appartengo ad una famiglia storica dell’aristocrazia. Io e mio figlio Andrea, nato a Londra il 23 febbraio 1971 (esattamente ottanta anni dopo mio padre, che era nato il 23 febbraio 1891 ed era morto poco più di un anno prima, l’8 febbraio 1970), siamo gli ultimi rappresentanti di una famiglia che ha influito in maniera notevole per cariche e per azioni in molte vicende del passato, la stessa presenza della famiglia ha avuto rilievo nella storia del Regno di Napoli e dell’Italia3.

Sin dalle primissime battute l’autore afferra il lettore e lo conduce all’interno della storia della sua famiglia (l’affresco storico-familiare, incastonato nella più vasta storia dell’aristocrazia italiana, ma di origine spagnola, sta lì a giustificare una almeno parziale estraneità nei confronti dei Borboni e della nobiltà napoletana), il che vuol dire nei meandri e nei vicoli di un pezzo cospicuo della storia di Napoli e dell’Italia tutta, della vita sociale politica culturale e musicale del nostro paese a cavallo delle due metà del secolo passato. La prosa è asciutta, agile, essenziale, mai retorica, nient’affatto formale né tanto meno accademica, sempre onesta, leale, finanche severa non tanto verso gli altri (sebbene non manchino giudizi implacabili e definitivi), quanto piuttosto verso se stesso, verso le proprie incertezze, le proprie manchevolezze, le proprie idiosincrasie. Convincente è l’uso sempre accorto delle parole, con alcuni richiami notevoli all’etimo e alla storia di lemmi ormai di senso comune scontato, e non di rado fuorviante (d’Avalos accenna in nota più volte alle «parole come sacchi vuoti» per alludere a talune espressioni usate e abusate nel nostro tempo, fraintese e sciupate da un impiego sciatto e acritico). C’è poi un modo spassosissimo di raccontare fatti, persone, luoghi e circostanze, anche lievi e marginali, che una volta raccolti, argomentati, “oggettivati”, concede loro di essere parti di un pensiero unico, organico, interrelato al proprio interno alla stessa stregua di qualsivoglia organismo vivente.
Tutto viene registrato e raccontato con estrema precisione, con puntiglio quasi maniacale; vediamo scorrere dinanzi ai nostri occhi città, paesi, alberghi, stazioni, abitazioni, teatri, ristoranti, cinema, bar, colazioni, concerti, spettacoli e un’infinità di altri accadimenti con una definizione puntuale delle coordinate spazio-temporali (non mancano all’appello ore e minuti) ai fini della ricostruzione esatta della storia/geografia del tempo passato e della sua proiezione attuale nella propria e nella altrui memoria. Digressioni sostanziose vengono riservate ad ambiti inattesi e affascinanti: l’alta cucina, i giocattoli, Topolino e i fumetti, i cani e gli animali tutti, i paesaggi, le cure mediche, l’araldica, il personale di servizio, l’arte e gli arredi dei palazzi nobiliari.
Il titolo completo del volume è distinto in tre frammenti (Autobiografia di un compositore; 1930-1957; Il Religioso Assoluto e l’Io Trascendentale), ciascuno dei quali anticipa un dato essenziale dell’opera: il racconto (la storia di un apprendistato artistico, la storia di un musicista compositore); l’ambito cronologico (i ventisette anni decisivi nella formazione e del musicista e del pensatore); il sistema filosofico di riferimento (l’impalcatura dell’intero arco ben più vasto della vita e dell’opus intero dell’artista). La tripartizione del titolo annuncia congiuntamente la struttura ternaria del volume, suddiviso per l’appunto in tre parti; la singolarità dell’insieme risiede nel fatto che alla dimensione lineare, progressiva, storica degli accadimenti di superficie, si aggiunge una dimensione più profonda, nascosta, che si sovrappone e si intreccia all’altra, veicolando un sapere per così dire circolare, concentrico, ritornante su se stesso, cosicché le tre parti finiscono per descrivere, ciascuna al proprio interno, lo stesso percorso di vita e di crescita, che è anche un itinerario della coscienza di iniziazione all’arte e alla filosofia così distribuito nel corso del tempo: I. dalla musica alla filosofia (1930-1950); II. dalla filosofia alla musica (1950-1955); III. dalla musica alla filosofia (1956-1957).
Ciascuna delle tre parti si articola in capitoli al proprio interno secondo una distribuzione cronologica nient’affatto omogenea: vent’anni nella prima parte, cinque nella seconda e due nella terza (con una Conclusione aggiunta in prossimità della pubblicazione e siglata “23 giugno 2013”), a fronte di un computo relativo delle pagine piuttosto equilibrato (I. pp. 320; II. pp. 232; III. pp. 225). Il libro ha dunque una struttura a imbuto: a dispetto della scorrevolezza e del ritmo agile impresso al volgere del tempo dal succedersi mutevole dei paragrafi (se ne contano ben settecentonovantanove), la materia trattata va addensandosi sino ad occupare via via uno spazio (cronologicamente parlando) sempre più angusto e grave. E val la pena di notare la continuità voluta dal principe nella nomenclatura di paragrafi e note del suo libro, che scorre ininterrottamente da un capo all’altro senza alcuna soluzione di continuità nel computo numerico e degli uni e delle altre.
Sono inclusi in questo volume i primi ventisette anni della vita di Francesco d’Avalos e il taglio cronologico interrotto (mero dato di superficie e nient’affatto indice di incompiutezza) viene così argomentato dal Maestro nella sua poc’anzi citata Conclusione del giugno 2013:
Il progetto iniziale di questo racconto dei primi anni della mia vita, unito alla formulazione del mio pensiero, era di continuarlo fino ad oggi, ma non ho il tempo sufficiente per scrivere una tale opera [sic!]. Tuttavia, anche se limitato a un primo periodo, esso ha una sua compiutezza perché entro i primi 27 anni si è presentata la totalità dei problemi che mi hanno interessato anche in seguito e, al tempo stesso, la soluzione che do a tali problemi è quella che si è formata in me negli anni successivi. Per alcuni argomenti, per me rilevanti (par. 63), ho intravisto la soluzione soltanto dopo il 2010. Il mio racconto è limitato al 1957, ma lo è solo per la narrazione dei fatti e non per la completezza del mio pensiero4.


Ed è proprio detta Conclusione, aggiunta in prossimità della pubblicazione, a fungere da sommario e ad aiutarci a rubricare in una sorta di indice immaginario le cose e gli argomenti notevoli di queste circa novecento pagine: 1) l’iniziazione musicale grazie al padre musicofilo e alla natura dell’Appennino abruzzese; 2) l’acquisizione mediante l’ascolto sistematico dell’intero repertorio sinfonico del XIX secolo; 3) l’avvio degli studi musicali (comporre e suonare il pianoforte allacciati sin da subito, vale a dire sin dalla più tenera età) e il compimento successivo di licenze e diplomi; 4) l’iniziazione filosofica, gli insegnamenti di Benedetto Croce a partire dalle grandi scuole filosofiche tedesche del secolo XIX, l’esperienza dell’Io trascendentale e le due forme di autocoscienza; 5) la fuoriuscita dall’avanguardia e il problematico rapporto con la contemporaneità, finanche con la infida musica di consumo odierna (esprimere vs. comunicare)5.
La Prima Parte dell’Autobiografia giova innanzitutto alla messa a fuoco dei luoghi, contiene la geografia privata della storia di Francesco d’Avalos, cui apporta uno speciale contributo la scelta delle immagini inserite in calce al volume nell’Album fotografico curato da Michela Fasano6. Tre i luoghi-chiave di detta geografia: il palazzo d’Avalos di via dei Mille, il palazzo dove nasce Francesco, dove risiede storicamente la sua famiglia, almeno sino al 18 marzo 1937, e dove tornerà a vivere stabilmente a partire dal 1975; la villa di Posillipo, importante per le suggestioni legate all’affaccio sul mare e al paesaggio marino (vi si situano vent’anni, a partire dal ’37, dei ventisette raccontati in questa Autobiografia), ma non altrettanto dal punto di vista affettivo-emozionale e intellettuale; la villa di Roccaraso, la casa della villeggiatura, delle lunghe e assorte estati ivi trascorse anche prima del trasferimento a Posillipo, e vero e proprio luogo di affezione e di culto: il sentimento della natura veicolato dal paesaggio delle montagne abruzzesi ha costituito/agevolato l’(altra) iniziazione alla musica e, congiuntamente, l’intuizione del mondo e dell’arte (sotto questo duplice aspetto, «Roccaraso occupava un posto preminente»).
Negli anni 1939-40, nel corso del biennio che assiste all’avvio del secondo conflitto mondiale, comincia a delinearsi per il giovane principe un forte interesse per la musica grazie al formidabile imprinting familiare: l’ascolto sistematico di tutto (o quasi) il repertorio sinfonico prevalentemente ottocentesco, ma non solo, guidato dal padre Carlo, collezionista di dischi e musicofilo sopraffino, oltreché eccentrico per via dei suoi gusti musicali atipici per l’epoca (il Maestro conosceva dunque tutto il grande repertorio classico-romantico prima ancora di cominciare a studiare la musica).
L’iniziazione all’arte di Euterpe attraverso l’ascolto si allaccia al divenire dei fatti di guerra, alla fase terminale del ventennio fascista, al vacillare dell’Italia e con essa del senso di patria, così come e l’una e l’altro si erano andati costituendo attraverso le lotte risorgimentali (ivi inclusa la prima guerra mondiale intesa come parte terminale di quelle lotte e dunque del contesto tardoottocentesco) e dell’unità del paese, che si esprimeva a sua volta nella unificatrice monarchia sabauda rispetto alla quale il fascismo aveva costituito nient’altro che un corpo aggiunto tardivamente. D’Avalos non fa mistero delle sue predilezioni politiche: la fedeltà al Re e alla monarchia sabauda, la perdita del senso della patria come esito della destituzione di Mussolini e della caduta del fascismo, entrambi garanti e dell’una e dell’altra7:

Nato nel 1930 sono stato educato per un mondo che non è mai venuto». Infatti quanto avevo appreso nella mia prima gioventù mi appariva ogni giorno più inutile e ogni mio tentativo di riscontrare nella società quanto avevo assimilato falliva, perché la società mutava rapidamente e mi sfuggiva. La sconfitta con la conseguente occupazione militare del suolo italiano, nel distruggere l’idea di nazione, preparò le basi per eliminare tale idea e sostituirla con quella di appartenenza e partecipazione a un’ideologia. Al posto della patria fu posta una militanza politica8.


Nella primavera del ’42 Mario Persico e Antonio Savasta (a entrambi i musicisti sono dedicati ricordi e riflessioni di grande interesse)9 sono in visita a casa del principe per ascoltare e seguire con la partitura la II Sinfonia di Mahler. Di lì in poi per d’Avalos la possibilità di vedere la musica, in particolare le grandi partiture orchestrali, viene a creare lo stimolo per la compilazione dei suoi primi appunti musicali mediante un codice oggi, purtroppo, indecifrabile. Ma proprio sulla base di quegli ideogrammi musicali infantili Savasta suggerisce ai familiari di avviare il giovane Francesco allo studio della musica e del pianoforte: suonare e comporre vengono a costituire così, sin da subito, un tutt’uno per il precoce musicista. Già nell’autunno del ’42 scrive i suoi primi abbozzi giovanili di ispirazione bruckneriana e a Bruckner è dedicata in forma di omaggio la serie ancora acerba dei 4 Preludi orchestrali.
La guerra dilaga e monopolizza via via i paragrafi del capitolo dedicato al biennio 1943-44 con il trasferimento, almeno parziale, della famiglia da Napoli in Abruzzo sino al bombardamento della villa di Roccaraso, il primo novembre 1943, e il lungo peregrinare durato oltre dieci mesi dapprima nel cuore dell’Abruzzo e infine a Roma con l’arrivo degli alleati il 4 giugno 1944:

Il I novembre, com’è scritto nel diario di mia sorella, Roccaraso fu bombardata e la villa, da come ci fu raccontato, fu distrutta dallo scoppio di un camion carico di munizioni che era accanto. Tale notizia ci giunse subito, verso l’una, mentre eravamo a colazione a Sulmona […] Con questa partenza del I novembre finì il periodo più importante della prima parte della mia vita, scomparvero per sempre i paesaggi esterni e quelli interiori; in seguito anche tutto il resto del mondo e soprattutto il modo di vivere che avevo conosciuto, sparì divenendo un passato irrecuperabile10.


La discussione attorno al concetto di patria e al suo tramonto traghetta il pensiero di d’Avalos verso quello dell’interpretazione musicale come ricerca della giusta collocazione dell’opera d’arte nell’evoluzione dell’Io nella realtà: le connessioni di superficie con il contesto sociale e culturale, così come i tratti linguistici interni all’oggetto estetico, risultano molto spesso assai poco illuminanti rispetto alla sostanza profonda dell’opera d’arte. La verticalità come forza immanente, come presenza della croce nella storia dell’umanità, si attua in musica come conquista della forma chiusa, che è tale in quanto contiene in sé necessariamente un punto culminante e un’inclinazione di tipo gravitazionale verso la parte conclusiva del manufatto:

La strutturazione della musica in forma chiusa si è rafforzata parallelamente all’affermarsi della visione immanentistica dei valori; il punto culminante, che è il fulcro della forma chiusa nella musica, è divenuto sempre più chiaro quanto più la struttura verticale del valore è stata intuita come forza immanente della coscienza. […] È questa immanenza che ha generato la necessità del punto culminante come forza di coesione per la determinazione della forma chiusa quale assolutezza dell’estetica, ma anche della musica (detta) assoluta. […] l’immanenza del Logo ha generato due aspetti della musica: 1) la forma chiusa come incentramento in un punto culminante quale momento di massima tensione; 2) l’indirizzarsi di una composizione verso una parte conclusiva che ne indichi il significato fondamentale11.


Se la civiltà occidentale costituisce un fatto irripetibile nella storia dell’evoluzione umana in quanto unione e sintesi di due differenti culture (quella greco-romana, della forma oggettivata che in quanto valore trascendentale è immutabile e rende intelligibili tra loro le diverse epoche storiche, e quella cristiana, ossia del senso della storia come evoluzione etica per l’affermazione del Regno di Dio)12, l’Espressionismo rappresenta il momento conclusivo nella storia dei valori fondanti dell’Occidente: ancora vi è riconosciuta la centralità dell’Io (l’immanenza del Logo), sebbene si avvertano i segni dolorosi di una crisi ormai in atto e tutto sia pervaso da un senso diffuso di perdita e di catastrofe.
Il 1945 si configura come l’anno della svolta per d’Avalos e il suo apprendistato musicale: Marta De Conciliis (sua insegnante di pianoforte, a precedere Vincenzo Vitale prima del ’47) suggerisce il nome dell’insegnante di composizione più autorevole della scuola napoletana. Si tratta di Renato Parodi (1899-1974), genealogia illustre (la scuola di Savasta, di De Nardis e di Gennaro Napoli), grande maestro dei maestri di Napoli, col quale avvia la sua iniziazione al moderno, ai linguaggi musicali della contemporaneità sull’onda della spiccata inclinazione francofila del suo maestro (Debussy, Ravel, Roussel). La vita musicale napoletana è in quel torno di anni davvero intensissima. Le stagioni liriche e concertistiche del teatro di San Carlo, i concerti dell’associazione Alessandro Scarlatti e delle altre associazioni attive sulla piazza di Napoli, i grandi direttori d’orchestra e i più grandi interpreti presenti sulla scena musicale internazionale e una formidabile miscelatura del repertorio, dall’antico al moderno: tutto questo è come al solito registrato e raccontato con estrema accuratezza e costituisce un documento prezioso ai fini della ricostruzione dell’offerta musicale napoletana intorno alla metà del secolo scorso. Quell’offerta che rappresentava allora il portato ultimo di una stagione, musicalmente parlando, ancora fertile e rigogliosa per la città di Napoli, non tanto sul piano produttivo locale quanto, piuttosto, dal punto di vista dello scambio con l’ambiente musicale internazionale13.
L’orientamento del pensiero del Maestro in senso propriamente filosofico avviene sui banchi di scuola (ma soprattutto perché le relazioni intrecciate evadono la mera realtà scolastica) grazie a Vittorio Ugo Capone e a Giorgio Punzo, entrambi professori di materie letterarie (ma non solo) presso l’Istituto Francesco Denza di Posillipo14. L’iniziazione filosofica agisce in senso – almeno apparentemente – antagonistico rispetto alle problematiche musicali e compositive, agevolando, per così dire, una naturale inclinazione del giovane principe alla riflessione e alla scrittura concettosa, tant’è che si assegna al tempo di quelle frequentazioni la redazione dei primi saggi di argomento musicale, peraltro giudicati dall’autore ancora immaturi (si veda, in particolare, l’affondo su alcune partiture predilette, la V Sinfonia di Beethoven, paradigma della civiltà musicale occidentale, la Sagra della primavera di Stravinskij, Pelléas et Mélisande di Debussy, Parsifal di Wagner).
Tra il 1948 e il ’49 cominciano a prendere corpo due composizioni, divenute a loro volta stadi aurorali nella gestazione della sua prima opera teatrale (opera di sintesi, Maria di Venosa giungerà a compimento su commissione soltanto nei tardi anni Ottanta): mi riferisco all’Introduzione alle Sei liriche su testi giapponesi e cinesi e a Musica per un dramma immaginario. Circa l’impianto originario dell’Introduzione alle liriche (1948), d’Avalos parla di musica d’atmosfera, ovvero di una immaginaria «festa popolare che si svolge negli stessi luoghi e tempi nei quali si addensa una annunziata e incombente futura tragedia»15, ed è assai probabile che proprio questa suggestione iniziale abbia motivato la collocazione del brano, dapprima, in cima alle Liriche (sono state salvate nel catalogo definitivo delle opere del Maestro soltanto quelle su testi giapponesi), e infine all’interno dell’azione scenica poc’anzi citata con rilevanti aggiustamenti sensibili alle novità del linguaggio della maturità. Anche a proposito di Musica per un dramma immaginario (1953) d’Avalos lascia intravedere un iter gestatorio piuttosto accidentato, risoltosi soltanto negli anni Cinquanta; in origine, il richiamo alla forma del poema sinfonico appare evidente, trattandosi di una composizione orchestrale pensata su testo letterario di propria invenzione. È singolare rilevare l’intreccio tra la genesi di due lavori fortemente legati alle suggestioni e alle immagini attinte a testi letterari, più o meno virtualmente presenti, e la compilazione annunciata di alcuni appunti in difesa dell’arte contemporanea, laddove d’Avalos tenta di individuare le categorie-guida del pensiero musicale contemporaneo in relazione ai recenti sviluppi delle arti figurative16.
Pur rimanendo la musica oggetto di studio e di ascolto, nel biennio 1949-50 s’interrompe la prima fase compositiva del Maestro, anche per via dello spostamento dei suoi interessi in direzione della filosofia:

[…] la mia formazione musicale, ma anche culturale, era fondata sulle concezioni e i valori dominanti in Occidente nel secolo decimo nono. Per l’influenza del mio maestro Renato Parodi, a partire dal 1945 vi fu un ampliamento degli interessi verso la musica dell’inizio del XX secolo, ma il punto di svolta fu nel 1947. Questa svolta fu insieme un arricchimento e un inquinamento che tuttavia, nel 1949, mi condusse ad abbandonare la composizione musicale. Fu nel 1947 che iniziò una divaricazione nel mio rapporto con la musica perché ciò che mi aveva spinto verso di essa non trovava alcuna corrispondenza con la produzione più recente e anche con quella che io stesso componevo in quel tempo17.


Nel corso dei soli quattro capitoli della Seconda Parte s’infittisce il dialogo con il passato attraverso il ricorso sempre più frequente alla citazione (lettere e frammenti di pagine di diario, appunti e altro genere di scritti inediti, recensioni e programmi di sala). Vorrei sottolineare come questa miscelatura di riflessione odierna e documento originale del tempo passato crei un particolare gioco di rifrazioni e di suggestioni temporali, che va poi accentuandosi nel corso della Terza Parte del volume per via del fatto che il ricorso alla citazione lì diviene ancora più sistematico, finanche strutturale, giacché l’andare avanti del racconto comporta di necessità il recupero all’indietro di frammenti autentici della storia personale, documenti oggettivi del tempo vissuto e registrato in presa diretta. L’altro dato significativo e identificativo della Seconda Parte è la comparsa di figure decisive per il prosieguo dei discorsi e dell’intreccio tra filosofia e musica, tra prassi esecutiva e composizione creativa.
Innanzitutto Fernande Kaeser (1929-2002), pianista svizzera, praticamente coetanea di d’Avalos, allieva di Dinu Lipatti e successivamente di Paolo Denza (1893-1955) a Napoli: a partire dal febbraio 1951 il dialogo si accende per poi snodarsi ininterrottamente grazie ad una assidua frequentazione nel corso dei lunghi soggiorni napoletani della pianista e dei viaggi innumerevoli del principe (e della sua famiglia) in Svizzera. La Kaeser, da un lato, funge da punto di riferimento, da vero e proprio traino per la messa a punto della personalissima teoria dell’interpretazione di d’Avalos, cui vengono dedicate nel libro pagine memorabili; dall’altro, finisce per incoraggiare l’amico napoletano al recupero della pratica attiva della composizione18.
Gli Appunti per una introduzione alla critica dell’interpretazione musicale sono dunque i paragrafi essenziali di questa Seconda Parte, non a caso dotati di una propria intitolazione: il tempo è il fondamento della musica e l’interprete è colui che costruisce il tempo, la durata musicale; il suo lavoro è quantitativamente differente, ma qualitativamente identico a quello del compositore. Mi piace citare due passi che compaiono virgolettati nell’Autobiografia in quanto prelevati dagli appunti del 1952-53:

La composizione musicale comporta successivi momenti dei quali ciascuno è chiarificatore del precedente, così lo strumentare, come trovare una più appropriata armonia e l’ultimo di questi momenti è appunto l’interpretare che non è un fatto che si aggiunge alla creazione artistica, ma è parte [integrante] di questa. […]
La grafia musicale è incompleta e quindi presuppone implicitamente l’intervento di un interprete. Tuttavia un fondamentale principio è che nessun mutamento del testo che poteva essere segnato dall’autore è di per sé accettabile, mentre vi è assoluta libertà [che poi come si vedrà è necessità] in quel campo che non è possibile segnare graficamente.


e un frammento che sintetizza la riflessione odierna di d’Avalos:

La musica si presenta in tre momenti: il primo, le note che si segnano con la pura scrittura musicale e in se stesse non danno adito a dubbi; il secondo, i segni dinamici che si annotano principalmente con le parole o le loro abbreviazioni o con altri simboli, e questi sono indicativi e comportano una certa approssimazione. Entrambi questi due momenti sono opera del compositore. Il terzo momento è l’attuazione temporale (ossia la realtà musicale) dei primi due ed è opera dell’interprete (che può anche essere il compositore stesso) e che deve realizzare col suono la composizione come durata e forma chiusa19.


Il 10 novembre 1951 è la data del primo incontro con Sergiu Celibidache (1912-1996)20 grazie ad un concerto inserito nella stagione annuale dell’associazione Scarlatti: nonostante alcune clamorose divergenze (tra tutte, quella nei confronti del direttore a suo dire assoluto, Arturo Toscanini), risoltesi poi in buona parte col passare del tempo, d’Avalos ha ricavato dall’incontro con il formidabile direttore d’orchestra rumeno, suo maestro di direzione, ma soprattutto di composizione negli anni Sessanta, insegnamenti fondamentali per la sua carriera di compositore e di interprete.
Nel gennaio del ’54, infine, l’incontro a Napoli con Hans Werner Henze (1926-2012), amico stimato, esuberante, generoso e in ascesa ovunque sulla scena musicale coeva; ciononostante, la relazione con il musicista tedesco si presenta sin da subito problematica, finanche conflittuale, malgrado si sia protratta a lungo e sia stata di grande intensità negli anni ischitani e napoletani di Henze. Problematica e conflittuale anche perché sin dai primi anni Cinquanta si fanno urgenti per d’Avalos la questione della composizione, giacché egli aveva ripreso a comporre, e il rapporto salvifico con la tradizione, ovvero con la grande letteratura sinfonica del XIX secolo, da Beethoven a Mahler; inoltre, la fuoriuscita dall’avanguardia, vale a dire la questione della composizione nell’età postdodecafonica e il senso ricostruibile a posteriori dell’esperienza dodecafonica stessa:

La dodecafonia è sorta in opposizione alla tonalità tanto che può dirsi che la tecnica tonale sia il non-essere della tecnica dodecafonica. Questo atteggiamento della dodecafonia verso la tonalità può definirsi anti-tonale; il che è assai diverso dall’atonale. Tale anti-tonalità, da un lato, mostra che la tecnica dodecafonica trova la sua ragion d’essere solo nell’esistenza della tonalità (quindi non è indifferente a questa come lo è la atonalità) e, da un altro lato, essa si presenta come una sistemazione razionale della tecnica armonica di fine Ottocento tutta presa dal continuo modulare21.


Si manifesta così, già a pochi mesi dalla loro conoscenza, una sorta di incompatibilità tra l’orizzonte etico dell’arte (come valore trascendentale e affermativo dell’Io), all’interno del quale d’Avalos inscrive il proprio esercizio compositivo secondo i dettami del pensiero filosofico e musicale ottocentesco, e l’universo culturale e musicale di Henze, totalmente estraneo – per scelta, e non certo per provenienza – a quell’orizzonte e a quei valori22. Si affacciano nel contempo, e in maniera già piuttosto circostanziata, questioni di tecnica compositiva (la musica senza il basso fondamentale, la sostituzione della struttura verticale con quella orizzontale a strati, tecniche divenute imprescindibili all’interno del suo linguaggio della maturità), nonché questioni di poetica e di estetica: la centralità dell’Io, l’affermazione dell’Io assoluto ovvero dell’Io trascendentale immanente nel divenire della coscienza e del mondo, l’arte come espressione oggettivata («gli uomini sono soli, non comprendono che limitatamente sé e gli altri […] solo nelle proprie opere oggettive si può essere compresi»), il che crea rimandi sostanziosi ai capitoli relativi del precedente volume, ove dette questioni, una volta tematizzate, costituiscono oggetto sistematico e distinto di riflessione mentre, nell’Autobiografia, si distribuiscono nel discorso storicamente orientato in maniera fluida, ma fondamentale per ricostruirne la genesi23.
Il viaggio in Germania con l’amico Henze e il senso di una nuova (ancora un’altra) iniziazione concludono la Seconda Parte, accentuando quel sentimento di estraneità e di isolamento già profilatosi dopo l’incontro con il collega d’Oltralpe:

Di quanto avevo appreso nei miei studi […], anche di quel che avevo compreso nell’ascolto della musica, e non ultimo dalle mie letture (ho ricordato prima Thomas Mann), in quest’ambiente d’avanguardia non vi era traccia poiché era del tutto assente il carattere etico della cultura. […] Non avevo compreso che Henze, oltre ad essere per sua natura lontano dalla cultura intesa come affermazione etica del dover essere, subiva la frattura che fu imposta in Germania nell’immediato dopoguerra dall’antinazismo che naturalmente rifiutava tutti gli aspetti della cultura che il nazismo aveva esaltato24.


La Terza Parte include due soli capitoli, rispettivamente dedicati al 1956 e al 1957, gli anni della tormentata e solitaria gestazione di due lavori cruciali, la Prima Sinfonia (1955) e lo Studio Sinfonico (1956, rev. 1982). Si aggiunge ai sodali già menzionati negli anni precedenti la figura decisiva del marchese Pietro La Via (incontrato per la prima volta il 14 luglio 1955 grazie a Giorgio Punzo) e dei suoi discepoli, il nipote Giancarlo Ramondino, e soprattutto Aldo De Simone, cui d’Avalos rivolge parole di sentita gratitudine in cima alle pagine del suo libro25.
S’infittisce il dialogo con il passato – lo si diceva − non soltanto per via dei lacerti sempre più sostanziosi sottratti ai suoi diari e ai suoi appunti, ma soprattutto per via di un andirivieni costante che assimila e direi affratella il discorso musicale e il discorso filosofico. Mentre in superficie riaffiorano in maniera accelerata luoghi persone incontri occasioni viaggi, una girandola di cose davvero impressionante e pulviscolare, sul fronte opposto si assiste al consolidarsi delle esperienze interiori e, tra tutte, di quella decisiva e impronunciabile del palesarsi della prima forma di autocoscienza, anzidetta conoscenza ontologica, nel luglio del ’56, ovvero all’epifania dell’Io religioso (l’Io recitato nel titolo dell’Autobiografia) al termine di un percorso di formazione laicoumanistica improntato ai valori trascendentali derivanti dalla seconda forma di autocoscienza.
Va detto che la questione della duplicità insita nella coscienza dell’uomo e le riflessioni sulle conseguenze religioso-sacramentali della prima forma di autocoscienza, nonché su quelle trascendentali nel caso della seconda forma di autocoscienza, percorrono l’intero volume (si pensi, in particolare, al par. 63 intitolato Sul fondamento della coscienza, una specie di trattatello incastonato nel corpo della Prima Parte)26 e creano quel laccio circolare, anzi concentrico, che va nutrendosi via via di nuove argomentazioni, ma anche di alcune ripetizioni cruciali (ad esempio, le insistite citazioni dalle lettere di Schiller sull’educazione estetica dell’uomo)27. Tra tutte vorrei segnalare in particolare la triplice ricorrenza del frammento dal discorso di Thomas Mann intitolato Il mio tempo (vi aveva fatto riferimento anche nell’altro volume del 2005), nel quale d’Avalos si riconosce sempre più distante dal suo tempo e dalla perniciosa rimozione odierna del passato:

Non è cosa da poco essere appartenuto ancora all’ultimo quarto del secolo XIX – un grande secolo – nel tardo periodo dell’era borghese e liberale, aver vissuto ancora in quel mondo, aver respirato quell’aria; direi quasi con la superbia dei vecchi, che è un privilegio culturale su quelli che sono nati addirittura nel disfacimento dell’epoca presente; una base e una dote di cultura di cui i tardi son privi, senza beninteso che ne sentano la mancanza. […] per un mio istinto che arrivava fino alla coscienza mi attenni all’avita tradizione borghese, al patrimonio culturale del secolo XIX, che per me andava espressamente unito a un senso di grandezza28


Se il libro custodisce l’ultima voce di Francesco d’Avalos e l’arte costituisce «il grido di allarme di coloro che vivono in sé il destino dell’Umanità», giacché «il destino dell’Umanità vive in primis nella coscienza dei creatori di nuova arte e, implicitamente, anche nell’evoluzione del pensiero»29, il lascito complessivo del Maestro attende ancora risposte ai non pochi interrogativi irrisolti, in ispecie per ciò che riguarda le ragioni che hanno alimentato nel corso del tempo un così tenace e almeno duplice isolamento: in ambito cittadino, per via delle obsolete consuetudini della scuola compositiva locale, della quale ha subito limiti e chiusure di orizzonte; sul piano nazionale-internazionale, per via della precocissima fuoriuscita dall’avanguardia e del personale ininterrotto dialogo con i monumenta della tradizione sinfonica occidentale.
Il palazzo d’Avalos di via dei Mille, il fatale palazzo che ha svolto un ruolo devastante nella vita del Maestro, ma che ha continuato ad essere la sua casa, la dimora prediletta aperta all’incontro con l’umanità tutta, custodisce oggi l’immenso suo patrimonio cartaceo, e non solo: l’archivio monumentale della famiglia d’Avalos con quadreria, cimeli e documenti storici di inestimabile valore; i diari e gli scritti di Francesco d’Avalos e il suo prezioso epistolario (migliaia di lettere intrecciate via via nel corso del tempo con familiari e amici, ma anche con innumerevoli personaggi-chiave del mondo musicale contemporaneo); i suoi manoscritti musicali, le carte gli abbozzi le redazioni successive e le revisioni ultime delle sue partiture, perlopiù inedite; le sue registrazioni e le incisioni discografiche di musiche sue e di musiche del repertorio sinfonico ottocentesco (Schumann, Mendelssohn, Brahms, Wagner e il diletto Martucci); infine, la sua sterminata biblioteca di testi storici filosofici letterari esoterici musicali e così pure la sua discoteca con quanto sopravvive dell’altra imponente discoteca paterna. È molto probabile che questo elenco risulti parziale e inadeguato; quel che è certo, è che ciò che sopravvive e si custodisce attende con sollecitudine l’avvio di un’operazione adeguata di catalogazione e di studio sistematico nonché, per ciò che attiene alle musiche, di diffusione e di ascolto.
Non posso non tornare ancora una volta all’Autobiografia e citare un frammento da una riflessione partecipata per lettera all’amica Fernande Kaeser, all’indomani della scomparsa di Benedetto Croce a Napoli nel ’52, nel quale ben si esprime oggi il sentimento che accomuna discepoli e amici tutti nei confronti del Maestro e del suo lascito da valorizzare:

Benché io non avessi mai personalmente conosciuto Croce, né visto, sono rimasto immensamente preso da questo avvenimento; posso dire che da tre giorni ci penso quasi ininterrottamente. Certo per me non si può parlare di un vero e proprio dolore essendo io legato solo da indiretto rapporto, ma ciò nonostante vivo in una pressoché costante commozione. Ho fatto così l’esperienza che la commozione di fronte a simili eventi, che nasce appunto dal trovarsi di fronte a qualcosa di grande, purifica, come il pentimento nel quale la implicita contemplazione del bene da raggiungere risolleva dal male in cui ci si trova operando una sorta di catarsi. Non già che la grandezza di Croce mi riesca nuova, dato che me ne ero reso conto da tempo, ma determinate contingenze ne impongono di nuovo la riflessione che è tanto più intensa per la sopraggiunta morte30.

















NOTE
1 Compositore, pensatore, saggista e direttore d’orchestra, Francesco d’Avalos (Napoli, 1930-2014) appartiene «ad una famiglia storica dell’aristocrazia» italo-spagnola. Ha insegnato contrappunto fuga e composizione nei Conservatori di Bari (1972-1979) e di Napoli (sino al 1998). Ha diretto e inciso, tra l’altro, l’opera orchestrale completa di Brahms, Mendelssohn e degli italiani Clementi e Martucci. Spiccano nel catalogo delle sue opere le due Sinfonie e lo Studio Sinfonico, Hymne an die Nachte, i due lavori teatrali Maria di Venosa (1992) e Qumrân (2002). Per uno sguardo completo al catalogo (ivi inclusi i testi musicati), alla discografia e ai premi conseguiti in ambito internazionale, cfr. Francesco d’Avalos, La crisi dell’Occidente e la presenza della storia. Il significato del Ventesimo Secolo attraverso l’evoluzione della musica, Bietti, Milano, 2005, pp. 293-310.^
2 Cfr. “Gesualdo dentro il Novecento. Convegno internazionale di studi nel quarto centenario della scomparsa di Carlo Gesualdo principe di Venosa (1566-1613)”, Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli, 14-16 novembre 2013: la quarta sessione di detto convegno, presieduta da Renato Di Benedetto e con interventi di Pier Paolo De Martino e Quirino Principe, è stata dedicata alla presentazione dell’Autobiografia di d’Avalos.^
3 F. d’Avalos., Autobiografia di un compositore (1930-1957). Il Religioso Assoluto e l’Io Trascendentale (d’ora in poi d’Avalos), Roma, Aracne, 2014, p. 33.^
4 d’Avalos, p. 819.^
5 «L’arte, come la grande musica, nasce dallo stato estetico della coscienza e consiste proprio nella contemplazione disinteressata della realtà, poi rappresentata e cristallizzata in una forma chiusa che si presenta come il rifacimento della realtà fatta dall’Uomo per l’Uomo. La forma è difatti liberatoria dell’esperienza in quanto sottrae al flusso della vita tutti i significati che compaiono in questa, per rappresentarli nell’assolutezza della forma estetica. […] Per tale ragione considero devastante per la civiltà occidentale l’importanza assegnata alla musica di consumo. Il valore prevalente che si dà di fatto all’espressione immediata, ossia alla comunicazione rispetto a quello della rappresentazione nella forma oggettivata dell’arte, compromette la Libertà (da non confondere con “le libertà”) poiché questa ha le sue radici nella “forma” […], nel sorgere dello “stato estetico” nella coscienza», ivi, pp. 841-845, passim.^
6 Cfr. Album fotografico, ivi, pp. 859-872.^
7 Cfr. ivi, pp. 159-160.^
8 Ivi, p. 264. L’incipit di questo frammento, non a caso qui tra virgolette caporali, si ritrova nelle battute d’esordio dell’altro volume del Maestro, La crisi dell’Occidente e la presenza della storia, cit., p. 15, con la seguente precisazione «[…] infatti nel 1950, all’età di vent’anni, quando avrei dovuto riscontrare nella vita quanto appreso durante la mia prima gioventù, la società era totalmente cambiata e ciò che mi era stato insegnato era quasi completamente inutile, desueto e senza riscontro sociale. Fino alla Seconda guerra mondiale in Occidente vi erano delle impostazioni di vita e dei comportamenti che non erano soltanto apparenza; al contrario, influivano sulla formazione interiore delle persone» (ibid.).^
9 Cfr. ivi, pp. 170 e sgg. Antonio Savasta (Catania, 1873- Napoli, 1959), autore di musiche cameristiche, sinfoniche e teatrali, è stato maestro di contrappunto, fuga e composizione al Conservatorio di Napoli e, a partire dal 1926-27, direttore del Conservatorio di Palermo. Mario Persico (Napoli, 1892-1977) è stato allievo di Gennaro Marciano per il pianoforte e di Savasta per la composizione. Ha scritto molta musica vocale e strumentale e per il teatro Morenita (1920), La Bisbetica domata (1931), La Locandiera (1941).^
10 d’Avalos, p. 194.^
11 Ivi, pp. 231-232. Cfr. il cap. L’estetica, in d’Avalos, La crisi dell’Occidente e la presenza della storia, cit., pp. 71-101.^
12 Anche in questo s’intravede l’impronta crociana in una lunga citazione dal volume Leiden und GrössederMeister: Meerfahrtmit Don Quijote di Thomas Mann (Berlin, 1935): «Dite quel che volete: il Cristianesimo, questa fioritura del giudaismo, resta uno dei due pilastri fondamentali su cui riposa la civiltà occidentale; e l’altro dei due è l’antichità mediterranea. Rinnegare uno di questi due fondamenti della nostra moralità e cultura, o rinnegarli tutti e due, da parte di un qualsiasi gruppo della società occidentale, importerebbe un uscir fuori da questa civiltà e uno strappo violento (che, del resto, grazie a Dio, non è eseguibile) dallo status umano verso non si sa che» (B. Croce, Da un nuovo libro di Thomas Mann, in B. Croce – T. Mann, Carteggio 1930-1936. Napoli e l’Europa, a cura E. Cutinelli Rendina, Napoli, Tolmino, 1909, pp. 27-28: 27).^
13 Cfr. Percorsi della musica a Napoli nel Novecento, a cura di G. D’Agostino, «Meridione. Sud e Nord nel mondo», numero speciale monografico, V, n. 2, aprile-giugno, 5 (2005).^
14 Vittorio Ugo Capone (1912-1980), padre barnabita, poi uscito dall’ordine nel ’53, ha insegnato latino, greco e italiano nei licei di Napoli; in seguito filologia romanza all’Università di Trieste, filologia dantesca all’Università di Bari e infine estetica nel medesimo ateneo. Autore di saggi e libri sul pensiero dantesco, sull’Illuminismo, sulla coscienza del tragico nell’età barocca e in Leopardi, ha fondato e diretto le riviste «Rassegna di Scienze Umane» e «Problemi di Civiltà». Più eclettica la formazione di Giorgio Punzo (1911-2005) per via della doppia laurea in scienze naturali e in filosofia, e un percorso dapprima come novizio nell’ordine dei Gesuiti, poi abbandonato nel ’37, e un lungo periodo di assistentato presso la cattedra di Anatomia comparata dell’Università Federico II di Napoli. Tutti i suoi scritti sono stati riuniti in un’opera monumentale in quattro volumi intitolata L’altro viaggio, Napoli, Denaro, 2000.^
15 d’Avalos, p. 327.^
16 Cfr. ivi, pp. 323-324.^
17Ivi, pp. 313-314.^
18 Va detto che l’interesse per la musica, negli anni della sospensione compositiva, rimane vivo e centrale grazie alla questione dell’interpretazione, anche per via del fatto che Vitale gli aveva procurato, proprio in quel tempo di mezzo, un incarico di critico musicale per la pagina napoletana de «Il Quotidiano» di Roma, cfr. ivi, p. 364.^
19 Ivi, pp. 378-379 e p. 390.^
20 «Nonostante i suoi studi a Berlino e la sua permanenza in Germania, Celibidache aveva della musica una visione non europea. Come constatai anni dopo quando studiai con lui, ma non potevo saperlo nel 1954, i suoi punti di vista erano fondati su principi della massima obiettività, ma proprio i suoi stessi convincimenti potevano essere adoperati nella pratica musicale in maniera opposta alla sua. Specialmente nella musica di Beethoven le sue interpretazioni risultavano perfette, ma deboli, poiché egli, seguendo il principio generale che la risoluzione delle tensioni comporta l’eliminazione di accentuazioni, eliminava ogni forza alla risoluzione conclusiva dei periodi musicali anche dove tali accentuazioni erano sottintese o chiaramente espresse dal compositore», ivi, p. 480.^
21 Da una lettera a Fernande Kaeser del 19 marzo 1952, ivi, pp. 412-413.^
22 E si badi che detta incompatibilità si registrava sullo stesso fronte antiavanguardistico che paradossalmente assimilava il percorso dei due compositori, sia pure non in relazione al medesimo comun denominatore. Sul rapporto d’Avalos/Henze rinvio al mio Eccentrici e isolati [?]: di uno scambio epistolare (e di altri carteggi), di un principe musicista, di un musicista innamorato di Napoli, di una Sinfonia e di uno Studio Sinfonico (appunti sugli anni 1954-1956), in Napoli musicalissima. Studi in onore di Renato Di Benedetto, a cura di Enrico Careri e Pier Paolo De Martino, Lucca, LIM, 2005, pp. 249-272.^
23 Ivi, p. 547. Cfr., inoltre, i capp. L’estetica musicale, La poetica, La tecnica musicale in d’Avalos, La crisi dell’Occidente e la presenza della storia, cit., pp. 71-204.^
24 Ivi, pp. 494-495.^
25 Ivi, p. 4.^
26 Il pensiero filosofico di d’Avalos si fonda innanzitutto su un’accurata analisi dell’essere individuale, altrimenti detto Io empirico-psicologico: quest’ultimo, che forgia non solo la natura umana, bensì tutte le forme di vita animale e vegetale, rappresenta il primo stadio della coscienza, il più basso e incompleto, che porta l’uomo, così come gli altri esseri sufficientemente evoluti, ad avvertire la realtà esterna quale altro da sé, quale molteplicità distinta dal proprio essere. Questa prima fase viene superata tramite un processo di crescita progressiva individuale, processo che, beninteso, non tutti, anzi, pochissimi uomini sono in grado di realizzare appieno. In un primo tempo l’uomo avverte, intuisce, sente che la realtà non è da considerarsi quale alterità, quanto piuttosto quale unione indistinguibile con la propria persona. Tuttavia, a questo primo stadio intuitivo, che d’Avalos considera il fondamento della religione, possono far seguito diversi processi, a seconda della personalità dell’individuo considerato: solo chi riesce a raggiungere la cosiddetta conoscenza ontologica può legittimamente affermare di aver compreso il senso profondo della religione, vale a dire di un potenziamento di sé (un più essere) attraverso un collegamento diretto con il principio Assoluto, e senza alcun annullamento della propria individualità. Questo è quello che viene definito l’aspetto maschile della religione, laddove invece l’aspetto femminile si ricollega alle estasi mistiche che comportano un cedimento di sé e quasi un ritorno simbolico all’utero materno quale unione indifferenziata che annulla le parti nella totalità. A questi due aspetti della religione se ne accompagna un terzo, il più sbiadito, e d’altra parte il più diffuso, vale a dire quello della religione devozionale, fatta di riti, di procedure, di convenzioni delle quali non si avverte il significato. D’altra parte un processo affatto opposto a questo appena analizzato, definito seconda forma di autocoscienza, porta l’individuo a comprendere d’essere soggetto a delle forme a-priori, autoevidenti, che sono predicati dell’Io trascendentale, una sorta di matrice che plasma tutti gli uomini nella loro singolarità, seppure con differente intensità. In questo caso l’Io, pur cosciente dell’unità tra sé e la realtà, pone quest’ultima quale Non-Io, quale oggetto assoluto da comprendere e dominare, ponendo se stesso quale «autocoscienza estetica, conoscitiva, libertà estetica e creatività economica». È un atteggiamento che, a differenza di quello religioso, potremmo considerare attivo e critico: infatti, mentre la conoscenza ontologica, per la sua connessione con il principio Assoluto, ha per scopo che la realtà si compia, viceversa, questa separazione dell’Io dalla totalità, anche se non può non esserne parte, è l’inizio della libertà poiché è l’inizio del libero possesso dell’oggetto ossia attuazione dell’Io come dominio della realtà. Pertanto la coscienza deve essere considerata nelle due forme di autocoscienza, opposte nelle loro manifestazioni, ma unite nel profondo: la prima è un legame con il principio Assoluto come fondamento dell’Io; la seconda consiste in una spinta verso l’oggetto come conquista del non Io. Da quest’ultima nascono l’arte, la filosofia, la scienza, la musica, discipline che devono pertanto essere intese quali forme primarie della coscienza in perenne evoluzione, allo stesso tempo parziali e assolute, da contrapporsi alle opere della religione che, in quanto immutabili (poiché sempre rivolte al ricongiungimento con il principio Assoluto) sono fuori dal tempo, valide in ogni epoca (cfr. ivi, pp. 103-154).^
27 Cfr. F. Schiller, Über die ästhetischeErziehung des menschen (1795), trad. it. Dell’educazione estetica dell’uomo, in una serie di lettere, a cura di C. Baseggio, Torino, UTET, 1951, cit. in d’Avalos, passim.^
28 T. Mann, Il mio tempo cit., ivi, p. 508, ma anche p. 604.^
29 L’aforisma di Arnold Schönberg è citato e commentato nella Premessa in d’Avalos, La crisi dell’Occidente e la presenza della storia cit., p. 9.^
30 Lettera a Fernande Kaeser del 22 novembre 1952, in. d’Avalos, pp. 401-402.^
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