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Per Alberto Varvaro
di Rosa Casapullo

Planhervuelh en Blacatz en aquestleugierso,
/ ab cor trist e marrit.




Non è facile, ed è persino un po’ imbarazzante, raccontare di un maestro muovendo da un punto di osservazione un po’ marginale, esterno alle cerchie degli allievi diretti e a quello degli amici più stretti. Alberto Varvaro è stato ed è, per chi scrive, prima di tutto il professor Varvaro, a partire da anni in cui la parola professore racchiudeva tutta la suggestione, forse anche un po’ mitica, di una ricerca intellettuale che era sinonimo di totalizzante coinvolgimento mentis et cordis. Sotto un diverso profilo, tuttavia, parlarne da un osservatorio decentrato può costituire un vantaggio, quantomeno emozionale. Le frequentazioni con il Professore erano diventate, in questi ultimi anni, occasionali, ormai, e dettate quasi esclusivamente dal piacere di riascoltarlo far lezione, in modo sempre così illuminante. L’intento di questo ricordo non è certo quello di impiantare un discorso critico sulla produzione di Alberto Varvaro, ma quello di ricucire, attorno al filo di ricordi che rimontano agli anni universitari, a quelli della specializzazione dottorale e di un’incipiente carriera accademica, le memorie di un percorso intellettuale che ha esercitato il proprio magistero con la forza della persuasione razionale non meno che con quella della suggestione emotiva. Cercherò, dunque, nelle poche note che seguono, di ricordare la forte personalità che ci ha lasciati sul filo di una memoria a un tempo libresca ed esistenziale. Il primo incontro con Varvaro avvenne attraverso le pagine del suo splendido manuale di filologia e linguistica romanza1. Quello è stato anche il primo impatto con un complesso di idee, di metodi e di contenuti, ancor più, di un modo prospettico di guardare ai testi o ad alcuni problemi apparentemente astratti che, senza tema di tautologia rispetto al titolo, si potrebbe propriamente definire «problematico». Non scettico, beninteso, ma denso di quella problematicità che soltanto la storia umana sa porre a chi si interroghi, in particolare, sul linguaggio verbale e sui testi. Nella premessa alla prima edizione si legge (il corsivo è di chi scrive):
Secondo l’attuale ordinamento delle nostre Facoltà di Lettere l’insegnamento della Filologia Romanza in un solo anno deve dare, per la parte linguistica, a studenti di interessi assai disparati una preparazione sull’intero arco di una disciplina molto vasta e del tutto ignota a chi ha fatto il liceo classico; poiché in genere l’esame di Filologia Romanza esclude quello di Glottologia, questo corso rimane spesso l’unico propriamente linguistico di tutti gli studi universitari. Ciò pone il docente in una situazione assai difficile: come è possibile far sì che in un tempo assai breve lo studente acquisisca una qualche conoscenza della linguistica romanza ed insieme sfrutti utilmente quest’occasione per essere introdotto almeno ai rudimenti del metodo linguistico? S’è pensato che una trattazione storica della linguistica romanza possa risolvere il problema ed insieme, ripercorrendo la via delle successive acquisizioni metodiche, agevoli all’allievo, che per lo più dispone di concetti estremamente rudimentali sulla problematica linguistica2.

Fin dalla prima pagina, dunque, i problemi e i metodi della ricerca linguistica e filologica vi sono ordinati entro un imprescindibile inquadramento storico. Questo potrebbe essere un po’ il filo conduttore di questa memoria, e il segno di un imprinting che ha sigillato, a chi più a chi meno, e nelle modalità diverse che alle diverse personalità si competono, la vicenda umana e intellettuale di alcune generazioni di studenti, fra cui numerosi amici e colleghi che sarebbero diventati stimati storici, filologi, linguisti. La problematicità insita nei contenuti si traduce sul piano retorico e stilistico in un susseguirsi incalzante di interrogative, come si vede nel passo citato oltre:
Ma i concetti sono sempre univoci e nettamente delimitabili? Può l’esame delle denominazioni [...] portare aiuto alla psicologia? Ma come mai una parola come orbo viene usata in Italia sia per ‘cieco’ che per ‘guercio’, ‘miope’ e ‘strabico’, che sono concetti assai diversi? E come mai coxa ‘anca’ è divenuto in italiano coscia, mutando di contenuto semantico e così bucca ‘guancia’ è divenuto bocca3?.

E così via, di domanda in domanda, in una modalità didattica che anziché presentare risposte assiomatiche riesce a movimentare anche la diacronia linguistica più acclarata. Chi lo ha ascoltato viva voce, d’altronde, ricorderà bene il vezzo a un dipresso formulare con cui esordivano, generalmente, le sue discussioni in margine a un intervento altrui: «Non ho ben capito il tale o il tal altro punto»; e ciò che il Professore non aveva capito era, imprescindibilmente, la zona più fragile di un’architettura testuale, la parte meno fondata di un progetto, l’aspetto più corrivo di una lezione. Le interrogazioni non sono un artificio retorico a beneficio dei discenti, bensì l’espressione, nel testo di superficie, se così posso esprimermi, di un rigore che è stato, prima di tutto, mentale.
La tecnica delle domande aperte ritorna in un altro caposaldo della produzione di Varvaro, quelle Letterature romanze del Medioevo che restano, ancora a distanza di tanti decenni, uno dei libri più belli scritti sui testi medievali, in prosa e in poesia, di contenuto laico e di tema religioso. Discutendo il concetto di poesia formale, a proposito della particolare interpretazione datane da Paul Zumthor, questa è la conclusione di un paragrafo densissimo di contenuti:
Per ambedue [= topoi e «motivi»] può parlarsi, come facevamo più sopra, di un particolare codice espressivo o sur-langage ‘sovralinguaggio’, come dice lo Zumthor. Ma abbiamo detto che il codice topico ha comunque un messaggio da tradurre; non accadrà lo stesso per ogni forma di sur-langage4?.

L’articolazione fra l’illustrazione di una teoria e la sua discussione scatta da una batteria di domande, spesso introdotte da un tipico ma, connettivo testuale che, ci ha insegnato Francesco Sabatini, scaturisce dal cuore stesso dell’argomentazione dissuasiva e persuasiva. In questo modo problematico, la storia evenemenziale e, si potrebbe dire, la possibilità stessa dell’esistenza di una referenza esterna ai testi, in ultima analisi, della sostanza esistenziale e non meramente intellettualistica o autoreferenziale della letteratura scaturisce dai generi più sofisticati della letteratura medievale, dalla lirica trobadorica e dalla chanson de geste, formulari, sul piano della lingua poetica e topici, nella scelta dei temi. Nella tensione fra un codice linguistico estremamente formalizzato e una scelta di temi altamente selezionati, il rapporto con la storia non è eludibile né eluso, perché il «passaggio fra realtà e poesia» si salda «nell’opera, in cui il poeta versa la realtà storica secondo il condizionamento tradizionale e secondo ciò che gli impone la situazione presente»5.
Adesione alla storia non ha significato per Alberto Varvaro il rifugio in un mondo falsamente sicuro fatto di accadimenti; ha significato, piuttosto, il recupero di tutta la complessità, aperta e vorrei dire rischiosa, dei fatti storici, e ancor più di quelli linguistici, rappresentati e analizzati nel loro divenire. Il fondamento storico della linguistica romanza di Varvaro risiede principalmente in una curiosità acuta per ciò che pertiene all’umano; è questo il denominatore che accomuna ipotesi minuziose e domande dettate apparentemente dal più comune buon senso, talché anche nelle questioni linguistiche più astratte, poggiantisi su teorie saldamente insediate, si mette in crisi quel tanto di meccanicisticamente immateriale e, in sostanza, alieno dalla considerazione dei fatti congiunturali legati all’agire umano. Come si vede nel brano che segue, nel quale è discusso brevemente il concetto di «legge fonetica», l’attenzione di chi legge è ricondotta da un’astrazione linguistica a una serie di elementi, le parole, appunto, i cui sviluppi vanno individualmente considerati:
Il caso dei dittonghi au [scil.: primario e secondario] ci permette di riflettere sul concetto di “legge fonetica”. È palesemente inadeguato dire senz’altro che au primario e secondario dà in spagnolo o, come se si trattasse di un fenomeno che colpisca senza distinzione né geografica né cronologica tutti i casi in una volta. In realtà la monottongazione si manifesta con precise differenziazioni geografiche, che non sono identiche nei vari casi, e con una sua durata cronologica […] non interessa il dittongo au ma le parole che hanno questo dittongo, una per una, con la loro capacità di reazione, il loro specifico ambito di uso, la loro qualificazione sociale6
.
In questa modalità, contemperante i dati storici con quelli letterari e gli sviluppi linguistici coi dati sociali, sono affrontati alcuni dei problemi fondamentali relativi alle strutture formali e ai contenuti delle letterature romanze, o questioni di pretta diacronia linguistica, come l’evoluzione di F- iniziale latina nel castigliano medievale, o, ancora, capisaldi inerenti alla dissoluzione della latinità linguistica e agli sviluppi delle lingue romanze nel loro complesso. Lungo questa linea di sviluppo, inoltre, la diacronia linguistica, incrociata con l’intelligenza sincronica dei fenomeni, ha condotto alle splendide analisi di sociolinguistica romanza i cui risultati più affascinanti si leggono proprio nelle sintesi sulla fine della latinità linguistica7.
Una delle costanti, in questo ambito, alla base anche della lettura in chiave antropologica di motivi provenienti dal patrimonio folclorico di tradizione orale utilizzati nella letterature romanze medievali8, è l’insistenza sull’osmosi profonda tra latino e volgare:
L’insanabile limite che resta intrinseco a ciascuna delle due opzioni [quella latina e quella volgare] non ci autorizza [...] a separare né, men che meno, a opporre letteratura latina e letterature volgari, perché la permeabilità tra questi universi si realizza non solo e non tanto attraverso le versioni quanto nell’esperienza individuale, all’interno del repertorio culturale degli autori e del pubblico. Basterà ricordare che tutti coloro che conoscono e usano il latino, conoscono e usano anche almeno un volgare (anche se il contrario non è altrettanto diffuso). Inoltre la universale coscienza della dominanza del latino non alza nessuna barriera che renda impossibile il filtrare di atteggiamenti culturali, di tendenze di gusto, di tradizioni formali, di temi, di motivi, ecc., da un livello all’altro, e non soltanto da quello più alto verso quello più basso9.

Restano fondamentali, inoltre, i suoi studi di ambito filologico, specialmente quelli dedicati alla critica del testo. In quest’ambito si rinvengono i lavori dalla vis polemica forse più sottile e convincentemente argomentata. A partire da quella Critica dei testi classica e romanza con la quale ha introdotto le espressioni «tradizione attiva» / «tradizione quiescente», diventate canoniche negli studi di critica testuale10, fino agli interventi più recenti, fondati, fra l’altro, sulla straordinaria esperienza di studioso ed editore delle Chroniques di Jean Froissart, la cui tradizione intricatissima è ulteriormente complicata da una fitta serie di illustrazioni dalla trasmissione non meno tortuosa11.
Muove da questo terreno un atteggiamento scettico nei confronti della cosiddetta «nuova filologia», che scaturisce da un neo-bédierismo di maniera fondantesi su una fiducia aprioristica verso i metodi editoriali informatizzati:
First of all, we Italians are more wary of Foucault and Derrida and, unlike the Americans, we are not been blinded by deconstructionism. We have a not unreasonable fear that this type of «Selbstbedienung» (self-service) of the text from the computer screen [...] will pave the way for the triumph of incompetence and for the creation, however ephemeral, of innumerable inauthentic texts12.

Inoltre, vorrei sottolinearlo, la coscienza storica dello studioso di letterature romanze, del filologo ed editore di testi maniacalmente attento ai dettagli e del linguista è stata sempre radicata su una consapevolezza acutissima («politica», si aggiungerebbe, se non si temesse di incappare in un luogo comune un po’ demodé) del presente e delle sue richieste, cui i «lettori critici» dei testi del passato sono chiamati a dare risposte, senza drammi né vacua retorica, ma anche senza sconti possibili, come ricorda in un intervento di qualche anno addietro:
Anche i filologi, come tutti, hanno delle responsabilità verso la società in cui vivono e sono all’altezza di queste responsabilità se assolvono a due compiti […]. In primo luogo il filologo insegna (dovrebbe insegnare) ad avere la massima cura per la trasmissione dei testi, orali o scritti che siano; in secondo luogo insegna (dovrebbe insegnare) quanto sia delicato e complesso interpretarli correttamente. […] molto più importante è che ci si renda conto che un testo, qualsiasi testo, chiude in sé un problema interpretativo e che, prima ancora, esso va stabilito nella sua forma corretta. La coscienza di questi due problemi è essenziale per un buon funzionamento della società umana, che è fondata appunto sulla trasmissione di testi, ed è questo, a mio parere, che giustifica l’esistenza stessa della filologia e la sua rilevanza culturale e sociale13.

La morte di Alberto Varvaro ha lasciato tutti, amici, colleghi, allievi, un po’ increduli e disorientati: nonostante la sua età non verde e la malattia contro la quale lottava da più di un decennio, sembrava a tutti che la sua presenza non dovesse venir mai meno e che la sua voce ancora per molto avrebbe fatto risuonare una parola rapida come un fendente, precisa e leggera come una lama. Risale a pochissimo tempo fa l’edizione definitiva del Vocabolario etimologico siciliano14, splendido risultato di un lavoro pluridecennale, dal quale il Professore trascelse la parola mafia per esemplificare tutta l’insospettabile complessità dell’analisi lessicale15. Restano i suoi testi, certamente, che saranno, ormai, la sola testimonianza della sua irripetibile «filologia esistenziale»:
Ogni anima discende sulla terra per porre riparo a qualche errore. Come è per i manoscritti così è per le anime: possono esservi pochi o molti errori. Tutto ciò che è sbagliato a questo mondo deve essere corretto. Il mondo del male è il mondo della correzione: questa è la risposta a tutte le domande (I. B. Singer, Gimpel l’idiota).









NOTE
1 Storia problemi e metodi della Linguistica romanza, Napoli, Liguori, 1968.^
2 Ivi, p. 5.^
3 Ivi, pp. 265-266.^
4 Letterature romanze del Medioevo, Bologna, il Mulino, 1985, p. 191.^
5 Ivi, p. 227.^
6 Filologia spagnola medioevale. Linguistica, Napoli, Liguori, 1976, p. 88; il corsivo è di chi scrive.^
7 Id., Origini romanze, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, voll. I e segg., Roma, Salerno, 1995 e segg., vol. I (Dalle Origini a Dante), 1995, pp. 137-174; Problemi di sociolinguistica nelle origini delle lingue romanze, in KulturwandelimSpiegeldesSprachwandels, a cura di K.-E. Lönne, Tübingen-Basel, Francke, 1995, pp. 31-39.^
8 A. Varvaro, Apparizioni fantastiche. Tradizioni folcloriche e letteratura nel medioevo: Walter Map, Bologna, il Mulino, 1994.^
9 Storia delle letterature medievali o della letteratura medievale? Considerazioni su spazi,
tempi e ambiti della storiografia letteraria
, in La scrittura e la storia. Problemi di storiografia letteraria, a cura di Alberto Asor Rosa, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1995, pp. 131-142, a p. 137; il corsivo è di chi scrive.^
10 Si veda, da ultimo, Y. Gomez Gane, Dizionario della terminologia filologica, Torino, Accademia University Press, 2013, p. 339. Questo studio, apparso nel 1970, è stato ripubblicato assieme a molti altri nella ponderosa raccolta Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma, Salerno, 2004, pp. 567-612, curata dagli allievi napoletani per i settant’anni del maestro.^
11 Cfr. A. Varvaro, Il libro I delle ‘Chroniques’di Jean Froissart. Per una filologia integrata del testo e delle immagini, «Medioevo Romanzo», 19 (1994), pp. 3-36; J. Froissart, Chroniques. Livre 3. (du voyage en Bearn a la campagne de Gascogne) et Livre 4. (annees 1389-1400); texte presenté, etabli et commenté par P. Ainsworth et A. Varvaro, Paris, Librairie generalefrancaise, 2004; A. Varvaro, Problèmes philologiques du livre IV des Chroniques de Jean Froissart, in Patrons, Authors and Workshops: Books and Book Production in Paris Around 1400, ed. by G. Croenen and P. Ainsworth, Leuven, Peeters, 2006, pp. 255-277.^
12 The New Philology from an Italian perspective [1999], in Identità linguistiche, cit., pp. 613-622, a p. 621. Su queste questioni è ultimamente disponibile un intervento assai articolato di P. Trovato (cfr. Everything you Always Wanted to Know about Lachmann’s Method. A Non-Standard Handbook of Genealogical Textual Criticism in the Age of Post-Structuralism, Cladistics, and Copy-Text, Padova, libreriauniversitaria.it edizioni, 2014 (in particolare pp. 179-227).^
13 Prima lezione di filologia (Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 142-144).^
14 Vocabolario Storico-Etimologico del Siciliano (VSES), 2 voll., Strasbourg, CSFLS-EliPhi, 2014.^
15 Il video, disponibile su You Tube (https://www.youtube.com/watch?v=6oMWBTzSS0), è la ripresa di una conferenza tenuta a Catania il 21 novembre 2013 all’apertura di un ciclo di seminari organizzati dalla Fondazione Verga e dall’Istituto per la Cultura Siciliana intitolato Gli aspetti e la Storia culturale e linguistica delle Sicilia nelle diverse epoche. Un intervento su mafia è stato pubblicato in «L’Acropoli», 14 (2013), 6.^
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