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Verso la “grande guerra”. I mutamenti economici e sociali in Italia e il contesto internazionale
di Guido Pescosolido
Nella storiografia del secondo dopoguerra il dibattito sullo sviluppo economico italiano in età liberale è stato abbastanza prolungato, vivace, venato di energiche valenze politico-ideologiche. I dissensi hanno riguardato il modello di sviluppo capitalistico italiano nel suo insieme e tutta una serie di aspetti e problemi particolari del primo cinquantennio di vita unitaria, metodologici e contenutistici: dall’attendibilità di numerose fonti statistiche e misuratori quantitativi – indici di sviluppo del reddito e delle principali attività produttive – agli effetti della politica economica dello Stato, al ruolo svolto dalle banche e dal capitale straniero, all’incidenza di fattori internazionali e dell’emigrazione e via dicendo1. Tuttavia i dissensi più accentuati si sono concentrati soprattutto sul periodo precedente l’età giolittiana e assai meno su questa. Per quanto riguarda quest’ultima, ossia i primi quattordici anni del XX secolo, che sono specificamente all’attenzione di questo convegno, i dissensi sono stati sempre abbastanza contenuti e la convergenza su alcune valutazioni di fondo del periodo accentuatamente alta. Posizioni divergenti si sono registrate e si registrano tuttora sul fatto se l’inizio dell’industrializzazione italiana sia da collocarsi o meno nell’età depretisiana e su quali siano stati i fattori propulsivi, l’entità e il significato di quella prima importante accelerazione nello sviluppo economico italiano, ma nessuno pone tuttora in dubbio che l’età giolittiana sia stato uno dei maggiori periodi di sviluppo economico e di trasformazione sociale che la storia dell’Italia unita abbia avuto, inferiore per dinamicità e realizzazioni solo a quello degli anni del miracolo economico; e in particolare nessuno pone in dubbio che, se anche un avvio irreversibile del processo di industrializzazione in Italia si ebbe già a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, di nascita vera e propria di una economia e di una società industriale, sia pure limitatamente all’area del triangolo Milano-Torino-Genova, con qualche discontinua estensione al Basso Veneto, si possa incontestabilmente parlare solo con il primo decennio del XX secolo.
Periodo dunque di grande crescita economica e di marcate trasformazioni sociali quello di cui ci occupiamo, e non solo in rapporto alle condizioni interne dei precedenti decenni, ma anche nel confronto con quel contesto internazionale rispetto al quale l’economia italiana, secondo le più significative rilevazioni statistiche, aveva continuato a perdere terreno sino alla fine del XIX secolo. Va tuttavia precisato preliminarmente che la tempistica del ciclo economico giolittiano non coincise, almeno per quel che riguarda il suo inizio, con quella del ciclo politico e sociale, come invece è dato per scontato in quasi tutti i manuali scolastici e anche in buona parte delle interpretazioni d’insieme dell’età giolittiana, a partire da quella di Croce per giungere, attraverso Salomone, a quelle di Valeri, Spadolini ed altri. In esse, dopo le drammatiche esperienze reazionarie e conservatrici dell’età crispina e dirudiniana di fine secolo, l’avanzata del liberalismo italiano verso la democrazia e il suffragio universale e la splendida stagione della cultura e delle riviste è fatto coincidere in modo pressoché perfetto con il ciclo espansivo dell’economia e con il collegato miglioramento del livello di vita anche delle classi popolari2. Conseguenza implicita di questa sincronicità precisa tra congiuntura politica e ciclo economico giolittiano fu che nell’analisi dei fattori propulsivi di quest’ultimo per molto tempo si fece riferimento in modo nettamente prevalente, se non esclusivo alle scelte di politica economica dei governi di Giolitti, passando molto in sottordine quanto fu invece dovuto a precise scelte e realizzazioni effettuate negli anni del cosiddetto autoritarismo crispino, se non anche prima. Sul finire degli anni Settanta del secolo scorso si distinse decisamente da questa linea interpretativa Emilio Gentile, il quale nella sua sintesi di insieme sull’età giolittiana pose decisamente in rilievo le realizzazioni del governo Crispi ai fini dello sviluppo industriale del paese3.
A conferma di tale visione nelle serie statistiche dei principali indicatori economici si trova certo piena conferma di tutta l’importanza del boom dell’età giolittiana sino al 1913, ma si riscontra anche che la ripresa economica, dopo il crollo del 1887-90, iniziò alquanto prima del 1900, per la precisione verso la metà degli anni Novanta, e quindi prima della seconda, prolungata esperienza governativa di Giolitti. Dalle stime più e meno recenti è stato rilevato che la ripresa del PIL dopo la flessione del 1889-90 si ebbe a partire già dal 1893-4, quando, calcolato a prezzi costanti del 1911, superò per la prima volta i 15 miliardi di lire e poi i 16 nel 1898 e i 17 nel 1901. Fu una crescita certo inferiore a quella dei successivi tredici anni, che nel 1913 portò il PIL a superare i 23 miliardi di lire, nonostante la crisi del 1907, ma pur sempre una crescita rispetto al ristagno del quinquennio precedente. Conferma di ciò è data anche dall’andamento del PIL pro-capite, in ascesa dalle 497 lire del 1893- 95 alle 521 del 1901 alle 656 del 19134, nonostante il forte aumento di popolazione, passata dai 31,4 milioni di abitanti del 1891 ai 36,3 del 19135, ed è confermato anche dagli indici della produzione industriale e da quelli sull’andamento della produzione agricola6. Una crescita del PIL pro-capite a prezzi costanti ai primi anni Novanta, dopo la battuta d’arresto del 1888-91, è evidenziata dal logaritmo del PIL pro-capite a prezzi costanti riportata nel recente lavoro di Alberto Baffigi7.
Se è vero quindi che i miglioramenti del livello di vita delle masse popolari divennero sensibili solo con l’inizio del nuovo secolo, è vero anche che le condizioni economiche perché ciò avvenisse cominciarono a crearsi sin dalla seconda metà degli anni Ottanta dell’Ottocento e che i principali fattori propulsivi della crescita giolittiana erano ormai già tutti attivi nel 1896: le riforme amministrative e istituzionali del 1887-89, il risanamento del bilancio dello Stato (1894-95), il completamento della rete ferroviaria a binario unico su scala peninsulare e il potenziamento complessivo di tutte le altre infrastrutture, la scoperta della trasportabilità dell’energia elettrica, il protezionismo doganale (1887), la riorganizzazione delle strutture creditizie con la nascita della Banca d’Italia (1893) e l’avvento della banca mista [1894-95, la ripresa della congiuntura economica internazionale (1896)], l’esplosione dell’emigrazione di massa transoceanica iniziata dalla metà degli anni Ottanta8. Alcuni di questi fattori – tecnici e di ordine internazionale – non erano ascrivibili alla politica economica dei governi pre-giolittiani (congiuntura internazionale, scoperta della trasportabilità dell’energia elettrica, aumento della popolazione con annesso fenomeno migratorio), ma altri sicuramente si, in primis il risanamento del bilancio del 1894-95 e poi gli investimenti in capitale fisso sociale (ferrovie e opere pubbliche9), il risanamento del sistema bancario, il protezionismo, anche se quest’ultimo con forti riserve da parte di più di uno studioso10, senza dimenticare le riforme amministrative e l’ammodernamento del quadro giuridico-istituzionale frutto delle iniziative riformatrici della prima esperienza di governo di Francesco Crispi11.
Ovviamente in età giolittiana vi furono interventi dello Stato che incisero positivamente sulla continuazione e rafforzamento del trend avviato nel 1893-6, ma la cornice di fondo entro la quale essi si mossero rimase sempre quella esistente nel 1896. Inoltre i provvedimenti governativi presi sin dall’inizio del nuovo secolo più che agire in senso propulsivo e di indirizzo dello sviluppo, come era avvenuto sino a tutta l’età crispina, o furono finalizzati a raccogliere i frutti di quanto realizzato da Crispi, come nel caso del consolidamento del debito pubblico e della rendita del 1905, che fu reso possibile dal pareggio di bilancio raggiunto a partire dal 1894-95 che aveva consentito per quasi 10 anni allo Stato di non dover più fare ricorso al mercato finanziario; o tesero più a rispondere alla domanda di servizi civili che cresceva nel paese, attenuare gli scompensi sociali e gli squilibri territoriali connessi all’impetuoso sviluppo industriale, fronteggiare le crisi finanziarie e bancarie susseguenti alla grave battuta d’arresto del 1907 e alla guerra di Libia12. Per lo più in quest’ottica sono stati recentemente inquadrati la statizzazione delle ferrovie, la tendenziale astensione del governo nella soluzione dei conflitti tra capitale e lavoro, le prime politiche di tutela di quest’ultimo e l’istituzione dell’INA, la politica di rivalutazione degli stipendi degli impiegati pubblici (maestri elementari, segretari e impiegati comunali) e dei ferrovieri – dei cui aumenti salariali una parte fu assunta in carico dal governo –, il grande sviluppo dei servizi civili attraverso le municipalizzate13.
Sulla base di precisazioni sui tempi di inizio e sulla natura dei suoi fattori propulsivi si può meglio approfondire e articolare il discorso su una crescita che, come abbiamo già detto, fu nettamente superiore a quella di qualsiasi altro precedente periodo della storia nazionale. Il saggio di incremento medio annuo del prodotto interno lordo a prezzi costanti nel periodo 1896-1913 fu del 2,8% contro lo 0,9% del 1861-1876, lo 0,5% del 1876-1888 e lo 0,8% del 1888-1896. La crescita del PIL fu sostenuta da un’espansione vistosa degli investimenti, sia in termini assoluti sia in termini di percentuale sul reddito. A prezzi costanti essi salirono dai 3,1 miliardi di lire del 1897 ai 7,3 del 1898, ai 17,5 miliardi del 1907 e ai 18,4 del 1913, moltiplicandosi quasi per sei volte. In percentuale sul reddito si passò dal 5% del 1897 all’11% del 1898, al 13% del 1900, al 20% del 1907, al 19% del 191314.
Oltremodo significativo della vitalità reale dell’economia italiana fu inoltre il fatto che gli investimenti rimasero sempre largamente basata in prevalenza su risorse interne. È stato in effetti fondatamente affermato che il capitale straniero, per quanto strategicamente importante, non ebbe mai una funzione predominante nello sviluppo economico italiano, specie nell’industrializzazione dell’età giolittiana15. Certo, non si è inteso con ciò sottovalutare l’importanza del capitale francese impegnato sin dai primissimi anni di vita unitaria nelle costruzioni ferroviarie e nelle strutture creditizie, ma ritiratosi poi vistosamente dagli anni Ottanta in poi16; o dimenticare quella del capitale inglese, impegnato sin dalla fine del Settecento in alcuni settori dell’industria mineraria e metalmeccanica, e che dopo l’unità aveva allargato i suoi interessi ai trasporti su rotaia, e successivamente si era distinto sempre più nel settore della distribuzione del gas e dell’acqua. Né che esso era stato affiancato dal capitale belga, significativamente presente anche nelle costruzioni tramviarie e nell’industria saccarifera. E neppure è stata ignorata l’azione del capitale austriaco, che si concentrò nelle società di navigazione e assicurative, o quello svizzero presente nel tessile italiano e per di più meridionale già prima dell’Unità. Il capitale tedesco, infine, toccò il picco di massima presenza nella penisola proprio in età giolittiana, quando assunse posizioni importanti nelle industrie metalmeccaniche, elettriche ed elettromeccaniche, dove era presente, ma in misura minoritaria, anche quello svizzero. Ma proprio sui limiti settoriali e cronologici di questa presenza si sono espressi studi autorevoli 17, a conferma della conclusione che la quota di stock di capitale detenuta dagli stranieri, dopo essere caduta dal 15% del totale nel 1880-1890 al 6% nel 1900, non superasse nel 1913 l’8%, con una contrazione quindi di circa il 50%, e che quindi la prevalenza delle risorse interne nel finanziamento del sistema economico nazionale rimase sempre netta.
I dati sul risparmio confermano la rilevanza della capacità di accumulazione interna dell’economia italiana in quegli anni. Dalla media di 2 miliardi annui nel 1896-1897 il risparmio balzò nel 1898 a 5 miliardi per raggiungere 12 miliardi nel 1907. Negli anni successivi si ebbe un assestamento, ma nel triennio 1911-1913 fu pur sempre in media di 10,4 miliardi all’anno, con un incremento di 5 volte rispetto al 1896. La crescita fu notevole anche in termini di percentuale sul reddito, con un andamento abbastanza simile a quello degli investimenti. Dal 4,1% del 1894-1895 passò al 7,7% del 1898 e al 13,8% del 1907. Poi vi fu una flessione seguita alla crisi, ma nel 1908-1913 si ebbe pur sempre una media annua del 10,4%, più che doppia rispetto quella del 1894-95.
Sulle statistiche relative alla produzione fisica in età giolittiana sussistono dubbi assai minori che su quelle relative all’età precedente, data la più solida organizzazione del servizio statistico nazionale realizzata proprio all’inizio del nuovo secolo. L’aumento di produzione e produttività non riguardò solo le attività industriali che nel triangolo realizzarono un’autentica rivoluzione, ma anche le attività terziarie e quelle agricole, anche se queste ultime arretrarono per la prima volta in termini di percentuale sul totale nazionale sia del PIL che dell’occupazione. Dai dati dell’Istat emerge che la produzione agricola crebbe nell’ultimo quarantennio dell’Ottocento dello 0,4% in media all’anno. Dal 1896 al 1913 il tasso medio annuo di sviluppo fu invece del 2,1%, uno dei più alti di tutta la storia unitaria. Intorno al 1910 le rese unitarie dell’agricoltura italiana superavano quelle dell’agricoltura inglese18. La cerealicoltura nazionale, all’ombra del dazio sul grano – portato nel 1894 a 7,5 lire per quintale dalle 3 lire del 1887 – e di quello sul riso e sullo zucchero, si salvò definitivamente dal micidiale attacco mossole sin dalla fine degli anni Settanta dai grani americani. E non si salvò attraverso una mera difesa passiva delle forme più arretrate di organizzazione tecnico-colturale e di relazioni sociali, come sostenuto dalla polemica liberista coeva, ma grazie a uno sforzo di ammodernamento che negli anni a cavallo dei due secoli interessò oltre alle aziende capitalistiche e quelle a compartecipazione del Centro-Settentrione, anche il latifondo meridionale. Nel 1910 Lorenzoni affermava che in Sicilia su 539 latifondi esaminati, ben 232 avevano introdotto miglioramenti tecnici di una certa rilevanza e 201 erano condotti direttamente dai proprietari. Progressi analoghi sono documentati con certezza anche per la parte continentale del Mezzogiorno.
La produzione di frumento, dopo la paurosa flessione degli anni Ottanta riprese a crescere negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo superò qualunque precedente livello. Stesso andamento ebbe la produzione degli altri cereali e in particolare quella del riso, che tra il 1896 e il 1915 si triplicò. Crebbe anche la produzione di quasi tutti gli altri generi, dall’olio al vino, agli agrumi, alla barbabietola da zucchero, passata dai 190.000 q. del 1896 ai 28 milioni di q. del 1913. Notevole anche l’espansione del settore lattierocaseario: tra il 1892 e il 1913 aumentò del 42% la produzione di latte, del 75% quella di burro e quasi raddoppiò quella di formaggio19. Si riprese anche a produzione di bozzoli che, secondo i calcoli di Fenoaltea, fu anche più consistente di quella segnalata dai dati Istat. In ogni caso, nonostante le difficoltà insorte all’inizio del secolo sui mercati internazionali a causa della concorrenza asiatica, alla vigilia della guerra l’Italia restava il maggior produttore europeo di seta grezza e il terzo nel mondo20.
L’espansione della produzione agricola fu ottenuta grazie sia all’estensione delle superfici a coltura sia a miglioramenti tecnici e quindi di produttività. Gli investimenti in agricoltura dalla media di 256,7 milioni di lire del triennio 1889-1891 salirono ai 513 milioni del 1899 (prezzi 1938) ai 692 del 1907-1909. In particolare, la spesa per miglioramenti fondiari balzò dal minimo di 169 milioni del 1890 ai 429 milioni del 1897-1898 e ai 538 del 1907-1908; quella per macchine e attrezzi agricoli triplicò tra il 1890-1893 e il 1909-1911, e quella per le bonifiche raddoppiò tra la media annua del 1891-1893 e il 1910-191221.
La continuità e l’entità dello sviluppo tecnico della cerealicoltura sono confermate dalla diffusione crescente delle piante foraggere, soprattutto nel Nord, ma anche in buona parte del Centro e in alcune aree sia pur limitate del Sud. La caratteristica più peculiare del periodo giolittiano fu il grande aumento dell’impiego di concimi chimici, il cui consumo passò dalle circa 30.000 tonnellate annue degli anni Ottanta alle circa 1.220.000 del 1913. I concimi di produzione nazionale salirono al 78% del totale, con una riduzione decisa del grado di dipendenza dall‘estero. Ma anche i miglioramenti delle attrezzature agricole, soprattutto nelle zone di pianura, furono senza precedenti. Le importazioni di macchinari agricoli passarono da un valore di 1,5 milioni di lire nel 1895 a 23,6 nel 1911 e anche la produzione nazionale di esse aumentò in misura significativa. La risultante di tutto ciò fu un innalzamento senza precedenti e diffuso in tutta la penisola, ma in particolare nel Centro-Nord, dei rendimenti del frumento22 e della produttività in genere23. Il tasso di crescita medio annuo dell’agricoltura passò dallo 0,3% del 1861-81 all’1,0% del 1881-191124.
Si ebbe nel contempo un forte abbassamento dell‘auto-consumo connesso all’aumento del livello di commercializzazione e alla completa unificazione e fluidificazione del mercato nazionale, resa possibile dallo sviluppo della rete stradale e ferroviaria. Studi di Giovanni Federico hanno documentato che la riduzione dell’autoconsumo contadino e la commercializzazione della produzione agraria italiana raggiunsero in età giolittiana livelli vicini a quelli della Francia e della Svizzera ed erano di poco inferiori a quelli degli Stati Uniti.
Profondi ed estesi furono i cambiamenti nella geografia dei rapporti di produzione in agricoltura. Il fenomeno più vistoso fu la grande espansione dell‘azienda capitalistica di medie e grandi dimensioni, dotata di macchinari agricoli e manodopera salariata a scapito delle più svariate forme di compartecipazione che caratterizzavano l’area centro-settentrionale, ma anche a scapito della piccola proprietà contadina non autosufficiente e del latifondo meridionale, tendente più decisamente che in passato ad assumere i caratteri e le dimensioni della moderna impresa capitalistica. I lavoratori salariati e avventizi aumentarono tra il 1891 e il 1911 dal 46 al 52,8% degli addetti, mentre i «conduttori di terreni propri», in larga parte contadini micro-proprietari, scesero dal 24,7 al 18,1%.
Questa pur imponente e vitale fase espansiva dell’agricoltura italiana e i processi di trasformazione e di sviluppo ad essa connessi, furono nettamente superati da quelli delle attività secondarie e terziarie che fecero registrare in quegli stessi anni incrementi di produzione, produttività e reddito molto maggiori di quelli delle attività primarie, per cui, nonostante la crescita nei valori assoluti, la quota di partecipazione dell’agricoltura alla formazione del prodotto lordo privato per la prima volta dall’Unità diminuì in misura significativa, contraendosi tra il 1896 e il 1913 dal 49,3% al 45,3%. Nella distribuzione della popolazione attiva la forza lavoro dell’industria crebbe tra il 1901 e il 1911 di circa 500.000 unità, mentre quella dell’agricoltura diminuì di 600.00025.
Il motore principale dello sviluppo capitalistico e della trasformazione della società italiana a cavallo dei due secoli fu dunque l’industria. Anche in questo caso non sussistono dubbi che il punto di svolta sia stato intorno alla metà degli anni Novanta. Stando all’indice del Gerschenkron, il saggio medio annuo di variazione della produzione industriale nel 1896-1908 fu del 6,7% e del 2,4% nel 1908-1913, ma anche gli altri indici (Istat, Carreras, Maddison, Fenoaltea), al di là delle differenze di intensità nelle variazioni rispetto ai periodi precedenti, grosso modo indicano tutti per gli anni a cavallo dei due secoli saggi di sviluppo superiori a quelli dei cicli e fasi precedenti, anche quando tendono a valorizzare la consistenza dell’espansione dell’età depretisiana26. Negli scambi commerciali con l’estero già nel quadriennio 1894-1897, a fronte di una flessione delle esportazioni dei semilavorati, si ebbe un cospicuo incremento delle esportazioni di prodotti finiti dell’industria, superiore di oltre tre volte a quello registrato nei generi alimentari e nelle materie grezze. Rispetto alla media del triennio 1888-1890 le esportazioni di generi alimentari aumentarono del 21%, quelle di materie grezze del 17%, ma quelle di prodotti finiti industriali crebbero del 63%. Gli investimenti in impianti e attrezzature uscirono dalla depressione dei primi anni Novanta e passarono da 3.520 milioni di lire nel 1895 a 10.436 nel 1914. La partecipazione dell’industria alla formazione del prodotto privato interno lordo crebbe dal 19,4 al 24,7%.
Nel 1913 nella composizione del capitale azionario complessivo le società varie, comprensive di quelle propriamente industriali, giunsero a rappresentare il 66,5% del totale, contro il 13,2% delle banche e il 20,3% dei trasporti, mentre nel 1872 i valori percentuali erano stati rispettivamente pari al 25,5%, al 57% e al 15,7%. Tra il 1903 e il 1911 si verificò un aumento percentuale degli addetti alla metallurgia dal 2,8% al 16,2%, alla meccanica dall’8,5% all’1l,2%, all’abbigliamento cuoio e pelli dal 5,1% al 12,5%, a fronte di una flessione nei più tradizionali settori dell’alimentare dal 14,4% al 13,2% e del tessile dal 32,1 al 21,5%.
Inequivocabile la superiore dinamicità delle industrie produttrici di beni di investimento: in particolare l’elettrica, la siderurgica, la meccanica, la chimica, che utilizzarono una serie assai ampia di innovazioni tecnologiche specie nella produzione e applicazione dell’elettricità ai processi produttivi (elettromeccanica, elettrochimica), nei trasporti (motore a combustione interna), e in quello sconfinato dei ritrovati chimici. La diffusione dell’industria elettrica rappresentò l’evento finanziario, tecnologico e produttivo più importante per un paese come l’Italia gravemente carente di carbon fossile ma riccamente dotato di cadute d’acqua nelle valli alpine e appenniniche. La potenza installata passò dai 36.000 kWh del 1895 ai 114.000 del 1900, ai 624.000 del 1910, agli oltre 1.000.000 del 1914. Nel 1898 la produzione fu di 100 milioni di kWh; nel 1909 fu di 1.097,9 milioni di kWh e nel 1914 di 2.311 milioni27. Nel 1911 le industrie trasformatrici raggiunsero un grado di elettrificazione medio del 45%. Strettamente collegata all’industria elettrica, anche quella elettromeccanica fece segnare notevoli sviluppi specie nella produzione di materiale idroelettrico, anche se il mercato rimase largamente dominato dall’industria straniera che alimentò un crescente flusso di importazione divenuto impetuoso alla vigilia dello scoppio del conflitto.
Tra le industrie manifatturiere i maggiori aumenti di produzione si ebbero nella siderurgia, che si sviluppò secondo Gerschenkron al saggio medio annuo del 12,4% nel 1896-1908 e del 6,1% nel 1908-13. Allo stabilimento di Terni si aggiunsero, nei primi anni del secolo, oltre a una serie di medi e piccoli impianti come quelli di Voltri, Prà, Bolzaneto, Rogoredo, Torre Annunziata, Sesto S. Giovanni, Torino, Udine, i grandi centri a carbon coke di Portoferraio, Piombino e Bagnoli, la cui costruzione segnò una tappa di cruciale importanza nella storia della siderurgia italiana, perché con essi fu avviata per la prima volta in Italia la produzione di acciaio utilizzando il minerale elbano, fino ad allora quasi interamente esportato. Lo sviluppo della produzione di acciaio salì dalla media annua delle circa 60.000 tonnellate del 1895-1897 alle 933.500 del 1913. Secondo Fenoaltea il valore aggiunto della metallurgia a prezzi 1911 passò dai 29 milioni di lire del 1896 agli 85 del 1908, e poi ai 115 del 1913 (dal 1889 al 1894 era scesa da 37 a 29). Intenso anche lo sviluppo della meccanica il cui valore aggiunto passò dai 395 milioni di lire del 1896 ai 762 del 1908 e agli 856 del 1913 (dal 1888 al 1892 era sceso da 447 a 363), e ancor più quello della chimica, con valore aggiunto balzato dai 56 milioni di lire del 1896 ai 136 del 1908 e ai 192 del 1913 (dal 1887 al 1894 era passato da 38 a 52)28.
All’espansione dei settori più moderni fece riscontro anche quella dei prodotti alimentari, in particolare dell’industria protetta dello zucchero, la cui produzione balzò dalla media annua di 4.000 tonnellate nel 1896-1898 a 221.000 nel 1911-1913, e di quella del tessile, anche se in termini più contenuti, data la modestia dei progressi dell’industria della lana, le prime difficoltà dell’industria serica e la grave battuta d’arresto nel 1907 di quella del cotone. Nell’insieme la produttività del lavoro nell’industria crebbe nel 1881-1911 con tasso di crescita medio annuo del 2,0% contro lo 0,4% del precedente ventennio29. Furono le dinamiche produttive che, non note o sottovalutate dai contemporanei influenzati dall’antigiolittismo di destra e di sinistra e dagli osservatori impressionati dalla grande marea emigratoria, più di tutte hanno autorizzato successivamente a parlare di un boom dell’industria italiana con pochi raffronti fino al miracolo economico del secondo dopoguerra.
Allo sviluppo delle attività primarie e secondarie corrispose peraltro un proporzionato sviluppo anche delle terziarie. Nel 1896-1913 i servizi registrarono un saggio di incremento medio annuo dell‘l,7% contro lo 0,9 del 1861-1896. Il movimento generale della navigazione per operazioni di commercio crebbe considerevolmente. Le merci imbarcate dai porti italiani raddoppiarono abbondantemente tra il 1894 e il 1912, passando da 4,5 a 8,4 milioni di tonnellate, mentre quelle sbarcate quasi triplicarono tra il 1893 e il 1912, passando da 8,5 a 23,6 milioni di tonnellate. Tra il 1895 e il 1913 i passeggeri in arrivo giunsero quasi a quadruplicarsi (da 425.000 a 1.522.000) come pure quelli in partenza (da 487.000 a 1.723.000). Anche in questo caso il potenziamento dei servizi e l’aumento dei consumi fu visibile già a partire dal 189630. Tra 1895 e 1914 gli uffici postali passarono da 4.778 a 10.163, la corrispondenza da 493 a 1.515 milioni di pezzi, i pacchi importati da 6,6 a 16,2 milioni, i vaglia pagati da 9,5 a 29,9 milioni di unità31. Il prodotto della pubblica amministrazione si accrebbe negli stessi intervalli al ritmo medio annuo rispettivamente del 3,1 e dello 0,8%. In definitiva, le attività terziarie dimostrarono nel loro insieme di tenere il passo dello sviluppo medio del resto dell’apparato produttivo, mantenendo invariata intorno a1 30% la loro quota di partecipazione al prodotto lordo privato. La produttività del lavoro nei servizi crebbe tra il 1881 e il 1911 al ritmo dell’1,9% all’anno, contro il -0,1% del ventennio precedente. Nell’insieme la produttività dell’economia italiana si sviluppò al ritmo medio annuo dell’1,5% nel 1881-1911 e dello 0,2 nel 1861-1911. Il PIL pro-capite fece registrare negli stessi intervalli saggi di variazione medi annui rispettivamente dell’1,0% e dello 0,6% 32.
Questa crescita economica generale fu realizzata in un contesto di relazioni economiche internazionali che mutò radicalmente rispetto alla situazione che si era creata con l’Unità e che si era protratta sino alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo. Anche in questo caso il punto di svolta si ebbe prima dell’inizio del XX secolo e fu costituito dal ribaltamento della politica commerciale deciso nel 1887 col passaggio al protezionismo e l’abbandono del liberismo adottato nel 1861. Nel corso dell’età giolittiana la nuova linea non fu rimessa in discussione e anzi, intellettuali anche meridionalisti – come Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti –, che in un primo momento l’avevano criticata, si convinsero della sua ineluttabilità.
Il nuovo corso di politica commerciale inaugurato nel 1887 aveva avuto come obiettivi emergenziali immediati: a) la riduzione dell’insostenibile deficit della bilancia commerciale con l’estero creatosi negli anni Ottanta in seguito all’invasione dei grani americani e all’incremento dell’importazione di fonti energetiche e beni strumentali; b) la salvezza della cerealicoltura nazionale; c) la tutela dei settori industriali di base. Come obiettivo di medio termine aveva puntato all’allargamento della geografia dei partner e alla sottrazione dell’Italia alla pericolosa mono-dipendenza dagli scambi commerciali con la Francia. La riduzione drastica del deficit commerciale e la messa in sicurezza della cerealicoltura nazionale (quella capitalistica del Nord e quella latifondistica del Sud) erano stati in pratica raggiunte nella prima metà degli anni Novanta anche se il deficit della bilancia commerciale nel nuovo secolo, proprio nel periodo di maggior slancio dell’industrializzazione, sarebbe tornato a farsi preoccupante33. La riduzione del deficit fu conseguita con una decisa contrazione degli scambi, ma dalla seconda metà degli anni Novanta e fino al 1913 si ebbe una ripresa continua e consistente sia del volume complessivo degli scambi, sia del grado di apertura internazionale dell’economia italiana34 con un significativo allargamento della geografia dei partner commerciali, il che significava una minore vulnerabilità alle ritorsioni francesi e una maggiore stabilità e sicurezza della bilancia commerciale e dei pagamenti.
Secondo i dati del Tagliacarne la media annua del valore delle esportazioni italiane in Francia crollò dal 35,0% del totale del decennio 1881-1890 al 13,8% del 1891-1900, all’11,2% del 1901-10. Il crollo dell’interscambio con la Francia fu solo in parte compensato dai mercati degli Imperi centrali. La sostituzione maggiore avvenne invece mediante i mercati transoceanici. La percentuale delle esportazioni dirette in Germania passò infatti dal 9,3% al 15,6%, per assestarsi poi al 14,9%, mentre quella delle esportazioni destinate in Austria crebbe solo dal 10,4% all’11,3% per scendere addirittura all’8,5% nel primo decennio del secolo. Nel contempo la quota del valore delle importazioni dalla Francia scese dal 19,5% all’11,7 e infine al 10,0% del totale e quella della Germania aumentò nei tre decenni tra il 1881 e il 1910 dal 9,1% al 12,2% e al 15,3% del totale, la quota del valore delle importazioni dall’Austria si contrasse dal 14,4% al 10,6% e infine al 9,6%, a testimonianza di una complementarità con il sistema economico austriaco irrimediabilmente declinante e con quello tedesco solo moderatamente crescente35. Il maggior partner commerciale dell’Italia per le importazioni divenne quindi il Regno Unito, anche se con una flessione in percentuale sul totale dal 20,4% del 1891-1900 al 16,6% del 1901-10 e con una quota di assorbimento delle esportazioni italiane in calo nel contempo dall’11,1% al 9,0% del valore totale esportato dall’Italia. La novità più rilevante furono dunque i consistenti mercati apertisi al di fuori dell’Europa: in Africa, in Asia, e soprattutto nelle Americhe, dove nel 1901-1910 si diresse il 22,3% delle esportazioni italiane contro il 9,7% del 1881-1890 e da dove provenne il 16,7% del valore totale importato nel 1901-10, contro il 7,2% del 1881-90. Nel contempo la percentuale in valore delle esportazioni italiane assorbita dai mercati europei scese dall’86,3% al 70,2% e quella delle importazioni passò dall’84,1 al 71,4.
Furono dunque gli emigrati italiani negli Stati Uniti e in Argentina, anche se a prezzi meno remunerativi di quelli europei, a compensare la parte più cospicua delle perdite subite sul mercato francese. La quota del valore esportato negli USA passò dal 5,8% del decennio 1881-90 al 12,2% del decennio 1901-10 e in Argentina dal 2,5 al 6,6%; l’import dal 5,0 al 12,6 per gli USA e dall’1,1 al 2,3 per l’Argentina36.
Questi movimenti di fondo nella geografia dei flussi commerciali a cavallo dei due secoli (drastico ridimensionamento della posizione della Francia – crescita di quella della Germania anche se non compensativa del crollo francese – ridimensionamento della posizione austriaca – tenuta della Gran Bretagna –, sensibile ridimensionamento del commercio con l’Europa a favore degli scambi con l’Asia e ancor l’America), sono confermati e in alcuni casi accentuati dalle più recenti e precise elaborazioni statistiche pubblicate nella collana storica della Banca d’Italia37. Esse delineano sicuramente in quadro di maggiore stabilità collegato a cambiamenti di rilievo anche nella composizione merceologica. La rottura con la Francia si tradusse infatti in uno storico ridimensionamento delle esportazioni di vino da taglio e comune, mentre iniziò una ascesa nell’esportazione di vini scelti con risultati d’insieme più che soddisfacenti nelle quantità e nel valore rispetto al crollo del 1888-90. L’esportazione di seta greggia, stazionaria tra il 1888 e il 1894, giunse nel 1906 a raddoppiare in quantità38, anche se i prezzi declinanti vanificarono in parte il risultato economico. La posizione egemone della seta tra i prodotti esportati rimase comunque largamente indiscussa. La sua quota sul totale, rimasta incrollabilmente ferma intorno al 30-28% tra il 1862 e il 1886, fu ancora del 27,3% nel 1891-95 e del 27,6% nel 1900-1904. Solo nel 1909-13 scese al 18,2%, ma mantenendo pur sempre un primato che vedeva il secondo prodotto esportato seguire a una distanza ancora impressionante con solo il 3,8%. Per di più si trattava dei tessuti di seta, seguiti al terzo posto dai tessuti di cotone con il 3,4% del totale. Per trovare cambiamenti significativi bisogna quindi guardare dalla seconda posizione in giù. In questo caso vediamo che in termini assoluti tra la fine dell’Ottocento e il 1913 crebbero sensibilmente in quantità le esportazioni di pasta di frumento, agrumi, formaggi, frutta secca, collocate in Europa centrale e Gran Bretagna. Crebbero anche quelle di pasta di frumento e soprattutto di filati e tessuti di cotone largamente esportati in America latina. Furono invece mediamente stazionarie quelle di olio d’oliva e declinanti quelle di zolfo. L’andamento dei prezzi vanificò la crescita quantitativa dell’esportazione di agrumi e tessuti di cotone, e anche quella della seta, trasformò in tracollo il declino dello zolfo, ma nell’insieme non compromise l’andamento ascendente del valore dell’export39.
Le conseguenze sulla composizione percentuale furono invece piuttosto vistose. Proprio dopo il 1895 si spezzò il predominio della triade seta-olio d’oliva-vino che perdurava dal 1882-86 con, rispettivamente, il 28,2%, il 6,7% e il 5,9% del totale. Già nel 1900-4 troviamo la nuova triade con il 27,6% per la seta greggia e semilavorata, il 4,6% per i tessuti di seta, il 3,5% per i tessuti di cotone. Gerarchia confermata nel 1909-13 sia pure con sensibile flessione della seta greggia al già ricordato 18,2%, dei tessuti di seta al 3,8%, superati dall’ascesa al secondo posto della somma dei tessuti di cotone greggi e di quelli imbiancati (5,5%). Nel frattempo nel 1900-04 il vino scivolava al 4° posto (3,1%) e l’olio d’oliva al 7° (3,0%), nel 1909-13 l’olio d’oliva manteneva il 7° posto pur contraendosi la quota al 2,3%, ma il vino precipitava al 10° posto, con il 2,1% del totale: segnale non favorevole per il Mezzogiorno40.
Nell’insieme fu dunque di una congiuntura economica interna altamente positiva confortata da risultati parimenti positivi nel contesto internazionale. L’export italiano in crescita, non solo si distribuiva su una gamma di partner più ampia, ma rompeva il quadro della sua tradizionale composizione in larga prevalenza agricolo-commerciale e cominciava a proporre l’immagine di una economia nella quale si facevano strada produzioni industriali tra le quali quelle tessili riuscivano non solo a dominare il mercato interno, ma anche a conquistare spazi all’estero (tessuti di cotone e seta).
A tutto ciò si deve tuttavia aggiungere che i successi dell’export per quanto notevoli non sarebbero stati però in grado da soli di garantire l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Crebbero infatti anche le importazioni, nella cui geografia, come per le esportazioni, si registrò il drastico ridimensionamento della posizione di Francia e Austria, e in parte della stessa Gran Bretagna, e il rafforzamento soprattutto di Germania, Russia, Stati Uniti, Argentina, Cina, con la quota dell’Europa in discesa dal 79,1% del 1891 al 69,1% del 1911 e quella dell’America in ascesa dal 9,9% al 18,3%41. Furono sensibilmente stimolate da una domanda crescente di materie prime (carbone, cotone greggio, ecc.) e beni strumentali che non trovava completa risposta nell’industria di base e strumentale nazionale. Sopravvenne inoltre una ripresa delle importazioni di frumento legata all’aumento della popolazione e dei consumi pro-capite delle masse urbane del Centro-Nord, per cui nel triennio 1911-1913 le importazioni raggiunsero un livello medio pari a 2,6 volte quello del 1891-1893 (a prezzi costanti), mentre la media annua delle esportazioni risultò pari nel 1911-1913 a non più del doppio di quella del 1891-1893. Le stime più recenti, con un’apprezzabile rivalutazione dell’export hanno attenuato la differenza import-export, ma senza annullare del tutto il deficit e quindi senza contraddire il fatto che dal 1891 fino al 1905 fu il saldo delle partite invisibili, tenute largamente in attivo dalle rimesse degli emigrati, a determinare con certezza dal 1891 al 1913 un costante avanzo della bilancia dei pagamenti correnti, con l’eccezione del 1908-9 e 191242.
Le rimesse degli emigrati ebbero in effetti una crescita enorme. A prezzi 1938 esse passarono dalla media annua di 694 milioni di lire del 1881-90 a quella di 1.574 del 1891-1900 a quella di 3.734 del 1901-1043. Va tuttavia precisato che da ciò emerge l’importanza delle rimesse per l’andamento complessivo dell’economia, ma non l’erroneità della linea protezionista mantenuta ferma in quegli anni da Luigi Luzzatti44 in un contesto internazionale nel quale il protezionismo era la linea ispiratrice di quasi tutti gli Stati europei, tranne il Regno Unito, e senza la quale l’Italia sarebbe tornata rapidamente alla situazione degli anni Ottanta, visto l’andamento del rapporto export-import e i motivi della crescita delle importazioni. Al contrario va preso atto che l’abile gestione della tariffa e dei trattati commerciali bilaterali, dopo aver fronteggiato la drammatica situazione degli anni Ottanta, riuscì a contenere nei primi lustri del secolo XX il deficit del commercio speciale entro dimensioni tali da concorrere validamente alla stabilità dei cambi, alla tenuta della lira e, di riflesso, alla ripresa degli investimenti, contribuendo più che positivamente a uno sviluppo economico che consentì, nonostante l’incremento della popolazione dai 31,4 milioni di abitanti del 1891 ai 36,3 milioni del 1913, anche un miglioramento complessivo delle disponibilità alimentari e una significativa attenuazione del malessere sociale, anche se in misura non uniforme sull’intero territorio nazionale. Tra il 1887 e il 1913 la disponibilità di calorie medie per abitante passò da 2.365 a 2.713. In particolare, a fronte di una sostanziale stazionarietà delle disponibilità pro-capite di carne bovina e un leggero decremento per gli altri tipi di carne, si ebbe un incremento apprezzabile di quelle di pesce, uova, latte, burro, formaggi, e molto vistoso di quelle di frumento, patate, legumi, pomodori, ortaggi, agrumi, zucchero, vino, birra45. La mortalità infantile scese tra la media del 1863-70 e quella del 1901-10 da 225 a 164 ogni 1000 nati vivi, la mortalità per malaria tra il 1881-91 e il 1901-11 passò da 62 a 21 ogni 100.000 abitanti46. Diminuì sensibilmente il tasso di analfabetismo della popolazione in età scolare: dal 48,5% del 1901 scese al 37,6% del 1911. Gli alunni delle scuole medie governative passarono dall’1,6% del 1887 al 4,6% del 1910. Crebbe nel contempo di circa il 30% anche la popolazione universitaria e i libri pubblicati aumentarono del 20%. I lettori delle biblioteche aumentarono del 54%. Tutti i servizi postali aumentarono da due a cinque volte. Oltre a quello fondamentale dell’energia elettrica divennero per la prima volta significativi consumi tipici della società industriale come gas, biciclette, automobili. L’uso del telefono passò dai 9.531 abbonati del 1887 ai 99.593 del 1915. Il tasso di urbanizzazione crebbe vistosamente. Aumentò la quota della popolazione dei comuni con oltre 10.000 abitanti. Le città con oltre 50.000 abitanti passarono da 35 a 54 tra il 1901 e la vigilia della guerra; quelle comprese tra i 20.000 e i 50.000 salirono nel contempo da 125 a 162. I salari reali medi giornalieri dell’industria crebbero del 60% tra il 1890 e il 191347. Le dimensioni della crescita dei salari sia agricoli che industriali è stata verificata e definita nei suoi termini più realistici dal Fenoaltea, in particolare per quelli dell’industria delle costruzioni con l’incremento del 34% tra il 1888-90 e il 1911-1348.
Fu tuttavia uno sviluppo che, per quanto superiore a quello di qualunque precedente periodo della storia nazionale, ebbe limiti quantitativi e elementi di fragilità non certo trascurabili. Il progresso tecnologico di settori chiave come la siderurgia e la meccanica non fu tale da colmare, né sul piano quantitativo né su quello tecnologico, il ritardo che lo separava dai partner più progrediti. Fu tutt’altro che ridimensionato l’uso del rottame nella fabbricazione dell’acciaio. La dislocazione costiera di impianti come quelli di Piombino o di Bagnoli permise una ragguardevole economia sui costi di importazione del combustibile, per il quale la siderurgia italiana dipendeva in modo pressoché completo dall’estero, e segnatamente dalla Gran Bretagna, ma alla vigilia della guerra le importazioni di coke del settore siderurgico italiano, con circa 2 milioni di tonnellate annue, costituivano ancora la seconda voce passiva della bilancia commerciale e mentre il costo di una tonnellata di acciaio in Italia si aggirava intorno a 140-150 lire, in Germania era di 100 e in Inghilterra di 75. Non sorprende quindi che nel 1913 contro le 934.000 tonnellate di acciaio dell’Italia, la Germania ne producesse 17,6 milioni, la Gran Bretagna 7,9, la Russia 4,9, la Francia 4,7, l’Austria 2,6, il Belgio 2,449, gli Stati Uniti 32. Il cammino da compiere era dunque ancora lungo per potersi misurare a viso aperto sui mercati internazionali e la redditività del settore restava legata a filo doppio all’alta tariffa protettiva introdotta nel 1887.
D’altro canto, per quanto straordinario, neppure lo sviluppo della meccanica fu tale da colmare definitivamente il gap esistente con l’estero, tanto che il ricorso all’importazione di impianti e attrezzature fu crescente. Distanze ancora pesanti permasero anche nell’industria tessile. Quella del cotone, la più vivace, come abbiamo visto, nella conquista sia del mercato interno sia di spazi internazionali, aveva anch’essa un non indifferente cammino ancora da compiere, se non altro rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna50, mentre in prospettiva si profilava l’invasione delle sete asiatiche. Fatto uguale a 100 il livello di industrializzazione pro-capite della Gran Bretagna nel 1900, nel 1913 questa si trovava a 115, il Belgio a 88, la Svizzera a 87, la Germania a 85, la Svezia a 67, la Francia a 59, l’Italia era ancora a 26. Per quanto riguarda il livello della produttività del lavoro nel 1911, fatto uguale a 100 quello del Regno Unito di Gran Bretagna, l’Italia era a 42 nell’agricoltura, 47,7 nell’industria, 64,0 nei servizi, restando largamente indietro anche a Germania, Stati Uniti, Giappone51. L’aumento dei salari di cui si è detto in precedenza non cancellò certo le differenze tra l’Italia e i paesi più progrediti. Nel 1913 i salari nell’industria italiana non superavano di molto il 40% di quelli della Gran Bretagna, e la metà di quelli di Francia, Belgio, Germania52. Nel 1913 il PIL pro-capite dell’Italia era di 455 dollari USA del 1960, contro i 670 della Francia, gli 815 del Belgio, i 510 dell’Austria-Ungheria, i 740 dell’Olanda, i 1035 della Gran Bretagna, i 1350 degli USA. Anche nell’analfabetismo col 40% del 1910, che costituiva un indubbio progresso rispetto al 75% del 1861, la posizione dell’Italia si collocava a mezza strada tra quella di Romania (73%), Grecia (70%), Portogallo (70%) e Spagna (53%) da un lato e quella di Austria-Ungheria (25%), Francia (12%), USA 8%, Gran Bretagna (6%), Svizzera (2%), Svezia, Germania e Danimarca (tutte con l’1%), dall’altro53.
A tutto ciò va aggiunto che fu uno sviluppo insufficiente ad assorbire l’eccedenza di manodopera prodotta dall’aumento di popolazione e ad evitare il massiccio flusso migratorio che, iniziato a partire dagli anni Ottanta, proprio nel primo quindicennio del secolo raggiunse livelli che non erano stati mai toccati prima e non lo furono più neanche dopo. Tra il 1901 e il 1914 lasciarono l’Italia quasi 9 milioni di persone di cui circa il 40% dirette negli Stati Uniti. L’emigrazione definitiva al netto dei rimpatri passò da 2,2 milioni di individui nell’ultimo ventennio dell’Ottocento a 1,6 milioni di individui nel solo primo decennio del Novecento54. Il fenomeno interessò anche paesi europei avanzati come Belgio, Olanda, Norvegia, Svezia e Svizzera, i quali tra il 1870 e il 1913 ebbero tutti insieme un’emigrazione netta complessiva di 1,4 milioni di individui, e la Germania da sola ne ebbe una di 2,6 milioni. Tuttavia la Francia non ebbe emigrazione netta, anzi immigrazione e l’Italia con 4,5 milioni di emigrati fu al primo posto in Europa con l’Irlanda55. L’emigrazione italiana inoltre fu una emigrazione di poveri, non fu accompagnata da una contemporanea esportazione di risorse finanziarie eccedenti in cerca di collocazione all’estero, come nel caso dell’Inghilterra o della Germania o di altri paesi del Nord Europa. Nonostante i recenti tentativi di attribuirne le ragioni prevalenti agli ingannevoli richiami degli agenti di viaggio, che ebbero sicuramente un’influenza ma solo nella scelta delle destinazioni, in realtà il bisogno dell’esodo nasceva dalla povertà e dall’insufficiente allargamento della base occupazionale. Lo prova anche il rovesciamento del rapporto tra Nord e Sud nel tasso di emigrazione per aree di provenienza. Il tasso delle regioni del Nord-Est/Centro tra il 1891-1900 e il 1901-10 passò dal 12,94% al 17,98%; minore fu la crescita di quello del Nord-Ovest, mentre il tasso delle regioni meridionali dal 7,64% balzò al 21,65%56, laddove, oltre alla conferma dell’imponenza del fenomeno migratorio su scala nazionale, si legge anche, in modo chiaro, la differenza di crescita dell’industrializzazione e dell’occupazione nelle due macro-aree del paese e la forte accentuazione dello squilibrio territoriale tra Nord e Sud, che assunse proprio in quegli anni caratteri e dimensioni mai conosciute in precedenza, ponendosi come la problematica economica e sociale più grave della nostra storia nazionale nel momento stesso in cui la permanente agrarizzazione del Mezzogiorno svolgeva un ruolo funzionale all’industrializzazione settentrionale.
Non c’è dubbio, infatti, che un considerevole aumento di produzione e reddito si ebbe anche nel Sud della penisola, ma le due macro-aree proprio in quegli anni diedero vita a un dislivello senza precedenti del PIL pro-capite e a due sistemi economici e sociali radicalmente diversi tra loro, anche se strettamente interconnessi57. Gli interventi dello Stato in campo economico-sociale furono di rilievo, con una legislazione “speciale” i cui risultati in tempi abbastanza recenti sono stati molto rivalutati58. Di fatto però la questione meridionale in età giolittiana fu ben lungi dall’essere non dico risolta, ma neppure contenuta sul piano dello squilibrio economico e civile. Alla vigilia della guerra la dotazione di infrastrutture terrestri e servizi risultava sensibilmente accresciuta anche nel Mezzogiorno. I progressi erano stati veramente decisivi nella costruzione di ferrovie, nella quale nel 1861 più forte era il ritardo meridionale rispetto al Nord. Nel 1912 il Mezzogiorno con una media di 56 km di ferrovie per 1.000 kmq si era sensibilmente avvicinato ai valori nazionali e a quelli del Nord, mentre con 53,4 km ogni 100.000 abitanti era arrivato persino a superare sia la media nazionale sia quella del solo Nord59. Risultati significativi, anche se inferiori, erano stati ottenuti nell’ambito della viabilità ordinaria. Nello sforzo di infrastrutturazione promosso sin dall’età della Destra storica si era distinta soprattutto l’azione dell‘amministrazione centrale dello Stato e quella delle province, mentre era stata largamente al di sotto delle aspettative quella dei comuni meridionali. Le leggi speciali per il Mezzogiorno del 1904 e 1907 diedero un nuovo impulso alla costruzione di strade comunali: nel 1910 in Calabria, Basilicata, Abruzzo e Molise risultava una dotazione di strade per abitante di 4-5 volte superiore a quella del 186360. Tuttavia nel 1910 il ritardo rispetto al Nord risultava tutt’altro che annullato. Contro i 738 km di strade per 1.000 kmq di superficie del Settentrione ve ne erano solo 452 nel Mezzogiorno continentale e 300 in Sicilia e contro i 498 km per 100.000 abitanti del Settentrione ve ne erano 350 nel Mezzogiorno continentale e 215 in Sicilia61, il che configurava un rapporto ben più squilibrato di quello esistente nella dotazione di strade ferrate, con limitazione degli effetti positivi dello stesso sviluppo ferroviario nella formazione del mercato nazionale.
Nell’ultimo quarantennio dell’800 il tasso di analfabetismo era diminuito ovunque nella penisola, tuttavia da una differenza di circa 20 punti percentuali tra Nord e Sud del 1861 (67% nel Nord contro 87,1% nel Sud) si era passati a ben 30 punti nel 1901 (40,5% nel Nord contro 70,2% nel Sud) scesi appena a 28 nel 1911 (30,8% contro 58,9%)62. Il tasso di mortalità per malaria si era ridotto sensibilmente nel Sud, tuttavia nel 1901-1911 esso era ancora molto superiore a quello del Centro-Nord (47,29 per 100.000 abitanti contro 3,71). Nei tassi di mortalità nel primo anno di vita, che nel 1863-1870 erano più alti nel Centro-Nord che nel Sud, nel 1901-1910 il rapporto si era rovesciato ed erano invece più alti nel Mezzogiorno, così come avvenne per il tasso di emigrazione per cento abitanti che, più alto nel Centro-Nord nel 1876-1881 – 0,56 contro 0,13 –, nel 1901-1911 risultava più alto nel Mezzogiorno con 2,10 contro 1,5363. Insomma, in assoluto la qualità della vita migliorò anche nel Sud, ma nel Nord migliorò molto di più.
Del resto produzione e reddito disegnarono in età giolittiana una parabola abbastanza simile a quella dello sviluppo civile. Alcuni studi hanno sensibilmente ridimensionato l’entità del divario tra Nord e Sud nella produttività del lavoro in agricoltura all’inizio del secolo XX, a conferma dei notevoli progressi anche dell`agricoltura meridionale in quel periodo64. Ciò tuttavia non si traduceva in una pari vicinanza delle due macro-aree nel prodotto agricolo complessivo, fortemente influenzato dalla impetuosa avanzata della cerealicoltura capitalistica settentrionale all’ombra del dazio sul grano. Quanto all’industria, il divario raggiunse proprio in quegli anni livelli tali da portare più di qualcuno a parlare di due sistemi economici e sociali radicalmente diversi, anche se strettamente correlati tra loro: l’uno, di tipo industriale, radicato nelle regioni del triangolo Milano-Torino-Genova, l’altro, di tipo agricolo-commerciale, presente nel Mezzogiorno e nelle isole. Tra il 1901e il 1911 gli addetti alle attività secondarie passarono nel Centro-Nord da 2,6 a 3,1 milioni di unità, nel Sud scesero da 1,4 a 1,3 milioni di unità. Gli addetti per ogni 100 abitanti aumentarono nel Centro-Nord da 13,2 a 14,7, nel Sud scesero da 10,8 a 9. Tra il 1903 e il 1911 gli esercizi industriali posti nel Centro-Nord passarono dal 58,1% al 67,6% del totale. Nella distribuzione regionale del valore aggiunto della produzione industriale, le stime più recenti quantificano più attendibilmente che in passato un aumento delle quote percentuali sul totale nazionale delle regioni settentrionali, tranne il Veneto e una corrispondente flessione delle quote di tutte le regioni meridionali e della Sicilia65. Si spiega dunque perché l’indice del reddito pro-capite del settore privato segnalasse nel 1911 un livello 121 nel Nord, contro un 77 nel Sud continentale e 71 nelle Isole66, con un divario quindi di circa il 38%. Se consideriamo che la differenza, al momento dell’unità, si aggirava intorno al 10% e che fino al 1887 non ci fu alcun allargamento del divario nel PIL pro-capite, troviamo pienamente giustificata la tesi secondo la quale il grosso di esso si formò tra il 1888 e lo scoppio della prima guerra mondiale67.
All’inizio del Novecento la differenza di strutture produttive e di reddito tra Nord e Sud era ormai la componente più importante della questione meridionale. Dalle Lettere di Pasquale Villari alle inchieste di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, alla riflessione di Giustino Fortunato, la questione del Mezzogiorno era stata posta come un grande problema di povertà delle plebi meridionali ereditato dal caduto regime borbonico, e costituito principalmente dall’arretrata configurazione dei rapporti di produzione nelle campagne del Sud, dal perverso funzionamento delle relazioni tra cittadini e amministrazioni locali controllate da clan e cosche mafiose, dalla generale decadenza dello spirito e della vita civile e politica. Ora, con le opere di Francesco Saverio Nitti, Antonio De Viti De Marco, Gaetano Salvemini, la questione cominciò invece ad essere posta non solo come la risultante di una insufficiente azione rigenerativa dell’economia e dello spirito civile da parte dello Stato unitario, ma anche e soprattutto come il prodotto di un trasferimento di risorse dal Sud al Nord e di un rapporto tra le due macro-aree nell’ambito dello sviluppo capitalistico italiano che condannava l’economia del Mezzogiorno alla progressiva agrarizzazione mentre favoriva il decollo dell’industria settentrionale68.
Erano incompiutezze, contraddizioni e squilibri interni da tener presenti nella valutazione delle condizioni economiche e sociali dell’Italia “prima della tempesta”, elementi che ci aiutano a comprendere meglio le ragioni della crisi del 1907 e quelle del rallentamento di sviluppo del 1908-13, anche se non possono certo compromettere e tanto meno rovesciare il bilancio comunque nettamente positivo sia del primo cinquantennio di vita unitaria, sia, in particolare, del periodo 1896-1914, quando per la prima volta dall’unità l’Italia cominciò a recuperare posizioni importanti nella gerarchia dei paesi più avanzati. Tra il 1900 e il 1914 il commercio con l’estero dell’Italia, pur restando ancora molto indietro in valore assoluto a quello dei paesi più progrediti, crebbe tuttavia del 118%, contro il 55% di quello della Gran Bretagna e il 90% di quello della Germania. L’espansione della produzione industriale tra il 1901 e il 1913 fu in Italia dell‘87%, mentre in Europa fu in media del 56%. Tra il 1896 e il 1913 il saggio di variazione del PIL pro-capite italiano (2,1%) fu inferiore solo a quello degli Stati Uniti e della Svezia, pari a quello dell’Australia e superiore a quello di tutti gli altri paesi in via di industrializzazione più avanzata. Il saggio di variazione medio annuo del PIL fu del 2,8%, inferiore a quello degli Stati Uniti (4,3%), della Svezia (3,2%), dell’Australia (3,2%), del Canada (4,4%), della Germania (3,2%), fu invece pari a quello del Giappone e superiore a quello di paesi come l’Austria (2,5%), il Belgio (2%) e, soprattutto, la Francia (1,9%) e il Regno Unito (1,7%)69.
In definitiva, pur con molti problemi sociali e squilibri territoriali crescenti, con molte fragilità e sacche di povertà ancora estese, con la più alta emigrazione d’Europa assieme a quella dell’Irlanda, e ancora con molto ritardo nella produzione, nel reddito, nei consumi, nella modernizzazione civile, l’Italia alla vigilia della Grande Guerra era uno dei paesi più dinamici del Vecchio continente, e alla vigilia del conflitto disponeva di una base industriale nel Nord che le consentì di chiudere con la vittoria una guerra che non fu decisa solo dagli eserciti, ma anche e soprattutto dagli apparati produttivi dei paesi belligeranti.















NOTE
* Relazione tenuta nella giornata di apertura del LXVI Congresso di Storia del Risorgimento Prima della tempesta. Continuità e mutamenti nella politica e nella società italiana e internazionale (1901-1914), organizzato dall’Istituto per la storia del Risorgimento italiano e svoltosi a Roma il 23-25 ottobre 2013. Atti in corso di stampa.^
1 Per una ricostruzione del dibattito rinvio a La formazione dell’Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Bari, Laterza, 1973 (1969), L’industrializzazione in Italia (1861-1900), a cura di G. Mori, Bologna, il Mulino, 1977; L. De Rosa, La rivoluzione industriale in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1980; G. Pescosolido, Agricoltura e industria nell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 2004 (1983); G. Federico, La storiografia sullo sviluppo economico italiano negli ultimi trent’anni, in La storiografia sull’Italia contemporanea, Atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro, Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di C. Cassina, Pisa, Giardini editori e stampatori in Pisa, 1991, pp. 209-240; S. Fenoaltea, L’economia italiana dall’Unità alla grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 7 sgg.^
2 Questa simbiosi quasi perfetta tra sviluppo dell’«idea di un governo liberale» e sviluppo economico iniziò col capitolo XI della Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Benedetto Croce, dal significativo titolo Il governo liberale e il rigoglio economico (1901-1910), Bari, Editori Laterza, 1967 (1928), pp. 203 e sgg., dove tutti i successi furono collocati per lo più nel nuovo secolo e ricondotti in modo esclusivo alle scelte politiche allora effettuate. Essa continuò poi con il Giolitti, di N. Valeri, Torino, Utet, 1972, anche se Valeri colse che la tempistica del ciclo era iniziata a fine Ottocento con fattori di primo piano come il «nuovo sistema bancario» guidato dalla banca mista, l’industria elettrica, la ripresa economica mondiale. Tacque però della politica economica crispina (protezionismo, risanamento del bilancio dello Stato) e del ruolo del governo Crispi nella nascita della Banca Commerciale, risolvendo l’argomento in due pagine (163-4). Le successive interpretazioni politiche di Giolitti pur eccellenti, a partire da quella di G. Spadolini, Giolitti: un’epoca, Milano, Longanesi, 1985, o hanno trascurato deliberatamente la parte economica oppure hanno tenuto in poco conto i risultati raggiunti dalla storiografia economica utilizzata in questa sede.^
3 E. Gentile, L’età giolittiana. 1899-1914, vol. II della Storia dell’Italia contemporanea, diretta da R. De Felice, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1977, pp. 43-47. Dello stesso Gentile, autore di altri fondamentali lavori successivi sull’età giolittiana, resta sempre prezioso L’Italia giolittiana. La storia e la critica, Roma-Bari, Laterza, 1977.^
4 Cfr. le stime più recenti elaborate da S. Fenoaltea, L’economia italiana…, cit., p. 61. Per una bibliografia aggiornata sulla figura dello statista piemontese A.A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Milano, Mondadori, 2004 (2003).^
5 G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico 1750-1913, Roma-Bari, Laterza, 2007 (1998), p. 303. Secondo le stime Istat il reddito nazionale a prezzi costanti (1938), dopo avere stazionato tra il 1892 e il 1894 al di sotto dei 60 miliardi di lire, riprese a salire già dal 1895 con 61,4 e dal 1896 con 62,4 milioni, per poi raggiungere nel 1907 gli 87,3 miliardi, con un incremento complessivo di oltre il 45%. Dopo una flessione nel 1908-1910 conseguente alla grave crisi del 1907, sarebbe poi salito fino a 91 miliardi nel 1911 e a 95 nel 1913, con un incremento finale rispetto agli anni ‘92-’94 del 58%; calcoli effettuati sui dati Istat riportati in R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Milano, Il Saggiatore, 19886 (Cappelli, Bologna, 1961), p. 311.^
6 Individuano nel 1896 un anno di svolta per l’economia italiana, oltre che per l’economia internazionale, gli autori citati nella precedente nota 1, e la maggior parte degli studi economici sugli anni Novanta dell’Ottocento. Valga per tutti e per ulteriori rinvii G. Toniolo, Storia economica dell’Italia liberale. 1850-1918, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 159 sgg.; Idem, La crescita economica italiana, 1861-2011, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, a cura di Gianni Toniolo, Collana storica della Banca d’Italia. Contributi, vol. XII, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 12-23. Per questo mi lascia perplesso la partizione cronologica 1900-13 adottata da P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Torino, Bollati Boringhieri, 2007, nel capitolo L’età di Giolitti, e in particolare nel paragrafo Ciclo e trend, pp. 142 e sgg., basata su un giudizio totalmente negativo sull’operato di Crispi e sul protezionismo che non spiega, tra le altre cose, come mai con il liberismo si era giunti alla situazione non più sostenibile del 1887.^
7 Cfr. A. Baffigi, I conti nazionali, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, p. 230.^
8 Sugli effetti dell’emigrazione sullo sviluppo economico italiano di fine secolo XIX primi del XX, sia come fattore di sostegno alla bilancia dei pagamenti sia come agente trasformatore dei contadini auto-consumatori in produttori di reddito e consumatori di merci ha scritto efficacemente F. Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Storia d’Italia, Annali, vol. I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, in part. pp. 1222 sgg.^
9 Nel 1896 la rete ferroviaria nazionale a binario unico superava ormai i 16.000 km, contro gli 11.800 del 1886, con un aumento in 10 anni del 36%, ed era ormai pienamente idonea a sostenere lo sviluppo dei decenni successivi, nel corso dei quali si sarebbe iniziato il raddoppio dei binari, cfr. G. Pescosolido, Unità nazionale…, cit., p. 246.^
10 Esemplificando, prima del già citato lavoro del Ciocca, A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1974 (1965), pp. 79 e sgg. e S. Fenoaltea, L’economia…, cit., pp. 153-187 giudicarono negativamente l’influenza del protezionismo sullo sviluppo economico italiano otto-novecentesco. R. Romeo, Breve storia…, cit., pp. 44 e sgg, ed altri, come Toniolo, Zamagni, G. Pescosolido, Il caso italiano, nella voce Protezionismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, vol. VII, pp. 152-160, l’hanno giudicato, nonostante i risvolti inizialmente recessivi per alcune produzioni agricole e per il Mezzogiorno, ineludibile nel contesto nazionale e internazionale dell’epoca. Per una analisi comparata su scala europea del livello dei dazi commerciali nel periodo 1874-1914 si veda ora H. James, K.H. ÒRourke, La prima globalizzazione e i suoi contraccolpi, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, a cura di G. Toniolo, op. cit., pp. 57-72.^
11 G. Pescosolido, Unità nazionale…, cit., pp. 233 e sgg.^
12 Cfr. Id., Unità nazionale…, cit., pp. 220-1, 250; G. Are, La storiografia sullo sviluppo industriale italiano e le sue ripercussioni nell’età dell’imperialismo, in «Clio», 10 (1974), 2, pp. 207-302; E. Gentile, L’età giolittiana 1898-1914, vol. II della Storia dell’Italia contemporanea, diretta da R. De Felice, Napoli, Esi, 1977, pp. 209 sgg.; G. Schininà, Stato e società in età giolittiana. L’Italia tra il 1901 e il 1914, Acireale-Roma, Bonanno editore, 2008, pp. 50-64.^
13 Per una puntuale e aggiornata analisi di tali fenomeni rinvio a G. Barone, La modernizzazione italiana dalla crisi allo sviluppo, in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci, V. Vidotto, vol. III, Liberalismo e democrazia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 281-295.^
14 Saggi calcolati sui dati di base relativi agli investimenti lordi riportati in Istat, Sommario di statistiche storiche italiane 1861-1955, Roma, 1958, p. 211. I dati quantitativi di base citati nel prosieguo, in mancanza di diverse specifiche indicazioni, sono stati presi dalla predetta pubblicazione Istat, o dalla loro riproposizione in I conti economici dell’Italia, 1. Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, a cura di G.M. Rey, Collana storica della Banca d’Italia – Statistiche, Roma-Bari, Laterza, 1991, o da P. Ercolani, Documentazione statistica di base, in G. Fuà (a cura di), Lo sviluppo economico in Italia, vol. III, Studi di settore e documentazione di base, Milano, Franco Angeli Editore, 19752 (1969).^
15 P. Hertner, Il capitale straniero in Italia (1883-1914), in «Studi storici», 22 (1981), pp. 767-795.^
16 B. Gille, Les investissement français en Italie (1815-1914), Archivio Economico dell’Unificazione Italiana, 2° serie, Torino, Ilte, 1968.^
17 P. Hertner, Il capitale tedesco in Italia dall’Unità alla prima guerra mondiale. Banche miste e sviluppo economico italiano, Bologna, il Mulino, 1984. Id, Banche tedesche e sviluppo economico italiano, in Ricerche per la storia della Banca d’Italia, Collana storica della Banca d’Italia. Contributi, vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1990, in part. pp. 100-101.^
18 P.K. Ò Brien, G. Toniolo, Sull’arretratezza dell’agricoltura italiana rispetto a quella del Regno Unito attorno al 1910, in «Ricerche economiche», 40 (1986), 2-3, pp. 266-285.^
19 Dati statistici di base in Istat, Sommario di statistiche storiche…, cit., ripresi in I conti economici dell’Italia, 1. Una sintesi…, cit., pp. 107 sgg.^
20 G. Federico, Il filo d’oro. L’industria mondiale della seta dalla restaurazione alla grande crisi, Venezia, Marsilio, 1994.^
21 P. Ercolani, Documentazione…, cit., pp. 432 sgg.^
22 G. Porisini, Produttività e agricoltura: i rendimenti del frumento in Italia dal 1815 al 1922, Archivio Economico dell’Unificazione Italiana, II serie, Torino, Ilte, 1971, pp. 113 sgg.^
23 G. Pescosolido, Unità nazionale…, cit., pp. 258-269.^
24 Cfr. S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi…, cit., p. 263.^
25 G. Pescosolido, Unità nazionale…, cit., p.252.^
26 La più recente analisi comparativa di tali indici è in S. Fenoaltea, L’economia italiana…, cit., in part. pp. 13-20.^
27 Sull’industria elettrica si veda l’imponente Storia dell’industria elettrica in Italia, in particolare il vol. I, Le Origini. 1882 1914, a cura di G. Mori, Roma-Bari, Laterza, 1992.^
28 Cfr. S. Fenoaltea, L’economia…, cit., pp. 46-47.^
29 Cfr. S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, cit., p. 263.^
30 Istat, L’Italia in 150 anni. Sommario di statistiche storiche 1861-2010, Roma, 2011, pp. 780, 783.^
31 Istat, Sommario…, cit., pp. 149-50.^
32 Cfr. S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, cit., p. 263.^
33 La serie annuale in G. Tagliacarne, La bilancia internazionale dei pagamenti dell’Italia nel primo centenario dell’Unità, in L’economia italiana dal 1861 al 1961. Studi nel 1° centenario dell’Unità d’Italia, Milano, A. Giuffrè editore, 1961, pp. 256-7 e in Istat, L’Italia in 150 anni…, cit., pp.722-723. I dati sul commercio estero sono stati sottoposti a revisione da diversi autori. Da ultimo in Il commercio estero italiano dall’unificazione al 1939, a cura di G. Federico, G. Tattara, M. Vasta, in G. Federico, S. Natoli, G. Tattara, M. Vasta, Il commercio estero italiano 1862-1950, Collana storica della Banca d’Italia, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011, con importanti correzioni. Tuttavia le differenze più ampie sono quelle relative agli anni Ottanta dell’Ottocento e agli anni Venti del Novecento, per cui, al di là di una più precisa rivalutazione media del valore del commercio di circa il 2% dei dati Istat, non ci sono capovolgimenti delle linee di lettura di fondo per il periodo che qui ci interessa. Cfr. Fonti e metodi di elaborazione, 1862-1939, a cura di G. Federico, G. Tattara, M. Vasta, Ivi, pp. 51 e sgg. in part. p. 73.^
34 Cfr. Il commercio estero italiano dall’unificazione al 1939, a cura di G. Federico, G. Tattara, M. Vasta, in G. Federico, S. Natoli, G. Tattara, M. Vasta, Il commercio estero italiano 1862- 1950, cit., pp. 5-7.^
35 G. Pescosoliddo, L’economia italiana dal 1861 al 1914 e i suoi rapporti con l’economia austriaca, in Italia-Austria. Alla ricerca del passato comune, a cura di P. Chiarini e H. Zeman, Roma, Istituto Italiano di Studi Germanici, 2002, pp. 321-338.^
36 Cfr. G. Tagliacarne, La bilancia internazionale dei pagamenti…, cit., pp. 331-33.^
37 Il commercio estero italiano dall’unificazione al 1939…, cit., pp. 31-43 e, ad annum, nell’appendice statistica.^
38 Istat, Sommario di statistiche storiche…, cit., pp. 159-162.^
39 Il commercio estero italiano dall’unificazione…, cit., pp. 9-13^
40 Ivi, pp. 25-26.^
41 Ivi, pp. 41-43.^
42 Cfr. P. Ercolani, Documentazione statistica di base, in G. Fua (a cura di), Lo sviluppo economico in Italia, vol. III, Studi di settore e documentazione di base, Milano, Franco Angeli Editore, 19752 (1969), p. 465.^
43 G. Tagliacarne, La bilancia internazionale dei pagamenti…, cit., p. 352.^
44 Luzzatti ne fu il maggiore ispiratore e attuatore dapprima come vicepresidente della Commissione d’inchiesta per la revisione della tariffa doganale istituita nel 1883, poi come relatore per la Commissione della Camera dei deputati che decise il livello e i caratteri definitivi della tariffa, poi come ministro del Tesoro nei governi Di Rudinì del 1891-1892 e 1896-1898, Giolitti-Tittoni del 1903-1905, Sonnino del febbraio-maggio 1906, poi come ministro di Agricoltura, industria e commercio nel secondo governo Sonnino del dicembre 1909-marzo 1910, infine quale presidente del consiglio nel 1910-1911. Tirò quindi i fili della politica commerciale italiana dal 1887 alla vigilia della guerra, negoziando direttamente il delicatissimo trattato commerciale con la Francia del 1898, G. Pescosolido, Unità nazionale…, cit., pp. 253-8. Sulla figura del Luzzatti si veda P.L. Ballini, P. Pecorari (a cura di), Luigi Luzzatti e il suo tempo, Atti del Convegno internazionale di studio (Venezia, 7-9 novembre 1991), Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1994.^
45 G. Pescosolido, iUnità nazionale e sviluppo economico…, cit., pp. 215-6; S. Fenoaltea, L’economia italiana…, cit., pp. 133-4.^
46 R. Vaccaro, op. cit., p. 122.^
47 V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1981), Bologna, il Mulino, 1990, p. 256.^
48 S. Fenoaltea, Le opere pubbliche in Italia, 1861-1913, in «Rivista di storia economica», n.s., 2 (1985), 3, pp. 362-3, Idem, L’economia italiana…, cit., pp.139-143.^
49 B.R. Mitchell, European Historical Statistics 1750-1970, The Macmillan Press LTD, London and Basingstoke, New York-Dublin-Melbourne-Johannesburg-Madras, 1975, pp. 400-445.^
50 Il consumo di cotone grezzo dell’Italia nel 1913 se si era decisamente avvicinato, con 202.000 tonnellate alle 210.000 dell’Austria e alle 271.000 della Francia, ma era ancora ben lontano dalle 478.000 della Germania e soprattutto dalle 988.000 della Gran Bretagna. Il numero di fusi installati, pari a 4,6 milioni, se ormai tallonavano da vicino i 4,9 dell’Austria erano ancora decisamente al di sotto dei 7,4 della Francia, degli 11,2 della Germania e soprattutto dei 55,7 della Gran Bretagna. Cfr. Ivi.^
51 Cfr. S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, cit., pp. 288-290.^
52 Cfr. V. Zamagni, An International Comparison of Real Industrial Wages,1890-1913: Methodological Issues and Results, in Real Wages in 19th and 20th Century Europe. Historical and Comparative Perspective, a cura di P. Scholliers, Berg, New York-Oxford-Munich, 1989, pp. 118-119.^
53 Dati raccolti da G. Schininà, Stato e società…, cit., pp. 261-263.^
54 G. Pescosolido, Unità nazionale…, cit., p. 212; Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, a cura di P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Roma, Donzelli editore, 2001. La più recente analisi con aggiornamento bibliografico completo in M. Gomellini, C.Ó Gráda, Le migrazioni, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, cit., in part. pp. 374-380.^
55 Gli emigrati irlandesi erano inclusi nelle statistiche della Gran Bretagna che, per lo stesso periodo, segnalano 6,5 milioni di espatri netti, cfr. A. Golini, F. Amato, Uno sguardo a un secolo e mezzo di emigrazione italiana, in Storia dell’emigrazione italiana. Partenze…, cit., p. 47.^
56 E. Sori, L’emigrazione italiana dall’unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 1979, p. 23. È noto che sull’emigrazione la letteratura è sterminata. Per un orientamento di massima è ancora valido M. Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette città, 2002.^
57 R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, con Premessa di G. Pescosolido, Roma-Bari, Laterza, 1998 (1959), pp. 179-184; F. Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 77-97; G. Pescosolido, Unità nazionale…, cit., pp. X-XI, 287-94. La documentazione statistica più completa relativamente all’entità del divario è in Svimez, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, Bologna, il Mulino, 2011. L’analisi storico-statistica più recente e aggiornata è quella di V. Daniele, P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011. Da ultimo ha affrontato l’evoluzione storica del divario E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna, il Mulino, 2013, suscitando perplessità e dissensi per lo più fondati, ma non riguardanti l’età giolittiana, da parte di V. Daniele e P. Malanima nel loro commento Perché il Sud è rimasto indietro? Il Mezzogiorno fra storia e pubblicistica, in «Rivista di Storia Economica», 30 (2014), n. 1, pp. 3-35.^
58 Si veda al riguardo G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, Torino, Einaudi, 1986, pp. 5-144; T. Russo, Il procedere difficile della modernizzazione, in «Basilicata», n. ¾, 1987, pp. 34-35; G. Cingari, Introduzione a M. Ruini, Le opere pubbliche in Calabria 1906-1913, Collezione di Studi Meridionali, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. XXI e sgg.^
59 Svimez, 150 anni di statistiche italiane…, cit., p. 626.^
60 Cfr. R. Vaccaro, Unità politica e dualismo economico in Italia (1861-1993), Padova, Cedam, 1995, pp. 41-5.^
61 Svimez, 150 anni di statistiche italiane…, cit., p. 640.^
62 Ivi, p. 775.^
63 Vaccaro, Unità politica e dualismo…, cit., p. 123.^
64 P.K. Ã’ Brien, G. Toniolo, How Bakwoard was Italian Agriculture before the Great War?, Venezia, Mimeo, 1986.^
65 S. Fenoaltea, L’economia…, cit., p. 227.^
66 Cfr. V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia. Bilancio dell’età giolittiana, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 194-195, 198-199, p. 206.^
67 G. Pescosolido, Alle origini del divario economico, in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, a cura di L. D’Antone, Napoli, Bibliopolis, 1996, pp. 21-25.^
68 G. Pescosolido, Unità nazionale…, cit., pp. 290-6.^
69 G. Toniolo, Storia economica dell’Italia liberale 1850-1918, Bologna, il Mulino, 1988, p. 160. Confermano questa tendenza al recupero in età giolittiana anche le recenti elaborazioni dei dati di Maddison da parte di V. Daniele e P. Malanima, Il divario…, cit., pp. 64-65.^
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