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Il fantasma dell’Occidente nel mondo globalizzato
di Eugenio Capozzi
1. Le illusioni del 1989, la realtà del 2014

Venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’ultimo grande scontro ideologico novecentesco l’assetto politico ed economico mondiale si presenta molto diverso da quanto la maggior parte degli osservatori dell’epoca prefigurava. Le dinamiche assunte dall’imponente processo di globalizzazione avviatosi in quegli anni hanno rapidamente posto in discussione molte tra quelle che allora apparivano solide certezze sulla solidità del modello politico, economico e culturale che si suole chiamare “occidentale”.
La guerra fredda era stata, dopo tutto, l’ultima grande guerra europea, sia pure nel senso ampio che il riferimento all’Europa aveva assunto dopo la fine del secondo conflitto mondiale: quella di un vecchio Continente esteso alle due grandi superpotenze “semi-europee” che ne avevano conquistato e diviso l’egemonia con la vittoria sul nazi-fascismo, gli Stati Uniti e l’Urss. Le grandi potenze europee in senso stretto o erano state annientate, come la Germania, o stavano perdendo definitivamente il loro status dominante a livello internazionale, come gli imperi di Gran Bretagna e Francia sull’orlo della dismissione. E tuttavia lo stesso ruolo strategico centrale che l’Europa continuava a giocare nella spartizione di Yalta, la proiezione “transatlantica” prevalsa nella politica estera statunitense, il processo di integrazione europea, la perdurante preminenza economica e culturale concorrevano in forme diverse ad offrire ancora l’impressione di un mondo “eurocentrico”, in misura assai maggiore di quanto effettivamente esso fosse.
Sicché quando il sistema totalitario comunista sovietico collassò bruscamente, pur dopo decenni di evidente declino, gli osservatori occidentali chiamati ad interpretare quella pagina di storia che si apriva sotto i loro occhi immaginarono i possibili sviluppi futuri dell’equilibrio mondiale prevalentemente all’interno di modelli di riferimento che continuavano a vedere al loro centro la civiltà euro-occidentale così come era considerata acquisita e consolidata. Lo scenario prospettato per i decenni seguenti da quegli osservatori era, quasi unanimemente, quello di una naturale estensione del “modello” di organizzazione caratterizzato da istituzioni liberaldemocratiche-costituzionali ed economia di mercato alle aree del mondo che ancora non si erano ad esso uniformate. Una convinzione emblematicamente riassunta dalla celeberrima Il fantasma dell’Occidente nel mondo globalizzato formula della «fine della storia» coniata dal politologo statunitense Francis Fukuyama.
Quel perdurante paradigma eurocentrico era infatti quasi dato per scontato, sia che si trattasse di politici o intellettuali di area liberaldemocratica, sia che si trattasse di oppositori di esso. Ed indipendentemente dal fatto che quello scenario venisse descritto come un bene o come un male. Tutt’al più, la contrapposizione ritenuta relativamente plausibile nel breve-medio periodo era quella tra “Nord” e “Sud” del mondo, che avrebbe dovuto soppiantare quella superata tra Ovest e Est. Ma si trattava, anche in questo caso, di un paradigma non nuovo (formulato a livello politico-istituzionale fin dal celebre rapporto Brandt del 1980 sui paesi in via di sviluppo) e tutto interno alla costruzione ideologica euro-occidentale del “terzomondismo”.
Soprattutto, nel dibattito di un quarto di secolo fa su come sarebbe stato il mondo dopo la guerra fredda prevaleva nettamente l’idea che per società “occidentale” dovesse intendersi una democrazia fondata sui diritti individuali, sull’economia di mercato, ma anche inevitabilmente incardinata su un weberiano “politeismo dei valori”. In sintesi, una società individualistica non unificata da un ethos condiviso, per alcuni addirittura necessariamente ancorata ad un “pensiero debole”, rigorosamente non assertivo su concezioni della vita, princìpi etici o religiosi.
L’epoca della globalizzazione, come sarebbe stata battezzata quella che si apriva dopo la fine dei bicentenari macro-conflitti ideologici eurocentrici, si sarebbe però presentata in forme per molti versi inattese ed imprevedibili. Essa avrebbe ben presto dimostrato come quella “teleologia” dell’Occidente in realtà si fondasse su un consolidato equivoco, su una distorsione radicata nelle ideologie otto-novecentesche del senso della nozione di Occidente, così come era maturata al culmine di una storia più che millenaria.



2. Alle radici culturali dell’Occidente: libertà, razionalismo, modernità

Le origini di quel concetto si possono ritrovare innanzitutto nell’idea, nata nella Grecia classica, dell’Occidente come sede delle libere póleis elleniche contro l’Oriente della tirannide assoluta persiana. Ma, su quelle fondamenta, il modello occidentale si sviluppa poi come precipitato storico dell’autocoscienza culturale dell’Europa, coagulatasi lentamente dalla formazione del Sacro Romano Impero fino alla configurazione del continente come sistema di potenze nell’epoca moderna, dalla colonizzazione dei paesi d’Oltremare all’illuminismo e alle grandi rivoluzioni settecentesche.
L’Occidente si rivela, al culmine di quel percorso, una sorta di sublimazione e concentrazione dell’identità europea identificata come culla della modernità scientifica, tecnica, economica, politica, giuridica, istituzionale. Un’identità incarnata soprattutto dall’idea di progresso e da quella dell’individuo come soggetto morale. E contrapposta, questa volta, all’Oriente visto come staticità, prevalenza della tradizione, irrazionalità, magia, superstizione.
Ma quella concezione culturale presentava già nel suo primo sorgere una strutturale ambiguità: impulso alla razionalizzazione della vita collettiva e alla liberazione delle energie individuali da un lato, ma dall’altro anche aspirazione all’omologazione delle “disordinate” differenze presenti nelle comunità umane in un’organizzazione strutturata secondo criteri rigorosamente “scientifici”.
In realtà, l’ambivalenza del patrimonio etico-culturale “occidentale” addirittura preesisteva, per molti versi, ai dilemmi della modernità dispiegata. La coscienza di sé dell’Europa post-classica era cresciuta, infatti, sul delicatissimo equilibrio segnato da S. Agostino tra la Città dell’Uomo e la Città di Dio, cioè tra il riconoscimento della trascendenza del Bene (con la conseguente provvisorietà di ogni istituzione umana) e la determinazione di tracciare, con la res publica christiana e l’equilibrio tra potere temporale e spirituale, i confini di uno spazio che fosse incubazione del regno di Dio in terra. Quell’equilibrio in epoca moderna si sarebbe progressivamente inclinato nel senso della secolarizzazione, cioè di un’identificazione sempre più tangibile e diffusa dell’avvento del “regno di Dio” con la potenza politico-economica e scientifico-tecnologica: un processo le cui tappe principali sarebbero state la frattura del mondo cristiano portata dalla Riforma, la nascita dello Stato moderno (con la conseguente “teologia politica” elaborata a fondamento della sovranità secolarizzata) e le enormi conseguenze socio-economiche della rivoluzione scientifica, tra cui soprattutto la nascita del capitalismo e la rivoluzione industriale.



3. Dalla secolarizzazione alle ideologie: la pulsione (auto)distruttiva della civiltà europea

Proprio la convinzione di una possibile comprensione scientifica della società e della storia introduceva nell’identità europea dall’illuminismo in poi il nuovo, dirompente elemento delle ideologie: sistemi di pensiero che pretendevano essere la base, appunto, per una risoluzione dei conflitti e delle contraddizioni delle società umane attraverso una torsione scientifica della politica.
Una svolta che dava inizio ben presto ad un processo di radicalizzazione della politica stessa, con il conseguente logoramento del tessuto connettivo comune della civiltà continentale: ne derivava, in piena contraddizione rispetto alla premesse del pensiero ideologizzato, una conflittualità sempre più esasperata, fondata sull’assolutizzazione dell’idea di potenza, ed accompagnata da una delegittimazione crescente dell’avversario, fino alla sua esclusione dal consorzio umano, in quanto nemico della ragione, della logica, della scienza, del progresso.
Alle linee di frattura fondate sull’appartenenza e sulla gerarchia, che avevano dominato la dialettica politica europea nel medioevo e nell’età moderna, succedeva l’epoca delle guerre totali: per loro natura incomponibili nei termini di un linguaggio giuridico comune ai diversi contendenti, e risolvibili soltanto nel dominio assoluto di una visione del mondo su un’altra.
Il corto circuito tra ideologia e rivoluzione, dalla deriva giacobina della Rivoluzione francese in poi, si concretizzava dunque in uno scatenamento di violenza senza precedenti nella storia, non solo in termini quantitativi ma innanzitutto qualitativi.
La contrapposizione tra “libri sacri” terreni da applicare alla ri-progettazione della società e della stessa natura umana diviene, certo, tra Otto e Novecento uno tra gli elementi fondamentali dell’espansione della civiltà europea nel mondo. Ma allo stesso tempo si configura come l’affermarsi sempre più percepibile, in essa, di una gigantesca forza distruttiva ed autodistruttiva. Nella cultura europea tra i due secoli, ed in particolare a partire dalla crisi del positivismo, emerge in molteplici forme la coscienza dell’esistenza di una pulsione di morte connessa al conato al controllo totale dell’umano di cui le concezioni ideologizzate della modernità, religioni secolarizzate del progresso e della marcia inarrestabile della civilizzazione, si erano fatte espressione.
I regimi costituzionali liberali, l’articolazione della rappresentanza politica e sociale, il progressivo affermarsi della democrazia pluralistica in qualche modo disinnescavano gli effetti più dirompenti dei conflitti ideologici. Ma questi ultimi tendevano costantemente a riaffermarsi in forme ancora più estreme, trasformando l’idea di rivoluzione e quella di progresso in categorie incontenibili in qualsiasi logica di equilibrio istituzionale: sempre più ridotte all’elementare, atomica affermazione della volontà di potenza, che Friedrich Nietzsche lucidamente aveva individuato come esito della deriva tecnocratica/organizzatrice della cultura occidentale.
I regimi totalitari del Novecento sono i casi estremi, dirompenti della deriva nichilistica insediatasi al centro dell’Europa nel momento in cui essa si configurava come detentrice di un’incontrastata egemonia politica, militare, economica, scientifica mondiale. Quella deriva, tuttavia, mostrava in essi soltanto la punta del suo iceberg: la cui massa era costituita dall’integrale secolarizzazione della vita etico-politica e sociale, sottomessa ad un approccio radicalmente strumentalistico.



4. La rinascita dell’idea di Occidente come anti-totalitarismo

Ma l’eruzione dei totalitarismi iniziata con la rivoluzione bolscevica in Russia, proseguita con quella che Elie Halevy definì «l’era delle tirannie» ed Ernst Nolte «guerra civile europea» produceva anche, per contrasto, il risveglio di una coscienza culturale diffusa della necessità di ricondurre l’impulso ordinatore/organizzatore della cultura moderna all’interno di un quadro normativo fondamentale che ne limitasse le potenzialità distruttive, salvaguardando il tessuto plurale e la fisiologica evoluzione delle entità collettive umane. Un’esigenza che fosse formulata in nome di un orizzonte esplicitamente religioso/trascendente o di un razionalismo laico di fatto non poteva non raccogliere l’eredità di quel sentire cristiano su cui la cultura europea aveva consolidato il suo appello alla autonomia dei princìpi etici da “Cesare”.
Il ripensamento della categoria di Occidente, sotto una pressante esigenza di limitazione normativa del potere, conviveva però, fin dalla fine della Grande Guerra, con lo spettro incombente di una decadenza temuta o, da taluno, sperata: il “tramonto dell’Occidente”, appunto, evocato in nome di un relativismo culturale totale da Oswald Spengler, o in vario modo dagli ideologi comunisti, nazisti, fascisti in nome della superiorità delle organizzazioni collettiviste rispetto ad una società individualista, dunque condannata a loro dire alla disgregazione del particolarismo.
Sarebbero stati l’espansionismo nazi-fascista prima (alleato a quello dell’imperialismo giapponese in Asia), la deflagrazione della seconda guerra mondiale poi, a indirizzare una parte consistente della cultura politica europea ed americana verso una mobilitazione a difesa del costituzionalismo liberaldemocratico, e verso una rinnovata definizione di esso che ne escludesse, senza equivoci, derive autoritarie e totalitarie di ogni tendenza. Era in queste drammatiche circostanze di stato d’assedio che veniva concepito, a livello politico ed intellettuale, il progetto di un’alleanza sovranazionale da porre a presidio della libertà e dei diritti umani: che si ritrova in progetti come quello dell’unione atlantica promosso dal giornalista inglese Clarence Streit nel 1938, nel primo embrione di essa siglato da Roosevelt e Churchill nel 1941, nel discorso sulle “quattro libertà” tenuto in quell’anno dallo stesso Roosevelt, infine, nel progetto delle Nazioni unite, concepito in origine come riformulazione dell’internazionalismo democratico diWilson alla luce della minaccia totalitaria, e tentativo di un costituzionalismo globale fondato sulla salvaguardia e dignità della “persona” umana.
Dopo la vittoria degli Alleati la reviviscenza della categoria di Occidente come paradigma anti-totalitario generava risultati imponenti sul piano politico ed istituzionale: tra cui possiamo annoverare le nuove costituzioni postbelliche come quella dell’Italia e della Repubblica federale tedesca, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu, la nascita della Nato, il processo di integrazione economica e politica tra le democrazie liberali dell’Europa occidentale.
Le proclamazioni di una pretesa decadenza occidentale, tuttavia, non cessarono certo allora. Infatti, tra i vincitori della guerra figurava anche ed in una condizione paritaria, speculare rispetto agli Stati Uniti e alle democrazie occidentali l’Unione sovietica staliniana, che anzi si presentava come il più coerente antagonista dei fascismi, ed accusava spregiudicatamente (specie alla luce del patto Molotov-Ribbentrop del 1939) i paesi occidentali di essere stati istigatori e complici di essi.
Secondo gli stalinisti e i loro seguaci nei partiti comunisti dell’Europa occidentale, come pure in molti ambienti intellettuali occidentali quello dell’Occidente come sede delle libertà e dei diritti umani era un concetto mistificante, in quanto le democrazie capitalistiche erano state all’origine degli squilibri che avevano condotto all’ascesa di Hitler e Mussolini. L’unica autentica alternativa al disegno liberticida dei fascismi era, a loro dire, la democrazia “sostanziale” dei paesi a “socialismo reale” contro quella “formale” del capitalismo.
Nel dopoguerra e nel periodo della guerra fredda, dunque, l’idea di Occidente, concepita nel senso negativo e polemico che abbiamo delineato, continuò ad essere il bersaglio della denigrazione e della delegittimazione dei marxisti-leninisti: quelli di osservanza sovietica ma poi anche i seguaci del regime introdotto da Mao Zedong con la Rivoluzione cinese, in nome di un persistente – e all’epoca apparentemente trionfante modello collettivistico e totalitario di organizzazione politica.



5. Nuove derive ideologiche: relativismo culturale, libertarismo, ambientalismo anti-umanista

A questi nemici irriducibili si andò poi ben presto a sommare la nuova deriva politico-culturale del terzomondismo, impostasi sempre più prepotentemente a partire dal periodo della decolonizzazione. Questa variante ideologica prendeva spunto dalla condizione di soggezione a lungo subìta dai molti paesi assoggettati dalle potenze europee, per rivendicare la specificità delle culture originarie di quei popoli rispetto ai modelli di civiltà che erano stati imposti nel tempo dalle dominazioni coloniali, e negare la superiorità della civiltà importata dal vecchio continente in quanto tale, affermando invece la pluralità dei modelli di organizzazione socio-politica e di sviluppo economico, e incitando alla riscoperta delle radici culturali autoctone di ciascun popolo.
Adottato ben presto con entusiasmo in molti circoli culturali occidentali, e influenzando sensibilmente molte inflessioni della stessa cultura marxista, quella tendenza introduceva nel dibattito culturale e politico mondiale l’idea del relativismo culturale, declinata in toni di crescente radicalità. La contemporanea affermazione negli ambienti accademici del “primo mondo” degli studi di antropologia culturale contribuiva a diffondere sempre più capillarmente un pregiudizio anti-occidentale di fondo in settori influenti delle classi intellettuali e dirigenti sia in Europa che negli Stati Uniti e nell’America Latina.
Nella vulgata terzomondista la civiltà euro-occidentale veniva più o meno sbrigativamente ridotta ad una serie di schemi ideologici totalmente strumentali al dominio imperialistico e di classe.
Infine, la grande ribellione della generazione dei baby boomers occidentali scoppiata con la contestazione di fine anni Sessanta portava la critica profonda alla way of life e all’organizzazione sociale/politica “esportata” dai grandi paesi capitalistici/liberaldemocratici su un più generale piano di etica sociale. Gli intellettuali e i movimenti sorti intorno al “Sessantotto”, infatti, ponevano radicalmente in questione qualsiasi concetto di autorità, gerarchia e disciplina, e demolivano sistematicamente i criteri che fino ad allora avevano costituito l’ossatura della civiltà di origine europea: l’etica del lavoro, il principio del merito, il collegamento organico tra le generazioni, la centralità sociale e culturale della famiglia, i ruoli e le identità sessuali, il principio di legalità, persino il concetto di sanità ed infermità mentale.
In nome della lotta alla “repressione” si teorizzava diffusamente una società priva di qualsiasi regola precostituita nella condotta individuale e collettiva: senza leggi, senza Stato, senza carceri, senza famiglia, senza restrizioni morali, senza la “schiavitù” della produzione. Un sistematico abbattimento di ogni legame “verticale”, che approdava non tanto all’egualitarismo della tradizione socialista marxista, ma piuttosto, come si sarebbe chiaramente palesato nei decenni successivi, ad un soggettivismo individualistico fondato sulla sovranità di istinti, desideri, stili di vita ed aspirazioni personali: in ultima analisi, cioè, su criteri del tutto irrelati anche rispetto ai legami “orizzontali” che l’anti-occidentalismo “liberazionistico” pretendeva di contrapporre alla logica dello sfruttamento economico capitalistico o del dominio imperialistico.
Un ruolo di particolare rilievo veniva svolto, in tal senso, dall’ulteriore filone ideologico che invocava la “rivoluzione sessuale”: condannando come repressione e violenza qualsiasi tabù, qualsiasi ordine sessuale/sentimentale/ familiare, qualsiasi differimento del piacere, il liberazionismo prefigurava – e rendeva per la prima volta concretamente realizzabile in Occidente a livello di massa – una società incentrata sulla esclusiva soddisfazione di soggetti volitivi dotati di un grado di percezione e rivendicazione della propria condizione sufficiente a definirsi come soggetto di diritti.
Più in generale, derive come il terzomondismo, l’anticapitalismo, il liberazionismo sessuale e il nascente ecologismo si andavano mescolando e fondendo in una cultura diffusa che rifiutava le basi stesse della società industrializzata, in nome di un’idea vitalistica e spontaneistica di natura nella quale emergeva un prepotente anti-umanesimo di fondo, un rifiuto pressoché totale di accettare politicamente il “disagio della civiltà”.
A partire dagli anni Sessanta, dunque, il modello politico, economico e culturale occidentale doveva soffrire, dopo la sfida totale subìta dai totalitarismi novecenteschi, l’attacco di nuovi nemici ideologici non immediatamente ad essi paragonabili, ma potenzialmente altrettanto devastanti. Soprattutto, esso si trovava ormai a dover fare i conti con agenti corrosivi originati soprattutto all’interno dei propri parametri di protezione dei diritti individuali e di pluralismo. Intellettuali, movimenti, settori di società allevati nella sicurezza, nelle garanzie, nel benessere, nelle libertà costituzionali offerte dai paesi del “primo mondo” ne demolivano ormai scientemente, pezzo dopo pezzo, le architravi fondamentali, vagheggiando ogni sorta di alternative utopiche al presunto vizio originario – imperialista, razzista, violento – dell’Occidente, ma in ciò enfatizzando fino allo stravolgimento proprio l’originaria centralità che in essa aveva l’individuo come soggetto etico e civile. In realtà proprio l’approccio anarcoide, radicalmente anti-istituzionale comune alle nuove ideologie “liberazioniste”, a ben vedere, indicava come esse stesse fossero i frutti tardivi delle energie distruttive sedimentatesi nella civiltà europea, e nella sua proiezione globale, dall’affermazione della secolarizzazione illuminista/giacobina in poi.
Ricostruita sotto l’insegna dell’Occidente come baluardo della libertà contro le derive estreme di “religioni secolari” e nazionalismi, la civiltà europea aveva vissuto un’ulteriore stagione di apparente prevalenza con l’affermarsi, nel secondo dopoguerra, dell’egemonia statunitense, di un grande spazio di scambi internazionali tra le economie di mercato, del “miracolo economico”, del welfare state. Ma proprio mentre il suo ultimo, potente avversario “esterno”, il comunismo sovietico, si avviava ad essere definitivamente sconfitto, quel cupio dissolvi riprendeva ad intaccare le fibre più riposte, i caratteri genetici di quella civiltà.
La grande crisi energetica ed economica degli anni Settanta, che segnò lo scacco storico del modello industriale nato con la ricostruzione postbellica e dei costosissimi sistemi di protezione sociale che le democrazie liberali avevano adottato nella competizione a tutto campo contro il collettivismo comunista, sembrò sul momento dare ragione ai nuovi critici apocalittici dell’Occidente, alimentando ancor più il crescente relativismo culturale.



6. L’ultima reazione vitale: gli anni di Reagan e Thatcher

D’altra parte in quel periodo di nuova disgregazione ideologica dei parametri politico-culturali occidentali si manifestarono anche segni in senso opposto, in direzione cioè di una persistente vitalità del modello nel suo complesso.
All’inizio degli anni Ottanta, infatti, soprattutto in seguito alla rinascita liberale-conservatrice portata nel mondo anglosassone da nuove leadership politiche come quella di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, i sistemi politicoeconomici degli Stati Uniti e dei loro alleati mostrarono, ancora una volta, la capacità di ristrutturarsi radicalmente, recuperando fiducia e spinta propulsiva. Una reazione tanto più appariscente in quanto intanto l’impero sovietico versava nel frattempo ormai in uno stato di agonia, e anche i miti ruggenti del terzomondismo si infrangevano bruscamente, alla luce dell’avvento di nuovi regimi dittatoriali e delle guerre regionali o civili che erano state in gran parte l’esito della presa del potere da parte dei movimenti di liberazione anticolonialisti.
In particolare, poi, il nuovo corso inaugurato da Reagan nella politica statunitense parve sotto molti aspetti riparare la grande lacerazione che il ribellismo “liberazionista” aveva inferto alla cultura politica occidentale, caratterizzandosi per un deciso investimento nella difesa della libertà economica contro l’invadenza del fisco e della burocrazia pubblica, per una politica estera aggressiva contro vecchi e nuovi totalitarismi (dalla decadente Urss alle dittature terzomondiste, alla nuova minaccia dell’integralismo islamico al potere in Iran) e per una decisa sterzata verso il social conservatism in difesa dell’articolazione naturale della società contro la deriva radicale-soggettivista.
Questa estrema ricongiunzione alle radici della sintesi politico-culturale liberaldemocratica di origine europea doveva fare i conti, comunque, con una classe intellettuale che, tanto nel Vecchio Continente quanto nei paesi anglosassoni, era ormai saldamente dominata da scuole di pensiero ispirate a princìpi antiliberali e relativistici; e, soprattutto, con una cultura di massa sempre più pervasa – soprattutto in Europa continentale da una versione consumistica del libertarismo, fondata su aspirazioni alla gratificazione e realizzazione individuali ormai scisse da qualsiasi rapporto tra sforzi e ricompense, sacrifici e risultati, e su una pretesa equivalenza tra rivendicazioni di qualità della vita e obblighi del potere statuale.
Ne derivava, da un lato, una capacità strutturalmente limitata di espansione ed universalizzazione della “restaurazione” reaganiana; dall’altro, la tendenza nella cultura “alta” e nel circuito dei grandi media a sminuire fino all’estremo i risultati del sistema occidentale nel confronto con i suoi avversari storici. Nonostante fosse sempre più evidente come quel modello esercitasse un’irresistibile attrazione presso i popoli ancora soggetti ai “paradisi” del socialismo reale.
Tanto negativa era divenuta la “stampa” che le società occidentali proiettavano di se stesse che molti maitres à penser europei e americani interpretarono, come già accennato, il collasso dell’impero sovietico non tanto come la vittoria di sistemi di libertà contro regimi di oppressione, quanto come una decadenza generale della modernità, che avrebbe lasciato il posto al relativismo assoluto di un’epoca “postmoderna”.



7. La globalizzazione post-guerra fredda: un mondo occidentalizzato o de-occidentalizzato?

Quando si andò delineando sempre più chiaramente il processo della globalizzazione economica e culturale, molti orfani delle ideologie novecentesche e critici anti-liberali della way of life occidentale cominciarono ad agitare lo spauracchio del “McWorld”, della distruzione di identità e diversità culturali prodotto dall’espansione incontrollata di un’economia mondiale ormai completamente assoggettata alle grandi multinazionali americane. Ne derivò la nascita dei primi movimenti anti-globalisti, che al volgere del millennio avrebbero trovato clamorose occasioni di manifestare la loro presenza. E la cui sostanza ideologica si sarebbe sostanzialmente riassunta nello slogan «Un altro mondo è possibile»: un altro mondo, appunto, rispetto ad un “turbo-capitalismo” a cui si addebitava l’approfondimento delle disuguaglianze tra paesi sviluppati e in via di sviluppo, la promozione di un consumismo indiscriminato, la depredazione delle risorse naturali del pianeta.
Quei movimenti costituirono un soggetto rilevante nelle opinioni pubbliche dei paesi industrializzati almeno fino alla metà degli anni Duemila, in parte anche a causa dello choc creato dagli attacchi lanciati dal terrorismo islamista l’11 settembre 2001 agli Stati Uniti, dai conflitti dell’Afghanistan e dell’Iraq che ad essi seguirono, e dell’ulteriore reazione terroristica contro i paesi alleati della superpotenza americana: saldando la ribellione anticapitalista ad un pacifismo fortemente emotivo e ad una riformulazione del vecchio terzomondismo sotto la forma di una rivendicazione delle identità culturali minacciate.
Se non che, gli esiti del processo di globalizzazione nell’ultimo quindicennio sono stati molto diversi da quelli che tanti tra quegli “antagonisti” temevano, ma anche da quelli che tanti ingenui liberali e liberal auspicavano (l’universalizzazione pacifica della democrazia e dei diritti umani).
Dal punto di vista economico, il risultato più clamoroso è stato il fatto che, a dispetto dei profeti apocalittici, miliardi di persone soprattutto in Asia ed in America Latina ma anche in Africa sono usciti dalla fame e dal sottosviluppo. L’indice di povertà nel mondo si è ridotto in misura drastica, e sono cresciute nuove potenze economiche come quelle riunite sotto la sigla dei BRICS: in cui appunto si distinguono grandi paesi che precedentemente rappresentavano quasi il modello di economie sottosviluppate, come India, Cina e Brasile, ed altri che, come la Russia, sono usciti dalla gravissima crisi succeduta al crollo del regime comunista attraverso una svolta a favore del mercato. Sia pure, gli uni e gli altri, caratterizzati da una forte presenza regolatrice dello Stato e da grandi concentrazioni monopolistiche/oligopolistiche.
Sul piano economico si può dunque affermare che il modello di sviluppo occidentale ha sì largamente prevalso, ma ciò non si è tradotto in uno strapotere economico e politico dei paesi occidentali, bensì in una crescita in benessere e potere di aree del mondo esterne al “nocciolo duro” dell’Occidente.
Anche per quanto riguarda gli equilibri di politica internazionale, poi, la globalizzazione, lungi dal cementare il predominio incontrastato dell’unica superpotenza superstite, ha generato piuttosto un multipolarismo in cui la questione dell’egemonia, sul piano regionale e globale, è tutt’altro che scontata.
Soprattutto, non è possibile affermare che complessivamente il mondo globalizzato si sia “occidentalizzato”. Proprio l’attacco islamista lanciato l’11 settembre 2001 fu il tragico segno dei problemi di fondo che rimanevano irrisolti dietro la grande, presunta pacificazione del post-guerra fredda. E gli eventi che si sono succeduti da allora fino ad oggi, dentro e fuori i confini delle grandi democrazie industrializzate, non hanno fatto che ribadire con sempre maggiore evidenza il fatto che la civiltà occidentale, lungi dall’essere la trionfatrice di quella fase storica, proprio con essa è entrata in una nuova fase di profonda incertezza, caratterizzata per molti versi da una relativizzazione della sua eredità storica.
Molto approssimativamente, possiamo riassumere questo passaggio storico in tre punti.
Innanzitutto, l’Occidente ha “globalizzato” soltanto una parte di sé (la tecnologia, la competizione, il mercato, il potere della comunicazione amplificato dal trionfo del digitale, la società dei consumi), ma si è mostrato in gran parte incapace di “esportare” i propri princìpi etico-politici fondanti.
In secondo luogo, l’“altro mondo possibile” è effettivamente nato, ma, per disgrazia degli ideologi no global, è stato quello dei fondamentalismi religiosi o etnico-razziali, tra cui in primo luogo l’ideologia islamista. Il successo dell’integralismo islamico, in particolare, si deve in primo luogo al fatto che esso ha dipinto un’immagine apocalittica dell’Occidente, considerato come sradicatore di ogni principio etico ed alfiere di una totale mercificazione dell’umanità, di una resa totale all’idolatria del denaro e del potere. In questi decenni sono sorti poi, soprattutto in Europa, diversi populismi identitari, a carattere soprattutto etnico, che si nutrono di una raffigurazione analogamente demonizzante della globalizzazione a guida occidentale: dipinta, secondo i canoni della conspiracy theory, come una enorme congiura planetaria manovrata da burattinai più o meno occulti, tra cui emergono le corporations, la grande finanza, le banche, le istituzioni comunitarie. In essi così come negli integralismi religiosi (va ricordata anche la recrudescenza di quello indù) si può dire che l’ideologia antiglobalista e il relativismo culturale veicolati da parte della classe intellettuale occidentale ex-marxista e liberal abbiano trovato la loro più spietata e beffarda nemesi.
Infine, mentre intorno all’ex “primo mondo” tanti paesi protagonisti del nuovo sviluppo globale mostravano una gigantesca esplosione di vitalità grazie a società giovani, protese verso l’istruzione, disposte al rischio e al sacrificio, animate da un forte senso della comunità e da condivisi princìpi identitari l’Occidente dava invece segni sempre più evidenti di sfiducia, pessimismo, scetticismo, disgregazione culturale, che si traducevano infine anche in declino economico, esploso dal 2007 in poi con la grande crisi mondiale (o meglio occidentale) del debito. I tratti di questa vera e propria depressione collettiva sono in stretta correlazione reciproca: crisi di produttività e di consumi, sensibile decrescita demografica con conseguente invecchiamento fisico e psicologico delle popolazioni, incrinarsi dei legami familiari e comunitari, riduzione della cultura liberale dei diritti all’enunciazione di aspirazioni di status e stile di vita individuali, scissi da obblighi e vincoli sociali.
Se vogliamo interrogarci sul significato attuale della civiltà occidentale e sulle sue prospettive dobbiamo partire da questi punti fermi, senza nasconderci l’evidente processo involutivo che il “primo mondo”, o ciò che ne resta, attraversa. Se si tratti o no, questa volta, del “tramonto” evocato da Oswald Spengler novant’anni fa, è tutto da vedere. Ma è innegabile la tendenza al disfacimento di alcuni pilastri portanti del modello economico, politico, giuridico, culturale radicato fino ad ora tra le due sponde dell’Atlantico, mentre il resto del mondo si mostra in una fase di vorticoso movimento.
In particolare, emerge con chiarezza come l’aspetto cruciale della crisi occidentale sia di ordine eminentemente culturale. Una civiltà che ha smarrito il senso delle proprie radici etico-politiche, infatti, riesce ad esportare di sé soltanto la tecnica, e di conseguenza non attrae adesione spirituale e morale nei popoli ad essa esterni. Al contrario, suscita in essi soprattutto una reazione istintiva di rigetto, un’enfatizzazione protettiva delle proprie irriducibili ragioni/differenze identitarie.
Non è, insomma, l’eccessiva sicurezza o arroganza culturale occidentale a produrre gli integralismi antioccidentali, ma il suo opposto: la caduta di ogni sua autentica proiezione universalistica, che è inscindibile da una condivisa idea della natura umana, e la declinazione disgregante dei “diritti”, ridotti a litania formalistica, quando non a complesso di superiorità culturale slegato da ogni senso di realtà.
Mentre dal punto di vista puramente economico il ridimensionamento dell’Occidente è reso ormai manifesto dal sorpasso dell’economia cinese su quella statunitense, e dagli scenari che prevedono entro pochi anni l’assestamento di un rapporto di 3 a 1 tra il prodotto interno lordo dei paesi extra-occidentali e quelli occidentali, l’area del mondo egemone fino al Novecento avanzato si trova oggi stretta in una paradossale alternativa: ai suoi confini, il prevalere di un approccio radicale e organicistico alle identità culturali accoppiato all’espansione del mercato; all’interno, società sempre meno capaci e desiderose di crescita, ma in compenso sempre più percorse da pretese di innalzare a diritti inalienabili della persona standard di vita ormai incompatibili con la loro produttività/vitalità complessiva.



8. Per cosa si batte l’Occidente? una politica globale incoerente

Questa debolezza culturale di fondo si traduce in due direttrici fondamentali che caratterizzano oggi prevalentemente la politica dei paesi occidentali “storici”.
Per un verso, le loro classi dirigenti propongono in misura crescente al loro interno un’idea della democrazia liberale che, in ossequio all’ideologia radical-libertaria ormai egemone nei ceti intellettuali e nei media, enfatizza di esse soltanto il perseguimento di un individualismo edonistico sconnesso da qualsiasi idea di equilibrio sociale, con particolare riferimento alla sfera sessuale e a quella della manipolazione tecnologica degli stati più delicati della vita umana. E pretendono di imporre, attraverso gli organismi internazionali, gli stessi stili di vita e la stessa concezione della vita a paesi e culture ancora saldamente legati ad un’idea solidamente comunitaria, e imperniate sulla conservazione della struttura familiare tradizionale.
Per converso, la politica dei paesi occidentali (e naturalmente in primo luogo degli Stati Uniti) dal punto di vista della affermazione dei princìpi fondanti della democrazia liberale nel mondo si è rivelata oscillante e contraddittoria. Nelle ricorrenti crisi internazionali succedutesi dopo il 1989, e che hanno visto emergere nemici dichiarati di quei princìpi (dalle guerre etniche post-jugoslave ai nuovi conflitti mediorientali), gli Usa e i loro alleati hanno alternato politiche interventiste ispirate da criteri umanitari o universalistici ad atteggiamenti isolazionisti, rinunciatari, inclini soprattutto a mantenere lo status quo e le classi dirigenti al potere, per timore della destabilizzazione o di un coinvolgimento militare troppo impegnativo.
Una vera e propria sintesi emblematica di queste oscillazioni si può ritrovare, da ultimo, nella politica estera promossa dalla presidenza statunitense di Barack Obama dal 2008 ad oggi. Giunto alla Casa Bianca principalmente sull’onda di un potente sentimento di rigetto da parte dell’opinione pubblica statunitense verso l’interventismo armato promosso dalla presidenza di George Bush jr. dopo il trauma dell’11 settembre, e gli altissimi costi umani delle guerre in Afghanistan e in Iraq, Obama ha tentato, con scarsa fortuna, di perseguire un equilibrio tra il ritiro militare dai fronti più caldi e il mantenimento di una avvertibile presenza americana nei punti cruciali di crisi, attraverso la linea del cosiddetto leading from behind. Linea che ha prodotto risultati disastrosi praticamente ovunque sullo scacchiere mediorientale/nordafricano: dall’Iraq, dove è sorta la nuova minaccia dell’Isis e del “Califfato” islamista, ancor più aggressiva del vecchio integralismo sunnita e sciita, alla Siria, alla Libia destabilizzata dall’intervento bellico franco-britannico per rimuovere il regime di Gheddafi, alle cossiddette “primavere arabe”, verso le quali l’atteggiamento dei paesi occidentali è stato incerto tra esaltazione acritica e disimpegno, e che si sono risolte quasi ovunque in un’avanzata integralista.
A ciò si aggiunge una strategia geopolitica globale altrettanto incerta, che ha portato gli Stati Uniti di Obama e i loro alleati a pregiudicare sempre più i rapporti con la Russia di Putin emarginata e insidiata nelle sue aree di sicurezza, fino a spingerla tra le braccia della Cina senza rafforzare sufficientemente per converso né l’antico asse atlantico né la prospettiva di un’alleanza di stati filo-occidentali nel Pacifico e nell’Estremo Oriente.



9. Lo “scontro di civiltà” e l’Occidente che rinnega se stesso

Se guardiamo alla logica degli equilibri di potenza mondiali, si può dire ormai che il venticinquennio seguito al 1989 ha visto in larga parte realizzarsi le previsioni avanzate dal politologo statunitense Samuel Huntington nel suo celeberrimo saggio del 1993, The clash of civilizations. Saggio in cui, come è noto, si sosteneva non soltanto che con la fine della guerra fredda non sarebbero cessati i conflitti mondiali, ma che essi si sarebbero fondati non più sulle ideologie, bensì sulle “faglie” tra diverse civiltà caratterizzate da un complesso di tratti culturali e spirituali propri, irriducibili e sostanzialmente tra loro incompatibili: divisioni tra l’Occidente di origine europea e il resto del mondo, ma anche interne all’Occidente stesso, che avrebbero strutturalmente impedito qualsiasi prospettiva di unipolarismo di potenza o egemonia planetaria.
Molti elementi, nell’attuale assetto segmentato dei poteri mondiali, convergono infatti indubbiamente nell’avvalorare lo scenario dello scontro di civiltà: dalla reazione islamista (forse il principale evento ad aver polarizzato nei decenni passati il dibattito sulle sue teorie), con le relative lacerazioni interne tra Islam sunnita e sciita, alla sempre più imponente crescita della Cina e dell’estremo Oriente, fino alla differenziazione all’interno della civiltà europeocristiana tra l’Occidente atlantico e l’Oriente ortodosso/slavo (perdurante ben oltre la contrapposizione tra liberaldemocrazia e comunismo); e persino, da ultimo, a quella emersa all’interno dell’Europa comunitaria a partire dalla grande crisi del 2007 tra paesi del Nord e paesi mediterranei o “latini”.
L’emergere delle “faglie” tra le civiltà e la frammentazione culturale/religiosa sembrerebbero sancire irrimediabilmente, nel breve e medio periodo, il ritorno alla geopolitica classica, intesa essenzialmente come lotta tra potenze per la supremazia, “legge della giungla” dei rapporti internazionali non arginabile da istituzioni o diritti sovranazionali. In ultima analisi, questi fenomeni richiederebbero da parte del mondo occidentale la realistica constatazione dell’impossibilità, a meno di giganteschi mutamenti culturali oggi non preventivabili, di “globalizzare” effettivamente la democrazia liberale e gli standard dei diritti umani, dei quali esso si ritiene ancora il legittimo, o addirittura esclusivo, rappresentante. Se non, addirittura, la rassegnata consapevolezza che anche lo stesso Occidente non può accampare alcuna pretesa di unicità, ma è soltanto una tra le tante civiltà succedutesi durante la storia, e come tante altre prima di esso potrebbe presto imboccare la via del declino e infine scomparire.
Ma proprio questo è il nodo problematico cruciale insito nella teoria huntingtoniana del clash of civilizations, e tanto più occorre considerarne attentamente le implicazioni quanto più si deve constatarne la validità sotto molti aspetti. Come altri studiosi che da punti di vista diversi hanno inserito la storia dell’Occidente all’interno di un affresco generale dei “cicli” delle civiltà (si vedano la teoria dell’imperial overstretch esposta da Paul Kennedy nel 1987 in Ascesa e declino delle grandi potenze, l’approccio biologistico/evoluzionistico di Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie del 1997, o l’analisi delle “armi” culturali che hanno imposto la cultura euro-occidentale nel mondo in Occidente di Niall Ferguson del 2011) il politologo statunitense partiva, nella sua analisi, da un assunto sostanzialmente relativista, “polibiano”, per cui tutte le civiltà vanno intese innanzitutto come organismi storici che nascono, crescono, si sviluppano e muoiono. E relativistica (cosa che non tutti gli ammiratori “di destra” di quella teoria considerano) era infatti la conclusione del volume di Huntington del 1996: l’Occidente il cui nucleo culturale e politico coincide per lui con la superpotenza statunitense e l’asse atlantico dovrebbe abbandonare ogni velleità di “esportare” i proprì princìpi culturali, politici ed economici a livello globale, concentrandosi invece sulla salvaguardia della propria specifica identità all’interno, unica via possibile alla sopravvivenza, o almeno alla dilazione del declino.
Quel che la teoria dello scontro di civiltà in sé esclude, in altri termini, è non tanto una gerarchia di valore tra le civiltà (incompatibile, giustamente, con una valutazione realistica dei loro rapporti di forza) quanto la sottolineatura della effettiva specificità culturale della civiltà euro-occidentale, cioè di quegli elementi che ne hanno favorito storicamente la formidabile, finora ineguagliata forza espansiva nel mondo. Elementi che non si possono ridurre alla strategia militare, al capitalismo, o alle killer apps dell’egemonia di cui parla Ferguson (competizione, scienza, proprietà, medicina, società dei consumi, etica del lavoro), e nemmeno alla democrazia in quanto tale, ma vanno ricondotte piuttosto alla radice primaria da cui anche quelle manifestazioni storiche sono derivate: la peculiare concezione universalistica dell’essere umano sedimentatasi nella vicenda storica mediterranea, europea, transatlantica, frutto della sintesi tra cultura greca, romana ed ebraico-cristiana.
Certo, l’Europa-Occidente non è l’unica civiltà ad essere cresciuta su una cultura, una religione, una filosofia di carattere universalistico: l’India induista e buddista, l’islam, la Cina imperiale hanno veicolato elementi altrettanto decisivi in quel senso. Ma l’universalismo euro-occidentale è stato l’unico a formulare e diffondere l’idea di un valore assoluto della vita umana in quanto tale, e a porre la sua salvaguardia come obiettivo e freno di ogni potere. A salvare, insomma, Dio da Cesare, limitando rigorosamente l’estensione della sovranità e definendo attraverso il diritto, le istituzioni, la morale della libertà come responsabilità e l’afflato alla fraternità una sfera intangibile della vita di individui e soggetti collettivi. È stata questa la vera killer app dell’Occidente, «la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta» di cui parlava nel 1942 Benedetto Croce nel suo Perché non possiamo non dirci cristiani.
La civiltà europea, che avremmo poi imparato a chiamare occidentale, ha cominciato a perdere questa sua forza propulsiva quando, con la propria mutazione genetica in direzione delle ideologie, ha riacceso ed enfatizzato fino al parossismo il corto circuito tra etica e politica, annichilendo così la sua carica universalistica nella potenza distruttiva delle “religioni secolarizzate”. La sua attuale, evidente debolezza consiste innanzitutto nel fatto che correnti politico-culturali in essa prevalenti persistono sistematicamente a corrodere dall’interno quell’universalismo con nuove, ulteriori manifestazioni del medesimo morbo ideologico. Nel fatto, insomma, che l’Occidente stesso continua ad auto-relativizzarsi, abbandonando le ragioni della propria unicità nella storia.




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