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Draghi & Fischer: accademia e management. La macroeconomia micro fondata. Politica monetaria e politica fiscale
di Massimo Lo Cicero
Una premessa ed una sintesi dei temi affrontati

Nel secolo scorso la politica economica degli Stati nazionali era più semplice e più comprensibile. Il lungo e travagliato confronto tra keynesiani e monetaristi era approdato alla condivisione di una macroeconomia microfondata, che riconosceva gli effetti delle aspettative nella battaglia psicologica tra governi e sindacati, imprese e consumatori. Il perimetro degli Stati nazionali indicava i limiti del mercato domestico, largamente prevalente, e segnava il confine tra esportazioni ed importazioni. Alla fine del secolo le tecnologie digitali offrono strumenti poderosi ai movimenti di capitale. Nasce la finanza derivata, i mercati e gli intermediari finanziari si sviluppano attraverso i confini nazionali degli Stati. Nasce la globalizzazione e gli Stati nazionali sembrano avviarsi sulla strada del tramonto. Nasce, con il terzo millennio, l’area dell’euro ma questa nuova moneta incontra un percorso che si rivela accidentato: e non solo per motivi monetari o ragioni finanziarie. Cambiano gli assetti geopolitici alla scala mondiale.
Nel 2008 esplode la prima crisi finanziaria mondiale. In seguito alla quale si apre una stagione prolungata di recessione che in Europa è particolarmente aggressiva. Si arriva alle soglie di una vera e propria deflazione dei prezzi. Nel 2011 Mario Draghi assume la presidenza della BCE. Nel 2013 si accendono le speranze di una possibile ripresa anche in Europa.
Il 2014 smentisce queste speranze e la ripresa della crescita, molto attesa – anche per la convergenza tra nazioni ed aree geografiche che si aspettano i Governi e le imprese – diventa un processo disordinato, uneven, dicono gli analisti dei centri di previsione mondiali. L’area euro ristagna e le terapie di politica economica, che potrebbero riavviare la crescita mondiale, devono essere riformulate e ridisegnate. Mario Draghi apre alla periodica riunione delle banche centrali a Jackson Hole, una opzione innovativa sul piano analitico, partendo dagli effetti che la recessione genera sulla disoccupazione1. In effetti le prime avvisaglie di questa necessaria innovazione si erano avvertite nel trapasso tra il 2012 ed il 2013.
In questo articolo cerchiamo di collegare gli strumenti proposti da Draghi negli ultimi mesi del 2014, e la dimensione innovativa che essi contengono rispetto all’impianto tradizionale delle politiche finora utilizzate, con le riforme possibili per l’Unione Europea e le conseguenze di queste eventuali riforme sulla natura degli Stati nazionali che aderiscono all’Unione. Una parte significativa di questo sforzo nella trasformazione dell’economia europea si legge nella cultura keynesiana, che emerge dallo scontro con il monetarismo e propone nuove soluzioni di compromesso sulla gestione della politica economica2. Ma restano aperte anche alcune questioni, complementari e necessarie, per supportare una nuova politica economica, che allarghi i propri orizzonti oltre la stessa macroeconomia assumendo anche le dimensioni degli assetti istituzionali. Questioni che rimandano alle trasformazioni dei partiti politici e delle istituzioni e che intervengono all’indomani della globalizzazione, travolgendo i caratteri tradizionali dello Stato nazionale, come si era definito nel secolo scorso, ma senza offrire, ancora, una prospettiva attendibile delle soluzioni che si potrebbero o dovrebbero ottenere.
Il confronto tra questi due strumenti, la politica economica e la politica tout court, che sia capace di governare la dimensione economica e quella istituzionale, ridisegnando comportamenti ed istituzioni, si concentra, ovviamente, sulle relazioni possibili tra Italia ed Europa.



1. Andare oltre la politica monetaria non convenzionale

Mario Draghi propone, il 27 novembre del 2014, una ipotesi che possa integrare la politica monetaria non convenzionale che aveva proposto il 4 settembre, alla conferenza stampa mensile del comitato direttivo della Banca Centrale Europea3.
Si tratta di un intervento pronunciato nella Università di Helsinki molto denso di innovazioni e di proposte, capaci di allargare e completare il quadro di una politica economica che possa dirsi europea e che possa, proprio per questi motivi, avviare effettivamente la ripresa della crescita in Europa.
Draghi ipotizza tre piani di analisi nella prima parte del suo intervento. In primo luogo la necessaria identificazione di una dimensione politica nella creazione e nella gestione della moneta unica:

Un comune equivoco sull’Unione europea – e sull’area dell’euro – scaturisce dal fatto che si tratta di un’unione economica senza un’unione politica alla base – dice Draghi e continua – Ciò riflette un profondo fraintendimento su cosa significhi “unione economica”: per sua natura è un’unione politica. Lo stesso mercato unico è una costruzione politica che non potrebbe operare in assenza di strutture politiche adeguate. Una forte autorità per la concorrenza, ad esempio, necessita di un potere esecutivo che assicuri l’applicazione della politica di concorrenza, di un potere legislativo che scriva le norme da far rispettare e di un potere giudiziario che dirima le vertenze in conformità della legge. La Commissione europea, il Consiglio dell’UE, il Parlamento europeo e la Corte di giustizia dell’UE sono tutti investiti di questi ruoli.


Con questa affermazione Draghi apre una doppia opzione allo sviluppo della sua ipotesi, complementare alla politica monetaria non convenzionale: creare le condizioni perché anche la politica fiscale possa essere ricondotta ad una dimensione cooperativa tra le nazioni dell’area euro, senza per questo cedere ulteriore sovranità all’Europa ma per rafforzare e rendere più coerente, e convergente verso obiettivi e strategie comuni, gli effetti di quella politica. Una politica fiscale che non si ponga solo il problema di una redistribuzione dei redditi, mediante gli strumenti della tassazione e della spesa corrente o di quella dedicata esplicitamente alla redistribuzione della ricchezza. Ma si ponga, al contrario, il problema di correggere – in presenza di debiti pubblici nazionali di variegata dimensione ed in presenza di cicli congiunturali diseguali nei tempi e nei modi in cui si manifestano – di agire proprio in chiave di riallineamento dei cicli congiunturali: in modo da allargare la possibilità di una ripresa della crescita in una dimensione più larga della convergenza tra le nazioni e, simmetricamente, di arrestare e contenere le tendenze alla stagnazione ed alla recessione che potrebbero verificarsi. Un ridimensionamento degli scarti tra espansione e recessione delle economie nazionali sarebbe un eccellente complemento di una politica monetaria che deve agire essa stessa in maniera parallela e convergente: riducendo i tassi ed aumentando la liquidità del sistema nei momenti in cui si affronta un clima recessivo ed aumentando i tassi, riducendo di conseguenza la liquidità del sistema, quando si manifestano spinte eccessive sui prezzi e rischi di inflazione4.
La seconda linea di analisi richiama le ragioni che legano la moneta unica alla propria funzione: la fiducia nella moneta unica e la capacità di governare non solo la moneta come circolante ma anche la massa monetaria, che include anche depositi bancari espressi in euro ed altri strumenti monetari. Una circostanza che si lega alla Unione bancaria, che si preannuncia attraverso il primo passo del trasferimento della vigilanza sulle banche europee alla BCE: mentre si prepara, di intesa tra la BCE e la Commissione Europea, un riordino ed uno sviluppo dei mercati finanziari europei. Superando le frammentazioni e le verticalizzazioni sia degli strumenti monetari che dei titoli del debito sovrano e, comunque, dell’insieme degli strumenti finanziari.

Altrettanto politica è la costruzione della moneta fiduciaria, e l’unione monetaria non potrebbe funzionare senza strutture politiche adeguate – dice ancora Draghi – ed in questo caso una banca centrale indipendente deve fondare la propria legittimità su un mandato accuratamente definito e integrato in un assetto costituzionale stabilito democraticamente, che per la BCE sono i trattati dell’UE.


La dimensione istituzionale della Banca Centrale Europea nasce, insomma, dai Trattati che ne hanno tracciato l’assetto.
La terza linea di analisi indica, infine, l’esigenza di completare, accelerandone i tempi e le scelte, il percorso che possa arrivare al completamento dell’Unione Europea in quanto tale. Una Unione che è incompleta e che deve essere completata. Mantenere aperte ed incerte le caratteristiche di un accordo di questa portata potrebbe, anzi certamente determinerebbe, la circostanza di una rinuncia al progetto Europeo: un esito fallimentare che comunque nessuno intende accettare.

Se negli anni scorsi la nostra unione ha dimostrato maggiore tenuta di quanto ritenessero molti, è soltanto perché coloro che nutrivano dubbi al riguardo hanno giudicato erroneamente questa dimensione politica. Hanno sottovalutato i sostegni politici della nostra unione, i legami tra i suoi membri e l’entità del capitale politico che vi è stato investito. È però evidente che, malgrado la sua tenuta, la nostra unione è ancora incompleta – è sempre Draghi che parla questa è la diagnosi formulata due anni fa dai presidenti del Consiglio europeo, della Commissione europea, dell’Eurogruppo e da me nella “Relazione dei quattro presidenti”5. Anche se in alcuni ambiti sono stati conseguiti progressi, in altri la nostra unione resta incompiuta. Quindi, finché non avremo completato l’Unione economica e monetaria (UEM), ovvero non avremo soddisfatto i requisiti minimi in tutti gli ambiti affinché la nostra unione sia realmente sostenibile, i dubbi sul suo futuro non saranno mai fugati del tutto. E questa è una verità a prescindere dall’impegno politico espresso. Oggi vorrei illustrare quali sono i requisiti minimi necessari a completare la nostra unione attraverso modalità atte ad apportare stabilità e prosperità per tutti i suoi membri.


E con questo ultimo brano si concludono le tre citazioni che abbiamo riportato dal testo di Mario Draghi.
Ricapitolando il perimetro dei tre piani di analisi, dai quali parte Draghi, si ottiene questa terna: una costruzione politica ha generato la moneta ed il mercato unico; la fiducia nella moneta della Banca Centrale Europea allarga lo spettro della sua presenza quando alla moneta si affiancano la moneta bancaria, i depositi, e l’insieme degli strumenti monetari e finanziari utilizzati dalle banche e dai mercati finanziari nell’Unione europea; se viene rallentato un processo, che è stato proposto e del quale si intende raggiungere il risultato da ottenere, non si può restare troppo tempo in una condizione di stallo, perché l’allungarsi della mancata azione induce, con molta probabilità, la scomparsa del risultato dell’azione. In altre parole se non si rimette in moto il processo di convergenza politica verso un più identificabile assetto istituzionale dell’Unione Europea potrebbe non esserci più l’Unione, sbriciolandosi progressivamente parte della stessa, a partire dalle nazioni in cui si presentino insofferenze e rifiuti sulla natura dell’assetto finale dell’Unione.
In questo perimetro si collocano molte ipotesi di lavoro interessanti e di sperimentazione sulle politiche economiche che, sinteticamente, riproponiamo al lettore.
La scomparsa delle monete nazionali, e la creazione simmetrica di una moneta unica, ridimensionano il tasso di cambio come variabile controllabile dagli Stati nazionali durante gli shock sulla economia ed il mercato domestico del singolo paese. Condividere politica monetaria e politica fiscale, cercando di far convergere lo spettro della produttività tra le varie economie appartenenti all’Unione, aiuta i Governi, che vogliano cooperare tra loro. Fermo restando il fatto che la rinuncia ad utilizzare il tasso di cambio per svalutare o rivalutare la propria moneta rimane un costo. Questo costo dovrebbe essere pareggiato da un beneficio, quello della cooperazione e del coordinamento reciproco tra i Governi, almeno uguale al costo sopportato. Altrimenti la fuga dall’Unione, di un Governo e dello Stato che lo guida, potrebbe iniziare, a partire dalle economie più marginali, traducendosi, probabilmente in una valanga.
Purtroppo lo spettro troppo largo, di una differenza tra la produttività ed i livelli di vita, nelle varie economie nazionali, produce il paradossale effetto di obbligare all’uso di una moneta sopravalutata, l’euro, paesi deboli come la Grecia, la Spagna e l’Italia. Regalando, al contrario, una moneta sottovalutata, l’euro, a paesi forti, come la Germania ed i paesi Baltici. In questo caso le economie più forti si aggiudicano un cambio che le aiuta ad esportare e quelle più deboli devono subire una moneta troppo forte per poter allargare le proprie esportazioni.
Per riequilibrare questo processo negativo, ed evitare la prospettiva di eventuali “fughe” dall’area dell’euro, Draghi ipotizza una maggiore flessibilità ed una più attenta allocazione degli investimenti e della produzione nelle singole nazioni.
Se ogni paese riesce a rendere più flessibile il sistema dei mercati – e se ogni paese riesce a scegliere i vantaggi competitivi più idonei, selezionando nei mercati domestici la natura e la tipologia delle produzioni – nasce una rete di vantaggi comparati che può ridimensionare gli effetti troppo polarizzati: troppo deboli alcuni paesi, troppo forti gli altri paesi, e quindi troppo diversi. Una diversità che indebolisce la natura stessa dell’area dell’euro come uno spazio monetario convergente e che ha finora impedito la creazione di un’area monetaria ottimale nell’ambito dell’Unione europea6.
Naturalmente la flessibilità dei mercati domestici dovrebbe essere “aggiustata” sui prezzi e non sulle quantità. I salari devono variare ma avere una relazione compatibile con i prezzi relativi di beni e servizi. Ridurre le quantità – nel caso del mercato del lavoro si tratterebbe di aumentare la disoccupazione – invece di agire sui prezzi e sui salari, sarebbe un tragico errore per un paese in difficoltà. I governi si devono impegnare a rendere più competitive e più fluide le economie del proprio paese, e devono anche ridurre drasticamente la spesa pubblica corrente, spesso assolutamente inutile, ed allargare lo spettro di una spesa per investimenti: dalle infrastrutture all’energia, dai trasporti alle telecomunicazioni, dalla formazione del capitale umano, che presenta la necessità inderogabile di offrire nuove opportunità e nuovi profili e tecniche professionali ai lavoratori che non abbiano ancora raggiunto l’età pensionabile. In futuro l’economia europea dovrà necessariamente riutilizzare le proprie risorse umane, ancora potenzialmente valide, su filiere e mercati, diversi da quelli che la crisi del 2008/2009 ha ormai probabilmente cancellato dal sistema, e quindi dal possibile, ed eventuale futuro, di una ripresa della crescita. In alternativa a questa strategia di rinnovamento dei ruoli e delle capacità delle risorse umane, una durata troppo lunga di assenza nella prestazione di lavoro, supportata dalla cassa integrazione, diminuisce progressivamente la qualità e la capacità di lavoro dei disoccupati e prepara uno scenario catastrofico, rispetto all’utilizzo futuro dei lavoratori, una volta che sia finalmente ripresa la strada della crescita.
Apriamo qui una parentesi che riguarda la storia, della partecipazione all’area euro, dell’economia italiana nel primo decennio del terzo millennio ed un clamoroso errore di politica economica, nel quale sono caduti entrambi gli schieramenti che si sono succeduti al Governo, il centro sinistra ed il centro destra.
Una volta venuto meno il tasso di cambio, dicevamo poche righe più sopra, come strumento di correzione degli shock, alimentati da scarti di produttività omogeneamente concentrati in aree diverse, ma nello stesso mercato domestico, è stato sempre ritenuto impossibile – sia dai governi nazionali che dai rappresentanti della commissione europea – l’utilizzo di uno strumento alternativo per correggere il divario interno di produttività. Tutti sappiamo che la produttività dell’economia del centro nord è molto più alta di quella del Mezzogiorno, e che il divario di reddito, ancorché supportato dai trasferimenti fiscali ad imprese e famiglie del Mezzogiorno, da parte dello Stato, genera redditi inferiori, ma comunque trasferiti alle regioni settentrionali ed ai mercati esteri, rispetto a quelli italiani.
Questi trasferimenti fiscali creano un mercato per le regioni meridionali anche perché la bassa produttività dell’economia meridionale, in alcuni casi, cancella progressivamente, attraverso la tenaglia della crisi e della cassa integrazione, impianti e lavoratori di una parte del sistema imprenditoriale locale. Mentre, per tutti gli anni alle nostre spalle, è stato ignorato l’utilizzo di strumenti fiscali per correggere gli scarti di produttività e gli effetti del tasso di cambio sulle esportazioni dal Mezzogiorno al resto del mondo. Ora che Draghi considera questa strada, della flessibilità e della riorganizzazione delle economie nazionali, come il corrispettivo necessario di un tasso di cambio unico, che non può riflettere la dimensione delle aree economiche nazionali rispetto alla media del cambio europeo, si spera che si possa e si debba – nelle nazioni in cui esistono divari strutturali tra le regioni e le macroregioni, come sussistono nell’unione tra Stati – utilizzare strumenti fiscali per correggere, restringendone le dimensioni, la spinta alla divaricazione della convergenza necessaria nelle economie nazionali, ma anche in quelle regionali.
C’è un’ultima considerazione da affrontare rispetto alla questione della flessibilità, necessaria, e della trasformazione nella natura dei prodotti e nei processi di produzione, negli Stati e nelle regioni dell’Unione europea, all’indomani della crisi, che abbiamo lasciato alle nostre spalle ma che ci ha trasferito una dimensione deflattiva e stagnante che ci impedisce la ripresa della crescita. E senza la crescita non riusciremo ad affrontare il ridimensionamento dei debiti pubblici che abbiamo accumulato, grazie alla crisi, ed anche prima della crisi stessa. Trasformare il modo, la flessibilità, ed il contenuto – insomma, processi e prodotti assolutamente diversi da quelli che abbiamo usato nella seconda metà del ventesimo secolo – impone una grande sforzo per il cambiamento da parte dei vari Governi dell’unione.
Questi Governi, proprio perché il tempo si è fatto breve – rispetto ai traguardi di maggiore coesione e convergenza che ci aspettiamo dall’Unione e dalla sua, conseguente, progressiva trasformazione in una vera e propria istituzione sovrana, sorretta da una politica del cambiamento – dovrebbero agire anch’essi, come sta facendo Mario Draghi, con politiche di tipo non convenzionale. Dovrebbero, insomma, non partire dalla trasformazione delle leggi e delle istituzioni correnti, ma agire con determinazione, e con respiro politico e strategico, per trasformare comportamenti e spostare la natura dei processi attivati, governando le conseguenze di quei processi, senza indugiare troppo nello sforzo di produrre nuove legislazioni e tanto meno nuove elezioni. In questo momento, se vogliamo davvero dare una spinta efficace alla trasformazione dell’Unione europea, dobbiamo agire con un senso ed una direzione politicamente affidabili ma anche con una determinazione che produca effetti rapidi di trasformazione.
L’assestamento normativo dei quali potrà essere rinviato ad una stagione successiva a questo impegno immediato per la ripresa della crescita. Servono molti cambiamenti immediati e non servono nuove leggi che renderebbero ancora più tortuosa, piena di attriti e paure, anche da parte della pubblica amministrazione, la strada del cambiamento.
Dopo i molti anni, che ci separano dalla crisi del 2008/2009, abbiamo fatto finalmente un passo avanti sul terreno degli strumenti da utilizzare per ribaltare, in una prospettiva di crescita, la stagnazione che ha fatto seguito alla crisi.
L’Austerità sui conti pubblici, aumentare le tasse e ridimensionare i deficit di bilancio, non è più considerata come il toccasana per ottenere la crescita.
Una crescita che ci serve per ridimensionare il debito pubblico, che, a sua volta, genera un volume di interessi tale da trasformare in disavanzo l’avanzo primario dei conti pubblici italiani. Grazie alla doppia pressione dell’aumento dell’imposizione fiscale e della dimensione dello stock di debito. L’austerità cioè la compressione dei consumi, visto che si aumentano le tasse ma non si ridimensiona la spesa pubblica inutile e dannosa, che spesso crea anche episodi di corruzione che screditano ulteriormente la qualità della politica e di chi la deve governare diventa un danno sociale. Dunque l’austerità, come strumento che rilanci la crescita, è assolutamente inutile. E questa percezione si afferma con una chiarezza sempre maggiore.
Il secondo strumento da ridimensionare è la pressione per raggiungere il tetto massimo del deficit di bilancio, uno sport che Francia ed Italia cercano ed hanno cercato spesso di praticare. Anche in questo caso bisogna correggere il tiro dello strumento: il problema non è la dimensione del deficit. La crescita non si manifesta se lo Stato spende di più7. La crescita si manifesta se spendi per investire, in infrastrutture, telecomunicazioni, energia, trasposti e strumenti intangibili, come la ricerca, l’educazione per i giovani, la formazione per coloro che dovranno cambiare lavoro – e ridimensioni l’eccesso di tassazione, in parallelo con l’eccesso di cattiva spesa pubblica. Questa è solo la descrizione di un aggiustamento necessario per gli strumenti della politica economica, da utilizzare per governare la dinamica della sperata crescita. Mentre gli strumenti devono essere gestiti e guidati da una opzione politica, e da coloro che sono i più idonei per portare Italia, ed Area Euro, fuori della recessione.
Proponiamo una sintesi del rapporto possibile tra opzioni politiche e strumenti per la politica economica. L’opinione pubblica italiana oscilla tra due opzioni politiche abbastanza divergenti. l’Italia si deve impegnare per fare i conti con la propria storia o deve agire come una forza capace di entrare nel merito della creazione di una Unione Europea che diventi, non tra troppo tempo ma almeno in un tempo ragionevole, una Unione politica? La comunicazione, economica e politica, deve continuare a scrutare dal buco della serratura se Draghi ed Junker siano idonei al compito loro affidato – e dunque assegnare, a quello che dicono questi due attori primari del cambiamento di rotta in Europa, sempre e comunque un punto interrogativo che non offre informazioni accertate alla opinione pubblica – o dovrebbe dare argomenti e contenuti che possano suffragare l’opinione pubblica, le classi dirigenti ed il ceto politico, che dovrebbero e potrebbero occuparsi di creare finalmente questa nuova Europa?
Se l’opinione pubblica ed il ceto politico avessero elementi fondanti effettivi, e meno gossip, forse riuscirebbero a fondare anche loro qualcosa di nuovo. Ma veniamo al merito di alcuni contenuti che riguardano la relazione tra economia e politica nell’Area dell’euro e nella stessa Unione.
In primo luogo non è chiaro se l’Europa sia davvero in una sorta di guado stagnante, ed in questo caso dovrebbe avere un sussulto di orgoglio e di capacità la politica italiana, per cercare di rimettere in ordine la nostra casa (cioè la futura Europa). Se, al contrario, dobbiamo solo rimettere a posto la catapecchia in cui abitiamo da trenta anni e passa (l’economia e la società italiana) saremo classificati sempre in serie B: mettete ordine a casa vostra e poi decidiamo se potete stare al nostro livello, direbbero alcune parti, le più arroganti, delle classi dirigenti europee. Ne segue che non dobbiamo, non possiamo più, utilizzare lo schema del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Non basta elencare imprese italiane che riescono ad esportare; fare le pulci agli ottanta euro e preferire irap e sgravi fiscali ai nuovi assunti; raccontare storie di successo nell’innovazione o nelle tecnologie, pretendere di avere idonei strumenti per allargare la conoscenza e la formazione mentre non sembrano così efficaci sia i risultati che gli strumenti relativi a questi cambiamenti. E poi mettere a fronte le cose che non funzionano o i comportamenti deleteri di una parte della nostra popolazione: i corruttori ed i corrotti, la latitanza e gli attriti indotti dalla burocrazia pubblica, i collegamenti con il crimine organizzato.
Questa contrapposizione eterogenea nei soggetti osservati crea una confusione particolare: stiamo guardando il sistema oppure i comportamenti individuali? Dividiamo in due direzioni la prospettiva da osservare. Le forze dell’ordine e la magistratura devono trovare e punire coloro che praticano comportamenti illegali. La classe dirigente ed il ceto politico devono tutelare il sistema: creare libertà di azione, promuovere la competizione, ridurre tasse e spesa corrente inutile, riordinare le amministrazioni locali e garantire trasporti, infrastrutture, energia, ambiente e qualità urbana. Se agisce il lato buono della forza, il lato oscuro rimane confinato alla periferia del sistema, come avviene in ogni paese civile. Il problema si risolve creando opportunità per coloro che vogliono vivere meglio ed agiscono con il senso della morale, la cooperazione reciproca ma anche la voglia di innovare e competere.
Chi viola le leggi deve essere scoperto e punito. E se questo non accade, in termini significativi, significa che un bene pubblico indispensabile, la sicurezza della proprietà e delle persone, non è adeguatamente tutelato dagli apparati preposti a tenere a bada il lato oscuro della forza. Forse, infine ma non è la cosa meno importante, scriviamo troppe leggi, che si aggiungono alle molte che abbiamo scritto in passato. Dobbiamo scrivere meno leggi, ridurre il loro insieme, e dare ad ognuno il senso della propria responsabilità: le regole sono necessarie ma il comportamento morale è necessario e sufficiente se si vuole tutelare il sistema. Ed il comportamento morale di chi governa apparati ed organizzazioni, prima ancora delle leggi, deve avere un robusto zoccolo di moralità e di passione civile: deve mettersi in gioco personalmente, anche a costo di ribaltare i convincimenti delle persone a cui si rivolge se sono solo il frutto di una consuetudine o di un convincimento ormai obsoleto e da rifiutare. Giuseppe Di Vittorio scelse Sylos Labini e molti economisti riformisti e keynesiani per il piano del lavoro negli anni Cinquanta: nonostante fosse il capo della CGIL. Perché sapeva che dalla ripresa del circuito reddito – spesa nasce la crescita! E dalla crescita nasce la ricchezza necessaria per la redistribuzione e la ricerca di una maggiore equità e di un benessere adeguato alla civiltà di una nazione. Ma prima si crea la pizza della ricchezza e poi si tagliano le fette e si redistribuisce il contenuto e la dimensione della ricchezza, rispettando anche il merito e non appiattendo la singolarità di ogni individuo in uno standard definito dagli apparati pubblici e non dalla sua capacità ed intraprendenza.
Quando Draghi era Governatore della Banca d’Italia aveva speso molte energie per creare una industria della finanza. Ecco un punto critico che rimane ancora in sospeso. L’economia non è più quella di una volta: abbiamo lasciato troppo tempo al credito agevolato, quando non era più necessario ed abbiamo cancellato troppo presto gli istituti di credito speciale. Dagli intermediari volgiamo passare troppo velocemente ai mercati finanziari: ma il mondo va oramai in questa direzione. Bisogna creare l’industria della finanza, in termini paralleli e diversi da quelli del sistema bancario, e, nel medesimo tempo, prendere atto che troppe imprese piccole, ed anche alcune imprese grandi, sono progressivamente scomparse: hanno subito danni da queste circostanze.
Ora si deve far crescere la dimensione delle imprese aggregandole tra loro, fare arrivare partner privati dall’estero, creare joint venture tra imprese italiane ed imprese estere, mettere in partnership, veramente, le forze del settore pubblico e degli imprenditori privati. E ci deve essere spazio sia per il sistema bancario che per l’industria finanziaria. Tutte queste cose, da fare, indicano chiaramente che l’Italia, chiudendosi in se stessa dal 1992 ad oggi, è diventata incapace di reggere adeguatamente la dimensione internazionale e che non può sopravvivere chiusa solo nel suo perimetro nazionale. Per questo bisogna spiegare che la sovranità monetaria e bancaria in Europa è la premessa di una sovranità fiscale – ed anche di una fiscalità di vantaggio alla dimensione regionale e macroregionale delle nazioni partecipanti all’Unione – e, finalmente, di una sovranità politica. Junker e Draghi lavorano in questa direzione.
Ma in Italia, classi dirigenti, e ceto politico, devono anche capire che la nostra casa non può che essere l’Europa e che in questo condominio dobbiamo essere attori capaci di rappresentare la nostra forza e le nostre energie nell’interesse dell’Unione e non dei nostri interessi domestici. Se riusciremo a fare questo salto, lasciando indietro le “piccole cose del buon tempo antico”, potremo dire di essere finalmente parte di una grande impresa, l’Unione Europea. E fare i conti, da quella dimensione, e con una geopolitica sempre più complicata, che dobbiamo rimettere in ordine: da est ad ovest; da sud a nord.
Coltivare la riorganizzazione delle funzioni pubbliche, nelle singole nazioni e nelle grandi aree interne agli Stati nazionali, come il Mezzogiorno rispetto all’Italia, è l’impegno dei premier: come Merkel e Renzi. Coltivare una dimensione politica dell’Europa, che è ancora veramente troppo debole, senza anticipare ma preparando e proponendo quello che si può fare perché l’Europa diventi una vera istituzione statuale, lasciamo che siano Draghi e Junker a farlo.



2. Una parentesi inattesa: l’ottobre napoletano di Mario Draghi e la fragile condizione
attuale dell’economia meridionale


Le ipotesi proposte da Draghi il 27 novembre, sono la naturale conseguenza della sua decisione, il 4 settembre, di mettere in campo l’impianto di una politica monetaria non convenzionale. Aggiustando progressivamente lo sviluppo possibile di quelle operazioni e dell’impatto tra la Banca Centrale, le banche europee e la gestione del debito pubblico nelle varie nazioni che sono incluse nell’Unione. Questo annuncio, di cui diremo meglio tra poco, ha aperto un percorso che lo ha condotto, dalle tesi proposte ad Helsinki il 27 novembre, alle considerazioni proposte il 4 dicembre nella sua ultima conferenza stampa dopo la periodica riunione mensile del Comitato Direttivo.
Ad ottobre, nel contesto non usuale di una discussione che si teneva nella Città di Napoli, Draghi ha avviato il percorso di svelamento dei modi nei quali sarebbe stata attivata questa politica monetaria non convenzionale.
In quel giorno una sorta di tempesta perfetta si è abbattuta sulla città. Gli eventi, locali ed internazionali, sovrapposti tra loro hanno generato, a loro volta, un sistema di squilibri e di traumi che sono andati ben oltre la cinta perimetrale napoletana. Sarebbe stato utile che i conflitti aperti in quella giornata avessero avuto un impatto, impresso una sveglia alla società meridionale: ma questo non è successo e la situazione, di Napoli e del Mezzogiorno rimane stagnante e precaria, soprattutto rimane troppo periferica rispetto al resto dell’Italia mentre si crea una vera e propria contrapposizione tra la metropoli napoletana, sempre più degradata ed invertebrata, ed il resto del Mezzogiorno. Un resto del Mezzogiorno, che pur nella sua distanza, anche grazie ai modesti sistemi di logistica e di trasporto, dal resto del paese, ed essendo dunque diventato periferico, cerca di aprire progetti e prospettive.
Il contorno dell’area metropolitana di Napoli, insomma, agisce con più determinazione e forza di quello che si osservava al centro, una volta, del Mezzogiorno, cioè la metropoli napoletana. Non siamo, e non vogliamo essere, profeti di sventura ma bisogna riconoscere che la reputazione della terza città italiana vacilla pericolosamente, in questo tempo nel quale si chiude il 2014, e che questa instabilità alimenta scosse pericolose per il Mezzogiorno, l’Italia e la stessa partecipazione dell’Italia all’Unione Europea.
Questa frattura, senza considerare, per ora ed in questa sede, le ragioni che le parti avverse sostengono, determina un fatto oggettivo: la conferma che la città di Napoli, nella sua ormai intrinseca fragilità, non possa essere considerata come un riferimento, una guida, una base per la rinascita e la ripresa della crescita meridionale. E non essendo giudicata Napoli – nel Mezzogiorno, in Italia ed in Europa – adeguata alla funzione di centro di indirizzo e di riferimento per la società e l’economia meridionale, si generano due processi divergenti. Il resto del Mezzogiorno si allontana da Napoli e la mette in angolo, e si organizza sulle proprie basi che, tuttavia, private della dimensione demografica ed economica, di Napoli, risultano molto ridimensionate. Certamente incapaci di creare una comunione tra le due Italie che possa rappresentare la ripresa della crescita. L’altra Italia, quella che non considera Napoli affidabile, e che non ritiene utile l’alleanza nazionale per la ripresa del paese, si illude di poter uscire da sola e con l’aiuto di una produttività che le consente di esportare per crescere. Illusione veramente labile, considerando che, nel migliore dei casi, questa Italia che va dalla Toscana al Lombardo Veneto rimane, mutatis mutandis, solo una colonia del regime austroungarico, come era prima dell’unificazione, ed oggi una mera appendice dell’economia tedesca e delle sue relazioni con il Nord Europa ed il resto del mondo. Se Napoli scompare, ridimensionata da una reputazione che va oltre la soglia di una ragionevole tolleranza ed affidabilità, potrebbe ridursi la forza e la dimensione stessa dell’Italia come nazione e si perderebbe una grande occasione per il nostro paese. Scompare, inoltre, con qualche elevata probabilità, anche la possibilità di considerare l’Italia come la nazione europea, che può dare il suo contributo nel collegamento tra Europa latina ed Europa del Nord, ed espandersi negli spazi economici e sociali del Mediterraneo. Spazi gravidi di opportunità potenziali per ottenere un risultato importante: costruire una Europa che non debba solo essere integrata su se stessa ma anche aprirsi a culture e mercati diversi, contigui ed in espansione rispetto a quelli del vecchio continente.
Nel giorno della tempesta perfetta questa relazione tra Europa e Mediterraneo è stata travolta da due fattori: la sovrapposizione degli eventi, di cui abbiamo appena detto quali siano le conseguenze, ed il conflitto tra le affermazioni di Draghi, che parlava nella metropoli meridionale, ma si rivolgeva ai Governi dell’Unione Europea. Insomma, dopo la grande paura del 2012 – quando la crisi dei debiti sovrani rischiava di far collassare l’intero edificio europeo – e dopo oltre due anni i Governi europei non sono ancora stati capaci di costruire una politica economica che possa rimettere ordine nei debiti pubblici del vecchio continente e collaborare con la politica monetaria, che la BCE ha costruito in solitudine con continuità e perizia, nonostante i limiti della sua legislazione statutaria e la diffidenza della cultura politica della Germania.
L’inerzia dei Governi ed il ristretto orizzonte del monetarismo fiscale tedesco hanno impedito la creazione di un ragionevole paradigma di politica economica per battere la crisi.
Crescita ed inflazione ridimensionano il debito, recessione e deflazione lo enfatizzano ed ammazzano la crescita.
Conservare un debito imponente e sperare di ridimensionarlo con gli avanzi di bilancio in una ambiente economico recessivo è un obiettivo impossibile. Ma il mostro del debito incombe e ci vogliono armi adeguate per rimuovere i pericoli incombenti: una sorveglianza macroeconomica dei conti pubblici nell’area dell’euro; aumentare la crescita potenziale e rafforzare la capacità di tenuta degli shock generati dal debito pubblico sulle economie europee. Draghi lo ha ripetuto a Napoli, ma i Governi non applicano questi strumenti e rivendicano gli uni contro gli altri il diritto a continuare in una strada che non ha sbocchi. Procedere in questi termini potrebbe essere un suicidio per l’Unione Europea ma anche per l’Italia ed il Mezzogiorno.
Napoli sembra sempre di più una zavorra inutile, rifiutata dallo stesso Mezzogiorno. Ma non esiste alcuna possibilità per il Mezzogiorno di costruire, senza Napoli, una ipotesi di crescita per l’Italia. L’Italia stessa, quindi, non ha scampo se i Governi europei non riescono a trovare una dimensione condivisa di sovranità tra di loro. E se i Governi non fossero capaci di raggiungere questi traguardi è proprio contro i Governi, e la crescente inconsistenza e fragilità della politica, che dovrebbero protestare i giovani e la popolazione che questo decadimento economico spinge in direzione di una lacerazione dei rapporti sociali che sarebbe difficilissimo ricucire.
La colpa grave dei Governi è di non aver agito, fino ad ora, con adeguate riforme sul mercato del lavoro, sulle infrastrutture e sulla efficienza, e la trasparenza, delle proprie burocrazie (le riforme!); sarebbe assai più facile oggi il matrimonio tra politica fiscale e politica monetaria per alimentare la crescita economica in Europa. Oggi sappiamo che l’austerità non serve, serve la capacità di Governo. Ma la latitanza della politica finisce per escludere la riproduzione della capacità di governo.
A Napoli abbiamo avuto una chiara manifestazione degli effetti di questa catena di circostanze, ed il caso ha voluto che proprio a Napoli sia stato svelato il conflitto tra BCE e Governi europei, un macigno che incombe minaccioso sul vecchio continente.
Pensavamo, alla fine del 2013, che il 2014 sarebbe stato l’anno della svolta. Abbiamo sbagliato: da aprile a luglio, le grandi organizzazioni internazionali – dalla BCE al Fondo Monetario Internazionale – ci hanno spiegato che la ripresa mondiale assumeva un andamento in ordine sparso8.
A novembre del 2014, ci ritroviamo con un nuovo problema: il disordine della crescita dipende dal fatto che l’Europa, ed in particolare l’area dell’euro, rimane ferma al palo. Un ulteriore dato preoccupante ce lo segnalava il Rapporto Svimez del 2014: l’Italia crescerà sotto il tetto dello 0,5% nel 2015, ma il Mezzogiorno continuerà a declinare. Se l’Europa è un problema per l’economia mondiale, un’Italia divisa in due diventa un grande problema per l’area dell’euro. Questa divaricazione tra Nord e Sud non promette niente di buono per la ripresa della crescita nel nostro paese.
Approfondiamo gli elementi analitici che ci offre la Svimez.
Partiamo dal 1995 ed arriviamo al 2013: emerge una strana configurazione della dinamica economica nelle grandi aree dell’economia italiana. Prendiamo due punti di riferimento: il 2000, anno di ingresso nell’euro, ed il 2008/2009, cioè il biennio della grande crisi. Fatto 100 il livello del prodotto lordo interno nel 1995, al 2000 (l’ingresso nell’euro) leggiamo questa graduatoria: il Mezzogiorno si colloca a 111 ed il Nord Est a 112,3. La media italiana si colloca a 110.Ma, sotto la media, il Centro è a quota 109 ed il Nord Ovest a 108. Nel 2007 (il picco prima della crisi) le cose sono cambiate: al top ci sono il Nord Est ed il Centro; sotto la media italiana il Mezzogiorno ed il Nord Ovest. Mezzogiorno e Nord Est si sono scambiati i ruoli: la media italiana è a quota 120. Il Nord Ovest a 117 ed il Nord Est a 123.
Il Mezzogiorno non ha retto l’ingresso nell’euro, avrebbe avuto bisogno di una fiscalità di vantaggio! L’euro lavora per il Nord Est e la frontiera economica della Germania, nella quale il Nord Est affronta le proprie radici. Nel 2009 cambia ancora la scena, siamo al punto più basso della crisi, e la media italiana è a quota 112. Sotto la media, nell’ordine, il Mezzogiorno ed il Nord Ovest e, sopra la media, Nord Est e Centro. Al 2013 l’Italia si ferma a quota a 109, 7 cioè sotto il valore del 2009. Ma il Mezzogiorno è precipitato a 103 mentre il Nord Ovest si ferma a 109,5. Centro e Nord Est svettano, il primo a 114 ed il secondo a 113. Il Mezzogiorno è tornato ai livelli del 1997!
Questi successivi ribaltamenti spiegano la divaricazione che si è creata tra Mezzogiorno e resto del paese. Ma ecco anche una seconda divaricazione, tra il Nord Est ed il Centro, che staccano decisamente l’economia del Nord Ovest. Esiste una zona vasta, che si allarga ulteriormente in termini economici, tra la Toscana e le Venezie, ancorata alla Germania. Purtroppo il resto del paese stenta a stare dietro questa presunta crescita. Ecco perché il 2014 si chiuderà male ed il 2015 rischia di darci una crescita che, con la zavorra del Nord Ovest e del Mezzogiorno, non supererà lo 0,5%: mediocre performance e netta conferma delle contraddizioni dell’area euro, che non riescono a scostarsi da un livello di crescita quasi pari a zero. Come si spiega questo processo di divaricazioni?
Ci sono due risposte che si possono dare: la caduta delle agevolazioni alle imprese del Mezzogiorno. Il venir meno di ipotesi adeguate di politica per lo sviluppo industriale sia al Nord che al Sud. Le agevolazioni concesse all’industria italiana sono crollate del 51,5%, passando da oltre 10 miliardi di euro (nel triennio 2001-2003) a 4,3 nel triennio 2010-2012. In questi anni le agevolazioni erogate all’industria meridionale flettono del 67% (da 3,9 a 1,3 miliardi di euro annualmente) il triplo di quanto avviene nel Centro-Nord.
Il vero danno non è tuttavia la caduta delle agevolazioni: chi prende troppo a lungo la droga dei sussidi si perde nel fallimento e nella crisi dell’impresa. Il danno è stata la mancanza di una politica che riducesse la pressione fiscale sulle imprese: una selezione che avrebbe premiato le imprese forti, una fiscalità di vantaggio e non un sussidio. Sul terreno della politica industriale, inoltre, sia il Nord che il Sud non hanno avuto alcun sostegno per la formazione e la diversificazione dei processi lavorativi e la creazione di adeguate infrastrutture logistiche, di trasporto e di creazione di energia. Una leva della produzione che dobbiamo importare dall’estero, e pagare a caro prezzo, riducendo la capacità di competere all’estero da parte delle nostre imprese. Per fortuna il prezzo del petrolio diminuisce. Sempre secondo la Svimez, dal 2007 al 2012, gli aiuti di Stato nel settore industriale sono stati dello 0,27% del Pil, inferiori alla media europea dell’Unione Europea (0,47%); ma anche meno di quanto destinato al settore in Germania (0,53%) ed in Francia (0,61%). Anche se ci fosse stata una politica industriale più efficace, tuttavia, rimarrebbe la morsa di una mancata relazione tra banche ed imprese per generare nuovi investimenti. Ricapitalizzare le imprese, ed assorbire, con una badbank, i crediti in sofferenza delle banche, completerebbe la rassegna degli strumenti per ritrovare la strada della crescita nel Mezzogiorno ed, a catena, in Italia ed in
Europa.



3. La direzione di marcia e la probabilità di accelerare le innovazioni necessarie all’Unione europea

Un Mezzogiorno che si divide dal resto del paese è una cattiva notizia perché annuncia la elevata probabilità che il paese non possa reggere ulteriormente lo stato di recessione e deflazione nel quale versa, circostanze che interdicono la ripresa della crescita.
Dopo i molti anni, che ci separano dalla crisi del 2008/2009, avremmo dovuto fare un passo avanti sul terreno degli strumenti da utilizzare per ribaltare, in una prospettiva di crescita, la stagnazione che ha fatto seguito alla crisi. Ma non siamo stati capaci di proporre questi cambiamenti fino in fondo. Cominciamo comunque a vedere che nuovi paradigmi si affermano nel confronto politico ed economico.
Il primo strumento è l’inversione del giudizio sulle politiche di austerità. L’Austerità sui conti pubblici, aumentare le tasse e ridimensionare i deficit di bilancio, non è una strada considerata come il toccasana per ottenere la crescita. La crescita, al contrario, ci serve per ridimensionare il debito pubblico, che genera un volume di interessi tale da trasformare in disavanzo l’avanzo primario dei conti pubblici italiani. L’austerità cioè la compressione dei consumi, visto che si aumentano le tasse ma non si ridimensiona la spesa pubblica inutile e dannosa, che spesso crea anche episodi di corruzione che screditano ulteriormente la qualità della politica e di chi la deve governare diventa un danno sociale. Dunque l’austerità, come strumento che rilanci la crescita, è assolutamente inutile. E questa percezione si afferma con una chiarezza sempre maggiore.
Il secondo strumento da ridimensionare è la pressione per raggiungere il tetto massimo del deficit di bilancio, uno sport che Francia ed Italia cercano di praticare. Anche in questo caso bisogna correggere il tiro dello strumento: il problema non è la dimensione del deficit. La crescita non si manifesta se lo Stato spende di più9. La crescita si manifesta se spendi per investire, in infrastrutture – telecomunicazioni, energia, trasposti e strumenti intangibili, come la ricerca, l’educazione per i giovani, la formazione per coloro che dovranno cambiare lavoro – e ridimensioni l’eccesso di tassazione, in parallelo con l’eccesso di cattiva spesa pubblica. Questa è solo la descrizione di un aggiustamento necessario per gli strumenti della politica economica, da utilizzare per governare la dinamica della sperata crescita. Mentre gli strumenti devono essere gestiti e guidati da una opzione politica, e da coloro che sono i più idonei per portare Italia, ed Area Euro, fuori della recessione.
Avanziamo alcune modeste proposte in questa direzione. Ridimensionare il peso del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo rispetto a quello della Commissione Europea. Il tandem utile per riportare sul sentiero della crescita l’Unione europea sembra essere, invece, quello di Draghi e di Junker, per alcuni buoni motivi. Il piano Junker sulle infrastrutture, viene alimentato anche con strumenti finanziari, che non siano solo spesa pubblica, cioè risorse assorbite dalla tassazione dei vari Governi europei, e presenta molti vantaggi se lo si affianca alla politica monetaria non convenzionale di Mario Draghi: mandare a zero il livello dei tassi base di interesse, trasferire fondi liquidi alle banche ed assorbire strumenti finanziari, creati dalle banche come contropartita. In questo modo le banche diventano più liquide e la BCE assorbe strumenti finanziari, anche diversi, ma non solo quelli, dei titoli di Stato dei governi nazionali. Se si combinano scelte di investimento con disponibilità di liquidità e con bassi tassi di interesse, diventano realizzabili ampi spazi per investire: perché se il denaro costa meno si possono realizzare investimenti che generino rendimenti più bassi di quelli che si aspettano gli imprenditori ed i Governi, quando il denaro costa molto. Si allarga la dimensione degli investimenti, e dunque si riapre il ciclo dell’espansione degli occupati, e si allarga anche la dimensione dei consumi. Consumi, investimenti e esportazioni sorreggono la crescita. La BEI, Banca Europea per gli investimenti, potrebbe essere uno strumento importante per attuare il piano di Junker sugli investimenti in infrastrutture. Anche Draghi propone di allargare la base patrimoniale della BEI,mediante il versamento di capitale necessario da parte degli azionisti, cioè gli Stati dei paesi membri dell’Unione. In alternativa Draghi propone anche ulteriori sviluppi nella prospettiva della crescita:

L’unione bancaria si trova ora in una fase avanzata: il Meccanismo di vigilanza unico (MVU) ha assunto i propri compiti nei confronti delle banche dell’area dell’euro agli inizi di questo mese. Il suo atto fondante, ossia la valutazione approfondita dei bilanci bancari, è stato completato con successo il mese scorso. In aggiunta, il prossimo 1° gennaio entrerà in funzione il Meccanismo di risoluzione unico. Tuttavia, la limitata ripartizione del rischio all’interno dell’area dell’euro non concerne solo le banche, ma riflette anche la relativa incompletezza dei nostri mercati dei capitali, e in particolare dei mercati azionari. Sono questi i mercati che assorbono con maggiore efficacia le perdite. Dei titoli azionari emessi nell’area dell’euro, però, soltanto il 44% è detenuto da altri residenti dell’area stessa. Pertanto, se si desidera una maggiore distribuzione del rischio nel settore privato all’interno dell’area dell’euro, occorre affrontare con urgenza le barriere all’integrazione dei mercati dei capitali. Si tratta senza dubbio di una questione complessa perché investe molteplici aspetti del diritto nazionale. Ma se non vogliamo un’unione dei trasferimenti, dobbiamo essere coerenti e istituire un contesto in cui possano funzionare altri meccanismi. Ciò significa, in primo luogo, procedere con il programma del nuovo Presidente della Commissione per costituire in Europa un’autentica unione dei mercati dei capitali e, in secondo luogo, realizzare parallelamente un’autentica unione economica. Perché i paesi attraggano capitali e beneficino della ripartizione del rischio finanziario, deve essere interessante effettuarvi investimenti. Si può conseguire questo risultato solo se, a medio termine, tutti i paesi hanno una capacità di aggiustamento e prospettive di crescita sufficienti. Nemmeno con la piena attuazione di queste unioni, però, potremmo ancora definire completa l’UEM. Dobbiamo riconoscere anche il ruolo cruciale che in un’unione monetaria ricoprono le politiche di bilancio.


La combinazione tra politica monetaria espansiva e la spinta verso investimenti, pubblici ed/o privati, allarga la capacità della produzione ed alimenta lo sviluppo del reddito: perché gli investimenti sono una componente della domanda nel breve periodo e diventano una forza creativa di valore nella dimensione del lungo periodo, capitale per la crescita. Nel gergo degli economisti questa combinazione genera un effetto di crowding in: perché si allarga la leva della crescita grazie al credito concesso agli investimenti.
Quando, invece, si allarga la spesa pubblica sterile ed inutile, ed a volte dannosa, si espellono gli investimenti dal circuito del reddito e quella inutile spesa pubblica spiazza, appunto, la crescita, e crea il pantano della stagnazione: che le tasse devono poi ripulire. Questo si chiama crowding out e, quando si manifesta, rappresenta esattamente il trionfo degli opportunisti, delle rendite sulle spese degli Stati, e dei mascalzoni e dei delinquenti.
Trovare una dimensione politica che spinga in direzione di una sovranità condivisa le politiche di bilancio è, insomma, l’ultimo anello di una catena che possa, allargando ulteriormente un regime di sovranità condivisa tra i paesi membri dell’area euro, chiudere il cerchio di una stagione che veda una combinazione tra l’azione della Commissione europea, un quasi governo dell’Unione, e quella della Banca Centrale Europea.
Secondo l’opinione di Draghi,
Una politica monetaria unica con l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro non può reagire agli shock che colpiscono solo un paese o una regione. E noi, a differenza ad esempio degli Stati Uniti, non disponiamo di un bilancio federale che possa farvi fronte al suo posto. Pertanto, finché tale situazione permane, è assolutamente essenziale che le politiche nazionali di bilancio siano in grado di svolgere il loro ruolo di stabilizzazione macroeconomica unitamente alla politica monetaria, reagendo al presentarsi degli shock locali. Di fatto, le politiche di bilancio sono per noi particolarmente rilevanti poiché nell’UE, come dimostra uno studio recente, gli shock sulla disoccupazione sono assorbiti per il 47% dagli stabilizzatori automatici, contro appena il 34% negli Stati Uniti. Affinché gli stabilizzatori dei bilanci nazionali siano in grado di svolgere sino in fondo la loro funzione, il debito sovrano deve agire quale attività rifugio nei periodi di tensioni economiche. Se invece assume le caratteristiche del debito privato, con i costi dell’indebitamento che aumentano nei periodi di difficoltà, l’accesso al mercato dei governi diviene limitato proprio nel momento di maggiore necessità.

Secondo Draghi ci sono anche strade e modalità idonee per governare la dimensione del debito pubblico:
In linea di principio sono due le modalità con cui proteggere lo status di attività rifugio del debito sovrano. La prima è costituita da un solido quadro di riferimento per la governance dei conti pubblici attuato in maniera credibile. Ciò significa disporre lungo il ciclo di riserve adeguate in grado di assorbire gli shock eccezionali nonché detenere livelli di debito pubblico sufficientemente bassi nei periodi favorevoli in modo che possano aumentare nei periodi sfavorevoli senza compromettere la fiducia dei mercati. La seconda modalità è costituita dai meccanismi di sostegno per il debito sovrano. Nell’area dell’euro, a causa di vari aspetti legati al nostro assetto istituzionale, abbiamo adottato molto spesso il primo approccio, ossia solide regole di bilancio. Queste rappresentano un’ancora fondamentale per la fiducia non solo degli investitori, ma anche di imprese e famiglie e, soprattutto, tra paesi. L’importanza del rispetto da parte di tutti i paesi degli impegni assunti nel quadro del patto di stabilità e crescita è dunque fuor di dubbio. Risulta infatti evidente che nell’ambito di un’unione monetaria sia necessario un solido quadro di riferimento per le finanze pubbliche. Tuttavia, l’esperienza maturata durante la crisi ha messo in discussione l’idea che ciò sia sufficiente a salvaguardare il ruolo della politica di bilancio quale strumento di stabilizzazione. L’assetto dell’UEM poggiava sull’ipotesi per cui sarebbe stato sufficiente tenere in ordine i propri conti pubblici per garantire l’accesso al mercato e proteggersi dal contagio. Tanto è vero che i paesi con una situazione di finanza pubblica più solida hanno beneficiato nel complesso di migliori condizioni di finanziamento e sono stati maggiormente tutelati dagli effetti di propagazione. Ma abbiamo anche visto che questa tutela non è assoluta. L’Irlanda e la Spagna, ad esempio, che pur presentavano bassi livelli di debito pubblico e di disavanzo all’inizio della crisi, sono state gravemente contagiate dalla Grecia. E durante la fase della crisi in cui tale fenomeno nell’area dell’euro aveva raggiunto i massimi livelli, quasi tutti i paesi hanno visto aumentare i propri differenziali sui credit default swap. In altri termini, vista la possibilità che il panico si diffonda nei mercati finanziari, il pur rigoroso rispetto delle regole di bilancio non riesce a costituire una garanzia ferrea di un accesso al mercato accettabile. Cosa possono fare dunque i governi in tali circostanze per salvaguardare la politica di bilancio quale strumento di stabilizzazione? In primo luogo, questo è esattamente il tipo di situazione che ho menzionato nella quale possiamo e dobbiamo prefiggerci di prevenire meglio gli shock economici. L’MVU assume particolare rilevanza in tale contesto, in quanto dovrebbe contribuire a evitare ampi squilibri finanziari come quelli osservati in paesi quali Irlanda e Spagna, che si sono poi propagati al settore pubblico. In secondo luogo, è meno probabile che i mercati reagiscano negativamente a un disavanzo temporaneamente maggiore se il debito pubblico risulta chiaramente sostenibile nel medio termine. Tale risultato si può ottenere da un lato con piani di bilancio credibili, che agiscono sul numeratore del rapporto debito pubblico/PIL. Dall’altro, si rende tuttavia necessario un aumento della crescita potenziale attraverso le riforme strutturali, che agiscono sul denominatore. Per questo motivo i governi hanno di fatto un ulteriore incentivo a realizzare una più stretta unione economica. Questa, nella misura in cui rappresenta un impegno all’attuazione fattiva delle riforme, contribuirà ad aumentare il reddito futuro delle amministrazioni pubbliche e a migliorare la sostenibilità del debito. Così si potrebbe addirittura contribuire a creare nell’immediato un margine per gli interventi di bilancio. Inoltre, un utilizzo più efficace dei fondi dell’UE al fine di sospingere sia la domanda corrente che il potenziale futuro, accrescendo quindi gli investimenti, avrebbe simili effetti sulla crescita e sulla sostenibilità del debito. Vedo pertanto con favore la nuova proposta della Commissione di stimolare la spesa per investimenti in Europa. L’importante è che l’entità di tale proposta integri l’orientamento della politica di bilancio dei governi nazionali; che venga messa in campo tempestivamente così da poter sostenere la domanda; che sia indirizzata ai settori in cui sarebbe maggiore l’impatto in termini di crescita potenziale.

I Governi, insomma, non devono fare un passo indietro e lasciare campo al così detto liberismo economico: devono solo aprire uno spazio di libertà al consumo ed agli investimenti, devono camminare sulla strada che presenta un futuro positivo non sulla strada che li porta, spingendosi temerariamente in avanti, al precipizio creato dalla combinazione tra la stagnazione e la recessione.
Per realizzare questi traguardi la coppia da utilizzare è evidentemente quella di Draghi ed Junker10. I Governi nazionali, invece, potrebbero utilmente agire per riorganizzare, e sempre in queste direzioni, l’impianto delle economie nazionali. Se vogliamo accelerare investimenti e consumi servono azioni di Governo puntuali e non servono nuove leggi. Non subito, almeno. Aumentare le leggi, soprattutto in un paese che ne ha troppe, come l’Italia, aggiunge complicazioni a complicazioni. Invece di aumentare le leggi i Governi dovrebbero aumentare la pressione sui gruppi sociali e disboscare inutili sovrapposizioni tra giurisdizioni diverse. Coltivare la riorganizzazione delle funzioni pubbliche, nelle singole nazioni e nelle grandi aree interne agli Stati nazionali, come il Mezzogiorno rispetto all’Italia, è l’impegno che dovrebbero assolvere i capi di Governo ed i loro Ministri. Coltivare una dimensione politica dell’Europa, che oggi è veramente debole, senza anticipare ma preparando e proponendo quello che si può fare perché l’Europa diventi una vera istituzione statuale, lasciamolo fare a Draghi e Junker che sono alla guida di due istituzioni molto più “giovani” degli Stati nazione: organizzazioni che sono anche due laboratori per le politiche economiche da utilizzare nel prossimo futuro.
Utilizzare la dimensione innovativa di queste due organizzazioni genera due effetti positivi: superare la percezione tradizionale delle economie del ventesimo secolo, prima della rivoluzione digitale e della diffusione dei derivati e della finanza come dimensione autonoma dell’economia; costruire, grazie alla collaborazione tra la Commissione e la BCE una nuova dimensione del mercato europeo, lasciando alle spalle l’economia monetaria di produzione che avevamo conosciuto nel ventesimo secolo ed aprendo ipotesi ed innovazioni che siano capaci di dare forma alle filiere frammentate11, l’inclusione nelle reti che crea un valore condiviso ed incrementale secondo la dimensione del numero dei consumatori inclusi nella rete, la trasformazione dell’economia europea in una direzione che superi la dicotomia tra istituzioni e mercati finanziari e possa trovare una ragionevole modalità per la creazione di una industria finanziaria che si affianchi e non si contrapponga alle banche commerciali.





Si dà qui una appendice cronologica di materiali utili per ulteriori consultazioni

https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2013/html/sp131009_1.it.html
L’Europa alla ricerca di “un’Unione più perfetta”, Malcolm Wiener Lecture tenuta da Mario Draghi, Presidente della BCE, presso la Harvard Kennedy School, Cambridge, 9 ottobre 2013,

https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2014/html/sp140822.it.html
La disoccupazione nell’area dell’euro. Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, Simposio annuale delle banche centrali di Jackson Hole, 22 agosto 2014

http://ec.europa.eu/priorities/jobs-growth-investment/plan/docs/aninvestment-
plan-for-europe_com_2014_903_en.pdf
Communication from the commission to the european parliament, the council, the european central bank, the european economic and social committee, the committee of the regions and the european investment bank. An Investment Plan for Europe. Brussels, 26.11.2014

https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2014/html/is140904.en.html
Introductory statement to the press conference (with Q&A) Mario Draghi, President of the ECB, Frankfurt am Main, 4 September 2014

https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2014/html/is141002.it.html
Dichiarazione introduttiva Mario Draghi, Presidente della BCE, Napoli, 2 ottobre 2014

https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2014/html/sp141024_1.en.html
Economic situation in the euro area (slides from the presentation) Presentation by Mario Draghi, President of the ECB, at the Euro Summit, Brussels, 24 October 2014

https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2014/html/is141106.en.html
Introductory statement to the press conference (with Q&A), Mario Draghi, President of the ECB, Frankfurt am Main, 6 November 2014

https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2014/html/sp141127_1.it.html
La stabilità e la prosperità nell’Unione monetaria, intervento di Mario Draghi, Presidente della Banca centrale europea, presso l’Università di Helsinki, Helsinki, 27 novembre 2014

https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2014/html/is141204.en.html
Introductory statement to the press conference (with Q&A), Mario Draghi, President of the ECB, Frankfurt am Main, 4 December 2014












NOTE
1 Si legga La disoccupazione nell’area dell’euro, intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, Simposio annuale delle banche centrali di Jackson Hole, 22 agosto 2014; si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2014/html/sp140822.it.html. Si veda anche l’articolo di M. Lo Cicero, Il nodo europeo: crescita e sovranità. Una prospettiva neoistituzionale, oltre la dicotomia tra Stato e Mercato, in «L’Acropoli», 15 (2014), Soveria Mannelli, Rubbettino.^
2 Sulla dimensione della macroeconomia microfondata, ed orientata alle politiche economiche keynesiane, si veda, tra i numerosi manuali di economia, R. Dornbusch, S. Fischer, R. Startz, Macroeconomia, P. Pettenati e G. Canullo (a cura di), McGraw-Hill, 2010, edizione italiana. Draghi e Fischer hanno una notevole differenza di età ma hanno entrambi avuto una comune e condivisa educazione accademica – ed uno scambio tra loro dovuto anche alla differenza di età – oltre ad una approfondita ed efficace autonomia manageriale nella gestione di istituzioni bancarie e finanziarie. Entrambi hanno esercitato il compito di Governatore della Banca Centrale. Fischer alla Bank of Israel (Gerusalemme), al Fondo Monetario internazionale ed ora alla Federal Reserve, come vice presidente; Draghi alla Banca d’Italia ed ora alla BCE.^
3 La stabilità e la prosperità nell’Unione monetaria, intervento di Mario Draghi, Presidente della Banca centrale europea, presso l’Università diHelsinki,Helsinki, 27 novembre 2014. I virgolettati successivi alla nota sono tratti dal testo in oggetto.
Si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2014/html/sp141127_1.it.html.
Per certi versi questo intervento conclude una ideale parabola, nella quale si parte da un altro intervento, che Draghi aveva pronunciato nel 2013. L’Europa alla ricerca di “un’Unione più perfetta”, Malcolm Wiener Lecture tenuta da Mario Draghi, Presidente della BCE, presso la Harvard Kennedy School, Cambridge, 9 ottobre 2013.
Il testo si può scaricare at http://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2013/html/sp131009_1.it.html.
Si veda M. Lo Cicero, Mario Draghi ed una “Unione più perfetta”. Una prospettiva americana in Europa?, in «L’Acropoli»,15 (2014), Soveria Mannelli, Rubbettino editore.
Si può leggere at http://www.lacropoli.eu/articolo.php?nid=980#.VIxYHiuG8YQ.^
4 Negli ultimi anni, tra organismi internazionali ed autori che osservano le trasformazioni potenziali della politica economica, sono apparsi alcuni studi molto puntuali sulle opportunità e le conseguenze che riguardano la creazione di aree economiche, alle quali partecipano nazioni e governi diversi, che intendano condividere e coordinare le politiche fiscali dei singoli Stati. Riportiamo di seguito alcuni di questi testi. E. Farhi, I. Werning, Fiscal Unions, MIT Department of Economics Working Paper No, 12-20 July 2012; E. Farhi, I. Werning, Fiscal Multipliers: Liquidity Traps and Currency Unions, August 2012, che si possono scaricare, il primo, da Social Science Research Network Paper Collection at http://ssrn.com/abstract=2126777 ed il secondo at http://dspace.mit.edu/bitstream/handle/1721.1/72555/Werning12-23.pdf?sequence=1.
Si veda anche Towards e Fiscal Union for the Euro Area, september 2013, IMF, che si può scaricare at https://www.imf.org/external/pubs/ft/sdn/2013/sdn1309.pdf; infine, Designing a European Fiscal Union: Lessons from the Experience of Fiscal Federations (Routledge Studies in the European Economy) Hardcover – November 28, 2014 by C. Cottarelli (Editor), M. Guerguil (Editor) ISBN-13: 978-1138783225 ISBN-10: 1138783226 Edition: 1st. Si veda anche, nel sito web della BCE, Structural reforms: learning the right lessons from the crisis, Keynote speech by Benoît Coeuré, Member of the Executive Board of the ECB, Economic conference, Latvijas Banka, Riga, 17 October 2014, il testo si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2014/html/sp141017.en.html.^
5 Si tratta di un documento ufficiale, rilasciato il 5 dicembre 2012, dal titolo Verso una autentica Unione economica e Monetaria, e firmato da V. Rompuy, Presidente del Consiglio europeo, Barroso, Presidente della Commissione europea, Juncker, Presidente dell’Eurogruppo, Draghi, Presidente della Banca centrale europea. Il testo si può scaricare at http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/it/ec/134190.pdf.^
6 Si veda su questa mancata convergenza di carattere monetario un paper di N. Van Beers*, M. Bijlsma** and G. Zwart, Cross-country insurancemechanisms in currencyunions: an empiricalassessment, Brueguel Working Paper 014/04 che si può scaricare at http://www.bruegel.org/publications/publication-detail/publication/821-cross-country-insurance-mechanisms-incurrency-unions ^
7 Si veda il testo, citato nelle note precedenti,di R. Dornbusch, S. Fischer, R.Startz, Macroeconomia, McGraw-Hill, 2010, edizione italiana.^
8 Si veda, tra gli altri, M. Lo Cicero, Economia globale instabile & riordino dei sistemi bancari in Europa: Scilla e Cariddi? in «L’Acropoli», 15 (2014), p. 136 sgg, ma anche Idem, Il nodo europeo: crescita e sovranità. Una prospettiva neoistituzionale, op. cit.^
9 TrygveHaavelmo è un economista norvegese che ha vinto il premio Nobel nel 1989, grazie ai suoi lavori di econometria, che hanno consentito di misurare, tra l’altro, la dinamica delle grandezze macroeconomiche. Il teorema di Haavelmo, molto noto nelle Università di tutto il mondo, indica che, anche in regime di pareggio di bilancio, si manifesta un effetto moltiplicativo del reddito. Non per caso Draghi replica continuamente che il problema non è il deficit o l’avanzo di bilancio, ma solo la capacità dei Governi di attivare, sul fronte della spesa e su quello delle entrate tributarie, l’effetto moltiplicativo più utile ai fini della crescita. Spesa pubblica ed imposte si esprimono in variegate tipologie di interventi: l’effetto di cui parla Draghi si riferisce alla scelta di una massa prevalente di interventi che sia capace di attivare nuovi consumi, se si devono ridimensionare le imposte e le tasse, o si possano e debbano attivare nuovi investimenti, pubblici, ma anche privati o generati in un regime di condivisione tra pubblico e privato: attraverso ipotesi di projectfinancing e di public private partnership. Si veda la lezione Nobel del professor Haavelmo at http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/economic-sciences/laureates/1989/haavelmo-lecture.html.^
10 Le conclusioni delle ipotesi di politica economica presentate alla l’Università di Helsinki da Mario Draghi sono queste: «Nel più lungo termine, dunque, bisognerebbe approfondire se sia stato sufficiente ciò che abbiamo fatto nell’area dell’euro per salvaguardare la possibilità di utilizzare la politica di bilancio in modo anticiclico. È anche evidente tuttavia che tale riflessione debba rientrare in un dibattito più ampio sulle modalità attraverso le quali consolidare il processo decisionale comune in materia di politiche di bilancio e rafforzare il regime di responsabilità per il proprio operato. In altri termini, ciò potrà avvenire solo nell’ambito di un cammino risoluto verso una più stretta unione di bilancio. E per intraprendere questo cammino dovrebbe prima verificarsi un processo di convergenza delle politiche economiche e finanziarie secondo le modalità che ho descritto. Nel mio intervento odierno ho argomentato che i dubbi sulla sostenibilità dell’UEM saranno dissipati interamente solo quando l’avremo completata sotto tutti gli aspetti pertinenti. Questo significa unione bancaria e dei mercati dei capitali, e significa anche unione economica e di bilancio. In un’unione monetaria nessuna politica può essere considerata separatamente. Ognuna interagisce con le altre e le influenza. Quindi, portare a compimento l’UEM in tutti gli ambiti rafforza e sostiene le altre politiche. L’unione monetaria è più efficiente nel salvaguardare gli interessi fondamentali dei cittadini quando gli interessi comuni sono riconosciuti in quanto tali, quando le responsabilità che derivano dal partecipare a una comunità sono assunte appieno. In altre parole, il suo successo dipende in definitiva dal prendere atto che condividere una moneta unica è un’unione politica, e significa assumerne fino in fondo le conseguenze. Ciò richiede un regime adeguato per quanto riguarda l’obbligo di rendere conto del proprio operato e la trasparenza. Tutti i paesi devono poter beneficiare in modo permanente della partecipazione all’unione monetaria. Pertanto, i requisiti che ho illustrato non possono essere soddisfatti unicamente nel momento in cui un paese aderisce all’unione o solo per un periodo. Devono essere rispettati in modo continuativo. Devono essere elementi irrevocabili della partecipazione all’unione monetaria. Per questa ragione l’assetto istituzionale grazie al quale tali requisiti sono soddisfatti deve avere in ultima analisi natura vincolante e forma permanente». Si veda anche la lezione dal titolo L’Europa alla ricerca di Un’Unione più perfetta, tenuta da Mario Draghi presso la Harvard Kennedy School, Cambridge (USA), il 9 ottobre 2013. Il testo si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2013/html/sp131009_1.it.html ^
11 Sulle filiere frammentate vale la pena di leggere gli atti di un convegno che il 31 gennaio e il 1° febbraio 2012 si è tenuto a Bologna, presso l’Aula Magna della Facoltà di Economia. Si tratta del convegno su “Le trasformazioni dei sistemi produttivi locali”, organizzato dalla Banca d’Italia e dal Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bologna. Nella conferenza sono state esaminate le caratteristiche e l’evoluzione dei sistemi produttivi locali in Italia in rapporto ai profondi mutamenti e ai grandi shock esterni dell’ultimo quindicennio. I lavori si possono leggere at http://www.bancaditalia.it/studiricerche/convegni/atti/sistemi-produttivi-locali. Si veda anche A. Accetturo, A. Giunta, S. Rossi, Le imprese italiane tra crisi e nuova globalizzazione, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza (Occasional papers) Numero 86 – Gennaio 2011. Che si può scaricare at http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_86/QEF_86.pdf ^
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