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Per la Casa della Cultura. Appunti su quindici anni di vita culturale
di Ferruccio Capelli
Al giro di boa del Duemila la Casa della Cultura di Milano attraversava un momento di grave crisi. Negli ultimi anni Novanta era stata diretta da due segretari che, dopo un periodo non breve di convivenza, si erano entrambi dimessi a poca distanza l’uno dall’altro. Dopo le loro dimissioni le attività della Casa della Cultura, eccezione fatta per i seminari di filosofia coordinati dal prof. Papi, si erano ridotte alla sporadica presentazione di qualche libro. Gli iscritti erano quasi azzerati e lo “scantinato” di via Borgogna, dove erano state scritte pagine importanti della vita culturale milanese e italiana, era vuoto e silenzioso.
Fu un momento di crisi vera, dovuta forse a fatti casuali e contingenti: a volte basta un niente, lo sfilacciamento di rapporti personali, la demotivazione di qualche operatore, per bloccare e svuotare l’attività di un’istituzione culturale.
È però più serio e realistico darne una lettura diversa. Ciò che sembra un fatto contingente talvolta può servire a rivelare processi più profondi. La mia ipotesi è che, verso la fine degli anni Novanta, fossero venuti al pettine, in un colpo solo, nodi che erano andati aggrovigliandosi durante tutto il decennio e che avevano messo in discussione la fiducia nel ruolo della Casa della Cultura.



I tardi anni Novanta

Durante gli anni Ottanta e Novanta il clima culturale era stato segnato in profondità dal postmoderno. Nato nell’ambiente dell’architettura statunitense in polemica con la scuola razionalista, si era imposto sulla scena globale cavalcando il compiacimento per la «fine delle grandi narrazioni»(Lyotard). Esso aveva raccolto e interpretato il bisogno diffuso di effervescenza e di leggerezza: l’accento della vita culturale si era spostato sulla diversità e sulla tolleranza, sul gioco e sul godimento, sullo smontaggio e sulla decostruzione.
Verso la fine degli Anni Novanta si avvertiva però nell’aria l’estenuazione e lo sfilacciamento di quel movimento culturale. Esso non riusciva più a intercettare umori nuovi che si stavano diffondendo e non riusciva a spiegare e interpretare alcuni fatti che si stavano imponendo alla pubblica attenzione. Si cominciava a percepire che quella cultura si era elegantemente ritratta dinanzi alla realtà, quasi negando a se stessa il diritto e il dovere di leggere e interpretare i grandi mutamenti che stavano segnando la fine del secolo.
In realtà il postmoderno si era limitato ad accompagnare e ad accarezzare i cambiamenti tumultuosi degli anni Ottanta e Novanta. In poco tempo si erano succeduti fatti storici di enorme portata. Reagan e la Thatcher avevano imposto una svolta liberista all’economia mondiale. Poi, dopo pochi anni,vi erano stati il crollo del Muro, la fine dell’Urss, la svolta di Deng in Cina. In tempi accelerati aveva cominciato a delinearsi una nuova globalizzazione orientata e guidata dal pensiero neoliberale. Dinanzi a tutto questo il postmoderno si era lasciato trascinare in un ottimismo pervasivo ma superficiale, adeguandosi di fatto alla nuova vulgata neoliberale e senza scomporsi neppure dinanzi a qualche inneggiamento alla “fine della storia” (Fukuyama).
Al volgere del secolo questa lettura banalmente lineare e ottimistica del nuovo mondo orientato e guidato dal pensiero neoliberale cominciava a lasciare insoddisfatti. Ci si cominciava a rendere conto che era davvero accaduto qualcosa di grosso ma che non tutto stava filando liscio, che di certo si era entrati in una storia nuova, ma che all’orizzonte si stavano profilando nuove profonde contraddizioni.
In pochi anni si erano succedute crisi finanziarie devastanti (Messico, Sud est Asiatico, Russia, Argentina). L’ultima, la crisi argentina, aveva avuto dimensioni e ripercussioni tali da suscitare turbamenti e preoccupazioni anche in Italia. Cominciavano a circolare primi dubbi e ad alzarsi alcune voci critiche. Qualcuno, dall’interno degli stessi organismi economici internazionali, faceva notare che probabilmente si era esagerato con la deregolamentazione e con le liberalizzazioni: i «ruggenti anni Novanta», iniziarono a scrivere autorevoli studiosi, rischiano di consegnarci a un nuovo «fondamentalismo di mercato» (Stiglitz). Proprio allora entrava per la prima volta in circolazione un termine inquietante: “pensiero unico” (Ramonet). Vi era difficoltà a capire e ad orientarsi e di certo le categorie culturali del postmoderno si stavano rivelando inadeguate, incapaci di fare presa su quanto stava accadendo.
Tra chi cominciava ad avere difficoltà nel dare coerenza e finalità al proprio operato vi erano anche le forze della sinistra che in quel momento avevano le leve del potere in molti e importanti paesi. Negli Stati Uniti Bill Clinton stava preparandosi a chiudere il suo secondo mandato. Tra gli ultimi atti della sua Presidenza inserì anche, improvvidamente, l’abolizione della Glass Steagall, la legge bancaria con cui F.D. Roosevelt, dopo la “grande crisi”, aveva regolamentato e separato le banche di deposito e le banche d’affari. Pochi allora si resero conto delle implicazioni della decisione e probabilmente nessuno riuscì a prevedere che quel gesto sarebbe stato riletto anni dopo come un momento simbolico nel quale la politica decideva, inconsapevolmente, di passare lo scettro del comando alla finanza.
In Europa in quel momento la sinistra governava tredici paesi su quindici dell’UE: un indubbio momento di forza. L’ondata populista era ancora lontana. Quella sinistra, pervasa dal clima allora largamente prevalente, era orientata ad assecondare e sospingere la globalizzazione neoliberale. Il suo atto più significativo fu l’avvio della nuova moneta unica, l’euro, che venne accompagnato dalla liberalizzazione dei mercati finanziari, senza precauzioni e barriere protettive per prevenire possibili attacchi speculativi. Era la cultura del momento: le riflessioni critiche sarebbero maturate parecchi anni dopo, a seguito di dolorosi contraccolpi.
Anche in Italia durante gli anni Novanta il governo fu esercitato quasi sempre dalla sinistra. Essa impose severe misure di contenimento della spesa pubblica e avviò un programma radicale di privatizzazioni. Nel ’99 il governo italiano, guidato da un leader postcomunista, dovette impegnarsi anche nella partecipazione, in verità non cercata, alla guerra contro la Serbia. Anche la sinistra italiana respirava il clima culturale del momento, un certo ottimismo di maniera e una fiducia aprioristica nel nuovo mondo in fase di liberalizzazione.
In più vi era in Italia un’ansia di legittimazione altrove immotivata e sconosciuta. La sinistra italiana, in larga parte rappresentata da ex comunisti, era ossessionata dal fardello della sua storia. Essa esibiva il bisogno di rimuovere le proprie radici: voleva recuperare in modo accelerato un pedigree democratico e liberale. Proprio allora, in quel clima ansioso di rimozione della memoria, furono poste le premesse per le successive metamorfosi della sinistra italiana in versione “light” (Capelli), ovvero una sinistra senza preciso radicamento sociale e senza solidi riferimenti ideali e culturali.
È del tutto plausibile – ecco l’ipotesi che mi sembrava corretto avanzare - che quel clima culturale e politico compromettesse e rendesse problematico il ruolo della Casa della Cultura. Il postmoderno non offriva più spunti interessanti: vi era una stanchezza del pensiero dominante senza altre alternative convincenti in campo. Il pensiero critico era disattivato: non vi erano a disposizione strumenti convincenti per interpretare i primi scricchiolii e i primi segni di crisi del nuovo mondo globale. Il tasto della memoria era precluso a priori, schiacciato dall’ansia diffusa a sinistra di rimozione del passato. Insomma, lo spazio per una cultura progressista viva, capace di mordere la realtà, poteva lecitamente sembrare residuale. In quella situazione era assai comprensibile che maturasse ed esplodesse una crisi di ruolo della Casa della Cultura.



I segni del nuovo e la memoria

Verso la fine del 2000, quando mi è stata proposta la direzione della Casa della Cultura, il suo futuro era assai incerto: vi erano dubbi sulla possibilità o meno di continuare l’attività, vi erano molte perplessità perfino sull’utilità, nell’epoca dei talk show dilaganti, di uno spazio per il dibattito pubblico.
Le incertezze vennero sciolte in rapida successione sotto la spinta di eventi che imponevano una profonda rilettura dello scenario generale. La cronaca dei primi mesi ed anni del nuovo secolo fu generosa di segni nuovi che attendevano solo di essere afferrati e rielaborati.
Gli avvenimenti del mondo incalzavano. Stavano emergendo le prime contraddizioni della globalizzazione liberista. Il primo rimbalzo in Casa della Cultura fu legato alla crisi Argentina. Alcuni amici italo-argentini chiesero di organizzare un incontro su quanto stava accadendo e, inaspettatamente, il salone di via Borgogna si riempì all’inverosimile. Fu per noi il primo prezioso segnale di un nuovo campo di ricerca e di umori che stavano montando nell’opinione pubblica progressista. L’ingenua e acritica fiducia nella nuova epoca liberale si stava incrinando e problematizzando.
All’ordine del giorno nel dibattito pubblico stava emergendo criticamente la questione della globalizzazione liberista. La riflessione fu sollecitata da un incalzare rapido di eventi eclatanti e traumatici, tra tutti l’incontro, nell’estate 2001, del G8 di Genova con l’esplosione anche nel nostro paese del movimento new global. Con quel movimento e con i problemi da esso sollevati ci confrontammo a fondo, incontrando anche i protagonisti come in occasione della presentazione in anteprima assoluta nella nostra sede del primo documentario sui fatti di Genova.
Nel frattempo, sempre nell’estate 2001, si stava aprendo un altro fronte drammatico, con l’attacco dell’11 settembre contro gli Stati Uniti e con la risposta americana nel segno della guerra globale al terrorismo. Furono avvenimenti cruciali che surriscaldarono il clima politico e culturale nel mondo intero. In Italia, dove la destra aveva appena vinto le elezioni e stava imperversando, le posizioni furono radicalizzate dalla giornalista Oriana Fallaci, sorprendentemente ospitata dal «Corriere» nei suoi deliri anti islamici.
In quel frangente prendemmo una decisione cruciale: la Casa della Cultura avrebbe profuso tutte le energie possibili in un ostinato richiamo alla ragionevolezza e al dialogo fra le culture e le civiltà. Nacque così un ampio e articolato filone di iniziative per mettere a fuoco la grande questione del dialogo interculturale. Prese avvio una serie incalzante di incontri con la partecipazione di filosofi, teologi, antropologi, esponenti di varie religioni. Per dare sostanza a questa operazione si costruì una rete di relazioni che coinvolse anche il Centro ecumenico della Curia, le chiese protestanti, svariate associazioni religiose e laiche, tra le quali almeno un cenno meritano, per l’intensità e la durata delle relazioni che si stabilirono, l’ISIAO e l’Associazione Italia-Asia. Molte porte si aprirono, in qualche caso con grande generosità: si mise in moto una rete ampia e articolata di incontri che si diffuse in vari centri culturali e associativi. Promuovemmo iniziative che si svolsero anche dentro le chiese protestanti e perfino nella grande sala del seminario vescovile e toccammo anche molte realtà periferiche. Da lì il passo per affrontare la questione dell’interculturalità in casa nostra, come problema cruciale per la nostra convivenza, fu breve. Un paese di emigranti che in pochi anni si era trasformato in un paese di immigrazione era esposto a uno shock che necessitava di ricerca, elaborazione, dibattito culturale: decidemmo di affrontare di petto anche questo grande nodo politico, civile e culturale.
Il dialogo fra i popoli e le culture non poteva prescindere da quanto accadeva in Medioriente. Le trattative di Oslo avevano suscitato molte aspettative, ma dopo sette, otto anni le speranze cominciavano ad appassire. Si decise perciò di aprire una riflessione serrata sulle possibilità di pace in Israele-Palestina. Da allora, per anni, la Casa della Cultura è stato un centro dove in decine di occasioni si sono incontrati e confrontati palestinesi e israeliani. Discussioni appassionate, non di rado anche difficili, perfino aspre, hanno accompagnato presentazioni di libri e di film - come l’anteprima del film israelianopalestinese “Route 191” - e incontri con i protagonisti della cultura e della politica mediorientale. Questo filone di iniziative si è diradato solo negli ultimissimi anni, quando la speranza di Oslo è diventata un ricordo sempre più incerto e lontano.
I segni nuovi provenienti dal mondo spingevano a ridefinire le priorità e a indirizzare la ricerca e l’elaborazione culturale: energie vive, anche giovanili, si stavano mettendo in movimento e parole e concetti nuovi stavano entrando nella nostra riflessione e nel nostro linguaggio.
Praticamente in quello stesso periodo si aprì un nuovo fronte culturale, di segno all’apparenza molto diverso: la destra italiana baldanzosa e trionfante come non mai, da poco vincitrice alle elezioni regionali del 2000 e a quelle politiche del 2001 partì all’attacco anche su alcuni nodi decisivi della nostra memoria pubblica. Sotto tiro, con una virulenza fino a quel momento sconosciuta, fu posta tutta la tradizione politica e culturale antifascista italiana. Fu un incalzare rossiniano culminato nella pubblicazione e nel successo editoriale travolgente di “Sangue dei vinti”, opera di un notissimo giornalista, Gian Paolo Pansa, fino a quel momento organico all’establishement di centrosinistra.
Si trattò di un’operazione politica e culturale assai acuminata. L’ondata “revisionista” era ben altra cosa rispetto alla necessaria ansia di continuo rinnovamento della ricerca storiografica. Essa era animata da un evidente e ambizioso intento politico-culturale: di fatto veniva messa sotto tiro l’insieme della tradizione democratica dell’intera storia unitaria italiana.
Ancora oggi, a distanza ormai di parecchi anni, colpisce la debolezza e la scarsa convinzione della risposta culturale del mondo progressista. Pesavano l’incertezza e l’ambiguità degli ex comunisti rispetto alla loro storia passata. Ma sembrava anche che l’insieme dei protagonisti del mondo progressista non sapesse valutare gli effetti a lungo termine che questa polemica avrebbe avuto sullo spirito pubblico del paese. Di fatto stavamo toccando con mano che il ceto politico emerso in quegli anni, a differenza di quello della Prima Repubblica, si rivelava incapace, o forse disinteressato, ad affrontare le grandi controversie ideali e culturali, a dare alle proprie scelte politiche motivazioni che andassero oltre il contingente.
In Casa della Cultura prendemmo una decisione meditata, proponendoci come connettori di quanti ritenevano giusto e indispensabile difendere la cultura dell’antifascismo e la tradizione democratica italiana. Con qualche azzardo lanciammo perfino una campagna all’insegna di “revisionare il revisionismo”. Ancora una volta ci buttammo in un lavoro intenso: presentazioni di libri, documentari e film, incontri con protagonisti e con studiosi, favorendo l’attivazione di una rete articolata di centri culturali e di associazioni. Si avviò così un lavoro di lunga lena, che si è via via consolidato e trasformato in uno sforzo sistematico per valorizzare la ricerca e la riflessione storica. Esso è approdato negli ultimi anni in cicli di discussione come “Volti e idee del Risorgimento”, “Nord e Sud nella storia d’Italia”, “Storici e storia d’Italia del Novecento”.
Insomma, nei primi anni Duemila la Casa della Cultura riprese la propria attività e la propria funzione lungo due direzioni: la ricerca e l’interpretazione delle novità emergenti nello scenario italiano e mondiale e la rielaborazione della memoria delle forze democratiche.
Trovammo sul campo le conferme di quanto fossero infondati i dubbi sull’utilità di uno spazio pubblico di discussione. Il mondo dei media, proteso alla ricerca della novità e dell’effetto, lascia scoperto il momento della riflessione pacata e approfondita. I cittadini aspettano, anzi ricercano luoghi e momenti che si stacchino dal rumore mediatico, che permettano di ragionare oltre il contingente, che affrontino seriamente le questioni più spinose o comunque lontane dalla logica dell’info - intrattenimento mediatico.
In quel periodo di tumultuosa attività chiarimmo anche che tipo di rapporto avremmo potuto e dovuto intrattenere con la - o con le - forza politica di riferimento. Avvertimmo con chiarezza che si era compiuto uno stacco profondo rispetto al passato. Il discorso delle forze politiche era ormai inesorabilmente schiacciato sul contingente: la battaglia delle idee, il medio e lungo periodo, il pensiero critico, la ricerca dei segni anticipatori del cambiamento stavano ormai fuoriuscendo dagli interessi e dalle possibilità concrete di forze politiche sempre più personalizzate e sempre più orientate verso il momento elettorale. Bisognava prendere atto che la Casa della Cultura e la - o le - forza di riferimento operavano ormai in sfere differenti: era chiaro che costruire e garantire una posizione di autonomia e di rispetto reciproci avrebbe giovato ad entrambi. Aiutava qui, a impostare correttamente questo ragionamento, quella tradizione di autonomia che la Casa della Cultura si era sempre garantita nel passato, anche nei momenti più difficili della storia della sinistra italiana.
Verificammo in quel periodo anche quanto fecondi e intensi potevano essere i rapporti con i giovani. C’era fermento in quei primi anni del secolo nel mondo giovanile: c’era un umore critico diffuso e un movimento in campo. Esso cercava giustamente le proprie strade per esprimersi, ma verificammo quante opportunità si potevano aprire per una fruttuosa interazione con la realtà giovanile. La vicenda più bella di quella stagione fu proprio la collaborazione con vari gruppi di giovani, con alcuni collettivi universitari - la prima richiesta di collaborazione venne dal collettivo studentesco della Bocconi -, con l’associazione giovanile “Cominciamo da capo”, con un gruppo di studenti del San Raffaele, con un gruppo di giovani che si erano improvvisamente imbattuti nello “sconosciuto” Antonio Gramsci (da quell’esperienza è nata anche un’opera teatrale, rappresentata a Milano e a Roma), con l’associazione studentesca “Lapsus” di Scienze politiche. Con ognuno di questi gruppi giovanili la collaborazione si sviluppò in momenti diversi e toccò ambiti e problematiche differenti, dalla globalizzazione allo scontro e incontro di civiltà, dal revisionismo storico alle crisi della Prima Repubblica. Con tutti, però, senza eccezione, si trattò di un interscambio intenso: un’esperienza culturale viva e un afflusso straordinario di energie umane e culturali.



Illuminismo per tutti

La Casa della Cultura aveva riafferrato il bandolo per stare dentro il dibattito politico e culturale: il successo delle iniziative sopraricordate, il consenso diffuso che suscitavano, rendeva possibile impostare con la dovuta serenità un lavoro culturale a tutto campo. Le energie intellettuali su cui fare affidamento non mancavano: lo storico prestigio dell’istituzione, che affondava le radici nell’alto profilo culturale di chi lo aveva diretto negli anni Quaranta e Cinquanta, apriva le porte di tutta la cultura democratica e progressista. Si trattava di individuare con chiarezza le linee di intervento.
Furono così progressivamente messe a fuoco varie iniziative che potremmo riassumere e condensare in due grandi campi: le questioni di senso e il problema del soggetto.
Superfluo qui ricordare e motivare quanto sia diffusa nelle nostre società la domanda di senso: è un problema che attraversa tutta la modernità e che si è ulteriormente radicalizzato con la “fine delle grandi narrazioni”, con l’impossibilità anche solo di pensare una direzione o una qualche finalità nella storia. Le persone cercano risposte attraverso la filosofia, la religione, la letteratura: è nostro compito facilitare e stimolare questa ricerca.
Si è così consolidata e strutturata una tradizione, già ben presente nel passato, di incontri filosofici. Essa si articola in un importante ciclo di conferenze che si svolge ogni anno ad apertura della stagione culturale e nella discussione sistematica delle pubblicazioni filosofiche più interessanti.
La novità, davvero dirompente, è stata però l’introduzione nella nostra programmazione, su iniziativa di Duccio Demetrio, di incontri sulle problematiche religiose. Si era appena esaurita, causa le condizioni di salute e il trasferimento a Gerusalemme del Cardinale, la “Cattedra dei non credenti” di Carlo Maria Martini, un’iniziativa che aveva lasciato un segno profondo nella vita cittadina. Riflettemmo a fondo e decidemmo che era un problema anche nostro interpretare e raccogliere quel messaggio. Da qui la decisione di avviare in un centro laico come la Casa della Cultura il ciclo di incontri “I dubbi dei non credenti”. Insomma, dovevamo favorire e stimolare il confronto tra credenti e non credenti. Sono passati dieci anni da quando abbiamo avviato questa iniziativa: non abbiamo mai avuto motivo per ritornare sui nostri passi.
Più complesso è stato trovare un modo convincente per invitare alla riflessione sulla letteratura. Il testo letterario viene letto e gustato individualmente: vi è meno abitudine a rifletterlo e discuterlo pubblicamente. Abbiamo proceduto per tentativi, proponendo soprattutto “letture” di poesie, per orientarci alla fine verso una programmazione letteraria più articolata e complessa, che presenta la letteratura come stimolo per conoscere la realtà e come “suprema interiorità” (H. Bloom), come scavo nelle più intime e profonde domande personali di senso. Da qui una proposta articolata su tre livelli: la valorizzazione del canone letterario, la rassegna della produzione letteraria italiana contemporanea, uno sguardo sulle vivaci letterature dei paesi emergenti.
L’altro grande campo di intervento è ruotato attorno alla questione del soggetto. La crescita della soggettività (Luporini) e l’affermazione dei diritti individuali (Rodotà) sono un tratto distintivo della nostra epoca. Anzi, oggi potremmo e dovremmo ragionare di iper individualismo, dove il prefisso iper non segnala solo una accentuazione del fenomeno, ma sollecita anche una riflessione problematica su eccessi e derive.
La questione non poteva non entrare prepotentemente nella nostra agenda. Vi è stata portata innanzitutto dalle donne. La riflessione sulla differenza femminile e sulle questioni di genere ha animato una serie fittissima di iniziative, grazie anche all’intensa collaborazione con associazioni femminili e con strutture universitarie come ABCD e il coordinamento interuniversitario per le politiche di genere.
Altrettanto deve dirsi per la psicologia e la psicoanalisi. Anche in questo caso vi era una lunga e prestigiosa tradizione alle spalle: si narra che i primi incontri di psicanalisi dopo la guerra siano stati promossi in Italia da Cesare Musatti proprio in Casa della Cultura. Con gli psicologi abbiamo discusso di minori, di adolescenza, di disagio giovanile. Gli psicanalisti dal canto loro, nelle due componenti fondamentali, freudiani e lacaniani, hanno scelto la Casa della Cultura come luogo nel quale verificare con l’opinione pubblica la loro ricerca ed elaborazione clinica. Con loro abbiamo discusso dei rischi di anomia e di atopia del soggetto, dei problemi connessi con quella “solitudine involontaria” (Hume) che si sta rivelando il problema più grave dei nostri tempi.
Insomma, una volta riaffermata la presenza nel dibattito politico-culturale, ci siamo proposti di dispiegare a tutto campo la nostra attività culturale. Con una preoccupazione, ancora una volta in sintonia con la tradizione culturale della Casa della Cultura e del suo mondo di riferimento (Rossanda): far vivere i legami con la cultura democratica e progressista europea, e non solo europea. Obiettivo ambizioso e difficile da raggiungere quando le risorse economiche sono scarse. Non per questo ci siamo persi d’animo. Abbiamo interloquito con Tzvetan Todorov, con sociologi come Zigmunt Baumann e Alain Touraine, con esponenti del pensiero femminista come Karol Gilligan e Gayatry Spivak, con polemisti eterodossi come Latouche, come Stalmann, il “profeta” del free software, e De Kerckhove, con alcuni dei più autorevoli psicanalisti lacaniani europei, con protagonisti della vita pubblica, della cultura e della letteratura dei tormentati paesi balcanici e del mondo mediorientale. Insomma, la nostra ricerca culturale è stata inscritta dentro il dibattito culturale europeo e internazionale.
In occasione della celebrazione del nostro “Sessantesimo” abbiamo cercato di portare a sintesi questa intensa attività e siamo anche riusciti a condensarla in una espressione semplice, immediatamente comprensibile a tutti. Con un prestito del linguaggio aziendale potremmo dire che abbiamo anche definito la nostra “vision”, felicemente formulata da Salvatore Veca in “illuminismo per tutti”. Con quella espressione abbiamo messo a fuoco un preciso intento programmatico, ovvero la continuità tra la Casa della Cultura di oggi e quell’illuminismo che dà il segno più profondo alla cultura milanese, un illuminismo proteso alla fattività, ad incidere nella vita pubblica, a stimolare la vita civile. È un filo che passa da Verri e Beccaria fino a Cattaneo, che scorre dentro l’esperienza del primo socialismo milanese e arriva a quella “Scuola di Milano” raccolta attorno ad Antonio Banfi, il fondatore per l’appunto della Casa della Cultura.
Alcuni anni più tardi, in occasione del sessantacinquesimo, Mario Vegetti per sintetizzare l’attività della Casa della Cultura recuperò un’immagine proposta a suo tempo da Mc Intyre e parlò di «un’isola benedettina di resistenza». Si tratta di una metafora che non contrasta con quanto detto fino ad ora. Aggiunge solo una nota che non stona ricordare: aiuta a evidenziare il clima generale in cui si è svolto questo lavoro. Dal 2001 al 2013 la destra è stata quasi ininterrottamente maggioranza elettorale in Italia. Nel paese ha imperversato il linguaggio demagogico del populismo: la semplificazione e la banalizzazione hanno dominato il dibattito pubblico. Insomma, non vi sono dubbi sul fatto che una battaglia culturale all’insegna dell’illuminismo implicava la scelta di andare consapevolmente controcorrente.



Il 2008, un momento di svolta

Dopo il 2008, con lo scoppio della crisi economica, qualcosa ha cominciato a cambiare nel clima culturale. Al momento attuale siamo ancora immersi dentro questa crisi lunga, interminabile: quando i processi sono ancora in corso non è semplice tracciare un quadro ben ragionato delle tendenze che si sono sviluppate. Alcuni effetti di questa crisi ci paiono però chiaramente percepibili e ci sembra opportuno metterli bene in luce: essi sono stati e sono densi di implicazioni anche per la nostra attività.
La prima reazione dell’opinione pubblica allo scoppio della crisi è stata nel segno dell’indignazione (Capelli). In primo piano è balzata la responsabilità della finanza: sotto accusa sono finite le grandi banche e la finanza ombra. Questo umore, sconcertato e rabbioso ad un tempo, si è via via condensato ed è esploso nel 2011 in un movimento che ha scosso molti paesi del mondo, dal Cile alla Spagna, dalla Grecia ad alcuni paesi arabi coinvolti in vere e proprie rivoluzioni fino agli Stati Uniti e alla Russia. Notiamo bene: indignazione, non ribellione o rivolta. Nel termine “indignazione” prevale la protesta morale: in essa si condensano sconcerto e rabbia, ma si percepisce implicitamente anche la difficoltà ad indicare uno sbocco. Gli Indignados spagnoli, movimento per molti versi esemplare di quella stagione, hanno occupato le piazze contro la speculazione e la finanza, ma erano amaramente consapevoli dell’impotenza di quelle forze politiche come il PSOE che avrebbero dovuto essere le più vicine a loro. I socialisti spagnoli, infatti, guidavano il governo allo scoppio della crisi, ma si dimostrarono privi di idee e incapaci di reagire.
Gli sviluppi della crisi hanno via via accentuato l’intima ambiguità dell’indignazione: lo sconcerto e l’amarezza si sono radicalizzati mentre è diventato sempre più problematico individuare uno sbocco. Come ben sappiamo, infatti, la prima fase della crisi è stata tamponata con il più gigantesco intervento pubblico della storia: gli stati del mondo intero hanno immesso nel mercato una quantità enorme di risorse per tamponare il disastro della finanza. Il debito pubblico è balzato alle stelle: nella sola U.E. l’indebitamento medio è aumentato in un anno, nel 2008, di circa il 20% (Gallino). Poi, per rientrare dal debito pubblico improvvisamente dilatatosi a dismisura, gli Stati hanno deciso ovunque di ridurre l’intervento pubblico. Insomma, una applicazione assai particolare della lezione di Keynes: lo Stato che interviene per difendere le basi dell’attività finanziaria e poi si rifà sui cittadini.
Le conseguenze non si sono fatte attendere: la recessione, nella quale siamo ancora immersi, si è diffusa pericolosamente e si è delineato un impoverimento della parte più debole della popolazione deprivata di una parte significativa del sostegno pubblico. In più, si è cominciato a dire, per uscire dalla recessione non ci sarebbe stato altro da fare che accentuare e radicalizzare quelle stesse scelte di liberalizzazione e di deregolamentazione che avevano fatto deflagrare la crisi nel 2008. La crisi può essere sconfitta solo, ecco l’assioma che ha cominciato ad imporsi, togliendo tutti gli impedimenti alla libertà dei mercati.
Non è questa la sede per ricostruire puntualmente e per entrare nei dettagli di questa vicenda: a noi qui interessa solo cogliere le implicazioni culturali di questi avvenimenti e le ripercussioni sull’umore generale dell’opinione pubblica. Di fatto alla “grande recessione” di questo inizio di secolo si sta reagendo in modo assai diverso di come si fece dopo la “grande crisi” del 29. Allora si rispose con politiche e con scelte economiche nuove; questa volta invece si sta decidendo di continuare ad oltranza lungo la strada che ha generato la crisi stessa.
In realtà la politica - e il pensiero! - si stanno rivelando impotenti dinnanzi alla logica dei mercati a cui ormai è stata tolta ogni briglia di controllo. Per uscire dalla crisi, ecco la questione nei suoi termini essenziali, c’è bisogno dei mercati finanziari, ma per sperare nel loro intervento bisogna assecondare la loro logica. È un loop che appare chiuso, senza vie d’uscita.
Le speranze ragionevoli che avevano attraversato i primi anni del secolo di una regolamentazione democratica della globalizzazione sfumano e si dissolvono: la globalizzazione liberista resta come un dato di fatto cui bisogna adattarsi, costi quel che costi. I margini per scelte libere e responsabili sembrano restringersi: la libertà e la speranza sono compresse e schiacciate dalla necessità imposta da potenti forze impersonali come i mercati finanziari. Possiamo ben capire allora cosa si sia messo in moto nella testa di tante persone. Lo sconcerto e l’amarezza si sono accentuati, si sono declinati in rassegnazione o sono deflagrati in una ribellione confusa.
I fatti che da allora stiamo registrando ci danno conferma di questa involuzione: lo scenario del mondo si è incupito e gli Stati nazionali, incapaci di governare la situazione generale, si stanno incagliando in sempre nuove crisi regionali. È di Papa Francesco l’espressione scioccante:“una terza guerra mondiale a pezzi”. Nei paesi occidentali nel frattempo i movimenti si sono spenti, l’astensionismo elettorale è aumentato a dismisura, i venti che spingono le vele dei populismi si sono gonfiati e stanno tracimando in egoismi territoriali o etnici.
In Italia nelle elezioni del 2013 si è verificata una mobilità elettorale senza precedenti: il 50% dell’elettorato ha modificato le proprie scelte! L’astensionismo è salito alle stelle. Un nuovo movimento populista è balzato dal nulla al 25% dell’elettorato. Insomma, sono esplosi i segni di un declino della speranza e di una radicalizzazione della protesta demagogica e inconsulta. Nei mesi successivi alle elezioni il centrosinistra ha scelto una nuova leadership - che è stata anche premiata da un brillante risultato elettorale alle elezioni europee - per reagire a questo sconquasso e si è delineata una convergenza tra centrosinistra e centrodestra per affrontare una situazione economica sempre più grave ed asfittica, ma a lato e nel fondo della società continuano ad agitarsi umori cupi e rabbiosi. Per tanti, troppi cittadini lo stato d’animo può riassumersi in insicurezza nel presente, incertezza per il futuro, e mancanza di speranza.
Insomma, una situazione assai diversa da quella che avevamo registrato nei primi mesi e anni del 2000. Allora c’era un fermento sociale animato da un principio di speranza: si parlava di “un nuovo mondo possibile” e balzava in primo piano la ricerca suggestiva del bene comune rispetto al fondamentalismo di mercato. Vi era soprattutto effervescenza e ricerca del nuovo tra i giovani. Oggi sentiamo l’opinione pubblica oscillare tra rassegnazione, passività e rabbia e non riusciamo a leggere gli umori della galassia giovanile.
Ecco la ragione per cui, dopo il 2008 e lo scoppio della crisi, abbiamo avvertito il bisogno di inserire una novità importante nell’attività della Casa della Cultura. Non potevamo più semplicemente raccogliere e interpretare fermenti e sollecitazioni provenienti della società: da lì non stavano più arrivando stimoli positivi. Dovevamo impostare le cose diversamente, dotarci di strumenti nuovi. Dovevamo cercare di dare un nostro contributo a capire quanto stava accadendo, a ripensare e recuperare categorie interpretative, a ripulire e arricchire il linguaggio: insomma, dovevamo caricarci di una funzione educativa e impostare un lavoro di lungo termine sui “fondamentali”. Da qui la scelta di avviare la “Scuola di cultura politica”.
Volutamente abbiamo optato per una scuola di “cultura politica”, non una scuola di politica. La politica è troppo schiacciata sul contingente, in una competizione personalistica che maschera malamente i margini di scelta ridotti. Il problema su cui la Casa della Cultura ha voluto impegnarsi non è tanto, o solo, l’addestramento a fare “questa” politica, quanto invece il bisogno di ricostruzione della cultura politica, per fuoriuscire dalla logica della semplificazione e della banalizzazione, per recuperare il gusto della ricerca approfondita e dell’analisi a tutto campo, per sospingere ad una riflessione sul medio e lungo periodo, alla messa a fuoco dei grandi nodi storici, alla ricerca di alternative. Insomma, quello che abbiamo avvertito è un bisogno impellente di tornare a ragionare sul mondo e sui grandi cambiamenti di questa epoca.
Per questo, dopo due anni di preparazione e di sperimentazione, abbiamo avviato dall’ottobre 2010 questa “scuola” che sta ormai entrando nel quinto anno. La scelta delle questioni da affrontare è stata relativamente semplice: essa ci era imposta dalla realtà stessa. I cicli di studio annuali si sono concentrati sulla crescente disunione politica di un mondo economicamente globalizzato, sulla “grande crisi globale”, sul logoramento della democrazia, sui populismi dilaganti, sulle nuove fratture sociali in primis la crescita esplosiva delle disuguaglianze, sulla dispersione delle soggettività sociali e sulle nuove forme personalistico – leaderistiche della politica, sulle implicazioni delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, sulla difficile ricerca del bene comune.
L’intento della “scuola” è stimolare il gusto per l’analisi e il confronto approfondito delle posizioni: insomma un momento di discussione libera e plurale, che permetta di formare e arricchire lo spirito critico dei partecipanti. Ci siamo detti: non sono tempi di ortodossia, oggi per altro neppure pensabile, quanto invece di ricerca e di discussione. Ed è proprio grazie a questa scelta che siamo anche riusciti a riattivare il rapporto con tanti giovani. In assenza di una forte spinta sociale alla partecipazione la proposta formativa è probabilmente la più efficace per richiamare e stimolare la partecipazione dei giovani e per stabilire un contatto e un rapporto fecondo con loro.



Come sta cambiando l’attività culturale

Nel frattempo, proprio mentre si aggrovigliavano i nodi politici ed economici sopra ricordati, si è verificato un profondo rimescolamento della vita culturale. Ancora una volta il mutamento è in pieno svolgimento e sarebbe davvero azzardato volere trarne valutazioni definitive. Le novità che si stanno accumulando sono però di tale rilevanza che non possono essere bypassate o sottovalutate nel momento in cui si ragiona del futuro della Casa della Cultura.
In estrema sintesi possiamo parlare di tre grandi fenomeni che stanno ridisegnando lo scenario culturale.
Prima questione: in tanti, fra cui ultimamente con particolare autorevolezza anche Martha Nussbaum, segnalano una tendenza alla crisi della cultura umanistica. Concorrono qui vari problemi. Alcuni sono connessi all’organizzazione della vita accademica, come ad esempio la tendenza alla penalizzazione degli studi umanistici nell’istruzione superiore. Altri sono collegati alla logica, davvero nefasta, che sta spingendo l’accademia verso gli iperspecialismi: si delimita sempre di più il campo della ricerca e dell’intervento disincentivando un approccio generale alle questioni. In questo modo il discorso si approfondisce ma al tempo stesso si tecnicizza e si impoverisce: si perdono la capacità e gli stimoli per interrogarsi sulle questioni generali.
Questa crisi della cultura umanistica è connessa però anche ad alcuni orientamenti generali dei nostri tempi. Mentre si avverte una sfiducia crescente nella capacità degli esseri umani di affrontare i problemi consapevolmente, ovvero politicamente, si sta rafforzando la tendenza ad affidare le proprie speranze e il proprio futuro a quell’innovazione scientifica e tecnologica che progredisce a ritmo accelerato. C’è qui qualcosa di davvero sorprendente: nessuno oggi osa neppure pronunciare il termine “progresso”, svalutato dai mille orrori che in suo nome sono stati generati nel Novecento, eppure la soluzione dei drammatici problemi all’orizzonte (sovrappopolazione, riscaldamento energetico ecc.) viene implicitamente affidata alle nuove conquiste scientifiche e tecnologiche.
Nel dibattito pubblico contemporaneo i fini sembrano scomparsi e la discussione si concentra sempre e solo sui mezzi: non si ha più il coraggio o la forza di discutere dove si sta andando, ma semplicemente che cosa e come lo si sta facendo. La presenza ossessiva nella vita pubblica del linguaggio e della problematica economica riflette esattamente questa tendenza: è lecito domandarsi se una scelta è efficiente o meno, non se è giusta o sbagliata. Insomma, in assenza di fini discussi pubblicamente ci si aggrappa al sapere scientifico e alla promessa di continua innovazione tecnologica. È una scacco non da poco per il pensiero umanistico.
Secondo punto essenziale: il secolo XX è stato il “secolo degli intellettuali” (T.Judt), ma oggi stiamo entrando in un mondo che sembra disconoscerne la funzione pubblica. Il XX secolo è cominciato con il “J’accuse” di Zola: da allora per un secolo intero vi è stata un’ininterrotta funzione politica degli intellettuali (Hobsbawn). Non si è trattato sempre di una presenza virtuosa. In questi mesi siamo in pieno centenario del 1914: difficile dimenticare i manifesti degli intellettuali che, in nome della presunta superiorità culturale della loro patria, invitavano a scagliarsi contro uomini, donne e intellettuali degli altri paesi!
Eppure sentiamo che qualcosa è venuto a mancare. Le voci di Sartre, Camus ed Aron, di Russell e Thomas Mann, di Croce, Bobbio e Pasolini, di Havel e di Solzhenitsyn hanno rappresentato autorevoli punti di riferimento per l’opinione pubblica: nel loro discorde discorrere hanno fatto vivere e sentire l’autorevolezza della “repubblica delle lettere”. Da qualche tempo invece i maitre a penser vengono misurati con l’audience. Le idee sembrano avere ceduto il posto alle suggestioni e probabilmente sta qui la ragione per cui nella vita pubblica imperversano i comici. Ci si meraviglia quando qualche capocomico diventa improvvisamente, da un giorno all’altro, arbitro della vita pubblica di un paese, ma in realtà il loro approccio banalmente critico e la libertà corrosiva di quel loro linguaggio privo di remore e responsabilità sono dilagati da tempo.
Infine stiamo facendo i conti con la sovrabbondanza, anzi l’esplosione della produzione e dell’intrattenimento culturale. La scolarizzazione è fortemente cresciuta nel mondo: con essa si sono dilatati i bisogni di conoscenza e le domande di appagamento culturale, ma anche i mezzi per soddisfarli. La rivoluzione tecnologica, con le nuove tecnologie digitali, ha permesso di mettere in circolazione una quantità tendenzialmente illimitata di dati, testi, immagini, filmati, suoni.
Dentro questa finestra di opportunità si sono gettate le sempre più gigantesche e concentrate industrie dei contenuti, ovvero le industrie creative. Il grosso della produzione di film, programmi televisivi, spettacoli di intrattenimento, supporti per la lettura e per la fruizione della musica è concentrato in queste strutture che operano su scala globale. Manuel Castells ha individuato le “magnifiche sette” conglomerate che regolano il mercato culturale globale, attorniate a loro volta da qualche decina di aziende di dimensione intermedia. È l’attività di questi immensi potentati mediatico-culturali che genera quella ipercultura universale (Lipoveksky e Serray) nella quale è ormai impossibile rintracciare ogni criterio regolatore e ogni gerarchia.
Internet ha ulteriormente dilatato questo fenomeno non solo accelerando la circolazione di questa produzione, ma anche rendendo possibile la novità dirompente dell’autoproduzione culturale di massa: tutti sono messi nelle condizioni di mettere in circolazione testi, suoni, immagini da loro stessi prodotti. Vi è chi esalta questa possibilità di creatività diffusa e universale (Levy; De Biase) e chi mette in guardia ricordando che il mondo digitale alla fin fine è hit driven (Martel):il successo rafforza il successo, in un quadro nel quale omogeneità e eterogeneità si mescolano, dove tutto si accelera ed è interconnesso.
Di certo questa immensa produzione culturale, omogenea ed eterogenea al tempo stesso, senza intime gerarchie e senza meccanismi di selezione, sta modificando alle radici il panorama culturale. La moltiplicazione delle fonti spinge verso la segmentazione dei pubblici. Ognuno può concentrarsi nel campo di attività o di fruizione che trova più congeniale: le occasioni per discutere assieme, a tutto campo, si diradano. Qui trova una spiegazione la segnalazione sempre più insistente della difficoltà di pubblici intergenerazionali: i loro canali di intrattenimento e di circolazione delle idee cui ricorrono i giovani e i meno giovani si sono differenziati: ogni raggruppamento generazionale tende a stare per conto proprio.
Si pensi anche a quanto è dilagato l’intrattenimento culturale. I festival culturali sono un tipico fenomeno del nostro tempo: Hobsbawm ne aveva contati milletrecento in Europa, ma si può supporre che questo calcolo dovrebbe essere aggiornato. Essi segnalano quanto diffusa sia la domanda di conoscenza e la curiosità culturale: può perfino accadere di ascoltare musica classica in alta montagna e di occupare una serata al mare in discussione o presentazione di libri. È altrettanto vero però che l’offerta culturale di questi festival mescola il più delle volte generi diversi in modo rapsodico, disordinato, occasionale, senza criteri e selezione, in una ricerca affannosa di effetto e di seduzione del pubblico.
Dinnanzi a novità di questa portata vi sono tanti studiosi che si ritraggono polemicamente, quasi storditi, e non esitano a parlare di “fine della cultura” (Hobsbawm; VargasLlosa). Pesano in queste valutazioni severamente polemiche lo smontaggio unilaterale del canone, lo svuotamento della funzione critica, il prevalere delle immagini sul testo scritto, il peso crescente delle emozioni e della seduzione rispetto all’argomentazione razionale. Altri studiosi, invece, invitano a guardare con apertura e ragionato ottimismo: questa esplosione creativa, qualunque siano gli strumenti o le modalità con cui si sviluppa, mette in discussione vecchie egemonie ma non necessariamente deprime o snatura la produzione culturale (Sassoon). Le idee e le opere creative, argomentano gli ottimisti, devono affrontare una concorrenza molto maggiore e assai più disordinata, ma possono anche fruire di mille canali nuovi attraverso cui, se hanno qualità, possono imporsi. Di certo, comunque, tutta l’attività culturale, dalla discografia al cinema, dalla produzione televisiva fino all’editoria, è ormai costretta a fare i conti con radicali processi di ripensamento e di riorganizzazione.



La “porta rossa” di via Borgogna

All’apparenza un centro di “cultura parlata” (Vittorini) come la Casa della Cultura potrebbe essere investito solo di sfuggita da questi processi. La discussione pubblica in un centro culturale avviene con le modalità consuete: si parla, si ragiona e si discute, tutt’al più con qualche ricorso più frequente ai supporti filmati o con qualche collegamento Skype. Ma in realtà il sommovimento e rimescolamento della vita culturale è di tale portata da interrogare inesorabilmente anche la Casa della Cultura.
I fenomeni sopra ricordati toccano profondamente gli studiosi e i cittadini con cui interloquiamo. La mescolanza dei generi e degli stili, il dilagante chiacchericcio mediatico, il rumore indistinto possono generare la sensazione di un’assordante confusione e demotivare l’impegno e la ricerca culturale. Vi può essere la percezione di una ininfluenza del pensiero umanistico, impotente dinanzi agli imperativi dell’economia, della tecnica e della scienza. Si può temere che la voce degli intellettuali venga inesorabilmente coperta dal grande rumore della produzione mediatica globale. Uno studioso come Asor Rosa ha dato voce a tutte queste preoccupazioni in un pamphlet intimamente drammatico e doloroso: Il grande silenzio. Insomma, fenomeni di questa portata costringono a rimettere a fuoco con chiarezza motivazioni e obiettivi della nostra attività.
Il punto fermo da cui partire è che la dilatazione dell’offerta culturale non demolisce, ma rafforza la responsabilità dell’operatore culturale e dell’intellettuale. Oggi è indubbiamente problematico continuare la tradizione novecentesca di intervento pubblico dell’intellettuale. Nel grande rumore mediatico anche le voci più autorevoli si disperdono. Vi è però l’altro lato della medaglia, ovvero che c’è sempre più bisogno di persone che sappiano sollevare dubbi, porre problemi, aiutare ad analizzare e a capire. Insomma, oggi più che mai abbiamo bisogno di intellettuali che aiutino a «ripulire le lenti» (Todorov), di studiosi che contribuiscano a fare sì che «il dibattito democratico sia meglio informato» (Piketty). Si tratta di un ruolo indubbiamente diverso rispetto a quello degli intellettuali novecenteschi che animavano le grandi battaglie delle idee. Eppure a nessuno può sfuggire la responsabilità di questa tenace opera critica di stimolo e di chiarimento.
Ancora: sono tanti i cittadini che vogliono conoscere, discutere, incontrarsi. La diffusione della scolarizzazione e la crescita della soggettività hanno portato con sé una tendenza diffusa alla “riflessività” (Giddens, Beck): servono però strumenti adeguati perché essa possa venire esercitata adeguatamente. Sempre più spesso le persone per conoscere ricorrono alla strumentazione virtuale, rapida, efficace e in esplosiva espansione, ma è indubbio che essa lascia dietro di sé un quid insoluto e insoddisfatto: essa non riesce a sostituire il bisogno e il piacere dell’incontro faccia a faccia. Il contatto diretto, la comunicazione interpersonale danno alla discussione un piacere e uno stimolo che il virtuale non riesce a innescare. Ecco perché i luoghi di incontro e di discussione mantengono una loro evidente vitalità.
Aggiungiamo: la sovrabbondanza degli stimoli culturali e la ricchezza dell’informazione sembrano oggi inversamente proporzionali al bisogno di approfondimento, di interpretazione e rielaborazione. Ovviamente, si possono teorizzare il piacere e le potenzialità del surf informativo e culturale (Baricco), ma resta indubbio che l’esigenza di approfondire e rielaborare i mille stimoli dell’immenso flusso informativo e culturale non può essere liquidata con superficialità e leggerezza. Insomma, in tanti avvertono che servono appoggi, supporti, apposite istituzioni che si facciano carico dell’approfondimento, della rielaborazione, della ricostruzione di criteri interpretativi.
Sta qui la ragione più profonda della presenza oggi, a quasi settant’anni dalla sua fondazione, della Casa della Cultura. Essa, da sempre sede del dibattito pubblico rigoroso, serio, approfondito, dà ai suoi interlocutori e frequentatori la garanzia di rifuggire dalle facili mode e suggestioni: il centro culturale di via Borgogna è stato, è e deve continuare ad essere punto di riferimento per chi ricerca l’approfondimento, un approccio non banale e conformista, uno sguardo critico, aperto e inquieto.
Questa funzione è simbolicamente ben fissata dalla “porta rossa” con cui si accede nella nostra sede. Non sappiamo se, a suo tempo, la scelta fu voluta o casuale. Di certo essa venne ripresa, valorizzata e stilizzata come immagine grafica di riferimento della Casa della Cultura da Gianni Sassi negli anni Settanta e con il passare degli anni ha assunto un sempre più trasparente valore simbolico.
All’incirca nel 2001 o 2002 i proprietari del negozio collocato sopra la Casa della Cultura, impegnati in una ristrutturazione generale, avevano proposto di rifare, a spese loro, anche l’ingresso della nostra sede per renderlo più omogeneo con gli eleganti negozi della zona. Respingemmo allora l’offerta, nelle intenzioni dei proponenti davvero generosa, di un ingresso omologato ai negozi della moda perché volevamo mantenere un elemento di distinzione e di continuità simbolica con la nostra storia. A distanza di anni la decisione che prendemmo allora appare ancora più sensata e ragionevole: quella “porta rossa” ha rappresentato nella storia e significa oggi un punto di vista e un’angolatura con cui guardare e interpretare gli avvenimenti. Insomma, essa sta simbolicamente a significare la volontà di aiutare i cittadini a orientarsi dentro il flusso caotico, disordinato e senza gerarchie della cultura globale attuale e di mantenere un distacco critico rispetto al pensiero unico.
Anche per questo la ristrutturazione della nostra sede, sostenuta generosamente nei mesi scorsi da tanti amici, si è conclusa con il rifacimento, progettato da Cini Boeri, della “porta rossa” e con la decisione di recuperare il disegno stilizzato della porta stessa come marchio unificato di tutta la nostra comunicazione.



Per un umanesimo illuministico

Le discussioni e il lavoro di questi anni ci permettono di impostare con relativa sicurezza la nostra programmazione per il prossimo futuro. Nelle pagine precedenti abbiamo richiamato i grandi campi di attività impostati in questi anni e dai quali non abbiamo motivo di deflettere. Continueremo il lavoro della “scuola di Cultura politica”. Lavoreremo tenacemente per affrontare i grandi interrogativi di senso con gli incontri di filosofia, storia, religioni e letteratura. Daremo continuità alle riflessioni sulla nuova centralità dell’individuo con i nostri cicli di psicanalisi e con il lavoro sulle questioni di genere.
Avvertiamo che nella nostra programmazione vi sono alcune carenze cui dovremo rapidamente cercare di porre rimedio. Ad iniziare dalla questione davvero decisiva della riflessione sulle nuove frontiere della scienza e della tecnica. La Casa della Cultura è, storicamente e strutturalmente, un centro di cultura umanistica, ma proprio per questo non può sfuggire agli interrogativi sempre più dirompenti delle nuove frontiere scientifiche.
Sono gli stessi scienziati che segnalano un problema urgente, ineludibile, di discussione pubblica (G. Testa e H. Nowotny) sugli sviluppi dirompenti delle loro ricerche. Chiunque oggi voglia interrogarsi sul futuro e cerchi di capire dove gli esseri umani stanno andando deve inesorabilmente interrogarsi sulle implicazioni che le scoperte scientifiche avranno sulla convivenza umana e sul futuro stesso dell’umanità. Nell’opinione pubblica al riguardo la discussione pubblica si accende e si spegne a intermittenza, in mezzo a molto ottimismo di maniera e a un po’ di catastrofismo aprioristico. Servirebbe invece un confronto serio, profondo, responsabile tra il mondo della cultura scientifica e quello della cultura umanistica. Questo è un campo di lavoro cui la Casa della Cultura non può sottrarsi, tanto più che operiamo in Milano, una città straordinariamente ricca di conoscenze tecno-scientifiche.
A più riprese, dopo lo scoppio della “grande crisi globale”, abbiamo sollecitato e promosso impegnative discussioni sulle politiche economiche. Nel 2012, a tre anni e mezzo dal fallimento della Lehman Brothers, avevamo organizzato un ciclo in dieci incontri: “Lezioni sulla crisi”, con un sottotitolo eloquente: “una visione non liberista”. Le questioni discusse due anni fa sono però ancora tutte aperte. Anzi, più la crisi si trascina e si aggrava più la politica economica sembra inchiodata dentro un’ostinata coazione a ripetere. Per questo avvertiamo l’urgenza di rilanciare un confronto pubblico sulle, e tra, le teorie economiche. Si tratta di capire se davvero vi è un solo pensiero economico in campo oppure se vi è una pluralità di teorie che potrebbero preludere anche a politiche economiche diverse.
Sarebbe importante, inoltre, dare un ulteriore sviluppo alla trattazione delle attività artistiche. Passi in avanti sono stati fatti in questi ultimi anni, con l’incontro con Kounellis, con le serate dedicate allo studio dei grandi capolavori della pittura, con l’interazione con i tanti artisti che nei mesi scorsi, durante la nostra “emergenza ristrutturazione”, ci hanno dato prova di solidarietà e di vicinanza. In questo momento si parla tanto di creatività e dei tanti fermenti creativi che si sprigionano utilizzando i nuovi canali tecnologici. Eppure interrogativi gravi e difficili continuano ad affollarsi sul futuro delle arti, soprattutto di quelle visive: le denunce di una deriva mercantile si stanno infittendo e aggravando. Anche qui potrebbe rivelarsi importante aprire alcune finestre di approfondimento.
Ancora: viene giustamente proposta una nuova discussione interdisciplinare sulla convivenza urbana. Interrogativi e disagi, potenzialità e progettualità si mescolano e convergono in una sollecitazione forte a mettere a confronto e a fare interagire competenze diverse. Avevamo avvertito questa tensione progettuale trasversale durante la “primavera milanese”, nei lunghi mesi delle primarie e della campagna elettorale che mise fine a quasi vent’anni di governo della destra a Milano. Allora si erano messe in movimento in città energie culturali e professionali straordinarie: oggi arriva da lì una domanda culturale cui la Casa della Cultura non può e non deve sottrarsi.
Come sempre, inoltre, vi dovrà essere attenzione alle scadenze imposte dall’agenda pubblica: nei prossimi mesi dovremo dare il nostro contributo alla discussione pubblica sul tema di Expo, Feeding the planet. Dovremo guardare attentamente anche a domande e sollecitazioni che possono venire dalla società e dai giovani: dovremo tenere le antenne ben tese per captare ogni eventuale segnale nuovo e per essere pronti al confronto.
Soprattutto dovremo ragionare attentamente su quanto sta accadendo tra i giovani. Abbiamo l’esigenza di moltiplicare gli sforzi per riaprire canali di interazione e di confronto con il mondo giovanile: proprio per questo stiamo ripensando e riprogettando la nostra presenza sulla Rete.
Avvertiamo anche il problema di una nuova generazione di intellettuali che faccia sentire la loro voce nella vita pubblica. In altre stagioni giovani studiosi di trenta-quarant’anni avevano già conquistato autorevolezza sulla scena pubblica. A puro titolo di esempio possiamo ricordare che a metà degli anni Ottanta due giovani ricercatori trentenni, Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, si presentarono in Casa della Cultura e si proposero come animatori di un lungo e affascinante percorso dentro la teoria della complessità: fu un momento importante per loro e per la Casa della Cultura. In questi anni sono molte le ragioni che ostacolano l’intraprendenza e la progettualità dei giovani studiosi: particolarmente devastante è l’interminabile precarietà dei giovani che scelgono l’impegno professionale intellettuale. Il precariato intellettuale, denunciano tanti giovani, demotiva la ricerca, segmenta e impoverisce l’impegno professionale, spezza il ritmo stesso del pensiero nel suo formarsi. Ecco perché intravediamo qui un must: sentiamo di doverci impegnare a fondo in un lavoro di ascolto e di organizzazione per captare e ricercare energie nuove e per stimolare e spingere in avanti eventuali nuove risorse intellettuali.
Come si vede, si tratta di un programma intenso e articolato: sappiamo però di avere predisposto le condizioni per attuarlo effettivamente. Negli ultimi mesi abbiamo eletto un nuovo Presidente, Salvatore Veca, rinnovato la Presidenza e il Consiglio Direttivo: insomma, sono state poste tutte le premesse per consolidare e sviluppare l’insieme di questa programmazione.
Ovviamente, la forza di un progetto culturale sta nel fatto di avere una sua intima coerenza, di svilupparsi secondo un filo conduttore preciso.
In questi anni abbiamo definito la nostra opzione ideale e culturale di fondo nel vivo della ricerca, dell’impegno e della polemica pubblica. Si tratta di un umanesimo radicale (Todorov) che fa i conti con il lascito difficile del Novecento e che si misura a viso aperto con le semplificazioni populiste, con l’arroganza dell’ultraliberalismo e con il fanatismo dei nuovi messianismi. Insomma, un umanesimo fattivo, aperto, dinamico (A. Heller) che guarda al futuro con la ferma volontà di non consegnarsi nelle mani di potenti e oscure forze impersonali e che non si limita neppure a registrare passivamente gli sviluppi della tecnica e della scienza. Un umanesimo che vuole mantenere viva la certezza illuministica che gli uomini sono destinati ad incontrarsi (Kant) e la speranza che possano controllare il loro futuro. Insomma, il nostro filo conduttore è l’umanesimo illuministico.
In questi anni abbiamo fatto vivere questa opzione ideale e culturale mantenendo ferma e viva la tradizione di rigore, di serietà e di libertà che ha contrassegnato tutta la nostra storia. Vi è qui il tratto distintivo, il segno profondo, di tutta una lunga, complessa e straordinaria vicenda culturale. Vale la pena ricordare qui un passaggio decisivo di questa storia.
Negli anni in cui dovettero chiudere riviste come “Il Politecnico” e “Studi filosofici”, in cui il tessuto unitario della cultura antifascista milanese veniva lacerato dallo stalinismo, la Casa della Cultura seppe mantenere con ostinazione e lungimiranza un profilo di autonomia e di libertà. Elio Vittorini, che aveva fondato la Casa della Cultura con Antonio Banfi, ruppe clamorosamente i suoi rapporti con quello che era allora il partito di riferimento, il PCI, ma mantenne sempre un rapporto vivo con la Casa della Cultura: essa continuò ad essere la “sua casa”. Lo stesso accadde per tanti altri studiosi: gli intellettuali seri, di qualità, le tante anime della cultura progressista e di sinistra, trovarono sempre aperta la “porta rossa”.
Qui sta la ragione vera, profonda, per la quale il centro culturale di via Borgogna è riuscito a passare attraverso tante crisi della sinistra e a mantenere la sua vitalità e il suo prestigio. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, resta viva e continua a parlarci quell’antica lezione di libertà.
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