Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XV - n. 6 > Interventi > Pag. 558
 
 
ASTERISCHI: Modello tedesco; Librerie storiche; Black
di Giuseppe Galasso
MODELLO TEDESCO - Sempre più spesso il “modello tedesco” è diventato “quel motivetto che mi piace tanto” (ricordate la vecchia canzone, simpatica e sciocchina, che diceva così?) di tutte le conversazioni sulla condizione dell’Italia e sulla sua incapacità di fare quel che c’è da fare per tirarsi fuori dalle palude della crisi che l’ha ridotta nelle pessime condizioni che tutti sappiamo. I tedeschi, invece, si dice, hanno saputo addirittura evitare la crisi. Hanno messo su una politica intelligente ed efficiente che ha garantito ad essi di proseguire in positivo il loro cammino anche negli anni della crisi globale e ha reso la Germania un paese in cui alla prosperità del paese si è accompagnata quella dei cittadini, l’occupazione marcia a pieno regime, il clima sociale è addirittura più tranquillo di quello politico.
Non parliamo poi di quel che si dice se il discorso cade sul Mezzogiorno. l’Italia ignava e cattiva in centocinquant’anni non è riuscita a parificare le condizioni del Nord e del Sud della penisola. La Germania, esempio al mondo, in soli dieci anni ha preso la parte orientale del paese, ridotta allo stremo dal regime comunista, e l’ha fatta prospera e attiva come l’altra Germania. Il che serve poi ad avallare fortemente le accuse di tutti coloro, che ormai sono tanti, per i quali la storia dell’Italia dal 1860 a oggi ha avuto e ha come suo motivo essenziale e quotidiano la conquista e la rapina, il maltrattamento e la mortificazione, il soffocamento e l’oppressione del Sud da parte del Nord, mediante una politica ingiusta di tipo poco più che coloniale.
Ora, che a centocinquant’anni dall’unificazione nazionale le due parti dell’Italia si ritrovino in condizioni molto diverse fra loro, e, soprattutto, che l’Italia stenta incredibilmente a uscire da una crisi di inattese dimensioni, è fin troppo vero; e noi ne abbiamo ragionato qui innumerevoli volte, e lo continueremo a fare. Quanto, però, al punto dell’esemplarità e positività del modello tedesco, di cui pure abbiamo già accennato più volte avanzando ampi dubbi al riguardo, vorremmo fare qui qualche ulteriore precisazione; e ciò anche perché i dubbi su questo modello si sono andati via via infittendo, e vanno crescendo oggi che qualche ombra sembra addensarsi anche sulla saggia e robusta economia germanica, e in particolare sulla pretesa compiuta parificazione fra Est e Ovest del paese.
A mettere in atroce dubbio la vantata floridezza tedesca è addirittura «Der Spiegel», ossia uno dei maggiori giornali di colà, che ha utilizzato e reclamizzato largamente i dati forniti dall’Istituto tedesco per la ricerca economica (DIW). Il paese, si dice, vive oggi della ricchezza che ha accumulato, ma non ne produce di nuova. Il contrassegno maggiore ne è il calo degli investimenti pubblici e privati che in pochi anni ha fatto retrocedere la Germania dal terzo al settimo posto nel mondo, mentre in Europa il calo degli investimenti tedeschi è stato fra 2010 e 2012 il peggiore. E ciò nonostante la forte compressione sociale praticata anche attraverso la malsana diffusione dei minijobs (a meno di 450 euro al mese), per cui due lavoratori su tre guadagnano oggi meno che nel 2000. Anche in Germania si nota, inoltre, la preferenza di alcuni grandi marchi tipici del paese a spostare all’estero i loro centri logistici e i principali impianti produttivi. E il DIW calcola addirittura a 75 miliardi di euro all’anno gli investimenti necessari per strade, ponti, ferrovie, canali, scuole e altre infrastrutture, che egli ultimi anni sono stati pesantemente trascurati.
E la famosa unificazione rapida e felice dell’Est con l’Ovest? Dall’unificazione a oggi, e tuttora, questa unificazione costa a Berlino 100 miliardi all’anno. Fate il conto per 25 anni, e otterrete una cifra mostruosa. Risultato: il reddito medio dei nuovi Laender orientali rimane al 66% di quello dei Laender occidentali, poco più di quello del Sud rispetto al Nord in Italia. In qualche città come Wittenberg è accaduto che la locale fabbrica di macchine da cucire, la più famosa d’Europa, abbia dovuto chiudere. Certo l’Est tedesco sta meglio del nostro Sud, ma non è così dappertutto nell’attuale Est germanico, e si tenga presente che la vecchia Repubblica comunista era, dopo l’URSS, sia pure a debita distanza, la seconda potenza industriale dell’Europa orientale satellizzata da Mosca.
Un po’ di riflessione sul modello germanico ci farebbe bene, insomma. L’interesse di tutti noi europei è che la Germania sia quanto più prospera possibile, e che altrettanto sia per ogni paese europeo. Solo una sciocca invidia e un’ancora più sciocca speranza di abbassamento altrui, a consolazione delle traversie nostre, possono augurarsi il peggio dei nostri sodali nell’Unione Europea. I miti, però, non fanno bene a nessuno, e l’impulso poco meditato a comportarsi secondo il mito è anche peggio. Tempo fa correva il mito giapponese, col relativo modello. Poi si è passati a quello tedesco, ma oggi molto più di quello tedesco sembrerebbe suggestivo per l’Italia il “modello giapponese”, rivisto e ristrutturato negli ultimi anni. Un modello che – coi suoi tre punti (politica monetaria, stimolo fiscale e riforme strutturali), accompagnati dalla meditata persuasione di dover saper convivere anche con la crisi, senza proporsi impossibili tassi di sviluppo, con un alto debito pubblico, una popolazione ad alto grado di senilità e con la necessità di una forte esportazione – appare anche più vicino alla struttura che è propria dell’Italia.
La realtà è, tuttavia, che ogni paese ha la sua insurrogabile fisionomia, e che quel che davvero occorrerebbe all’Italia sarebbe un “modello italiano” congruente con la nostra fisionomia economica e sociale. Suggestioni, influenze ed esempi di altrove sono sempre preziosi e possono riuscire decisivi per questo o quell’aspetto, in questo o quel momento. Resta sempre poi che i panni per noi ce li dobbiamo cucire addosso da noi stessi, e credere che basti imitare o seguire gli altri serve solo, a parte ogni altra considerazione di ordine nazionale, a portarci “nudi alla meta” (come si diceva un tempo con una sciocca esibizione di orgogliosi propositi, e nudi poi ci finimmo davvero, con la guerra).


*****



LIBRERIE STORICHE - Nell’importante e bel convegno tenutosi ieri a Napoli per il trentennale di Napoli ’99, uno dei dati subito e più emergenti è certamente stata la complessità dei problemi che si pongono quando ci si mette a parlare di beni culturali.
Si prenda un caso recente e di particolare interesse. Poco tempo fa il ministro Franceschini annunciò il proposito di vincolare le destinazioni d’uso delle “librerie storiche” in tutta l’Italia. Queste librerie, egli disse, sono una parte organica del patrimonio storico-culturale del paese. Considerazione incontestabile e proposito lodevole. Poi non si sono avuti altri annunci al riguardo. Noi ne parliamo perché quello delle “librerie storiche” è un caso esemplare delle difficoltà tra le quali ci si dibatte quando si toccano i problemi della tutela e valorizzazione dei beni culturali, anche quando tutto sembra evidente e facile.
Già c’è una prima difficoltà a stabilire con la necessaria chiarezza giuridico-amministrativa quali siano le “librerie storiche” ai fini di un eventuale vincolo d’uso. È facile immaginare quante pretese discutibili o pretestuose e infondate vi possano essere al riguardo. Dato, tuttavia, per scontato il dovuto e soddisfacente chiarimento di questo punto, c’è un altro e diverso problema che non è possibile trascurare.
Le “librerie storiche” sono (non lo si dimentichi) esercizi commerciali come ogni altra libreria o impresa commerciale. Se chiudono o falliscono, è perché il loro bilancio è tale da non lasciare ai titolari altra scelta. E se il fenomeno si ripete ormai molto spesso, è perché è il tipo di impresa commerciale rappresentato dalle librerie, storiche o non storiche che siano, a essere in profonda crisi. Una crisi non episodica o congiunturale, bensì, come si sa, strutturale, dovuta alle profonde trasformazioni di questo settore negli ultimi trent’anni, cui si è aggiunta, in ultimo, la vendita dei libri on line. A mala pena sopravvivono le librerie scolastiche e quelle antiquarie o specializzate. Le maggiori case editrici hanno poi non solo monopolizzato largamente il settore della distribuzione, ma anche costituito esse o si sono strettamente collegate con catene di librerie, di fronte alle quali il piccolo o medio esercizio commerciale non può che trovarsi in crescente difficoltà, come, del resto, accade sempre più in tanti altri settori commerciali per la concorrenza di supermercati, centri commerciali e simili nuovi tipi di impresa.
Né è finita qui. Il libro stampato (e pure questo si sa) è esso stesso in profonda crisi, tanto che molti si chiedono se ad esso, per l’avvento dell’ebook e di tutte le novità comportate, e ogni giorno incrementate, dalla marcia trionfale del web nella nostra vita pubblica e privata, non sia riservata la stessa sorte che al libro manoscritto toccò per l’avvento della stampa.
Sono cose che si scrivono con non poca tristezza. Per tutti i meno giovani sono ancora vivi e vissuti la religione, l’entusiasmo, l’uso quotidiano fin dalla prima età scolastica, la pratica senza alternative, la fin troppo umana bellezza e l’intima o professionale e pratica consuetudine del libro a stampa. Con tristezza, dunque, ma anche con la fiduciosa attesa che né il libro debba soccombere alla sorte che si teme, né che le librerie siano destinate a sopravvivere solo in maniera ridotta o alterata.
Comunque sia di ciò, e per tornare alle “librerie storiche”, come si concilierebbe il vincolo della destinazione d’uso con le ragioni del fondamento e delle esigenze finanziarie e di bilancio delle imprese commerciali? Il vincolo basterebbe a rendere economico un esercizio trovatosi ai passi estremi per insuperabili difficoltà finanziarie e di bilancio? O si pensa a una musealizzazione delle librerie in questione?
Bastino queste considerazioni a esortare chi parla di beni culturali a parlarne con la piena percezione dei problemi di ogni ordine (da quelli storico-culturali e giuridico-amministrativi a quelli tecnici e finanziari) che, come si è detto, si pongono in questo settore, essenziale sul piano della civiltà di un paese, e potenzialmente tale da costituirne una risorsa economica e sociale.


*****



BLACK - Ha ragione Giuseppe Di Taranto, nella sua prefazione all’interessante libro di Paolo Savona e Giovanni Fraiese, Il banchiere del mondo. Eugene Robert Black e l’ascesa della cultura dello sviluppo in Italia (ed. Rubbettino), nel dire che il nome di Black «è noto agli specialisti, ma ignoto a un pubblico più vasto», e che perfino nel paese di Black, gli USA, se ne va perdendo la memoria.
Eppure, si tratta di un manager di alto profilo della finanza internazionale, di cui il libro fa percorrere bene la lunga carriera dagli anni ’30 agli anni ’60, ma ancor più sottolinea la figura di Black come teorico e tecnico delle moderne politiche di sviluppo.
In ciò Black non era un cavaliere solitario, come il libro largamente dimostra, evocando al riguardo i molti interlocutori che si ebbero in molti paesi, fra i quali gli italiani.
Quanto conta in tutto questo la figura dei singoli studiosi? Molto, è ovvio. Come si potrebbe, del resto, sottovalutare, ad esempio, la parte di Keynes dai giorni della conferenza di Versailles, nel 1919, per le infauste conseguenze, da lui previste, delle condizioni finanziarie imposte ai vinti, ai giorni della celebre lettera aperta a Roosevelt nel 1933 sui problemi creati dalla crisi del 1929, e poi dopo? Non sorprende quindi che la parte personale di Black sia qui ben messa in evidenza, anche se con qualche accentuazione.
Qui non sembra che sia in relazione a Keynes che Black emerge con tanto rilievo prima e dopo la guerra per lo sviluppo di una cultura dello sviluppo. Ma, a parte ciò, si trattava poi di “cultura dello sviluppo” per gli indirizzi operativi degli anni ‘30. A noi sembra che di tale cultura si possa parlare in senso proprio solo dopo la guerra, con l’emergere del problema di quelle che, non a caso, proprio allora furono definite “aree depresse”. Prima, due preoccupazioni sembrano prevalere, non proprio relative allo sviluppo: e, cioè, da un lato, quella dell’occupazione quale problema sociale urgente e prioritario, e, d’altro lato, quella di una ripresa economica dalla crisi terribile del ’29.
Lo si vede bene anche in Italia confrontando l’azione dell’IRI dalla sua istituzione nel 1933 fino alla guerra con quella di dopo la guerra. Dapprima furono il risanamento finanziario delle banche e, connessa, la ripresa economica a prevalere. Dopo la guerra si ebbe invece il dischiudersi della vera e propria cultura dello sviluppo, che, al contrario di quel che per lo più si ripete, non fu concepito solo come politica per il solo Mezzogiorno, ma come politica per lo sviluppo complessivo di tutto il paese (tutto ancor indietro rispetto all’Europa) per portarlo alla condizione di paese a economia industriale matura. Cosa che riuscì, mentre non fu altrettanto per il Mezzogiorno: un dato che dovrebbe far riflettere invece di fare ossessivamente deprecare, e riflettere anche di più quando oggi si esalta il miracoloso “modello tedesco” (per il quale si legga, fra i molti, l’articolo di Giovanni Bernardini Addio al ‘Modello Germania‘? Se lo dice “Der Spiegel”, sulla rivista «Mente politica», di ieri, sabato).
Da un libro come questo, che non è tanto un’operazione di “scoperta” storiografica, quanto un libro vivo e pensato, le domande sull’attualità scaturiscono numerose. La principale riguarda proprio la politica di sviluppo in rapporto al problema dell’occupazione, tanto cruciale e drammatico negli anni ’30 e tale tornato a essere oggi. È automatico il rapporto fra sviluppo e occupazione, oggi che la tecnologia ha tanto trasformato le condizioni della produzione? Il ruolo indubbio e primario della politica nell’assicurare risorse e norme aggiornate è sufficiente ad assicurare il successo di una politica di sviluppo? Lo sviluppo è tutto questione di risorse e di norme? L’emergere di nuovi paurosi problemi sociali (si pensi solo all’immigrazione torrenziale dai paesi più poveri in quelli più agiati) consente che basti una politica di sviluppo a fronteggiarli? Qual è il rapporto fra politica di sviluppo regionale e politica di sviluppo generale di un paese?
Bastano domande simili a confermare l’interesse del libro e l’ottima idea che hanno avuto gli autori di evocare al riguardo la figura di Black.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft