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Il giardiniere inglese
di Giulia Galasso
Il giardiniere inglese di Masolino d’Amico (ed. Skira, 2013), interessante e gradevolissima lettura, costituisce un ottimo spunto per conoscere Lancelot Brown, piuttosto singolare inventore del paesaggio inglese vissuto nel ’700. In Inghilterra Lancelot Brown (1716-1783) – Capability, come viene comunemente chiamato facendo riferimento all’espressione great capabilities che egli usava quando, dopo un accurato studio dei luoghi su cui intervenire, ne aveva riscontrato buone potenzialità di accogliere modifiche – è ovviamente conosciutissimo e celebratissimo (fervono i preparativi per il tricentenario della nascita che cadrà nel 2016). In Italia, invece, non è molto noto al di fuori di una cerchia ristretta. Benché sia generalmente molto diffusa l’idea del cosiddetto “giardino all’inglese”, non è affatto di dominio comune la conoscenza del complesso di enormi mutamenti che nel corso del ’700 portarono a modificare il paesaggio inglese secondo un ideale e un criterio originali, autoctoni, che trovarono nell’ingegno creatore di Brown la loro massima espressione. Il celebre paesaggio inglese è, infatti, il frutto di una lunga, attenta, paziente, geniale costruzione che ha comportato la modificazione del corso di fiumi secondo armoniose forme curvilinee, lo spianamento di colline, la creazione di alture, laghetti, cascate, l’impianto di un numero elevatissimo di alberi e piante provenienti in gran parte dalle colonie inglesi d’America, ma non solo, e persino lo spostamento di case e villaggi.
Attraverso la biografia di Brown, d’Amico traccia le trasformazioni del gusto che hanno portato in Inghilterra dai giardini cinquecenteschi chiusi in feudi e castelli a quelli di grandi latifondi seicenteschi ricalcati sul gusto del “continente”, fino ad arrivare al secolo della svolta paesaggistica, che fu il ’700. I giardini sono sempre stati una passione per gli inglesi, ma fino al ’600 essi si limitavano a riprodurre i giardini formali “all’italiana” o, dopo la restaurazione degli Stuart sul trono con Carlo II nel 1660, quelli “alla francese” sul modello dei lavori del celebre architetto André Le Nôtre. Giardini, quindi, rispondenti al principio del controllo e della simmetria, squadrati, con lunghi filari di alberi, siepi modellate secondo disegni geometrici e tutta una serie di noti elementi tipici, quali quinte arboree, labirinti, ghiaia, fontane, canali. Sul finire del XVII secolo il gusto inglese cominciò a cambiare. Quel tipo di giardino venne sentito come estraneo, iniziò a prendere forma un nuovo senso estetico in cui il paesaggio doveva rispecchiare un diverso modello di armonia tra gli elementi che lo compongono.
Del resto, scrive d’Amico, i germi della trasformazione si possono ravvisare già molto prima. Nel 1625 Francis Bacon aveva sostenuto, in un saggio sul giardinaggio, la necessità in un giardino di luoghi in cui la natura potesse sfogarsi senza costrizioni. Esigenza di libertà poi ripresa anche da altri, come Alexander Pope, il quale riteneva che non si dovessero imporre costrizioni alla terra, ma piuttosto ascoltare lo spirito del luogo, il genius loci. Nel poemetto Windsor Forest del 1713 Pope scrive: Qui colli e valle, bosco e pianura, qui terra e acqua sembrano di nuovo in conflitto, non cozzando e ammaccandosi come nel Caos, ma come nel mondo, armoniosamente mischiati; qui nella varietà vediamo l’ordine, e qui le cose, benché tutte diverse, tutte vanno d’accordo. E, ancora, scrive d’Amico, «Pope aveva dedicato grandi cure al suo giardino di Twickenham. Benché piccolo (diceva che lavorarci sopra era come incidere i Dodici Apostoli su un nocciolo di ciliegia), questo giardino fu ammiratissimo nell’età immediatamente precedente l’avvento di Capability». Vengono, quindi, citati da d’Amico alcuni versi di Pope dall’Epistola a Lord Burlington, Sull’Uso delle Ricchezze, che è del 1713: «Consultate il Genio del Luogo in tutto quello - Che dice alle acque di salire o di cadere, - O aiuta l’ambiziosa collina a scalare il cielo, - O scava in teatri circolari la valle; - Riduce la campagna, coglie aperture di radure, - Congiunge boschi consenzienti, e distingue ombre da ombre; - Ora spezza, ora dirige, le linee intenzionali; - Come piantate esso dipinge, e come lavorate, disegna». Al movimento letterario segue l’influenza della raffigurazione pittorica del paesaggio nelle opere di grandi artisti come Claude Lorrain o Salvator Rosa, collezionate dai viaggiatori del Grand Tour, poi imitate anche dagli artisti inglesi. Il nuovo ideale di bellezza e di armonia si rifà ai suggestivi panorami della campagna romana, non riferiti a luoghi reali, ma come composizioni verosimili di più schizzi, con le numerose variazioni cromatiche, le dolci colline ricche di alberi, cespugli e rovine, i movimentati da corsi d’acqua. Il principio ispiratore che porterà alla nascita del giardino paesaggistico tende ad abbellire la natura, perfezionarla per mano dell’uomo, lasciando, però, ad essa, una certa spontaneità, una “spontaneità controllata” nel rispetto del genius loci. Secondo questo principio, gli elementi del paesaggio devono essere tali da sembrare del tutto naturali. Insomma, un sapiente controllo che non dia l’impressione che tutto sia stato costruito dall’uomo.
Gli artefici di questo cambiamento, come emerge anche nelle pagine di d’Amico, sono diversi, a partire dal principale iniziatore e creatore del giardino paesaggistico, William Kent, pittore, poi architetto paesaggista, che in Italia era stato sei anni al seguito del suo patrono Lord Burlington, ed era rimasto affascinato dalle vedute immaginarie, ma realistiche dei già ricordati dipinti di Claude Lorrain e Salvator Rosa. Lord Burlington stesso, conquistato dall’architettura delle ville palladiane, al rientro in Inghilterra affidò l’incarico della costruzione della Burlington House all’architetto Colen Campbell, «palladiano dichiarato», come lo definisce d’Amico. Kent, tornato dall’Italia nel 1719, iniziò a creare giardini seguendo l’idea dei “quadri dipinti”, inaugurando, così, un nuovo modello di giardino, molto diverso da quello in voga fino al ’600. Egli elimina gli elementi formali, le aiuole squadrate, i vialetti di ghiaia, e inserisce, come elementi decorativi, strutture architettoniche posticce, finte rovine e templi greci, statue, esedre, ben incorniciate dalla vegetazione. I sentieri diventano dolcemente ondulati come i corsi d’acqua, i recinti necessari per delimitare le zone riservate al pascolo vengono nascosti allo sguardo essendo interrati per formare un fossato, che desta una tale sorpresa agli occhi di chi li scopre da essere denominati onomatopeicamente ha-ha.
È, tuttavia, Lancelot Brown ad essere meritatamente riconosciuto come il genio creatore di questa nuova architettura, che porterà nel corso di circa un secolo a modificare radicalmente il paesaggio inglese e, in generale, il gusto e la rilevanza dei “giardinieri inglesi” nel panorama, non solo europeo, del settore. Brown vede il paesaggio con gli occhi di un abile artista, che miscela con armonia alberi con fogliame diverso al fine di creare luci e ombre, piante con fioriture progressive secondo il diverso corso delle stagioni, fiumi, laghi, alture, prati e, inoltre, elementi architettonici come superbe dimore o rovine opportunamente valorizzate. Insomma, tutto viene rivisitato. La filosofia paesaggistica di Brown si differenzia da quella dei suoi predecessori come Kent per quella che d’Amico indica come “purezza”. Egli elimina gli elementi pittoreschi rievocanti l’antichità classica - tempietti, esedre, rotonde e così via - e rivaluta lo stile gotico precedentemente disprezzato, le rovine autentiche di cui vi era abbondanza anche grazie all’abbandono degli antichi monasteri a seguito delle riforme di Enrico VIII. Per Brown «la natura aspira di suo a una perfezione che qualche accidente le impedisce di raggiungere». L’abilità e l’arte dell’architetto paesaggista è, quindi, quella di eliminare questi ostacoli senza però apparire, fare senza mostrarsi.
L’enorme lavoro di Capability richiese, da parte sua, ottime conoscenze di botanica, idraulica, ingegneria, architettura e l’impiego, da parte della potente aristocrazia e della borghesia inglese, di ingenti ricchezze per quella che diventava sempre più una passione comune, uno status symbol.
Crediamo, comunque che non vadano trascurati, per un’ancora migliore intelligenza di tutto ciò, altri aspetti relativi al contesto. Il ’700 è a giusta ragione considerato il secolo della svolta della botanica. Basti ricordare che nel 1716, anno della nascita di Brown, Thomas Fairchild, intraprendente giardiniere, vivaista arboricoltore di Hoxton, nei pressi di Londra, realizza il primo ibrido interspecifico di garofano. Nel 1731 Philip Miller, capo giardiniere del Chelsea Physic Garden, pubblica il Gardeners dictionary, primo manuale sistematico e completo sugli aspetti pratici del giardinaggio. Nel 1735 Carlo Linnèo, il noto riformatore della nomenclatura e fondatore della moderna sistematica, ideatore del metodo per la classificazione del mondo vegetale che adotta la nomenclatura binomiale, assegnando agli organismi viventi due nomi, uno per il genere e uno per la specie, pubblica la prima stesura del Systema naturae. Oltre ai notevoli progressi scientifici in materia di botanica, l’espansione dell’impero britannico, l’evoluzione dei trasporti e le grandi esplorazioni favorirono lo scambio di alberi, piante e sementi con le colonie. Si creò, anzi, una fitta rete di scambi e di commerci che nell’arco di un secolo portò a una radicale trasformazione del territorio con l’introduzione di migliaia di piante e alberi provenienti dell’America, dall’Africa, dall’Australia e dall’Estremo Oriente e proiettò l’Inghilterra all’avanguardia nel capo della floricultura e del giardinaggio.
La forma narrativa scelta da d’Amico è quella dello schema collaudato, e qui ben riuscito, della conversazione tra due persone di evidente disparità culturale, oltre che generazionale. I due sono un pensionato professore universitario di letteratura inglese di Cambridge e un giovane americano studente di economia, De Witt Henry III, aspirante scrittore cinematografico, casuale ascoltatore di una lezione in cui il professore aveva parlato di Brown. Colta l’importanza del “personaggio”, e, cosa ben più interessante dal suo punto di vista, avendo osservato che si tratta di un tema non ancora sfruttato, De Witt ha l’idea di ricavarne uno sceneggiato nella scia del grande successo di mercato delle fiction ambientate nel classico paesaggio inglese come Downton Abbey. Sostanzialmente, De Witt è un giovane del nostro tempo, intraprendente e un po’ sfrontato, poco avvezzo a studi approfonditi, ma tecnologicamente evoluto e cellulare-dipendente, che vede Brown come un’opportunità commerciale ed è convinto di poter facilmente ottenere dal professore, con qualche breve intervista, tutte le informazioni necessarie.
Nel colloquio, condotto con umorismo molto inglese, emergono i molti elementi di distanza tra i due, il professore con cultura, metodi e tempi ben diversi da quelli dello studente, con un certo distacco dalla modernità e un forte snobismo inglese simpaticamente esibito. Le citazioni a tale proposito possono essere numerose, a partire dalla presentazione: «De Witt Henry III. Con un nome così non può che essere americano». E, così, quando nel corso dell’intervista, il professore dice allo studente: «Legga lei. Mi piace sentire Pope con l’accento americano. È più vicino all’originale […]. Non conosce la legge delle aree periferiche? La lingua si modifica in fretta nei centri culturali, mentre le province lontane sono molto più tradizionaliste. Lì i cambiamenti arrivano lentamente». Il professore non manca di fare allo studente un po’ il verso sull’atteggiamento degli americani verso alcool e fumo mentre lui, dedito a letture in solitudine, si conforta col tè allungato con whisky e con l’ironia. Quando, infine, De Witt riceve la telefonata della fidanzata che lo va a prendere a casa del professore, questi gli chiede: «La troverà la casa?»; e lo studente pronto: «Ma certo ha il navigatore». Al che il professore nota: «Dimenticavo, oggi nessuno ha più bisogno di saper niente».
Dall’intervista paradossalmente emerge che, contrariamente alle aspettative di De Witt, Capability è poco commerciabile, non ha una vita avventurosa ricca di episodi memorabili. Come d’Amico fa dire al suo professore, «la storia di Capability è quasi solo la storia del suo lavoro. Di lui come individuo si può dire poco». Egli era, però,venuto in contatto con un elevato numero di notevolissime personalità dell’epoca, tra cui ben cinque primi ministri o ex primi ministri, e i maggiori esponenti dell’aristocrazia dell’epoca; ed era giunto fino al ruolo più prestigioso di Master Gardner di re Giorgio III.
Questo aspetto diventa il filo conduttore della narrazione di D’Amico che, attingendo alla sua profonda conoscenza della letteratura e della storia inglese e alla sua competenza in materia di teatro e sceneggiatura, descrive Capability con sguardo ben diverso da quello che avrebbe avuto un architetto del paesaggio, più orientato alle cifre e ai dettagli tecnici, elementi fondamentali, ma tutto sommato un po’ aridi per i non addetti ai lavori. Il libro è ricco di aneddoti, di citazioni, di particolari storici, di numerosi elementi relativi alle tante formidabili personalità per cui Brown lavorò.
Dal dialogo tra studente e professore emergono anche alcuni aspetti della società di quel tempo, ma soprattutto un quadro interessante e affascinante dell’aristocrazia e della cultura inglese del ’700, del gusto dell’epoca.
Brown, era nato da una modesta famiglia di campagna a Kirkharle nel Northumberland, ai confini con la Scozia, quinto di sei figli, ed era rimasto orfano a soli 4 anni. Iniziò la sua carriera occupandosi dell’orto della tenuta di Sir William Loraine, di cui il padre era stato fittavolo. Questo incarico e la lunga durata degli studi, fino ai 16 anni d’età, cosa all’epoca inusuale in una famiglia di contadini, fecero nascere qualche mai confermato pettegolezzo circa una possibile paternità da parte di sir William. Brown, comunque, a 23anni, nel 1739 si licenziò da Sir William Lorainee e si trasferì al Sud, dove trovò impiego nella tenuta di Charles Browne a Kiddington. Dopo meno di due anni si licenziò di nuovo e fu assunto da Lord Cobham come capo giardiniere nell’allora più famoso giardino d’Inghilterra, Stowe, dove avevano già lavorato i migliori architetti-giardinieri del tempo come John Vanbrugh, il già menzionato William Kent e Charles Bridgeman, che introdusse in quella tenuta il primo ha-ha del paese. A Stowe, considerato il più splendido dei giardini paesaggistici inglesi, culmine della concezione di Bridgeman e soprattutto di Kent, Brown trascorse dieci anni, facendovi una notevole esperienza, affinando le sue conoscenze in diversi campi e giungendo ad inventare nuove tecniche, e persino una macchina per spostare grossi alberi da trapiantare.
Si fece, così, tanto apprezzare da Lord Cobham che questi a un certo punto gli affidò anche la gestione economica dei lavori. Lord Cobham era stato un glorioso generale di Marlborough, aveva combattuto in Olanda e Francia e aveva ricevuto diversi titoli (barone e poi visconte) da re Giorgio I. Noto soprattutto per la conquista e il saccheggio di Vigo, in Spagna, da cui ricavò un ricco bottino, ebbe vicende politiche alterne. Entrò in contrasto con il primo ministro Walpole, contro il quale aveva formato una corrente di cui era parte William Pitt (il Vecchio), poi primo ministro. Poco dopo la nomina a fieldmarshal, ottenuta nel 1742, si ritirò e, grazie all’ingente bottino di Vigo e ai beni della ricca moglie, poté estendere e arricchire la sua tenuta coltivando la sua grande passione per il giardino paesaggistico.
Durante la permanenza a Stowe, Brown lavorò anche per altri committenti amici di Lord Cobham, tra cui il sesto Lord Coventry, con il quale divenne molto amico. Lord Coventry aveva ereditato, a seguito della morte del fratello, una vasta proprietà posta in una pianura paludosa tra i fiumi Avon e Severn e aveva sposato un’irlandese di notoria, straordinaria bellezza, Maria Gunning, prematuramente morta nel 1760 a soli 28 anni. Divenuto vedovo, Lord Coventry si dedicò alla sua tenuta, Croome, e affidò a Brown i lavori, compresa la progettazione e la costruzione di una monumentale villa in stile palladiano e di una chiesetta in stile gotico. A Croome Brown ebbe modo di mettere in evidenza le sue brillanti capacità di architetto e in materia di controllo delle acque. Benché non avesse studiato architettura, mostrò di aver ben imparato sul campo e accontentò talmente Lord Coventry che questi gli eresse un monumento presso la riva del lago con questa iscrizione: Alla memoria di-Lancelot Brown - che con la forza del - suo inimitabile - e creativo genio - formò questa scena di giardino - da una palude.
Nel 1751, un paio di anni dopo la morte di Lord Cobham, Brown lasciò definitivamente Stowe per trasferirsi ad Hammersmith, città portuale oggi inglobata in Londra. Da quel momento ricevette numerosissimi incarichi importanti e di lunga durata, tra i quali vale la pena di ricordarne alcuni dei più rilevanti. Così, Kirtlington, la sontuosa proprietà di lord Dashwood, ritenuta seconda solo a Blenheim; Petworth, ancora oggi ritenuto da molti il più puro tra i giardini paesaggistici di Brown, proprietà del secondo lord Egremont, la cui sorella era moglie di George Grenville, futuro primo ministro; Burghley, antica e lussuosa dimora nata per William Cecil, primo ministro di Elisabetta I, da lei nominato Lord Burghley, poi ereditata da Brownslow Cecil, nono Lord Exeter. A Burghley Brown lavorò per circa venticinque anni, occupandosi sia del giardino sia della casa, divenendo grande amico e fidato collaboratore di Lord Exeter, al punto che questi ne espose, nel tempietto della tenuta, un ritratto dipinto da Nathaniel Dance, poi spostato nella Pagoda Room, dove è tuttora visibile. Lavorò poi a Blenheim, monumentale residenza di John Churchill, duca di Marlborough dal 1702, comandante delle truppe inglesi durante la guerra di successione spagnola, che ricevette, come ringraziamento dalla nazione per la vittoria nella battaglia di Blindheim, una tenuta a Woodstock con castello in rovina e il finanziamento per costruirvi una nuova residenza. A Blenheim, considerato il capolavoro di Brown, egli fu chiamato dal quarto Duca intorno al 1763 e vi lavorò, non in maniera esclusiva, come soleva fare, per una decina di anni, operando su tutti gli elementi del suo repertorio e realizzando un’opera eccellente nella gestione delle acque. Non per caso Blenheim merita la citazione, riportata da d’Amico, di Winston Churchill, che vi nacque e visse e che qui disse di aver preso le due migliori decisioni della sua vita: nascere e sposare sua moglie. Ai primi dell’800, il quinto duca di Marlborough, chiese e ottenne dal governo di aggiungere il cognome Churchill a quello di Spencer (cognome proveniente dalla linea ascendente femminile, in quanto alla morte del primo duca fu la figlia Henrietta a ereditare il titolo, che passò poi a Charles Spencer, primogenito della sorella Anne).
Nel 1764 Brown ottenne finalmente l’incarico, come si è detto, di Master Gardener del re Giorgio III, a cui ambiva da tempo senza riuscirvi, nonostante l’interessamento dei molti amici influenti. L’incarico, oltre al prestigio, comportava una paga fissa elevatissima e una graziosa abitazione a Hampton, nella quale Brown si trasferì con la famiglia.
L’elenco dei suoi lavori è interminabile. Il quadro che ne emerge è quello di un Brown lavoratore infaticabile, che percorre in lungo e in largo l’Inghilterra, realizzando oltre 170 parchi di grandi o grandissime dimensioni, molti dei quali sono conservati e visitabili. Appassionato e dedito al suo lavoro, concreto, affidabile, grande diplomatico, andò quasi sempre d’accordo con tutti. «Ma allora - chiede De Witt al professore - non aveva nemici?». Sappiamo così che uno, William Chambers, poi sir William, illustre architetto, ce n’è stato, ma senza conseguenze. Lancelot Brown morì poi all’età di 67 anni nel 1783 in seguito ad una caduta. Per concludere, la parola può essere data a lui stesso, a Capability. In una lettera del 1775 inviata a un amico che gli chiedeva disposizioni da trasmettere ad un conoscente francese interessato a trasformare la sua tenuta alla maniera inglese,egli scriveva: «In Francia non comprendono esattamente le nostre idee sul Giardinaggio e sulla Pianificazione, che, una volta ben comprese, forniranno tutta l’eleganza e tutti i comodi che l’Umanità vuole in Campagna, e (aggiungo), se giuste, saranno esattamente adatte per il proprietario, per il Poeta e per il Pittore. Per produrre certi effetti ci vogliono un buon progetto, una buona esecuzione, una conoscenza perfetta del paese e degli oggetti che contiene, naturali o artificiali, e un’infinita delicatezza nel piantare ecc., poiché tanta Bellezza dipende dalle dimensioni degli alberi e dal colore delle loro foglie per produrre quell’effetto di luce e di ombra che è così essenziale per l’esecuzione di un buon progetto: anche il nascondere quello che è sgradevole e il mostrare quello che è bello, l’ottenere ombra dai grandi alberi e profumi dalle specie più piccole di cespugli, ecc.».
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