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Intorno a Gramsci e oltre
di Biagio de Giovanni
1. La parte gramsciana della mia estate di letture è trascorsa fra due libri che più diversi non potrebbero essere. L’agile lavoro di Franco Lo Piparo su Il Professor Gramsci e Wittgenstein, (Roma, Donzelli, 2014), e il ponderoso volume di Angelo Rossi (Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni. 1929-1933, Napoli, Guida, 2014): due autori che già si sono misurati con il pensiero di Gramsci in scritti recenti di non poca originalità. La diversità delle tesi sostenute nei due libri non sta semplicemente in una differente interpretazione di testi, ma in qualcosa di più profondo che tocca il carattere stesso della personalità del pensatore sardo. Estremizzo un po’, com’è necessario fare per cogliere la radicalità del contrasto, e lo faccio sperando di non forzare le intenzioni dei due autori. Lo Piparo ci dice: l’incontro di Gramsci con la politica è un episodio della sua vita limitato in un arco di tempo abbastanza ridotto – otto anni di militanza – e intorno al quale non può esser giudicato il suo contributo fur ewig, secondo la celebre espressione dello stesso Gramsci. Il pensatore sardo compare, nel libro di Lo Piparo, come un grande linguista (e analista del potere), e la politica non dico come qualcosa che lo distrae da questa sua vocazione principale, ma certo non come il campo cui legare il suo nome, appunto, per l’eterno. E la tesi è lì dimostrata attraverso un’affascinante ricerca indiziaria, che conduce lo Piparo a immaginare (e largamente, secondo me, a dimostrare) un’influenza decisiva di Gramsci per il rovesciamento delle tesi wittgensteiniane sulla funzione del linguaggio nel passaggio dal Tractatus alle Ricerche filosofiche: tramite di questo rovesciamento fu l’intenso e documentatissimo rapporto tra Wittgenstein e Piero Sraffa, il quale nel frattempo praticava fittamente, in varie forme, il pensiero in formazione di Gramsci. Il ponderoso volume di Rossi è, se così si può dire, un’innovativa e affascinante esposizione di un Gramsci tutto immerso nella politica, perfino convinto – a torto e fino a un certo momento – di continuare a dirigere il Partito Comunista d’Italia dal carcere, e comunque interamente catturato dalla sua battaglia politico-culturale, interamente immerso nel dramma del secolo.


2. Perché iniziare così una riflessione dedicata soprattutto al libro di Rossi? Perché non vorrei abbandonare la direzione di analisi che quella contrapposizione, così come la ho seccamente descritta, propone, non per “schierarmi” – e sarebbe facile, pur apprezzandola, cogliere il carattere francamente paradossale della tesi di Lo Piparo –, ma perché quel contrasto radicale coglie, a parer mio, una questione reale, che può essere rappresentata in modo abbastanza problematico e che, in forme diverse, è stata ben presente nell’ermeneutica gramsciana. Si pensi solo ai magistrali tentativi di Norberto Bobbio di “isolare” in Gramsci categorie di “scienza politica” che lo liberassero dal troppo gravoso finalismo di una vicenda storica che andava verso il proprio esaurimento. Alle ricerche classiche di storici come Rosario Romeo e Giuseppe Galasso. E non parliamo di Augusto Del Noce che legava il pensiero di Gramsci (verso Gentile) ai drammatici esiti conclusivi della metafisica occidentale. Provo a interrogarmi sul tema, muovendomi spericolatamente fra i molti lati che il problema presenta. Quale, la questione reale? È quella, credo, del fur ewig di Gramsci, della sua eredità, di un Gramsci, non dimentichiamolo, che è l’autore italiano forse più tradotto e studiato fuori l’Italia. Escludo l’estremo della sua completa depoliticizzazione, alla Lo Piparo: se questa tesi paradossale serve a facilitare l’accoglimento della tesi centrale “di merito” di quel libro, cui ho sopra accennato, non c’è ragione di contestarla. Ma se volesse indicare un generale criterio ermeneutico per leggere i Quaderni, allora la cosa prenderebbe un altro carattere, e si mostrerebbe nella sua manifesta paradossalità.


3. Ciò detto, però, il problema non è affatto chiuso. Mantenendo intatta la politicità del pensiero gramsciano e il suo travaglio profondo intorno – per dir così – al destino politico del secolo, resta aperta una grande questione: fino a che punto l’itinerario, e i risultati, di questo pensiero, sono legati alla (grandiosa) congiuntura storica che li attraversa? Ovvero, per dirla in chiaro e con una semplificazione forse disarmante, fino a che punto le categorie che Gramsci mette in campo (e l’insieme del gioco ermeneutico che si svolge intorno a esse) fino a che punto tutto questo è legato alla congiuntura specifica del destino e del futuro del comunismo? Legare tutto il campo dell’ermeneutica gramsciana a questo destino può essere esiziale, e rendere poco comprensibile l’interesse perfino crescente intorno a esso. Chiarirò meglio questa convinzione analizzando il libro di Rossi, ma dico subito: se la politicità delle categorie gramsciane fosse interamente assorbita nella discussione sull’Urss, sulla rivoluzione fallita in Occidente, sul suo contrasto con il gruppo che dirigeva il Partito Comunista d’Italia, allora il rischio dell’obsolescenza diventerebbe assai pronunciato. Un grandioso reperto storico, ma d’archivio, il grande reperto di un dirigente politico comunista che antivede il destino politico di un’esperienza come quella aperta dal 1917, combatte una battaglia strenua e coraggiosa contro i gruppi dirigenti dominanti in Urss, ma alla fine, sul terreno strettamente politico, dice cose che Filippo Turati aveva già detto nell’intervento al Congresso della scissione di Livorno, nel 1921.


4. Naturalmente, tutti sappiamo che questa conclusione sarebbe fuorviante e insufficiente. Ma perché? Proverei a rispondere così: intanto, per lo straordinario apparato categoriale con il quale Gramsci mette in campo la sua critica, non limitata a un nobile contrasto con un’esperienza in via di diventare totalitaria, esercitando terrore. Un apparato, quello gramsciano, talmente complesso, da trasformarsi in un’ermeneutica sul rapporto fra Occidente e Modernità, su Machiavelli e Marx, sulla storia d’Italia e del Mezzogiorno, sul problema della democrazia e della politica, sulla traducibilità dei linguaggi, sul tema dell’egemonia civile e tanto altro. Ma proprio per questo, si deve trovare un equilibrio fra un’improbabile depoliticizzazione integrale alla Lo Piparo e un legame dominante, se non esclusivo, con la “congiuntura” politica che egli visse, e con il finalismo storico che esplicitamente lo dominava.
E qui c’è un inciso da fare, per me con accento molto critico ed anche parzialmente autocritico rispetto pure a miei vecchi scritti: c’è una linea di tendenza, in alcune letture gramsciane, che, attenta a mantenere fortemente questo legame, ne vede, in continuità, la capacità di previsione morfologica (per dirla alla Labriola) sul futuro dell’umanità. Per cui, mantenere il legame forte ed esclusivo con la “congiuntura”, consentirebbe di utilizzare, proprio nelle sue coordinate politiche, l’apparato gramsciano come anticipante la prospettiva che si aprirà (quando? come?) in un futuro destino cosmopolitico di unificazione benevola dell’umanità. La mia critica verso questo atteggiamento è drastica e me ne libero in poche parole. Esaurita l’esperienza politica del comunismo, dissolta politicamente (e culturalmente) la struttura storica nata dal 1917, appare del tutto fuori da ogni possibile controllo ermeneutico immaginare che la talpa continui a scavare, non vista da nessuno, nei fondi e sottofondi della struttura del mondo, in vista di emergere non si sa quando e come, e in quale veste e forma, illuminata dalle tesi di Gramsci. Ed è singolare che gli stessi interpreti che hanno immaginato un’utilizzazione di Gramsci, per dir così, nell’immediato della lotta politica (sopratutto negli anni Settanta) oggi, a esperienza del comunismo esaurita, trasferiscano il potere conoscitivo e pratico di quelle categorie su un futuro lontano e irrappresentabile. Forse giocano ancora, in atteggiamenti di questo tipo, ispirazioni millenaristiche non certo estranee a possibili torsioni del filone marxiano. Mi paiono vie conducenti in vicoli ciechi e destinate perfino a influire negativamente sugli sviluppi dell’ermeneutica gramsciana, a rischio “scolastica”. Ma lascio qui il tema che in qualche forma tornerà alla luce del libro di Angelo Rossi sul quale vorrei ora concentrare l’attenzione.


5. Lo ho definito, all’inizio, innovativo e affascinante, e non mi sembrano aggettivi sprecati. Esso penetra l’itinerario dei Quaderni, tante volte affrontato, con un piglio e una complessità di intrecci che mi pare per davvero inedita. Intrecci fra biografia, personale e politica, e cadenze del pensiero; fra il dramma della solitudine carceraria e l’afflato universalistico e partecipato del pensiero; fra epistolari, travagliate relazioni familiari per quanto possibili, e ritmo intenso fino allo spasimo, e insieme spezzato, del suo lavoro intellettuale. Tutto nel quadro di un rapporto drammatico (non c’è altro termine) con il Partito di cui si considerava ancora segretario, e che nella realtà sembrava averlo abbandonato al suo destino, per irrevocabili contrasti di “linea”, tema al quale l’autore aveva già dedicato un altro lavoro Gramsci da eretico ad icona. Storia di un cazzotto nell’occhio, anch’esso pubblicato con Guida. E voglio subito isolare brevemente questo tema assai spinoso, destinato a condurci verso un problema più generale. Il capitolo è quello intitolato a Gramsci-Togliatti, vera cartina di tornasole di una vicenda storica, un dramma politico-personale nel secolo di ferro e di fuoco. Francesca Izzo, nella presentazione del libro che si è svolta a Roma, ha parlato di atteggiamento” protettivo” di Togliatti verso Gramsci, protettivo rispetto ai rischi che Gramsci avrebbe dovuto affrontare, dopo l’eventuale liberazione dal carcere, al ritorno in un’Unione Sovietica in preda al terrore e alla distruzione fisica di ogni dirigente o militante portatore di opinione non ortodossa, e non c’era nemmeno bisogno di questo.
Il libro di Rossi non mi pare avalli questa interpretazione, anche se non si colloca affatto in una posizione agitatoria verso Togliatti che fu rappresentante, forse consapevolmente tragico, di un incoercibile realismo politico, e a cui naturalmente va dato il merito della “cura” (certo, un po’ censoria) dei Quaderni dopo il 1945. Nella realtà, il contrasto fra due linee, già evidente nella celebre lettera di Gramsci a Togliatti del 1926, si approfondì soprattutto dopo la “svolta” dell’Internazionale Comunista del 1930. Per brevità sottolineo un solo aspetto, relativo all’interpretazione del fascismo e alle possibilità di una rivoluzione proletaria in Italia per abbatterlo, ma era tutta l’analisi della crisi del capitalismo dovuta all’Internazionale comunista che Gramsci metteva in discussione. Egli considerò l’ipotesi sul fascismo, fatta propria dall’Internazionale e da Togliatti, del tutto infondata, costruita sulla completa ignoranza della situazione reale. Gramsci pensava a una “Assemblea costituente” per il dopo-fascismo in Italia, ma questa tesi, troppo “democratica”, gli costò l’isolamento politico rispetto ai prigionieri comunisti di Turi e la condanna secca dal Centro del partito. La vicenda è ben conosciuta, e non mi soffermo di più su di essa. Il problema, peraltro, nel volume di Rossi è guardato nei suoi anfratti più riposti.


6. Ho detto che questa vicenda ci permette di risalire a un tema generale che costituisce forse il nucleo più convinto e analitico del volume di Rossi. È il tema del rapporto di Gramsci con la rivoluzione del 1917. Rossi dimostra, con una puntualità e un’ampiezza di riferimenti convincenti ed eleganti, la radicalità della critica di Gramsci non solo agli sviluppi dispotici della gestione staliniana del potere, ma alla stessa visione leninista della Rivoluzione, marcata da clamorosi errori di diagnosi sulla crisi, giudicata catastrofica, del capitalismo e da una veduta ristretta di quell’immenso campo di idee e di forze che era l’Occidente, con la conseguente prima delusione per la prognosi di Lenin: la mancata rivoluzione proletaria in Germania, nel 1919, vicenda centrale, che chiudeva il ciclo delle possibili rivoluzioni in Occidente. Gramsci sembra rivedere completamente le proprie posizioni, quelle maturate prima del 1926. La cosa è tanto più complessa e gravida di conseguenze, in quanto la sua critica si appunta non solo sugli elementi di dispotismo che vanno emergendo in Russia, quanto sulla sclerosi del marxismo che matura nelle stesse coordinate organizzate del primo Stato operaio. L’Unione sovietica della Rivoluzione viene vista all’origine di questa sclerosi, della assoluta cecità ermeneutica del marxismo che produce. Ma allora come questo drastico giudizio senza appello si rovescia sulla stessa data del 1917?
Non mi dilungo, come pur sarebbe utile, su tante notazioni preziose che letteralmente affollano il libro di Rossi, giacché intendo concentrarmi proprio su un’unica domanda, forse “eccessiva” nella sua sola formulazione: che cosa diventò, per Gramsci, il 1917? Del quale egli rigettava non solo Lenin, ma anche Trotckij, usando magari l’uno contro l’altro? E a maggior ragione l’avvio del potere dispotico di Stalin? che gli mostrava la fatalità dell’organizzazione di un potere dispotico, stante certe premesse? A questa domanda non è forse possibile dare una risposta netta. Mi avventuro lungo la via seguente, stimolato da tesi del libro: per Gramsci, il 1917 produce di certo una rottura epocale nei tempi storici, una discontinuità che non ha precedenti, ma tutta l’organizzazione politica che ne risulta gli appare destinata alla sconfitta (irrimediabile?) se a un tempo non si riesce ad aprire il fronte della Rivoluzione in Occidente. Ma come diventa possibile che si apra un simile processo storico se in Occidente bisogna avviare una lenta “guerra di posizione”, un lento smantellamento di casematte, una massiccia costruzione di blocchi storici e intellettuali che può durare un’epoca intera? Si può sanare questa discrasia di tempi storici? Il punto è dialettico: bisogna vedere come l’Occidente risponde al 1917. La questione diventa assai complessa, giacché la risposta dell’Occidente stimola proprio la teoria della guerra di posizione, ovvero una lotta politica dai tempi lunghi. E nel frattempo? Che avviene nel frattempo dell’Urss che si avvia verso un dispotismo tragicamente illiberale? E Gramsci ne è perfettamente consapevole.


7. Ora qual è la risposta dell’Occidente? Sembrano due le risposte: in Europa è il fascismo italiano, in America è “Americanismo e fordismo”. Non ci si sorprenda di questo accostamento che, naturalmente, non è affatto identificazione. Ma nelle profonde differenze e lontananze – l’uno destinato a essere vinto, come organizzazione dispotica dello Stato, e prodotto in parte dell’Europa parassitaria; l’altro destinato a essere futuro del mondo come fautore di una nuova modalità della libertà dei moderni – c’è un terreno costitutivo comune: ed è, mi pare, la messa in discussione della risposta liberista, ristretta; la percezione della irreversibilità della democrazia di massa che può richiamare istituzioni di natura opposta; l’alternativa fra una democrazia totalitaria e una democrazia dei consumi di massa anche se fortemente disciplinata nelle sue forme di vita.
Le risposte dell’Occidente sono risposte di modernizzazione, si presentano con una loro forza organizzata, tanto più viva, tanto più carica di futuro, quanto più (ecco in Gramsci la scelta dell’“americanismo”) capaci di organizzare una “democrazia di massa” embrione di una nuova civiltà. Ma fascismo e americanismo sono due grandi “rivoluzioni passive”, anche se diversamente consistenti nell’organizzazione delle loro “casematte”: l’Americanismo, fertilizzato da un complesso processo di conquista dell’egemonia a livello della società civile, il fascismo sterilizzato da una mera egemonia autoritaria di Stato. Sono due risposte forti al 1917, in un certo senso le più adeguate a sviluppi delle società moderne, giacché non si rinchiudono nel vecchio liberalismo ristretto. Appuntando l’attenzione sul fenomeno progressivo dell’americanismo, la rivoluzione comunista deve rovesciare anche quella rivoluzione passiva, estrarne il profondo senso liberatorio mettendone da parte l’aspetto disciplinare e coercitivo.
Ora, come si connette l’intuizione della lentezza e complessità di questo processo, da costruire in tutte le giunture della società, alla forma corazzata e chiusa dello Stato operaio? Non è possibile immaginare che Gramsci abbia intuito l’inevitabilità della sconfitta storica dell’Unione sovietica, al di là dei tempi dettati da imprevedibili congiunture politiche? E che perciò egli abbia proposto un campo di categorie ermeneutiche, lente e “costruttiviste”, destinate a “costruire” il campo pratico-teorico di una democrazia dopo il fascismo ma anche dopo l’Urss? E che, per conseguenza, abbia rotto con ogni finalismo storico? Sollevando così il suo pensiero a livello di una ricerca complessiva sulla democrazia dei moderni? Assai oltre “l’episodio”, il putsch del 1917? Soltanto un episodio dell’irrompere della democrazia di massa?


8. Forse in questo modo non faccio altro che allinearmi sulle conclusioni di Rossi, anche se trovo in esse aspetti contrastanti che mi stimolano a una riflessione. Se questa è la prospettiva nella quale guardare Gramsci, allora veramente bisogna evitare di metterlo in relazione a effetti, per dir così, troppo immediati, quasi che essi fossero principale “effetto” dei Quaderni, come ritrovo con eccessiva insistenza nel lavoro che sto discutendo. Mi sembra poco probabile, per giungere al punto centrale, incatenare la ricerca dei Quaderni agli effetti che Togliatti ne trasse creando il PCI e contribuendo alla modernizzazione italiana. Opera, naturalmente, del tutto degna di ricordo, ma legata irrevocabilmente, in Togliatti, al primato dell’Urss, come al primato dell’Urss è stata legata tutta la storia della sinistra comunista in Italia, al punto che, dopo il 1989, essa non ha più avuto nulla di sostanziale e autonomo da dire al proprio paese. Perciò, non mi è chiaro perché Rossi insista tanto su questa connessione. Oltretutto, spingere il pedale su questo elemento, crea una situazione scivolosa: il Pci, infatti, non esiste più, ha esaurito il suo ruolo in Italia e si è sciolto dopo la fine dell’Urss. Legare troppo il Pci all’opera di Gramsci (e reciprocamente) fa correre dei rischi al pensatore sardo che non è affatto necessario fargli sopportare. E anche questo significa liberarlo da un rapporto troppo stretto con la congiuntura senza perdere di vista il carattere politico della sua ricerca, che è il vero punto di equilibrio da raggiungere. E nel libro di Rossi ci sono tutte le premesse per percorrere questa via, come cercherò conclusivamente di mostrare, non senza sollevare qualche altro interrogativo.


9. Immane, infatti, è il campo di categorie “costruttive” di realtà che Gramsci mette in campo nei Quaderni, e il volume di Rossi le pone in luce tutte, lavorando sull’esplicito e sull’implicito, sul detto e sulle metafore (tutte acutamente sciolte, forse, nel loro insieme, per la prima volta), sulla filosofia della prassi e sulle strutture politiche in cui essa si organizza, e non sto qui a descrivere analiticamente i “nomi” che Gramsci dà a questa concentrazione di prassi-pensiero già velocemente annotati: egemonia, traducibilità dei linguaggi, significato del linguaggio (problema Wittgenstein), cosmopolitismo, nuovi nessi società civile-società politica, Moderno Principe, Marx-Machiavelli, Benedetto Croce, storia del Risorgimento, Moderno, Occidente, Americanismo e fordismo, guerra di posizione, struttura-sovrastruttura, casematte, storia degli intellettuali, riforma intellettuale e morale, liberismo e libertà organica, e si potrebbe continuare: ciò solo per mostrare il gigantesco campo problematico che i Quaderni individuano ed elaborano, rendendo del tutto specifica la critica all’Urss aspramente presente in molte pagine. Il volume di Rossi abbonda di ricerche analitiche su questi concetti. Ma che cosa li lega tutti fra loro? In Rossi la tesi è chiara, e particolarmente condivisibile: è il problema della democrazia moderna l’assillo di Gramsci. Tutte quelle categorie ora nominate tendono a convergere in esso. Gramsci si pone per compito di “pensare la democrazia”, come Marcello Montanari intitolò una bella antologia gramsciana per Einaudi.
Anche qui vorrei porre, però, qualche accento diverso da quelli che mi pare prevalgano nel libro. Non credo che il problema sia quello di riuscire a catalogare la posizione di Gramsci sulla democrazia nell’ordine delle democrazie costituzionali e pluraliste della tradizione liberale europea, e Rossi in certe pagine sembra farlo, in altre meno, lasciando qualche incertezza al lettore. Non escludo, lavorando in questo orizzonte critico, che sia forse valutata più di quanto sia giusto fare, la scelta gramsciana per la “costituente” in vista di una fuoriuscita democratica dal fascismo. Non sottovaluto il significato politico della scelta, che non a caso creò scandalo fra gli altri prigonieri comunisti e al Centro del partito. Mi domando, però, se la democrazia pluralista destinata a nascere da quell’Assemblea Costituente fosse, per Gramsci, l’esito ultimo da raggiungere, in una società aperta alla concorrenza politica; o se piuttosto non fosse vista come una fase di emergenza dalla quale poi muovere verso lidi più organici e strutturati. Mi fa pensare che sia quest’ultima la via da seguire, la grandiosa, “analitica democratica” che occupa le pagine gramsciane. E voglio dire (e affollo insieme molte cose): il tema dell’egemonia e del blocco storico, i tratti strutturati e organizzati e direi pedagogici del consenso, i caratteri del”Moderno Principe” (e dell’intellettuale organico) che non sembra avere i caratteri di un partito della tradizione liberal-costituzionale, la stessa problematicità del costituzionalismo e del ruolo della legge, su cui ho provato a mettere l’accento problematico in un libro su Le origini della democrazia di massa. Tutti temi sui quali ci si dovrebbe fermare, ma che nel loro insieme disegnano i tratti di una democrazia troppo organica e organizzata per rispondere ai caratteri dei sistemi occidentali prevalenti. Sarebbe stato, forse, un enorme spreco di energia analitica se tutto questo sistema di cose dovesse poi risolversi in un più meno accettato formalismo democratico.
La posizione di Rossi appare un po’ su un crinale: l’intenzione prevalente sembra quella di allineare Gramsci nell’alveo di una democrazia “normale”, ma l’analisi effettiva che svolge non sembra condurre pacificamente in questa direzione, tanto che egli stesso si sorprende a dire: «mentre si mette decisamente l’accento sulla pluralità dei partiti, come inerente all’organizzazione politica di una società moderna, nello stesso tempo si definisce un paradigma etico-politico che pare riferirsi al solo partito comunista». E, in aggiunta, l’autore critica, rappresentando tesi gramsciane, la “democrazia formalistica” e parla di”comunismo democratico”, come vera prospettiva gramsciana, e qui ci sarebbe bisogno di molti schiarimenti. Ed esclude con piglio polemico (e certo fondato) ogni tentativo operato verso la trasformazione di Gramsci in un socialdemocratico. No, Gramsci resta comunista, non è né social- né liberal-democratico, non rinuncia alla sua scelta di vita, come più d’uno oggi tende a pensare e addirittura a documentare. Ma quali conseguenze ha questa fondata scelta ermeneutica sulla fisionomia della democrazia gramsciana? Forse questo tema non è chiarito fino in fondo e subisce le tensioni che gli sono insite.


10. Il nodo è in verità assai complesso e non si può sciogliere con poche proposizioni e qualche formuletta più o meno rassicurante. Ma, dovendomi avviare verso la conclusione, non voglio limitarmi ad annotare questa tensione interna al discorso di Rossi. Il punto vero è che la tensione sta nello stesso discorso di Gramsci. Il quale, messi in discussione radicale gli esiti politico-statali del 1917, non intende affatto tornare sul terreno di una democrazia legata morfologicamente a un “liberalismo ristretto” e questo ben s’intende, anche se è scelta che mette in discussione categorie fondamentali della politica in Occidente. E, spinto dalle sue scelte di orizzonte, non si concede nemmeno a una democrazia da New Deal storicamente lontana da ogni tensione”totalizzante”. Gramsci sta oltre pure questa forma della modernizzazione. Se il punto analitico più avanzato che egli raggiunse è “Americanismo e fordismo”, inteso come forma più larga della democrazia di massa (ma dentro un vecchio sistema egemonico) poi questa “rivoluzione passiva” andava anch’essa rovesciata, con intensa “guerra di posizione”, in un essenziale disinteresse per le dinamiche istituzionali; con una aspra opera di scavo nelle casematte della società civile, di una società europea ben lontana dal raggiungere il livello “americano”, e dove la modernizzazione aveva preso una sua forma consistente nel fascismo, ma che poteva mettere in campo le potenze etico-politiche di una cultura profonda, europea appunto, non americana.
La democrazia di Gramsci è “massiccia,” si attende un’era di “libertà organica”, crea e utilizza “intellettuali organici”, costruisce passo dopo passo quella sintesi di forza e consenso che solo il quotidiano lavoro martellante di una pedagogia politica può proporsi di realizzare. Questi sono tratti decisivi della democrazia di Gramsci. Non li voglio incasellare in una morfologia che abbia un nome consueto, acquisito, ma forse essi costituiscono il risultato essenziale della sua interpretazione del Novecento, come secolo del marxismo e della filosofia della prassi, secolo che comprende anche il “1917” e l’ultrademocrazia, il movimento operaio di massa, l’economia programmatica, l’uomo-collettivo. Ora il problema che sta davanti a una ermeneutica gramsciana non è più quello di discutere se quella di Gramsci sia democrazia liberale o no, giacché anche i tratti classici delle democrazie liberali si vanno disperdendo nel magma globale di oggi, quanto su come sia possibile il coinvolgimento delle sue categorie ermeneutiche, dopo la fine di “Americanismo e fordismo”, la crisi storico-politica delle democrazie massicce e organiche, la dissoluzione atomistica delle società democratiche, la fine dei partiti di massa, la dissoluzione dei blocchi storici di classe, l’esasperato individualismo della nuova comunicazione. Non proclamo affatto frettolosamente l’obsolescenza delle categorie utilizzate da Gramsci: in un’epoca di crisi e di transizione molti “patrimoni” ideali muoiono e rivivono, ma quello che dichiaro inaccettabile, l’ho già detto, è la rappresentazione rassicurante (per chi?) di una talpa che continua scavare nel profondo e che prima o dopo darà notizia di sé, mentre nel frattempo l’umanità, nulla sapendo di tutto questo, continuerà a costruire giorno dopo giorno la propria storia drammatica e sempre sanguinante.
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