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Beni culturali e sviluppo 1
di Giuseppe Galasso
Beni culturali e sviluppo. Una relazione che sembra evidente e semplice. Di fatto non è così. Io comunque sconto qui di dover dire cose che potranno apparire come un sospiroso e generico cahier de doléance, o che potranno risultare addirittura banali. Ma è un rischio che corro volentieri sia perché si tratta di cose che, ripetute tante volte, non si vedono mai ascoltate a sufficienza, sia perché il mancato ascolto ci ha portato a una dimensione poco incoraggiante di questi problemi in Italia.
C’è, intanto, qualcosa che si dimentica sempre. I beni culturali sono certamente beni economici, tanto è vero che ce n’è un mercato. Sono, però, beni economici di una natura particolare. Non sono, infatti, soggetti, come tutto quanto vi è e si fa in economia, al principio del profitto. Sono un matrimonio che vale così com’è, squilibrato; un rapporto che impone le stesse spese di conservazione e di manutenzione sia che se ne abbia un profitto sia che no. Anche la potenziale utilizzazione a scopi di profitto ha dei limiti maggiori di quanto si pensa, a cominciare dall’intrasferibilità, per l’uno o per l’altro motivo, di un grande numero dei beni in questione.
Una prudenza non minore va osservata quando si parla del settore dei beni culturali come un’ampia fonte di occupazione. Non si riflette, infatti, che questa possibilità di occupazione non solo è condizionata dalle concrete possibilità di equilibrio finanziario del settore, ma richiede anche qualificazioni che non permettono la pratica della destinazione al settore dei disoccupati di altri settori, a cui bisogna, giustamente, assicurare un’occupazione. Qualificazioni che vanno dalla preparazione culturale a certe abilità manuali del tutto specifiche del settore.
Da qualsiasi punto di vista si consideri la questione torna sempre attuale la considerazione annosa che lo Stato riserva al competente Ministero una quota troppo esigua del suo bilancio. È vero che qualche altra cosa si spreme da Regioni ed enti locali o da qualche altro Ministero. Siamo però sempre lontani da quanto ci si aspetterebbe in questa materia, e lo dice, oltretutto, il confronto con gli altri maggiori paesi europei.
Ciò significa in pratica che il tanto decantato rapporto tra beni culturali e sviluppo esige alcune condizioni ineludibili. La prima è che quel rapporto esige una politica di investimenti adeguata, nella portata e nelle destinazioni, alla natura del settore e agli obiettivi che si vogliono conseguire. Come in ogni altra iniziativa economica, lesinare nell’investimento significa precludersi un ampio successo delle iniziative che si tentano. La seconda condizione è nelle implicazioni del problema di una valorizzazione dei beni culturali nei settori dell’istruzione e della formazione.
Non entro nei particolari che queste due condizioni impongono di considerare. Mi limito a osservare che ne discutiamo da anni senza giungere a risultati soddisfacenti. Aggiungo solo che i recenti orientamenti in materia di pubblica amministrazione fanno molto temere che la struttura pubblica preposta al settore si possa trovare, in un futuro che è già mezzo presente, in condizioni di grave o gravissima insufficienza per l’espletamento dei suoi compiti. Mentre va in quiescenza un’altissima percentuale del personale che finora ne ha retto il peso, il ricambio generazionale necessario ad assicurare almeno il mantenimento del livello di servizio prestato finora non pare davvero in vista. Spero di essere del tutto disinformato, e che mi si possa immediatamente correggere, ma mi chiedo, e sento che molti si chiedono, che sarà delle nostre sovrintendenze, musei, archivi, biblioteche, gallerie e quant’altro il giorno non lontano in cui sarà del tutto andato in congedo il personale assunto nella grande maggioranza venti e trent’anni fa. L’allarme più volte lanciato a questo riguardo nella stampa nazionale non appare debitamente raccolto, né si ha notizia (e spero che mi si smentisca anche su di ciò) di provvedimenti al riguardo, come concorsi, corsi di formazione o altro tipo di iniziative. La percezione di ciò è passata addirittura al livello di percezione scontata della pubblica opinione. Si pensi a ciò che si dice e si sa sulla capacità di attrazione sempre minore esercitata dai corsi di laurea in conservazione restauro o economia dei beni culturali, che manifestarono un così imponente slancio al loro primo sviluppo una trentina di anni fa, quando si parlava dei beni culturali italiani come del “petrolio” del nostro paese e come una riserva illimitata di potenziale occupazione. Oggi di petrolio in questo senso non si parla più, e la credibilità dell’occupazione nel settore è decresciuta fino a “spompare”, come suol dirsi, i corsi universitari ritenuti più ad hoc.
Quanto poi a una considerazione più generale del problema, si ricordi sempre che i beni culturali vivono in un fitto contesto sociale. Ciò che sta fuori dei luoghi e dei servizi deputati è addirittura più importante ai fini della valorizzazione del patrimonio storico-culturale. Ci si riferisce, naturalmente, a trasporti, sicurezza, attrezzature alberghiere e costi di vitto e alloggio, decoro urbano, altre attrattive culturali e non culturali etc. L’Italia ha solide tradizioni in questo campo, ma ha anche, specialmente in alcune zone e in alcune città, insufficienze e carenze proibitive. Qui sono soprattutto i poteri e le amministrazioni locali a dover farsi valere, ma non sono soltanto quelli locali.
Esiste poi una strategia generale della valorizzazione dei nostri beni culturali per renderli tali da costituire, ben più di quanto oggi non siano, un elemento e una voce importante in un discorso di sviluppo dell’Italia e, specialmente, di alcune sue parti? Adesso ho sentito con molto piacere che il ministro Franceschini pensa a una riforma dell’ENIT, ossia dell’Ente Nazionale del Turismo, tale da assicurare un più aggiornato ed efficiente svolgimento dei suoi compiti. I problemi del turismo hanno molto a che fare, come si sa, con quelli dei beni culturali considerati come risorsa del paese. Pare quasi impossibile che nell’epoca delle crociere e del turismo di massa la parte dei possibili pacchetti turistico-culturali nelle borse e nel mercato turistico sia, per quanto mi risulta, così esigua. Si può fare qualcosa di più? È di oltre trent’anni fa l’idea, per il Mezzogiorno, di “itinerari turistico-culturali”, ma fu un’idea vissuta, male, meno che per lo spazio di un mattino. Per i beni paesistici ci sono istituti come il FAI che svolgono un’opera, come tutti sanno, meritoria. Si può avere qualcosa di simile per i beni culturali? Certo, vi sono iniziative benemerite, come quella di Napoli 99 di coinvolgere scuole e cittadini nell’attenzione ai beni culturali e nella loro cura, che forse indicano una strada suscettibile di molto più frequenti e frequentati percorsi. Ripeto, però, che una strategia generale di valorizzazione dei beni culturali non mi sembra ancor delinearsi. C’è n’è stato, ad esempio, un certo disegno per l’occasione della prossima esposizione universale a Milano?
Anche in questo caso sarei lietissimo di essere immediatamente sbugiardato. A me pare che in materia di beni culturali si abbia una vicenda ossessivamente ripetitiva come quella dello sviluppo turistico calabrese intorno al 1960. Turismo di élite o turismo di massa? Costa Azzurra o Miami? Poi le stupende spiagge calabresi sono finite come sono finite.
Se poi si osserva che i mezzi e le risorse dello Stato sono quelli che sono e che non si possono fare miracoli, si dice cosa giustissima. Al riguardo è, però, in corso da decenni la discussione sul rapporto tra pubblico e privato, e non se ne è cavato, neppure in essa, un gran che, neppure solo sul piano fiscale. Ci sono novità da attendersi da questo punto di vista?
Questo interrogativo diventa in Italia particolarmente frastornante perché, da un lato, c’è una spinta comprensibile, ma preclusiva, a considerare inalterabile lo statuto tradizionale dei beni culturali; dall’altro lato, c’è l’intollerabile presunzione di chi ritiene che associare, sotto certe condizioni, i privati alla gestione di alcuni beni culturali voglia dire una licenza di uccidere nei confronti del patrimonio pubblico. Naturalmente, il carattere pubblico del patrimonio deve restare assolutamente al di fuori di ogni più lontana possibilità di equivoco. Il che non significa che non dobbiamo molto riflettere su questa materia e cercare di venirne fuori in modo tale da mobilitare il massimo di risorse possibile nella conservazione e gestione dei beni culturali. E già da quanto diciamo e da come lo diciamo si può capire, crediamo, tutta la enorme complessità e difficoltà del problema.
Si aggiunga che c’è in Italia una significativa contrapposizione tra la prassi dei vincoli di tutela per il paesaggio, e quella per i beni culturali. Per il paesaggio l’insofferenza del vincolo è pressoché universale. Per i beni culturali la domanda di vincolo è invece una costante. L’opposta logica di questi atteggiamenti è ben chiara. Per il paesaggio quel che si chiede è la più anarchica libertà di fare pressappoco il comodo proprio. Per i beni culturali si ritiene che il vincolo risolva ipso facto tutti i problemi di valorizzazione e di gestione dei beni in questione. Naturalmente, non è così. Il vincolo non può e non deve significare che poi tutta la parte hard della questione se la vede lo Stato e tutto il soft ce lo gestiamo noi, come enti locali, enti autonomi, o magari Onlus e altre associazioni o istituti. Né si deve credere che ottenere il riconoscimento UNESCO di bene patrimoniale dell’umanità significhi ugualmente un’automatica soluzione dei problemi dei beni di cui si tratta. Pompei docet, si può ben dire a questo riguardo (a parte il fatto che il riconoscimento dell’UNESCO per Pompei si sia avuto solo di recente, quasi si trattasse di un riconoscimento di una certa difficoltà a effettuarsi). Insomma, se si chiede una larga e attiva mobilitazione dello Stato, bisogna accompagnarla con un’altrettanto larga mobilitazione della società, sia come cittadinanza, sia come aziende, sia come organi periferici dello stesso Stato.
Un’ultima questione. Negli ultimi tempi si è di molto attenuata la contrapposizione, così fiera in un passato ancora recente, tra effimero culturale e strutture del culturale. Come in molte contrapposizioni radicali e frontali, si può trovare del buono nell’uno e nell’altro campo. L’effimero non può, comunque, divorare risorse e occasioni senza una sua complessiva logica da armonizzare in determinati quadri settoriali e territoriali. Lo strutturale non può tradursi in uno statico e paralizzante rinchiudersi nella conservazione dei beni. Riusciremo a trovare in Italia un soddisfacente equilibrio tra effimero e struttura? Si può sperare, da parte dei competenti organi, un’attiva azione al riguardo, che sia rigorosa nella giusta misura, ma non tagli le ali alla spontaneità legittima e creativa che è dietro una gran parte dell’interesse diffuso ai beni culturali?
Insomma, da qualsiasi parte si affronti il problema dei nostri beni culturali, il da fare appare sempre molto di più del già fatto (e si spiega che io abbia intitolato un mio libro in materia Beni e mali culturali: quei beni diventano mali quando sono ridotti a condizioni che poi impongono sforzi inauditi innanzitutto per riportarli a un buon equilibrio).
Questa dovrebbe essere, però, più una sollecitazione a fare dell’altro e del nuovo che un motivo di scoraggiante e rinunciataria constatazione, come, purtroppo, molto spesso accade. E se parrà a qualcuno che il cahier de doléance che ho qui riassunto sia ingeneroso, parziale e non costruttivo, ebbene mi si faccia venia dell’eccesso, che non è dettato da ignoranza di quel che di buono e di costruttivo l’amministrazione dei beni culturali e questo o quel ministro fanno, e tanto meno da una riprovevole predilezione per la facilità della denuncia sempre e comunque o da una volontà negativa e negatrice, e meno che mai da un più o meno insano amore della deprecatio temporum et morum o da una patetica illusione che in questo come in ogni settore della vita sociale si possa attingere la completezza e la perfezione che renderebbero ingiustificate le perplessità o le problematicità. È dettato, invece, dalla dolorosa esperienza di quanto poco anche i più meritorii, costruttivi e duraturi sforzi e relative realizzazioni che si possono registrare nel settore valgano a cambiare l’asse generale dell’equilibrio del settore, che resta a tutt’oggi in Italia fin troppo spostato verso il polo dell’insufficienza e della permanente problematicità che verso il polo della sufficienza (non diciamo dell’ottimo!) e della positività. Nella quale condizione la denuncia non è e non vuole essere pura e semplice critica in assoluto negativa. Vuol essere, a suo modo, un richiamo alla realtà delle cose e una spinta, sia pur minima, a invertire il corso attuale della corrente.









NOTE
1 Si dà qui – rivisto e con qualche ampliamento – il testo della relazione dell’autore al convegno per il trentennale della Fondazione Napoli 99, tenutosi al Teatro di Corte in Napoli l’11 ottobre 2014.^
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