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La proprietà collettiva a tutela dell'ambiente1
di Giovanni Cofrancesco
1. L’ager publicus non come proprietà collettiva spettante alla generalità dei consociati ma ai singoli cives. Il dominium ex iure Quiritium quale piccola sovranità individuale e sua trasformazione in proprietas.

Una franca esposizione delle critiche che non hanno, sia chiaro, alcuna pretesa di verità non vogliono sminuire l’importante saggio di Paolo Maddalena ma ampliare gli oggetti di un dibattito cruciale per la tutela dell’ambiente che di tutto ha bisogno tranne che di fondamentalismi e di interpretazioni ideologiche, legittime per carità, ma assai discutibili. L’Autore (d’ora in poi A.) identifica nel diritto romano i concetti di sovranità territoriale e proprietà, considerata a sua volta come proprietà collettiva, facente capo alla generalità dei consociati. È vero che nell’ambito delle comunità politiche (di tutti i tipi: dalle poleis greche agli Stati moderni) sorte a partire dallo sviluppo della civiltà agraria un determinato territorio ha sempre rappresentato l’oggetto e l’ambito entro cui si esercita il potere politico, ma questo potere relativo al territorio non è mai stato considerato come qualcosa di identico e di comparabile al diritto dei singoli membri della comunità politica su singole porzioni del territorio, in modo da poter sostenere una prevalenza storica e ontologica della proprietà collettiva (o meglio pubblica) su quella privata. Invece il rapporto tra sovranità e proprietà privata è stato quanto mai vario nella storia, dal momento che costituisce un aspetto (non secondario peraltro) del rapporto tra potere pubblico e diritti individuali. Ad ordinamenti che hanno considerato la proprietà privata come una realtà intangibile, se non in casi eccezionali, da parte del potere sovrano in quanto inerente la persona (poiché frutto del suo lavoro), se ne sono contrapposti altri che invece hanno considerato i diritti di proprietà dei singoli come creazioni del potere pubblico sia pure in base a regole definite, ed altri che hanno ritenuto essere il potere pubblico legittimato a disporre in maniera più o meno arbitraria delle proprietà individuali, non considerate come diritti, ma solo come realtà da armonizzare in vista del bene generale.
Il diritto romano più antico, che regolava la vita di una comunità dedita alla pastorizia e all’agricoltura intensiva su piccoli appezzamenti, da un lato considerava i terreni a pascolo (ager publicus) rientranti nel territorio romano come oggetto del diritto di uso da parte di tutti i cittadini, e quindi, se vogliamo parlare di proprietà collettiva, come una proprietà spettante non alla generalità dei cittadini globalmente intesa, ma a tutti i cittadini, e a ciascuno di essi considerati come singoli. Per quanto riguarda invece gli appezzamenti coltivati, essi non solo (e dall’epoca più antica) erano considerati oggetto di proprietà privata, ma tale tipo di proprietà (dominium ex iure Quiritium) era molto più ampio ed assoluto di quello moderno, in quanto non solo il proprietario non era soggetto a tributi, ma aveva addirittura la facoltà di impedire a chiunque (compresa quella che oggi chiameremmo la “forza pubblica”, cioè l’esercito romano) di accedere al fondo senza il suo consenso. La proprietà privata romana più antica quindi lungi dall’essere una derivazione di una proprietà-sovranità collettiva era per molti versi simile ad una sorta di piccola sovranità individuale che ogni paterfamilias aveva sui suoi fondi, e lo stesso usus dei pascoli comuni aveva un carattere individualistico, dato che non esisteva (concettualmente prima ancora che giuridicamente) un diritto spettante alla generalità che si contrapponesse ai diritti dei singoli di utilizzarli. Esistevano ovviamente alcuni beni di proprietà generale del populus romanus (le strade, i templi, gli acquedotti) che venivano gestiti dai magistrati competenti (soprattutto gli edili in epoca classica).
Un diverso tipo di proprietà si afferma nei territori delle province conquistate per estendersi in epoca classica anche ai fondi romani e italici in genere. La conquista militare di una provincia, portava all’affermazione della sovranità romana sul territorio conquistato, che diventava quindi una “proprietas” (ma nel senso generico di cosa propria, non in quello di oggetto del dominium) del populus romanus ed era gestito dal proconsole incaricato di governare la provincia. Tanto poco questo territorio era considerato una proprietà collettiva o generale che era sempre riservato ai privati (i proprietari precedenti la conquista, i soldati del console vittorioso, i clientes del proconsole in carica), anche se a differenza del dominium ex iure Quiritium, in questo caso il loro diritto anch’esso definito proprietas (cioè cosa propria del titolare del bene) era assoggettato al tributo, non comportava il potere di impedire l’accesso ai soldati romani o la possibile acquisizione da parte pubblica sia per un suo utilizzo a fini generali sia per la sua assegnazione ad altro soggetto privato (in genere soldato o cliente del detentore del potere pubblico), cosa che avvenne spesso durante le guerre civili del I sec. a.C. In epoca imperiale i due tipi di proprietà privata si unificarono nella figura “classica” della proprietà romanistica che è quindi individuale e non derivata da quella collettiva o generale, dato che al proprietario era riconosciuto il potere di utilizzare il fondo e di disporne a piacimento, sia pure con i limiti, anche essi “classici” della tassazione, dell’accesso delle forze armate e del possibile “esproprio” a fini pubblici da parte dei magistrati e poi dei funzionari imperiali.



2. Il dominio eminente espressione di sovranità territoriale e il dominio utile nel medioevo regolati dal contratto feudale di origine germanica.

Il concetto di sovranità territoriale era invece sconosciuto ai popoli germanici, nomadi, per i quali la sovranità consisteva in un accordo interpersonale, una sorta di antenato del contratto sociale teorizzato dai moderni (ben prima di Hobbes). La ripartizione del territorio che avviene quando i popoli germanici si sedentarizzano nell’ex impero romano prende forma nell’ottica di questa concezione contrattuale del rapporto tra governante e governati, nel senso che invece di aversi una netta separazione tra potere del proprietario e potere del sovrano sul territorio come nel diritto romano, i due poteri sono collegati tra loro dall’accordo tra il primo e il secondo, accordo che stabilisce diritti ed obblighi reciproci, nel senso (al di là ovviamente delle situazioni storiche e geografiche) che al proprietario spetta la gestione diretta individuale del territorio, e al sovrano tutto quanto concerne l’utilità generale (la difesa militare, i diritti di passaggio, le prestazioni di tipo tributario ecc.). Il potere del sovrano era chiamato dominio eminente, quello del proprietario dominio utile, ed il discorso valeva sia nei casi in cui il dominio utile spettasse ad un singolo, sia in quelle in cui titolare fosse una collettività (per l’uso di un pascolo, per la raccolta di legna ecc.). Il diritto del proprietario medievale (dominio utile), a differenza di quello del proprietario romano non è dunque un diritto assoluto, ma un diritto che si vanta nei confronti del sovrano (o del signore feudale) ad essere garantito nella propria gestione del bene, e non è nemmeno un diritto esclusivo nel senso che alcune facoltà di utilizzo rientrano nel dominio eminente, altre nel dominio utile, ma non per questo è meno individualista (anzi per molti versi lo è ancora di più) di quello romano nel senso che le facoltà spettanti al proprietario non possono essere in alcun modo intaccate, nemmeno per motivi di interesse generale dal sovrano il quale è vincolato da un contratto (feudale) con il proprietario che regola i reciproci limiti del dominio eminente e del dominio utile, non consentendo ad esempio l’acquisizione coattiva del bene per fini pubblici o la sua assegnazione ad altri per decisione autoritativa. Che il mondo medievale abbia conosciuto molti abusi in tal senso non altera il quadro giuridico, che ci fa dire che, come nell’epoca romana, anche in quella medievale non esisteva un concetto di proprietà collettiva o generale che costituisse l’origine e il fondamento della proprietà privata individuale, tale da consentire non solo la limitazione, ma anche (per usare un termine moderno) la “conformazione” e persino la sua stessa esistenza in quanto costituisca uno strumento per conseguire dei fini ritenuti di utilità generale. La standardizzazione dei poteri del sovrano e la loro definizione con riferimento non più a situazioni specifiche ma a funzioni generali determina nel basso medioevo un recupero della dimensione pubblicistica della sovranità romanistica che si fonde così con il contrattualismo di origine germanica e dà luogo al compiuto sistema basso medievale del rapporto tra titolare del potere pubblico e territorio che vede il sovrano (e per quanto di competenza i signori feudali o le aristocrazie repubblicane) investito in generale da un lato di poteri autoritativi, quali il diritto di imposizione fiscale, di servitù pubblicistiche, di ottenere determinate prestazioni lavorative, di impedire determinate utilizzazioni ecc. (dominio eminente), e dall’altro lo vede titolare di diritti analoghi a quelli dei privati in relazione a determinati fondi, ad esempio le strade, i fiumi ecc. (casi nei quali al dominio eminente si unisce il dominio utile). Resta fermo che il dominio eminente (con i poteri di supremazia in esso compresi) rimane nettamente distinto dal dominio utile, così come rimangono distinti i casi nei quali può venire esercitato, di modo che non si ha una “elasticità” del rapporto tra il primo e il secondo tale da consentire al potere pubblico di ampliare o ridurre, per fini di utilità generale, l’estensione del diritto di proprietà privata dei singoli.



3. Segue: evoluzione nei sistemi a common law e a diritto amministrativo. La rivoluzione agraria: il reddito non viene consumato ma utilizzato per migliorare il territorio. Rivoluzione industriale e globalizzazione. L’articolo 42 della Costituzione italiana quale norma vaga suscettibile di essere riempita con i più diversi contenuti.

Se quindi il ruolo fondamentale dell’individuo nella gestione del territorio, tramite l’istituto della proprietà privata (pur con tutte le varianti giuridiche che si sono presentate nella storia) rappresenta una costante, [malgrado la diversa opinione di Maddalena che contesta i risultati di autorevoli studiosi del diritto romano (per tutti il Bonfante)], della civiltà occidentale, che costituisce un aspetto della valorizzazione dell’individuo propria della cultura cristiana romano–germanica, nell’epoca moderna si afferma un nuovo elemento, che si ritrova tanto nel campo scientifico che in quello economico, ovvero la trasformazione cosciente e programmata della natura e quindi del territorio. Il tema ci introduce ai problemi ambientali atteso che questo intervento in campo economico è stato visto innanzi tutto come un miglioramento della natura, sia dal punto di vista produttivo sia della vivibilità, e sicuramente l’habitat umano dei Paesi occidentali è decisamente migliore oggi di tre o quatto secoli fa. Questa esigenza di migliorare il territorio porta inizialmente in Inghilterra poi nel continente europeo, ad una riduzione dei diritti che potevano spettare a soggetti diversi (alcuni a titolo pubblico ed altri a titolo privatistico) sui fondi e ad un rinascita del concetto di “esclusività” del diritto di proprietà analogo (eccettuati gli aspetti legati alla non tassabilità e ai rapporti con la forza pubblica) all’antico dominium ex iure Quiritium. In Inghilterra ciò avviene nel passaggio tra 1600 e 1700 e prende la forma della recinzione (enclosure) dei campi. È la cosiddetta “rivoluzione agraria” che porta i singoli proprietari ad essere i responsabili del miglioramento del territorio, e si ricollega al concetto di reinvestimento: parte del reddito non viene consumato ma utilizzato per migliorare il territorio, concetto in sé tutt’altro che “egoistico”. Dalla pratica di reinvestire parte del reddito derivano il miglioramento di produttività dei fondi e il conseguente aumento di reddito dando avvio alla rivoluzione industriale, svolta fondamentale nel rapporto (e quindi nella definizione giuridica) del territorio con la sovranità e con la proprietà privata, e per conseguenza delle relazioni tra queste ultime due. La globalizzazione che coincide con la diffusione a livello planetario della rivoluzione industriale, resa possibile dalle tecnologie avanzate create dall’Occidente conferma i principi e gli istituti giuridici e sociali nati nel 1700. Il distacco quasi fisiologico della produzione industriale dalla terra (non più legata alla quantità di terra posseduta né alla conformazione del territorio ecc.) fece dire a Carl Schmitt, il cui pensiero è a nostro avviso frainteso da Maddalena, che la rivoluzione industriale è figlia di un nomos di tipo marittimo (quale era quello inglese) e non terrestre, secondo il quale l’ambiente fisico è solo una sorta di punto d’appoggio o una superficie di galleggiamento strumentale per la realizzazione delle proprie attività: da questo nuovo rapporto con l’ambiente nascono i problemi esagerati ma reali in materia.
La concezione moderna della proprietà riprende il carattere “esclusivo” (nel senso romanistico del termine) della gestione del bene immobile, il che non rappresenta, né l’affermazione di un potere individualistico prima sconosciuto sui beni né la soppressione delle precedenti libertà collettive, ma piuttosto una concentrazione dei diritti e dei poteri sui beni in capo agli individui responsabili della loro gestione e del loro miglioramento produttivo tramite le attività di reinvestimento del valore della produzione, a scapito di altri individui (i signori feudali, i titolari di diritti collettivi di pascolo o di raccolta dei prodotti da altri coltivati ecc.) che a quella gestione non avevano alcun interesse a partecipare in senso migliorativo. Nell’epoca della rivoluzione industriale si afferma un tipo di proprietà privata che è in piena continuità con la tradizione precedente, anche se presenta alcune caratteristiche nuove (che sono poi riprese di alcuni istituti antichi) al fine di adattarsi alle nuove esigenze della società moderna. Tutto questo ha portato all’enorme sviluppo sociale e culturale, prima ancora che economico della civiltà occidentale, legando i diritti individuali alla responsabilità della loro gestione, e se è legittimo criticare l’istituto della proprietà individuale, non è corretto farlo senza riconoscere questi risultati e senza immaginare quale sarebbe ora il mondo occidentale senza la sua tradizione giuridica che ha fatto della proprietà privata, dal diritto romano, attraverso quello medievale e sino all’epoca moderna e contemporanea una delle sue colonne portanti. Peraltro il rapporto, e il conflitto, tra potere sovrano sul territorio e diritto del proprietario sul proprio immobile che di quel territorio fa parte assume due impostazioni, che corrispondono del resto alla bipartizione moderna degli ordinamenti occidentali in sistemi anglosassoni (o di common law) e sistemi europeo-continentali (o a diritto amministrativo). Nei primi il potere sovrano mantiene le caratteristiche medievali (significativamente nel diritto angloamericano si è conservata l’espressione eminent domain) e si pone come un fascio di poteri che tagliano per così dire orizzontalmente il diritto del proprietario, sacrificandone a fini pubblici questa o quella facoltà (dalle distanze in edilizia, all’obbligo di mantenere inalterato l’aspetto di un edificio o lo stato di un luogo), senza mai mettere in discussione il diritto del proprietario di usufruire del bene oggetto del suo diritto in tutte le sue potenzialità, giungendo in caso di esproprio a prendere in considerazione non solo il valore venale effettivo, ma anche quello affettivo del bene (v.il caso Kelo vs. New London del 2005 deciso dalla Corte Suprema degli USA). Questo esercizio dei poteri pubblici viene visto come una realtà giuridica molto più affine ad un modo particolare di esercitare la sovranità che ad un forma speciale di proprietà. Nei sistemi europeo continentali, dove si ha una rottura più radicale con la concezione medievale del rapporto tra sovranità territoriale e proprietà immobiliare, l’esercizio da parte pubblica di poteri su determinati immobili (che vanno dall’esproprio, alla disciplina urbanistica, alla tutela di un bene di interesse culturale ecc.) sono invece visti come una ingerenza per così dire “verticale” o se vogliamo “dall’alto” di usufruire e di trasferire il bene, che vanno a comprimere, per fini di interesse generale, il diritto del proprietario. Naturalmente questi casi, che nell’Ottocento erano molto ristretti e che si sono poi espansi con l’aumento delle finalità pubbliche “sociali” nel Novecento, devono essere per principio definiti dalla legge, sia per quanto riguarda le ipotesi che legittimano l’intervento pubblico sia per ciò che concerne le limitazioni (divieti e/o obblighi) che possono essere imposte d’autorità al proprietario; e in linea di principio (cosa che non accade particolarmente in Italia) dovrebbero prevedere un risarcimento al proprietario pari alla perdita economica subita per l’esercizio del potere. Rimane comunque caratteristica tipica della concezione moderna europeo continentale, il considerare dal punto di vista giuridico l’esercizio del potere pubblico su determinati beni immobili come un’avocazione (più o meno ampia) all’autorità competente a perseguire l’interesse generale in forza di un diritto di ordine “superiore” a disporre dei beni. Se quindi torniamo al concetto della sovranità pubblica sul territorio intesa come una sorta di “superproprietà”, che nel libro è considerata quasi una caratteristica “naturale” e indiscutibile della sovranità che fin dalle origini della storia caratterizza le civiltà europee, possiamo osservare che rappresenta invece un prodotto culturale della Rivoluzione francese.
Questa concezione del potere pubblico come legittimato ad ingerirsi e comprimere il potere di gestione del proprietario sul bene immobile oggetto del suo diritto caratterizza l’ordinamento italiano, il quale vi unisce una caratteristica particolare, costituita dall’indeterminatezza in astratto della norma, che apre in concreto la via alla definizione nei singoli casi di quale e quanta sia l’incidenza del potere pubblico nella compressione a proprio favore dei poteri del privato proprietario: la casistica si applica anche ai diritti dei proprietari. Con tutto il rispetto per l’opinione contraria che vede nell’art. 42 Cost. una norma “rivoluzionaria” (non solo in senso metaforico) della disciplina della proprietà privata, possiamo dire che non ha un contenuto diverso da quello dell’art. 832 Cod. Civ.. Entrambe le norme riconoscono il diritto di proprietà in capo sia agli enti pubblici che ai privati e affermano che la legge può imporre limiti e/o obblighi al proprietario per fini di interesse generale: l’ampiezza degli uni e degli altri non è definita, per cui l’art. 42 Cost. di per sé (e questo lo aveva messo in evidenza Tarello, maestro in queste analisi del linguaggio normativo, anche se citato, sulla scia di Rodotà, in maniera decisamente unilaterale) ed è compatibile con una disciplina che affermi una assolutezza dei poteri del proprietario, con una regolamentazione comunista, infine con soluzioni intermedie. Il vero è che l’art. 42 è (come molte altre disposizioni costituzionali) una norma vaga, che può essere riempita con il contenuto più svariato. Non solo nel senso che la legge può in linea generale ed astratta prevedere diverse discipline per tipologie di beni, come accade per i beni culturali e paesaggistici, ma anche e soprattutto nel senso che la definizione dei limiti ed obblighi destinati a far capo al proprietario può essere lasciata alle decisioni dell’Amministrazione pubblica, in base alla sua discrezionalità caso per caso, magari in esito a procedimenti disciplinati dalla legge. Il sistema può non piacere, ma lo sposare l’una o l’altra delle possibili interpretazioni dell’art. 42, se è legittimo come auspicio, o come giudizio “di valore”, relativo a come dovrebbe essere il diritto italiano, non è corretto come giudizio “di fatto”, relativo all’effettivo diritto italiano: da quest’ultimo punto di vista l’art. 42 da un lato riconosce in generale la proprietà privata come un diritto, e dall’altro consente al potere pubblico (legislativo o, nei casi previsti dal primo, esecutivo) di stabilire limiti ed obblighi di ampiezza variabile a carico del proprietario, a fini di tutela degli interessi generali. Un’analisi dettagliata della disciplina legislativa e dell’azione amministrativa conferma questa ampia gamma di soluzioni, che portano a disparità di trattamento, giustificate in nome appunto dell’interesse generale, che non possono essere approvate da chi ritiene che il principio dell’eguaglianza “formale” di fronte alla legge, anche se non rappresenta un principio assoluto, non possa essere violato sistematicamente senza cadere nell’arbitrio del potere pubblico e nella violazione altrettanto sistematica dei diritti dei cittadini, oltretutto per fini che spesso sono di interesse generale solo nelle motivazioni delle delibere dell’Autorità competente.



4. Il comunismo ambientale dei paesi a socialismo reale, in assenza della dialettica pubblico-privato, si è rivelato più distruttivo dell’ambiente rispetto ai paesi di democrazia occidentale.

Secondo quanto si sostiene nel saggio, il fattore determinante per l’affermazione della sovranità (intesa come superproprietà) a fini collettivi sugli interessi individuali (bollati come inevitabilmente egoistici e dannosi per il prossimo) che caratterizzano l’istituto della proprietà privata, un fattore capace di riportare quest’ultima alla sua originaria funzione di appendice particolare, e in fondo strumentale, della proprietà generale, è il concetto di “ambiente”. Siccome ogni attività umana ha necessariamente ricadute, piccole o grandi, sull’ambiente, per non recare danno alla collettività deve essere preliminarmente definita e quindi finalizzata alle esigenze di tutela del bene ambiente. Quello che giuridicamente chiamiamo il diritto di proprietà (pur con i limiti e gli obblighi cui abbiamo accennato) si trasformerebbe secondo questa visione non solo in una concessione, ma anche in un dovere pubblico, un dovere che la tradizione occidentale, che pure ha visto esempi di proprietari asserviti ai poteri pubblici non ha mai conosciuto, in armonia con una visione che rifiuta la libertà individuale come il diritto di fare tutto ciò che non lede gli altri, ma la considera invece come il dovere di contribuire al bene comune. Secondo questa concezione la libertà è partecipazione (come diceva la canzone di Giorgio Gaber e, per restare con lo stesso cantautore, quando è moda è moda), ma una partecipazione necessaria e definita nel suo contenuto da chi si deve considerare come rappresentante e portavoce dell’interesse collettivo ambientale, cosa che peraltro rimane nel libro indeterminata, non essendo precisato se dovrebbe trattarsi della maggioranza politica o di qualche interprete o “guardiano” della Costituzione, interpretata nella maniera ritenuta corretta. Si tratta di tesi politicamente rispettabili, anche se personalmente non condivisibili, ma quando sono portate sul piano giuridico, ancora una volta dimostrano di mascherare un giudizio di valore (la propria opinione) dietro un apparente giudizio di fatto (l’effettiva disciplina giuridica italiana): anche se prendono la forma di affermazioni giuridiche rimangono pertanto tesi politiche, in sintonia con l’uso alternativo del diritto in voga qualche tempo fa che voleva modificare la portata normativa di molte disposizioni costituzionali conformemente alle concezioni del socialismo reale e di conseguenza ridefinire la legittimità di numerose norme di legge senza passare per l’unica via legittima: la modifica di queste ultime o a monte della Costituzione (solo riformandola si potrebbe realizzare quella sorta di “comunismo ambientale” che si sostiene nel libro come soluzione ai mali attuali).
Nella sua versione vigente, dalla quale, piaccia o no, ogni analisi giuridica deve partire, la Costituzione anche per quanto riguarda le poche norme che parlano di ambiente o di argomenti affini e collegati (urbanistica, patrimonio culturale) usa termini generici che inevitabilmente finiscono per essere vaghi, e che inseriti nella concezione italiana “casuistica” dell’esercizio del potere finiscono per avere applicazioni ai limiti dell’arbitrario. Che, secondo l’art. 9 Cost. la Repubblica tuteli il paesaggio (nel 1948 non si poneva ancora un problema ambientale, ma il termine è stato successivamente riferito all’ambiente come habitat) e il patrimonio culturale è cosa in sé ovvia, che lascia la via aperta a tutte le possibili forme di tutela: gli altri cenni all’ambiente (termine inserito con le modifiche più recenti) al governo del territorio, ai beni culturali, contenuti nell’art. 117 Cost., riguardano solamente la ripartizione di competenze tra stato e regioni e non toccano il rapporto tra potere pubblico e privati relativo alla tutela dell’ambiente (o se vogliamo del territorio) che di per sé rimane quindi indeterminato in base alla Costituzione. Più in generale, nell’ambito dei Paesi occidentali, il problema degli effetti dell’attività umana sull’ambiente diventa acuto e particolarmente urgente nel passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale di massa (cosa che in Italia avviene dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il che spiega il mancato riferimento all’ambiente di cui si è parlato). Carl Schmitt ha paragonato il nomos della civiltà industriale al nomos del mare o comunque al rapporto con uno spazio che non limita in sé l’attività umana, ma è piuttosto utilizzato strumentalmente; ridurre però tutta la civiltà industriale alle modalità di produzione, anche se è marxianamente ortodosso, non corrisponde alla verità. In fin dei conti, per paradossale che possa sembrare a molti dei suoi critici (tra i quali rientra anche l’A.) la società industriale è quella nella storia che ha saputo staccarsi più di tutte dal concetto di profitto immediato, sia attraverso la pratica del reinvestimento, sia attraverso la destinazione di risorse, da parte dei singoli e dalle associazioni non a fini di lucro (cosiddette non profit) e da parte pubblica ad attività di per sé non remunerative, quali quella della tutela ambientale e/o dei beni culturali. Buona parte delle attività di tutela e di miglioramento ambientale infatti sono portate avanti nei Paesi industrializzati da soggetti privati, singoli e soprattutto associati, comprese talora le famigerate imprese multinazionali; anzi le maggiori devastazioni dell’ambiente sono state viceversa realizzate in sistemi nei quali il concetto di interesse pubblico aveva o ha un ruolo predominante, e che si basavano o si basano tuttora sulla finalizzazione della proprietà privata a scopi collettivi, quali l’Unione sovietica o la Cina, sistemi dai quali non si può prendere le distanze, come fa l’A. seguendo Rodotà, nello stesso tempo in cui si condividono concezioni del rapporto tra potere pubblico e diritti privati molto simili a quelle sulle quali tali sistemi si sono fondati o si fondano tuttora, il che vale per sia per l’aspetto ambientale che per quello economico finanziario.



5. L’utilizzo pubblico dei vincoli ablativi e conformativi senza indennizzo nello specifico dell’ordinamento italiano: il danno all’ambiente è causato in massima parte da coloro che agiscono in veste di tutori dell’interesse generale e in particolare degli amministratori locali. L’interesse pubblico è individuato a valle ma non a monte (leggi procedimento).

Da un punto di vista liberale non è nemmeno vero l’opposto, cioè che il privato sia necessariamente sinonimo di bene ed il pubblico di male: il ruolo del pubblico dal punto di vista della tutela ambientale, ma non solo, dovrebbe consistere nel porre in essere quelle attività che i privati non sono in grado di realizzare o che comunque a livello di interessi della generalità dei singoli cittadini (e non di un concetto astratto e globale di collettività) possono essere realizzate meglio dal potere pubblico.
Peraltro, sia a livello di tutela dell’ambiente inteso come ecosistema o habitat naturale sia a livello di salvaguardia di particolari tipi di beni aventi valore culturale in senso lato, la disciplina dell’intervento pubblico di limitazione delle facoltà dei proprietari di utilizzare i loro beni (e non di soppressione generalizzata di tali facoltà con successive concessioni bonarie o “graziose” ai singoli delle facoltà conformemente agli interessi pubblici) è avvenuta in maniera diversa nei Paesi anglosassoni e in quelli europeo continentali secondo i principi che si sono descritti sopra. Nei primi il potere pubblico ha limitato determinate facoltà di utilizzo del bene, senza incidere globalmente sul potere di gestione e senza diminuirne il valore (economico o affettivo) per i proprietari: così gli edifici della City di Londra o i luoghi della battaglia di Gettysburg sono vincolati al mantenimento del loro aspetto e delle loro caratteristiche fisiche, ma possono essere utilizzati e alienati a piacimento dai proprietari privati. Nei Paesi europeo-continentali invece il potere pubblico si è ingerito nella gestione dei beni prevedendo ad esempio la necessaria proprietà pubblica di determinati tipi di edifici di valore storico o culturale oppure di determinati “contesti” immobiliari aventi rilevanza paesaggistica, il che avviene tramite l’intervento statale in Francia (la legge prevede i tipi di beni da assoggettare a gestione pubblica, e l’amministrazione li acquisisce e li gestisce) e mediante accordi e normative a livello locale in Germania. Discorso analogo vale per i piani regolatori e per l’uso del territorio in generale anche a fini di salvaguardia ambientale: a parte alcuni casi britannici di intervento “a tappeto” pubblico con esproprio di una serie aree, sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti i piani regolatori consistono in regole sulle distanze e sul rispetto dei fondi vicini, al quale si ricollega la possibilità di modificare la destinazione edificatoria di un immobile, e non mancano casi (americani) di città pianificate in base ai soli accordi tra proprietari (ad es. Houston). Diversa è la disciplina della pianificazione urbanistica e della tutela ambientale nell’Europa continentale, nella quale il potere pubblico si ingerisce (anche qui con norme uniformi in Francia e mediante particolarità locali in Germania) nel potere di disposizione dell’immobile da parte del proprietario, limitandone con norme (statali o locali) le facoltà di utilizzazione del bene. Tutto ciò in un’ottica fatta di regole di contenuto predefinito rispetto alle singole fattispecie, che mettono il privato proprietario nella certezza sulle possibilità di uso dei beni, e soprattutto in un’ottica che vede pur sempre l’azione pubblica come un limite ai diritti dei proprietari, come un coordinamento e magari un riequilibrio a fini di utilità generale, con eventuali compensazioni per chi è svantaggiato e imposizioni di contributi a chi è favorito dall’azione pubblica, e non certo come una distribuzione operata dall’alto di facoltà appartenenti in origine al potere pubblico e concesse più o meno graziosamente al proprietario come vorrebbe Maddalena.
In Italia la situazione, pur essendo in linea di principio ispirata all’impostazione europeo continentale è caratterizzata da norme prive di contenuto predefinito, e quindi di regole generali, di modo che i limiti ai poteri dei proprietari e gli obblighi che gravano su di essi sia a fini di gestione del territorio e di tutela ambientale, sia per quanto riguarda la salvaguardia dei beni culturali e paesaggistici vengono definiti sostanzialmente per gli aspetti più importanti, dalle decisioni pubbliche, che hanno la funzione di bilanciare i diritti dei privati e l’interesse generale. Per vero, a livello normativo teorico, mentre i limiti e gli obblighi relativi alla proprietà dei beni culturali e paesaggistici sono predefiniti per legge, per cui il diritto del proprietario è già naturalmente di portata ridotta (quanto all’alienazione del bene, al diritto di prelazione e di acquisto dell’autorità pubblica, all’utilizzo e alla sua modifica ecc.), per quanto riguarda gli immobili in genere i limiti ed obblighi a fini urbanistici e/o ambientali (cosiddetti “conformativi”) dovrebbero rappresentare solo delle modalità con cui il diritto di proprietà debba essere esercitato in modo da non danneggiare la collettività, per cui ogni soppressione di una facoltà spettante al proprietario (il caso dei vincoli di inedificabilità) dovrebbe comportare un diritto ad un indennizzo. Di fatto, poiché la normativa urbanistica ed ambientale si compone non di regole generali, ma di leggi che in via ordinaria prevedono procedure (leggi procedimento), stabilendo come si deve decidere, ma non cosa decidere, e che in casi eccezionali di rilevante importanza (grandi opere, parchi e siti archeologici di interesse nazionale) stabiliscono il contenuto dei limiti e degli obblighi dei privati (leggi provvedimento), ne deriva che lo stabilire cosa si possa o si debba realizzare su un immobile rappresenta sempre il risultato di una decisione discrezionale, contenuta nella legge o nei provvedimenti dell’Amministrazione pubblica. Tutto ciò è accentuato dal fatto che in genere le norme prevedono infinite e altrettanto casuistiche possibilità di derogare quanto stabilito in precedenza: si pensi alle varianti di piano regolatore, alla ridefinizione del contesto vincolato in cui inserire un bene culturale, alla rimodulazione del vincolo paesaggistico, alla modifica della Valutazione ambientale strategica (VAS) in sede di Valutazione integrata ambientale (VIA) in relazione ad un’opera ecc. Di fronte ad una tale indeterminatezza legislativa e ad una tanto ampia discrezionalità del potere pubblico, perde molta parte del suo valore pratico la distinzione tra proprietà già ridotta nella sua estensione in origine in base alla legge (beni culturali e paesaggistici) e proprietà il cui contenuto può essere solo “conformato” dagli atti del potere pubblico a fini di gestione urbanistica e/o tutela ambientale, cui qualche decennio fa si ricollegò la polemica relativa della decisioni della Corte costituzionale (n. 55 del 1968 e n. 5 del 1980) che affermarono che il diritto di edificare (ius aedificandi) rientra nel diritto di proprietà e può essere conformato ma non totalmente azzerato senza indennizzo, polemica vigorosamente riproposta invero fuori stagione da Maddalena. In effetti è oggi talmente elevata la discrezionalità di cui gode di fatto l’Amministrazione che la distinzione tra vincoli urbanistici ablativi, che comportano un indennizzo, privando il proprietario di facoltà a lui spettanti, e vincoli conformativi, che si limitano a stabilire il modo di esercizio (più o meno ampio) delle facoltà medesime diventa evanescente: ad esempio, con l’avallo della Corte costituzionale, il potere pubblico può imporre un vincolo di inedificabilità formalmente temporaneo e una volta scaduto può procedere a nuova pianificazione o a variante di quella in essere di fatto imponendo un vincolo analogo e prolungando quindi l’inedificabilità a tempo indeterminato: è la c.d. inesauribilità del potere amministrativo. Situazioni analoghe si presentano per quanto riguarda le autorizzazioni ambientali in senso stretto, per non parlare dei vincoli su beni culturali o paesaggistici, la cui ampiezza è altrettanto discrezionale (anche tale discrezionalità è detta “tecnica”) e che già per legge non sono indennizzabili diversamente da altri Paesi europei come Francia o Germania.
Siamo di fronte in Italia ad una situazione dove i diritti di proprietà dei singoli possono essere compressi o viceversa riconosciuti e valorizzati (favorendo determinate edificazioni o determinati utilizzi del territorio) a seconda delle decisioni discrezionali del potere pubblico (legislativo, amministrativo e giudiziario, dato che altrettanta discrezionalità hanno i giudici nell’interpretare le leggi vaghe e indeterminate), una situazione che certo ha prodotto da un lato forti diseguaglianze fra i cittadini sia a livello di parità di fronte alla legge, sia a livello di distribuzione della ricchezza, nel senso di distribuzione delle opportunità di trarre benefici economici e non solo dai propri beni, e che dall’altro ha portato a devastazioni ambientali notevoli, spesso consentite se non incoraggiate o gestite proprio da quegli enti locali che dovrebbero essere i primi interessati alla tutela dell’ambiente, al corretto uso del territorio e alla tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici. Il che dimostra, se ce ne fosse bisogno, che, contrariamente a quanto sostiene Maddalena, non basta indossare l’abito del pubblico funzionario per agire a vantaggio del prossimo, dato che lo sfruttamento dei diritti altrui, le diseguaglianze sociali più macroscopiche e il danneggiamento dell’ambiente spesso provengono proprio da coloro che agiscono in veste di tutori dell’interesse generale.
L’amministratore comunale o regionale non di rado politicamente imposto dalle segreterie centrali dei partiti, anche proveniente da altre realtà territoriali (primarie o non primarie il discorso non cambia), è di norma ignorante della cultura dei luoghi di cui pure dovrebbe essere espressione; la sua cultura, quando sussiste, è di natura politico-economica, pseudo-giuridica, non diversa dal politico nazionale avulso dal contesto locale. Se per avventura conosce la storia del suo Comune è giudicato un erudito impedito dalla struttura che lo sostiene a fare alcunché: si ricordi per tutti il grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma, che gettò la spugna dopo pochi mesi. Nel paese più centralizzato al mondo, la Francia, il governo nazionale tutela molto meglio le stesse tradizioni locali (per tutti: i vignerons, il paesaggio agrario che ancora consente di distinguere tra città e campagna, ecc…). In Italia si è arrivati al paradosso che i piani territoriali paesistici (d’ora in poi P.T.C.), della L. n. 1497 del 1939 trasferiti incomprensibilmente alle regioni quale materia inerente all’urbanistica (Art. 117 Cost.) non vennero attuati sicché si rese urgente la c.d. legge Galasso (L. 08/08/1985 n. 431, di tutela generale delle rive e delle coste, dei fiumi, dei crinali dei monti, ecc…), che consentiva tuttavia eccezioni alla inedificabilità qualora la Regione si fosse munita del P.T.C. che divenne per paradosso il modo normale per la cementificazione. Ad esempio si è dovuto ricorrere all’istituto del parco nazionale per tutelare le Cinque Terre tutte nel territorio ligure per sottrarre alla temuta gestione di amministratori locali o regionali.
Il sogno inconfessabile dei sindaci dei comuni costieri (e non solo di quelli liguri), è quello di ridurre, per ragioni clientelari e di “sviluppo” paesaggi d’incomparabile bellezza a delle Montecarlo. In questo caso è proprio la grande proprietà per i bassi indici di edificabilità, analogamente a quanto avvenuto nelle epoche feudali, a garantire la tutela di contesti culturali in senso lato, poiché gli amministratori locali non hanno avuto alcun ritegno per favorire seconde o terze case (ed avere entrate certe di IMU), a danno di una insostenibile e non competitiva industria alberghiera.
La situazione potrebbe anche peggiorare con la riforma del Senato delle Autonomie che costituzionalizzerebbe, in linea con le c.d. “leggi Bassanini”, la conferenza Stato-Regioni con ennesima spartizione tra Centro e enti locali coerentemente a tutto il confuso sistema giuridico delle competenze e delle responsabilità oltre che della trasparenza dei costi: strano concetto di autonomia dove l’ente territoriale è più autonomo quanto è più finanziato dalla generalità dei contribuenti nella continua manipolazione delle risorse pubbliche (per esemplificare gli innumerevoli decreti salva Roma o salva Napoli). A meno di non ridurre il riformando Senato ad una brutta copia di quello francese di cui anche oltralpe ci si chiede quale sia l’utilità.
Resta comunque chiaro che in questa situazione di applicazione discrezionale del potere pubblico si pone comunque una scelta tra due valori opposti, l’interesse pubblico e i diritti di proprietà dei privati, entrambi riconosciuti giuridicamente e costituzionalmente, valori tra i quali la decisione di imporre un vincolo o un obbligo, deve mantenersi in un ragionevole (o non irragionevole, secondo i termini controriformistici dei gestori del potere italiano) equilibrio. L’eliminare uno dei due termini di riferimento, il diritto dei privati, facendone una pura appendice dell’interesse pubblico, oltre ad aprire prospettive da stato totalitario, trasformerebbe la discrezionalità “casuistica” in puro arbitrio, lasciando in mano, a quanto pare di capire, non alla maggioranza politica degli elettori (il che sarebbe già di per sé discutibile), ma ad una serie di giuristi e/o politici particolarmente illuminati, e profondi conoscitori della “corretta” interpretazione della Costituzione (quella proposta nel libro) la potestà di decidere non come limitare i diritti dei privati, ma cosa concedere loro, nulla, poco o tantissimo a seconda della loro maggiore o minore “vicinanza” agli scopi dei conoscitori dell’interesse generale, con conseguenze facilmente prevedibili. A questo si aggiungerebbe un istituto giuridico, interpretato molto personalmente dall’A.: l’azione popolare (cioè la possibilità di agire in giudizio da parte di ogni singolo cittadino a difesa di interessi comuni) che nell’ordinamento italiano non è riconosciuta se non in un caso, quello delle elezioni amministrative (e non in quello dell’impugnazione della legge elettorale detta “Porcellum”, nel quale era in questione un diritto individuale, con soluzione discutibile). Peraltro in un contesto in cui il bene comune fosse affidato a pochi (o molti) saggi, l’azione popolare diventerebbe pericolosamente affine alle denunce contro i piccoli e grandi “nemici della collettività” degli stati totalitari. Con il fine di perseguire l’interesse generale, troverebbe la sua esaltazione quello che Popper chiama l’egoismo collettivista (sviluppo moderno dell’egoismo tribale) che tante volte nella storia ha visto gli esseri umani calpestare i più elementari diritti individuali del prossimo per difendere sia il proprio ruolo all’interno della gerarchia collettiva (con gli annessi vantaggi morali e/o economici) sia l’esistenza della stessa gerarchia collettiva, capace di ridurre a zero i diritti di coloro che ad essa non si conformano. Un egoismo ben peggiore di quello che può caratterizzare i singoli individui di per sé considerati, contro i quali l’egoismo collettivista scaglia i propri anatemi, volutamente ignorando il fatto che non di rado l’individualismo si unisce ad un sincero altruismo.



6. La crisi finanziaria: il liberismo come “dogma”, ma quello empirico non ha mai demonizzato l’intervento pubblico. Dirigismo economico socialdemocratico nei paesi europeo-continentali e keynesianesimo nel mondo anglosassone. L’Unione Europea come “cartello”: divario crescente tra gli eurocrati oligarchi e le classi sociali impoverite.

Nel libro si dà la colpa della crisi al dogma del liberismo economico, definito pensiero unico e considerato la causa di tutti i mali: un errore peraltro comune a molti. L’origine della crisi attuale sta in effetti in un dogma di carattere economico che riguarda l’assetto ideale dei rapporti economici mondiali (e di conseguenza di quelli italiani inseriti nello scenario globale), solo che non può essere in alcun modo definito liberista, almeno se per liberismo ci si riferisce alla tradizione individualista che fa capo ad Adam Smith in economia a John Locke (teorico di un tipo di contratto sociale opposto a quello di Hobbes, la cui versione è l’unica di cui nel libro si tiene conto) in campo giuridico, e che nell’ultimo secolo ha visto come esponenti oltre a Popper, Von Hayek, Von Mises e molti altri. Questo perché le concezioni del liberismo economico e dell’individualismo altruistico morale rifiutano per principio ogni carattere dogmatico, dato che il loro metodo è l’empirismo, quell’empirismo che sottomette ogni idea alla falsificazione dei fatti e che sostiene che il miglioramento della condizioni (non solo economiche) della vita degli uomini deriva principalmente dalla capacità di imparare dai propri errori. Per molti degli autori citati e per chi condivide queste concezioni parlare di un dogmatismo liberista costituisce un ossimoro, così come una presunzione pare a tutti costoro ipotizzare la possibilità di realizzare un mondo perfetto, secondo i principi di quello che Popper chiama “storicismo”, storicismo che rappresenta il secondo grande bersaglio polemico del suo pensiero, in particolare la concezione (espressa da Marx, ma prima di lui da Hegel, e che secondo il filosofo austriaco, si basa in origine sul pensiero di Platone) che la storia procede necessariamente verso la perfezione. Questa concezione è però riuscita negli ultimi decenni ad impadronirsi di uno dei concetti cardine dei suoi oppositori liberali, quello di libertà economica e di libero mercato. Si tratta di un paradosso, degno dei più sottili giochi logici, ma è ciò che è accaduto. Così il libero mercato non è stato più affidato alle concezioni empiriche, le quali non hanno mai demonizzato l’intervento pubblico se non nelle ipotesi in cui diminuisca la libertà dei singoli e che non hanno mai divinizzato l’azione dei privati, proprio perché hanno sempre visto in essa la fonte di errori, da correggere e dai quali imparare. L’avere reso dogma e così snaturato il liberismo, l’avere assolutizzato il ruolo dei privati e di averne fatto degli esecutori del necessario progresso sociale, cioè degli agenti della società perfetta, ha portato di fatto ad indebolire, e talora quasi ad eliminare in campo economico e sociale la libertà individuale, che è sempre libertà di sbagliare, e lo ha fatto sganciando quest’ultima dalla sua naturale conseguenza, la responsabilità, la quale, imponendo a ciascun soggetto (pubblico o privato) di correggere i propri errori lo mette sullo stesso piano dei suoi simili e gli impedisce di prevaricare con violenza delle sue idee “infallibili” su di loro. Tutto questo è avvenuto dopo il crollo del muro di Berlino e l’avvento della globalizzazione. La società capitalistica, che aveva portato a tutti gli individui inseriti in essa il massimo grado di libertà individuale e il massimo grado di benessere individuale, è stata ritenuta una società perfetta, cosa che nessuno dei liberisti avrebbe mai detto, dato che la sua forza consiste appunto nel riconoscere la propria imperfezione. Ciò dal punto di vista economico e sociale è sfociato in una assolutizzazione da parte del potere pubblico del dogma pseudo (chiamiamolo così) liberista, nella banalizzazione della libertà (ormai ce l’hanno tutti) e nell’eliminazione della responsabilità, in particolare nel settore economico tramite un intervento pubblico diretto a garantire il mantenimento del funzionamento del libero mercato (altro concetto simile ad un ossimoro), e ad impedire gli inevitabili fallimenti (del mercato e degli operatori) dai quali imparare in futuro. Questo fenomeno si è espresso riprendendo due correnti di pensiero che avevano dato un contributo allo sviluppo dell’Occidente nel secondo dopoguerra e che dagli anni Ottanta (anni tanto detestati, dall’A., per il ruolo di Reagan e Thatcher) avevano mostrato i loro difetti: il dirigismo pubblico, più o meno collegato alle concezioni socialdemocratiche, che si è affermato in Europa continentale (e in particolare nei Paesi aderenti all’unione monetaria), e il keynesianesimo che si è affermato nei Paesi anglosassoni.
Giustamente Maddalena afferma che a causa della crisi finanziaria mondiale ci sono l’economia basata sul debito (debt economy) e la creazione di moneta dal nulla o, “dall’aria fina”, riprendendo un’espressione inglese (out of thin air), ma entrambi gli avvenimenti non sono frutto del liberismo empirico, ma del keyenesianesimo e del dirigismo socialdemocratico, che su entrambe hanno sempre basato i loro interventi diretti a creare sviluppo economico. Responsabili di questa situazione non sono infatti i “quindici” (sic!) speculatori che dominerebbero il mondo con la loro avidità ai danni del resto del genere umano (in fondo è il solito complotto plutocratico, magari a base un po’ più ristretta), ma responsabili sono invece in gran parte le politiche keynesiane in USA e quelle dirigiste nell’Unione monetaria europea, che garantendo comunque la solvibilità (a fini di sviluppo economico e di tutela sociale, perché nel mondo perfetto non deve esserci alcun insuccesso e nessuno che fallisce nei suoi obiettivi) di tutti i tipi di crediti, hanno consentito ai peggiori speculatori (e la categoria degli investitori finanziari, come tutte la categorie umane, è banalmente fatta di onesti e disonesti, di responsabili e di truffatori) di potere effettuare i loro interventi di finanza più o meno “creativa”, certi che alla fine i crediti oggetto delle loro speculazioni sarebbero stati comunque saldati dai soggetti pubblici, il che ha creato su grande scala, prima negli Stati Uniti e poi in Europa una situazione in cui gli investitori finanziari potevano agire senza correre il rischio delle loro scelte, cioè in sostanza senza essere responsabili delle loro azioni, situazione che viene definita di “azzardo morale” (moral hazard) dagli economisti. Tutto ciò risulta in maniera chiara se si prende in considerazione il fatto che, a partire dagli Stati Uniti, ha scatenato la crisi finanziaria globale: la bolla immobiliare del 2008, la quale è stata consentita e provocata dagli interventi pubblici diretti a garantire comunque la solvibilità dei debiti contratti per l’acquisto di immobili, il che ha dato il via per il settore immobiliare, ma la cosa ha riguardato l’intera economia americana, a mutui concessi a debitori privi di ragionevoli requisiti di solvibilità (cosiddetti mutui subprime); a mutui di secondo, terzo e quarto grado; a cessioni dei crediti vantati nei confronti degli acquirenti degli immobili, a cessioni delle cessioni e a finanziamenti anticipati riferiti al valore futuro di realizzo dei suddetti mutui, il tutto sempre con la garanzia che alla fine le somme alla base dell’operazione sarebbero state comunque erogate dal settore pubblico. Non occorre dilungarsi in questioni tecniche: valga l’esempio a chiarire il grosso errore che compie l’A. quando nel libro afferma che la crisi è stata determinata dalle tecniche finanziarie (ardite invenzioni di malvagi), quali la cartolarizzazione dei crediti, i derivati finanziari ecc., delle quali si afferma con un’interpretazione molto personale del diritto che nel nostro ordinamento sarebbero addirittura illecite in quanto non previste dal codice civile italiano, quando invece apposite leggi li disciplinano. Ciò è come accusare uno strumento del suo cattivo uso: tali tecniche possono invece essere utili, facilitando la circolazione del credito, e diventano dannose ed economicamente devastanti quando possono essere usate in maniera irresponsabile, in una situazione cioè di “azzardo morale”. Se esiste il rischio di insolvenza del debitore principale, anche la finanza creativa si muove con i piedi di piombo, mentre se la solvibilità è garantita comunque, allora la speculazione si avvicina molto alla pura scommessa, che a lungo andare porta ad un ulteriore intervento pubblico per riparare sempre più non solo all’insolvibilità dei mutuatari originari, ma anche a quella degli operatori più o meno incauti e più o meno onesti, ad esempio tramite l’acquisto di ogni tipo di titolo, anche tossico, al fine di evitare appunto fallimenti o per garantire lo sviluppo del mercato, operazione detta “facilitazione quantitativa” (quantitative easing). La crisi americana ha in effetti trovato la sua origine in questa situazione, denunciata dai sostenitori del liberismo e non dai keynesiani, e causata dall’intervento massiccio della Fed (la cui struttura giuridica è peraltro fraintesa dall’A., dato che la Fed americana è un sistema di enti pubblici e privati che non dipende da banche private, ma si avvale di esse) diretto a creare sviluppo e benessere che in un’economia globalizzata sono andati in gran parte a vantaggio ad esempio degli investitori cinesi, che hanno acquistato i titoli del Tesoro (ed equiparati) americani. Affermare che la creazione di ricchezza dal nulla e l’economia del debito sono un prodotto delle concezioni liberiste (almeno di quelle autenticamente tali) non tiene conto del fatto che una cosa è una somma di denaro e un’altra è il credito che ha per oggetto tale somma; il credito può essere moltiplicato all’infinito, cartolarizzato, oggetti di crediti ulteriori e incorporato in titoli “derivati”, ma è sempre legato al pagamento della somma iniziale, che rappresenta l’unico valore reale dell’operazione, al quale tutti gli altri si ricollegano necessariamente. Solo quando qualcuno (in genere il soggetto pubblico) interviene con altro denaro a garantire l’adempimento dell’obbligazione base, o di quelle da essa derivate, ecco che l’operazione rimane in piedi, ma il valore dei diversi crediti diminuisce, a maggior ragione se sono stati contratti confidando in quell’intervento, fino a ridurre, in casi di estrema inflazione, come accaduto nell’ipotesi della bolla immobiliare, i crediti stessi e i titoli che li incorporano quasi a carta straccia. La confusione tra il denaro e il credito deriva da una concezione marxiana della moneta intesa come una realtà che in sé non ha alcun valore e rappresenta solo un mezzo di sfruttamento del prossimo (qualche teologo medievale lo definì lo sterco del diavolo). Il denaro invece, anche oggi che non è più rappresentato da beni di valore intrinseco come l’oro, ma il suo valore è basato sul “corso forzoso” disciplinato dagli stati, o delle organizzazioni transnazionali come l’Unione europea, possiede un valore in sé, perché una cosa è possedere una somma liquida e certa, e altra è il vantare un credito futuro e incerto, e del resto il denaro, in una prospettiva liberale rappresenta invece il frutto del lavoro e delle libere scelte di ciascuno, un mezzo con cui realizzare la propria personalità, e comunque sia il suo valore autonomo non può essere certo disconosciuto né economicamente né giuridicamente senza giungere a conseguenze aberranti, magari legate ad interpretazioni, invero molto arbitrarie, della Costituzione italiana che riconoscerebbe all’art.2 tutti i tipi di “diritti” degli esseri umani (e financo degli animali e dei vegetali) salvo quello di disporre liberamente dei propri beni.
Anche il dirigismo europeo, ben più invasivo del keynesianesimo anglosassone rispetto alle libertà economiche, ha cercato a sua volta di realizzare la società perfetta sulla base dei propri principi. Si pensi alla strategia di Lisbona, adottata nel 2000, fatta di minuziose prescrizione rivolte alle imprese e agli operatori economici, di parametri di qualità da osservare e di obiettivi produttivi da raggiungere, la quale avrebbe dovuto portare l’Europa ad essere l’economia più competitiva del mondo entro il 2010 secondo l’ottimistica previsione di Romano Prodi purtroppo smentita clamorosamente. Tutto questo è stato compiuto in nome di un liberismo che di liberista non ha nulla, un liberismo dove i rapporti di mercato sono stabiliti a priori, da pochi illuminati “eurocrati”, dove ad esempio la disciplina della concorrenza è costituita da un ginepraio di norme di interpretazione tanto complessa, e tanto piene di eccezioni, controeccezioni ed eccezioni alle controeccezioni da fare impallidire non dico le leggi italiane, ma addirittura le gride manzoniane. Una realtà nella quale gli obiettivi ultimi non sono poi in sostanza troppo dissimili da quelli proposti dal Maddalena, e sono rappresentati dallo sviluppo equo, sostenibile, e solidale, e alla realizzazione di questo mondo ideale è finalizzata l’azione dei diversi soggetti, i quali sono visti non come protagonisti di una realtà economica in evoluzione non sempre prevedibile, ma in grado di correggersi, ma come protagonisti di una evoluzione più o meno necessaria verso il benessere da ottenersi grazie all’azione del “mercato” assolutizzato (contrariamente ad ogni sano empirismo liberale) come una sorta di meccanismo. A questo si aggiunge che l’unione monetaria, incautamente accettata dai politici italiani (che, a proposito di responsabilità, non risulta abbiano mai fatto autocritica in merito), come molte istituzioni europee sembra quasi essere stata realizzata con la fiducia che bastasse il diritto per superare gli ostacoli reali, economici e sociali che si frapponevano (e si frappongono tuttora) ad una più stretta integrazione economica. Inserita in un contesto dirigista, ed orientato a realizzare quella “equa” redistribuzione, l’unione monetaria ha creato ancora più diseguaglianze in quanto anche nel vecchio continente si sono verificati (ma moltiplicati in maniera esponenziale) quella perdita di responsabilità e quella situazione di “azzardo morale” che hanno dato luogo alla crisi americana. Infatti, i vari operatori si sono trovati ad agire in sostanza all’interno di un quadro economico prestabilito nel quale tendenzialmente ogni attività andava a ricoprire una casella predisposta in base ad un modello ideale di libera concorrenza impostato a priori e gestito in concreto dai tecnocrati europei, un sistema nel quale viene penalizzato non tanto chi con il suo agire scorretto va a ledere i diritti del concorrente o quelli dei consumatori (né i singoli concorrenti né i consumatori hanno mai avuto gran voce in capitolo nelle decisioni legislative, amministrative e giudiziarie europee), quanto chi va a intaccare il modello prestabilito. Così ad esempio il divieto di aiuti di stato consentiva e consente il totale controllo pubblico di un’impresa di qualsiasi genere, la violazione della concorrenza è tale solo se ha “effetto distorsivo” sugli scambi comunitari. A ciò si aggiunge il fatto che il diritto non ha proprietà taumaturgiche e che l’Unione europea, nonostante le solenni affermazioni dei Trattati non è tuttora di fatto un vero mercato unico: troppe sono le differenze fiscali, giuridiche, economiche, ma prima ancora culturali e sociali che dividono in vari Paesi, che rendono l’Unione un grande “cartello” nel quale ogni Paese cerca di trarre la massima utilità dallo stare insieme e da una più o meno esplicita ripartizione dei settori di attività produttiva, situazione aggravata in seguito alla crisi. Il dirigismo, diretto ad evitare ogni insuccesso economico, e anzi a migliorare sempre più l’economia continentale, unito alla necessità di tenere insieme in una moneta unica realtà economiche e fiscali radicalmente diverse, ha consentito ai peggiori operatori finanziari (non ad una centrale del male coalizzatasi contro l’Europa) di indirizzare senza correre alcun rischio le proprie speculazioni contro i titoli pubblici (cosiddetto “attacco ai debiti sovrani”) di quei Paesi, tra cui in parte l’Italia, ai quali il cartello economico europeo, in forza della sua impostazione dirigista (e non certo liberista) ha riservato un ruolo penalizzante, in buona parte al di là dei loro demeriti. Questo insegna, a parere di chi scrive, che i cattivi speculatori vanno fermati non tramite delle norme (o delle interpretazioni normative) dirette a restringere se non a sopprimere la libertà di disporre dei propri beni, ma creando delle condizioni che facciano in modo che la libertà non sia mai distinta dalla responsabilità, il che avviene in un sistema dove il potere pubblico detta le regole per l’azione degli operatori, ma non prescrive cosa fare né garantisce la sua tutela a chi si adegua ai compiti previsti d’autorità per il mercato “ideale”. Per una concezione che vuole essere empirica, l’intervento pubblico, come non è ontologicamente un’azione illuminata e salvatrice, così nemmeno è ontologicamente l’espressione del male: il discrimine tra un’azione pubblica accettabile e una criticabile consiste nel rispetto della libertà dei singoli e nell’assunzione esplicita delle responsabilità in merito agli obiettivi di interessi generale che ci si propone di raggiungere. Ma questa responsabilità sembra non fare capo agli organi pubblici dell’Unione europea, e questo non per mala fede o per incapacità dei singoli, quanto per il fatto che in un cartello economico e politico quale è l’Unione è pressoché impossibile delineare una strategia comune. Negli ultimi anni negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, come anche l’A. rileva, il potere pubblico ha favorito una forte svalutazione monetaria, una medicina amara che ha reso più poveri i rispettivi cittadini, ma è servita per così dire a purgare la “sbronza” di una vita economica che negli anni passati era andata molto oltre le disponibilità dei mezzi e dei capitali necessari a sostenerla, e che quindi ha rilanciato la situazione economica. La BCE, organo centrale dell’unione monetaria europea non può procedere (per ragioni politiche prima ancora che strettamente giuridiche, legate al contenuto dei Trattati) ad interventi che creino un forte aumento dei prezzi perché tali interventi presupporrebbero un’autorità comune, di tipo federale, che anche a livello di politica monetaria, fosse capace di imporsi ai singoli Paesi. Questo sistema è funzionale alla natura come detto di “cartello” dell’Unione: dare la possibilità alla BCE di operare una svalutazione generale dell’euro, metterebbe a rischio non tanto i dogmi presunti liberisti, quanto il ruolo guida assunto da alcuni Paesi (soprattutto la Germania), nonché la tacita ripartizione delle “specializzazioni” nelle attività produttive di ricchezza tra i diversi Paesi, che vede le attività industriali avanzate e tradizionali “assegnate” alla Germania e ai Paesi Scandinavi; l’agricoltura e le industrie interne alla Francia; la finanza alla Gran Bretagna (peraltro fuori dall’unione monetaria), il turismo e i servizi ricreativi ai Paesi mediterranei, con l’aggiunta dell’industria della moda per l’Italia, le industrie di minore livello qualitativo ai Paesi dell’Est Europa facenti parte dell’Unione. Molto meno impegnativo politicamente, anche se dannoso economicamente procedere, come ha fatto ancora recentemente la BCE per aumentare la disponibilità monetaria, alla “facilitazione quantitativa” cui si è accennato sopra, cioè all’acquisto dei titoli che i normali operatori non acquisterebbero.
Il discorso fatto vale in modo particolare per l’Italia, Paese in cui gli ideali giuridici ed economici sono quasi sempre serviti per giustificare un’applicazione delle norme di legge e politiche economica contraddittorie e variabili. Così le privatizzazioni hanno avuto uno sviluppo senza pari nel nostro Paese a partire dagli anni 90, ma questo non ha mai portato ad una vera liberalizzazione delle attività, capace di favorire i cittadini consumatori e di alleggerire il carico fiscale dei cittadini contribuenti. Così le società “privatizzate” che gestiscono pubblici servizi (poste, ferrovie, municipalizzate) sono rimaste sotto controllo pubblico ed hanno potuto, in nome dell’economicità, ridurre i loro servizi a livelli in molti casi non accettabili per un Paese moderno, senza peraltro portare giovamenti alle casse statali; quanto alle società ex pubbliche che esercitavano attività industriali (gruppo IRI, ENI ecc.), la maggior parte sono state semplicemente (s)vendute a prezzi quasi mai adeguati a privati, spesso stranieri; a tutto questo si aggiunga di recente anche la cessione di beni ex demaniali, anch’essa effettuata e prezzi di saldo (per usare un eufemismo) per risanare i bilanci pubblici. Giustamente il Maddalena critica tali operazioni, ma a parte il fatto che esse, pur essendo politicamente censurabili, non sono certo incostituzionali, se non in base ad una personale interpretazione della carta fondamentale, che vorrebbe vedere l’indicazione necessaria di un progresso da compiere verso il comunismo ambientale di cui abbiamo parlato, il grande difetto di tutte queste operazioni è ancora una volta il dirigismo, che in Italia diventa poi sempre un modo di favorire le piccole e grandi aggregazioni di interessi corporativi; un dirigismo corporativo che non ha consentito ai privati cittadini di diventare imprenditori e di esercitare le attività industriali cedute dallo stato, anche a causa della poca disponibilità delle banche, tutte controllate, tramite le fondazioni bancarie, da enti pubblici o parapubblici, a finanziare libere iniziative imprenditoriali.
Abbiamo detto che il liberale non ha in genere dogmi, né dogmi sono da considerare i parametri di Maastricht, il pareggio di bilancio, e persino la stessa permanenza nell’unione monetaria europea, solamente che queste scelte pubbliche devono essere valutate sia riguardo alle loro conseguenze sia in relazione alle finalità per cui vengono operate. Quali che siano le decisioni specifiche del potere pubblico, una politica diretta ad aumentare la libertà individuale economica e non solo dei singoli, in un Paese dove gli “uomini senza qualità” (non appartenenti a questa o quella corporazione di interessi) vedono quasi sempre frustrate le loro iniziative e intaccati i loro diritti, non potrebbe che essere salutata con entusiasmo, così come sarebbe da approvarsi senza riserve una politica che favorisse il ritorno in Italia di attività industriali avanzate (compreso il settore nucleare e la ricerca a fini spaziali), o una politica che diminuisse la pressione fiscale sugli immobili, in particolare quelli che sono frutto del risparmio dei proprietari. Se invece l’attuale situazione viene criticata in nome di un rifiuto dell’industria e di un ritorno alla terra, e nel nome dello sviluppo delle attività turistiche (in accordo, paradossalmente proprio con quanto si è in parte realizzato sotto la spinta dell’Unione europea criticata dall’A.); in nome del lavoro obbligatorio, dei limiti al risparmio, della proprietà intesa come concessione, del necessario sviluppo verso, non più il benessere, ma verso la decrescita felice, come viene definita questa prospettiva nel pensiero di Serge Latouche; in nome soprattutto di una élite illuminata che nell’interpretare secondo le proprie concezioni la “Costituzione più bella del mondo” (secondo la fortunata definizione di un comico toscano) prescrive al prossimo cosa fare e cosa non fare, prevedendo pure sanzioni penali (conseguenza inevitabile per chi imbocca la via che porta al totalitarismo) ad esempio per chi acquista a prezzo minore i titoli pubblici italiani e magari anche per chi diffonde previsioni (peraltro ampiamente discutibili) sulla solvibilità dello Stato italiano, allora tale tesi è decisamente inaccettabile. La deindustrializzazione del nostro Paese era stata prevista nel 1999 da A.Venier (Il disastro di una Nazione, Padova Aerre, 1999), in un libro molto lucido, anche se pure esso legato alla tesi di un “complotto liberista”, libro in cui senza mezzi termini si parla della riduzione dell’Italia ad una nazione economicamente sottosviluppata e si fa il paragone con la decadenza che coinvolse tutta la Penisola nei secoli della dominazione straniera. In effetti il paragone in particolare con il 1600 è calzante; all’inizio di quel secolo gli italiani, anche se divisi politicamente erano all’avanguardia dal punto di vista economico e culturale in Europa, alla fine eravamo diventati un Paese sottosviluppato, e toccò proprio all’unico genio italiano di livello mondiale di quell’epoca (G.B.Vico, in Principi di una scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni, Bari, Laterza, 1911, riedizione 1978), teorizzare le regole dello sviluppo e della decadenza dei popoli. Causa della crisi fu il chiudersi delle élites corporative a difesa dei loro privilegi, e il rifiutare il rischio economico e sociale che stava alla base della rivoluzione industriale che era sul punto di avviarsi; il risultato fu una sorta di redistribuzione della povertà, che livellò una nazione di mercanti, banchieri e imprenditori marinari e artigiani, e la trasformò in un popolo legato alla terra, peraltro dominata dai diritti spettanti ai vari signori e signorotti (laici ed ecclesiastici), rappresentanti della “collettività”, magari fiero dei propri beni culturali e ambientali non valorizzati né tutelati (le superbe ruine di cui parla il Manzoni). Una situazione non troppo dissimile a quella che si auspica nel saggio, e tutto questo in conseguenza del rifiuto di un elementare concetto di libertà (osteggiato e quasi deriso dall’A.), ovvero come possibilità di fare tutto ciò che non lede gli altri, che poi non è altro che un elementare principio (non fare agli altri quello che non vorresti facessero a te), del cristianesimo da cui (checché se ne dica) il liberalismo, con il suo individualismo altruista è derivato, un principio sacrificato sull’altare di un concetto estraneo sia al liberalismo che al cristianesimo, quello di eguaglianza cosiddetta “sostanziale” (considerato dall’A. come principio fondamentale della Costituzione italiana, e, anche in assenza di una sua formale menzione, pure dei Trattati europei), un concetto che è invece proprio di tutti coloro che hanno voluto realizzare il paradiso sulla terra, creando (e qui torniamo ancora a Popper) un rispettabile inferno. L’alternativa, se queste tesi prevalessero, sarebbero o la tragedia di un sistema totalitario ambiental-comunista, oppure, dato che l’Italia è pur sempre il Paese nel quale Prezzolini diceva che «i fessi producono, i furbi redistribuiscono », la farsa tragica di una nazione dominata da un’oligarchia di ricchi che agiscono senza alcun rispetto del bene comune (anche ambientale) e che da un lato predicano il valore della povertà e la distribuiscono (come già avvenne secoli fa) tra la stragrande maggioranza dei cittadini, e dall’altro predicano il valore dell’ambiente e della cultura solo in quanto ciò sia al servizio dei loro interessi. Difficile dire quale delle due alternative sarebbe peggiore, per cui le tesi sostenute da Maddalena, pur rispettabili, e nonostante alcune verità affermate, non possono essere condivise.










NOTE
Note critiche a margine del saggio di Paolo Maddalena, Il territorio come bene comune degli italiani, Roma, Donzelli, 2014.
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