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Matteo Renzi spiegato agli stranieri
di Giuseppe Sacco
Come se avesse voluto sottolineare apertamente il suo distacco dai piccoli giochi della politica, subito dopo le elezioni europee dalle quali era uscito trionfatore, Matteo Renzi, il nuovo Capo del Governo italiano, ha rivolto gran parte della propria attenzione verso l’estero: verso l’Europa, naturalmente, ma non soltanto verso l’Europa. Anzi, è stato in un paese arabo che egli ha compiuto la sua prima missione di Stato all’estero, la Tunisia. E lì, con una forzatura geografica che indica una scelta di politica estera assai significativa nel momento in cui l’Occidente sembrava preso in una sorta di “guerra su due fronti”, egli ha dichiarato che il Mediterraneo non è un confine, ma il cuore dell’Europa. E poi ha avviato un giro in Asia alla testa di un una missione di industriali, senza il timore di lasciare la scena romana ai suoi avversari ed ai suoi alleati che – sotto shock gli uni quanto gli altri – non smettevano di chiedersi quali sarebbero stati per ciascuno di essi le conseguenze politiche dell’ondata di consenso suscitata dal giovane leader fiorentino.
Un rilancio dei rapporti economici internazionali, soprattutto con la Cina, era una necessità evidente da molti anni, necessità nei confronti della quale i primi ministri precedenti avevano, sì, mostrato di essere sensibili, ma non avevano potuto ottenere grandi risultati concreti. Avere – per occuparsene – lasciato libero il campo al momento delle trattative e dei rimescolamenti che seguono l’occasione elettorale, è stato un altro di quei gesti tipici di Matteo Renzi che piacciono agli Italiani, perché fanno sperare che sia infine possibile far passare l’interesse nazionale avanti agli interessi delle botteghe partigiane.
Eppure, a Roma, nel fresco delle sere d’estate, quando il ponentino soffia dal mare, Matteo Renzi aveva non poche cose da fare. Soprattutto egli doveva cercare di sfruttare al meglio l’occasione che gli si offriva di cambiare in maniera durevole il sistema politico della penisola. Perché è un fatto indiscutibile che le elezioni europee del 25 maggio 2014 avessero offerto un risultato i cui effetti, quale che sia il destino personale del giovane segretario fiorentino del PD, erano destinati a durare a lungo nel tempo.
Quella consultazione elettorale ha infatti dimostrato che in Italia anche la sinistra può ottenere una vera maggioranza, mentre fino a ieri si considerava il Partito Democratico come incapace di raccogliere più di un terzo dell’elettorato. Come ha scritto il «Corriere della Sera», «Renzi ha dato la prova che il PD, il partito della sinistra, può da solo vincere una competizione elettorale; e che il bipolarismo può meglio di qualsiasi altro sistema aprirgli la via del potere (3 luglio 2014)». Non esiste dunque più alcuna giustificazione ai dubbi e alle riserve di alcuni esponenti di quel partito a cambiare la Costituzione e la legge elettorale, e cambiarla in modo che a chi vince le elezioni non sia impedito di governare, e che l’Italia non sia più condannata ad essere eternamente affidata a coalizioni eterogenee, ed impotenti a fare le riforme economiche che sono indispensabili per il paese.



Speranza contro rabbia

A differenza di ciò che è accaduto negli altri paesi dell’UE, il 25 maggio non è stato in Italia un giorno oscuro per l’Europa, un dies atro signando lapillo da dimenticare al più presto nascondendo, come al solito, la testa sotto la sabbia. Nella Penisola, invece, quel giorno non solo è stato una tappa fondamentale nella coraggiosa impresa di Matteo Renzi, passato in 130 giorni dalla Comune di Firenze al governo della Nazione, ma ha probabilmente segnato anche una svolta psicologica e politica collettiva duratura.
Una pagina di storia sembra infine essere stata girata, e delle nuove possibilità aperte in un paese che alcuni osservatori stranieri avevano troppo rapidamente dato per agonizzante e senza avvenire. Perché, votando contro corrente rispetto al resto dell’Europa, l’Italia ha reagito al pessimismo continentale dell’inverno 2013-14 con un soprassalto di speranza, e con una manifestazione di buon senso e di fiducia in se stessa che ha sorpreso, radicalizzato e fatto infuriare un gran numero di cosiddetti “esperti” di questioni italiane. Per non parlare dei corrispondenti da Roma della stampa estera che passano il loro tempo a godere del dolce clima, della qualità della vita e dei semplici, ma ormai rari nel resto del mondo, piaceri offerti dalla capitale.
In quello dei tre grandi paesi che più è più a lungo aveva sofferto della crisi della Zona Euro si sono infatti ottenuti non solo la più alta percentuale di affluenza alle urne di tutto il continente, ma un risultato dei partiti euroscettici inferiore di metà non solo rispetto a quello che si aspettavano i suddetti “esperti”, ma anche rispetto alle previsioni dei sondaggisti. Si ottenuto soprattutto lo stringersi della Nazione attorno ad un leader. Tanto che il partito di cui egli era alla testa da solo poche settimane ha superato la soglia del 40% dei suffragi: risultato mai ottenuto da oltre mezzo secolo quando nel pieno del miracolo economico, nel 1958, la Democrazia cristiana aveva ottenuto il 42. 36% dei suffragi. Come ha scritto il quotidiano «El Pais»,«se l’attuale Parlamento europeo non è il più antieuropeo nella storia dell’UE, lo si deve soprattutto al trionfo del giovane leader del PD».
Ma la vera sorpresa viene da un altro fronte. L’Italia si è infatti rivolta, per affidargli le sue speranze, verso un partito strutturalmente minoritario che poco si prestava – almeno in apparenza – a svolgere questo ruolo. Perché già in altre occasioni, in particolare alle elezioni del 2008 e del 2013, quando tutti i sondaggi lo davano vincitore, gli Italiani, una volta soli con la loro coscienza della cabina elettorale, non avevano alla fine votato per quello che essi ancora identificavano come il partito degli ex comunisti. E ciò per la più grande delusione di tutti gli “amici dell’Italia” che, a Washington come a Berlino, sostenevano il PD con tutte le loro forze.
È facile per gli osservatori stranieri sottovalutare l’audacia del progetto di Renzi, del suo tentativo di costruire il proprio destino politico come interprete del desiderio di rinnovamento della società italiana, e di farlo avendo prioritariamente restituito alla sinistra il ruolo che dovrebbe essere il suo: il ruolo del partito del cambiamento, il rappresentante degli strati più umili della società. Perché non è mai stato facile, per questi stessi osservatori stranieri, capire come mai i partiti nati dalle ceneri del PCI non erano mai riusciti a tradurre in maggioranza elettorale la indiscutibile egemonia gramsciana di cui i comunisti da sempre godevano nella società italiana, grazie al controllo di fatto di tutti i poteri non elettivi. E ciò, perché non è facile percepire le ragioni profonde del rifiuto istintivo e passabilmente irrazionale di cui esso era fatto oggetto da parte della maggioranza degli elettori: un rifiuto quasi viscerale che ha permesso durante una ventina d’anni le paradossali ripetute vittorie di un impolitico come Berlusconi. Il Cavaliere, infatti, non si definiva politicamente se non come un interprete di questo rifiuto, e riusciva a ottenere risultati inattesi nonostante le gaffes e gli errori politici gravi commessi a ripetizione, e nonostante gli sforzi reiterati degli ex comunisti di cambiare identità rinnovando il simbolo e il nome del loro partito: prima la Cosa, poi la Quercia, poi L’ulivo. Poi, successivamente DS, e ancora PDS, infine oggi – dopo un serio sforzo di cambiamento – PD; domani forse “Partito della Nazione”.



Il rifiuto dell’intellighentzia di sinistra

Assai significativo, per rendersi conto di quanto fosse forte la percezione negativa che i partiti successori del PCI dovevano superare per affermarsi è un pubblico scambio di lettere avvenuto, in occasione di una precedente consultazione elettorale tra Manlio Cancogni e Indro Montanelli: due famosi giornalisti ed osservatori di lungo corso della scena italiana.
Tu – scrive Cancogni – hai consigliato di votare a sinistra turandosi il naso. L’espressione non mi piace. Votare a sinistra significa votare tout court per i DS, cioè a dire per gli “ex”. Ora gli “ex” sono senza dubbio gentili, educati, colti, flessibili, persino premurosi. Restano tuttavia per legge biologica degli “ex”, cioè dei leninisti puri. Il che non significa che vogliano fare la rivoluzione, o il diavolo a quattro. Per carità! Sono dei moderati, loro; gli unici garanti dell’ordine costituito. Loro si contentano di conservare il potere. Perché pensano (come il loro maestro) di avervi diritto per investitura divina, perché la ragione storica (il loro Dio) ha posto il suo nido nelle loro coscienze. Questa presunzione, che trasuda dalle loro amabili facce (pensa D’Alema, pensa a Fassino), di essere, comunque sia, sempre i migliori, mi è insopportabile.

E l’altro gli risponde:
il tuo bersaglio non è la sinistra politica, il tuo bersaglio e quella intellighentzia di sinistra sulla quale sono costretto sia pure contro voglia a condividere tutto ciò che ne pensi e ne hai detto. Sì quella sì è davvero insopportabile e quel che è peggio autoinvestitasi, quando aveva tutto dalla sua compresa la contestazione, della esclusiva del verbo, ci ha costruito sopra un reticolo clientelare di posti di potere culturali a prova di tutto, compresi i certificati della sua incultura. Mi dispiace per te, ma qui non posso darti torto, perché questi titolari del sale e tabacchi della ragione storica li abbiamo avuti sul gobbo, noi del «Giornale», per vent’anni con tutta la loro prosopopea, per fortuna corretta dalla illeggibilità dei loro saggi, o per meglio dire delle loro truffe. Che continuano, imperturbabilmente, come se il muro di Berlino fosse ancora lì, ad occultarci quello che c’era dietro. I politici della sinistra [...] sono dieci, venti, cento volte meglio della loro intellighenzia anche se dicono frescacce, le dicono a bassa voce, senza salire in cattedra da dove l’intellighentzia invece non scende mai, nemmeno per andare in bagno.

Certo questi due grandi giornalisti sono entrambi due toscanacci, vale a dire degli iracondi di natura, che della propria iracondia fanno ostentazione ed orgoglio, e che esprimono in maniera estrema i sentimenti che qualsiasi altro italiano mostrerebbe attraverso una frase ironica o una smorfia di disgusto. Ma soprattutto si tratta di due conservatori dal moralismo radicaleggiante ed estetizzante, di due iconoclasti privi di un loro Dio da sostituire agli idoli abbattuti. E poi, passati attraverso il fascismo e l’antifascismo senza mai essere stati “di sinistra”, nutrono un anticomunismo che si rivolge soprattutto contro quel che di religioso il movimento comunista ha avuto durante la prima metà del ventesimo secolo, e che ha portato tanti comunisti a vedere l’impegno politico come un sacerdozio, e a sacrificargli la stessa vita. Eppure si tratta di un moralismo dissacratorio, radicaleggiante ed estetizzante che è ancora presente ed influente nella società italiana.
Questi singolari personalità non sono però sole in questa crudele analisi dell’intellighentzia ex comunista. Addirittura, di un «razzismo etico» di una parte della sinistra ha parlato anche un osservatore assai più progressista, un serio analista delle cose italiane come il professore torinese – ed opinionista de «la Stampa» – Luca Ricolfi, che ha sottolineato:
un sentimento – quello di superiorità culturale e morale – coltivato per decenni da tutto il ceto politico progressista. Un sentimento che non è del Pd in particolare, ma è proprio della cultura di sinistra nel suo insieme, compresa quella estrema di Bertinotti e Diliberto, compresi gli intellettuali e gli artisti fiancheggiatori, compresi i giornalisti e i commentatori che ogni giorno parlano della destra con la supponenza di chi si situa a un ben altro livello di civiltà, di dirittura morale, di responsabilità istituzionale.




L’audacia di Renzi

Certo, molta acqua è passata sotto i ponti, perfino sotto gli eterni ed immutabili ponti dell’Arno e tra gli sbarramenti progettati da Leonardo, dopo i duri giudizi di Cancogni, Montanelli e Ricolfi, e prima che Renzi apparisse sulla scena pubblica italiana. Eppure le loro parole descrivono in maniera perspicace il sentimento che sino a ieri aveva impedito all’Italia di dare la maggioranza alla sinistra.
Ma che cos’è dunque accaduto di recente nel Partito Democratico perché un numero non trascurabile di coloro che votavano Berlusconi, ed un numero molto più grande di elettori progressisti sino a ieri furiosi contro gli ex comunisti potessero infine dargli il loro voto? E avvenuto un fatto decisivo, un fatto tutto e solo italiano, che non ha avuto equivalenti in Europa nella primavera elettorale del 2014: una rivolta della speranza; una vera anomalia in un continente in declino, e che sembra ormai rassegnato al proprio destino. Coraggiosamente, nel novembre 2012, un giovane dirigente di provincia la cui unica esperienza politica era di essere da cinque anni Sindaco di Firenze si è portato, alle Primarie del PD, candidato alla Segreteria del Partito. E le Primarie – aperte per di più non solo agli iscritti, ma ad una più vasta platea di elettori di sinistra – attraverso le quali gli “ex-comunisti” hanno qualche anno fa deciso di eleggere il loro leader, costituiscono un fondamentale elemento di differenziazione rispetto all’ex PCI. Così come di rottura rispetto al Partito di Togliatti è il fatto che lo Statuto datosi dal “Partito successore” nel 2008 stabilisca, che il Segretario sia automaticamente destinato a essere candidato al posto di Capo del Governo.
Non c’e da sorprendersi perciò se l’apparato del PD, in gran parte ereditato dall’ex-PCI, abbia posto sul suo cammino ostacoli di ogni genere. Né che la nomenklatura creatasi attraverso il lungo controllo di moltissime posizioni di potere, così come, e ancor più, l’intellighentzia del partito abbiano vissuto la candidatura del giovane Sindaco di Firenze, un ex boy scout di provenienza cattolica, come un vero e proprio scandalo; peggio: come un crimine di lesa maestà.
Renzi non si era lasciato intimidire, né scoraggiare. E alla fine aveva ottenuto un risultato più che notevole: 33,5% contro il 44% a favore del Segretario uscente, Pierluigi Bersani. Ma il meccanismo delle Primarie prevede due turni, con lo spareggio tra i due candidati più votati; cosicché, 15 giorni più tardi, al secondo round, la macchina del partito aveva, com’era da prevedere, facilmente stritolato lo sfidante, anche se per ottenere questo risultato era stato necessario con diversi pretesti impedire di votare a un certo numero di simpatizzanti che si erano presentati ai gazebo appositamente creati.
Facendo mostra, anzi ostentando la sua disciplina, Renzi era dunque tornato a Firenze senza sollevare il problema della dubbia regolarità della consultazione. Egli sapeva di avere il tempo dalla sua parte. E poteva aspettare tranquillamente che venisse la sua ora. Anzi, egli era probabilmente convinto che questa non avrebbe tardato a venire perché sapeva che l’Italia, a differenza di lui, di tempo ne aveva assai poco.
La fase di Renzi bravo ragazzo disciplinato – durante la quale uno dei saggi del vecchio partito comunista gli consigliò di limitare le proprie ambizioni al Parlamento di Strasburgo – non era perciò destinata a durare troppo a lungo. E l’occasione di porvi termine sarà offerta dal fallimento di Bersani alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, quando il PD che pure era dagli “esperti” dato come sicuro vincitore, riuscirà a rovinare tutto con una campagna condotta con ancora più sicumera ed arroganza che d’abitudine. Nel febbraio 2013 Bersani uscirà infatti sconfitto, sia a fronte di un’incredibile resistenza di Berlusconi – che pure era messo in gravi difficoltà sul fronte giudiziario – che a causa della esplosione del Movimento cinque stelle (M5S) di Beppe Grillo.
A ciò si aggiungerà, per rendere del tutto sgombra l’arena da cui doveva uscire il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri, la sanguinosa disfatta di Mario Monti, Premier mai eletto, e della sua squadra, arruolata senza alcun discernimento: alcuni (pochissimi) tecnici di prim’ordine, animati solo dall’impegno di fare il bene pubblico, ma soprattutto patetici personaggi “prestati” da membri dell’establishment economico privato. Una disfatta che era anche una dura lezione per l’establishment straniero che non solo aveva auspicato apertamente – e più che auspicato – l’uscita di scena di Berlusconi, assai screditato a livello internazionale, ma anche sostenuto in maniera invadente e talora proterva la candidatura Monti al governo dell’Italia.
La sconfitta di Bersani e di Monti, e la loro resistenza a prenderne atto è ovviamente costata all’Italia alcuni mesi di agonia. E solo dopo il fallimento di tutti i tentativi per formare una coalizione diretta da Bersani, l’uomo che – si supponeva – avesse sconfitto Renzi alle Primarie; e dopo la formazione di un fragile governo Letta, un confuso pateracchio di uomini dell’apparato del PD e di transfughi berlusconiani, messo su alla bell’e meglio quando era diventato evidente che Monti doveva sgombrare al più presto possibile, l’apparato del PD si rassegnerà alla scelta di un nuovo segretario del partito. Saranno le primarie del dicembre 2013, che Renzi vincerà in maniera indiscutibile presentandosi apertamente come l’uomo della rottura col passato.
Così, una volta conquistata la leadership del partito democratico le condizioni saranno riunite perché una grande ondata di speranza, nata all’interno del corpo apparentemente inerte del PD, si comunicasse all’Italia intera.



Recuperare gli “incazzati con la sinistra”

Renzi non poteva evidentemente ignorare le ostilità che avrebbe suscitato nel momento in cui, per darsi lo strumento delle proprie ambizioni politiche, egli aveva scelto di partire alla conquista di un partito universalmente considerato come un animale politico-culturale molto difficile da addomesticare.
Il PD è infatti una coalizione strana e per certi aspetti anche equivoca di sopravvissuti delle due forze politiche e dei due partiti di massa – la Democrazia Cristiana ed il PCI – feriti a morte dalla fine della guerra fredda. Ma esso è al tempo stesso anche l’ultima incarnazione di una strategia portata avanti dal PCI fin dal 1944; una strategia di “compromessi storici” probabilmente ispirata dallo stesso Stalin, persona di scrupoloso realismo, dopo che Yalta aveva reso impossibile, in Italia, qualsiasi ipotesi di controllo totale del potere da parte delle forze comuniste, che pure erano le vere vincitrici della guerra partigiana, e le più numerose, meglio organizzate ed armate della Penisola.
Questa strategia era stata realmente applicata da Togliatti. In un primo tempo attraverso un tentativo di salvare la monarchia e quindi realizzare un compromesso istituzionale con le forze conservatrici e massoniche che si raccoglievano attorno alla figura del sovrano. E più tardi, una volta archiviata questa prima ipotesi per la rivolta di tutte le forze antifasciste del paese, attraverso la forma di un compromesso storico con la Chiesa. Strategia che ebbe, invece, successo, e trovò applicazione nella introduzione dei Patti lateranensi nella Costituzione della appena creata Repubblica italiana.
Si trattava però di una strategia che escludeva le forze laiche, e che appariva chiaramente appartenente ad un’altra epoca, quando Berlinguer – parecchi decenni più tardi – tentò di applicarla ad una società che si era nel frattempo radicalmente secolarizzata e profondamente trasformata dal punto di economico.
La natura e le origini del PD spiegano almeno in parte perché Renzi, proveniente da una famiglia fortemente cattolico-progressista – ma per dato generazionale e, in parte, anche caratteriale, molto lontano dal cosiddetto “catto-comunismo”, abbia fatto l’improbabile scelta di fare del PD il luogo d’applicazione delle sue enormi energie e delle indubbie capacità politiche di cui egli ha appena dato prova.
Come ha potuto Renzi immaginare di trovare in questa setta sclerotizzata lo strumento della propria strategia di rinnovamento? Strategia di rinnovamento che assume talora aspetti estremi e iconoclasti, come l’intenzione, ripetutamente dichiarata, di “rottamare” tutto il gruppo dirigente del PD concretizzatasi, più tardi, nella scelta dei suoi ministri, in grande maggioranza molto giovani e senza esperienza politica: più significativa ancora, in questo senso, l’evocazione del “cambiamento violento”, non a caso avvenuta davanti ad un pubblico di qualità, come gli Italiani affermatisi a Silicon Valley, e che – giustamente – nutrono forti risentimenti nei confronti della nomenklatura che domina il loro paese d’origine.
La risposta è probabilmente che Renzi si è lanciato in questa avventura perché egli era consapevole del fatto che bisognava – in un paese che ha conosciuto un enorme progresso sociale fino a circa gli anni 80, prima che la tendenza si capovolgesse – far rientrare la sinistra nel proprio ruolo, ridarle la sua composizione naturale, in termine di aree culturali e di strati sociali rappresentati.
Dal punto di vista strettamente politico ciò avrebbe permesso di recuperare il vasto gruppo volgarmente detto “della sinistra incazzata”, vale a dire tutti coloro che per formazione culturale e origine sociale avrebbero naturalmente gravitato attorno a posizioni socialiste, socialdemocratiche, radicales alla francese, o liberal all’americana. E che avrebbero forse trovato il loro posto sulla scena politica se la famiglia politica di cui Bettino Craxi è stato il più recente leader non fosse stata perseguitata e dispersa dal “partito dei giudici”.
Furiosa contro gli ex comunisti, che al linciaggio di Craxi avevano partecipato con entusiasmo, e naturalmente avversa all’arroganza della nomenklatura, questo strato vasto e sofisticato dell’opinione pubblica, si trovava da più di venticinque anni in condizioni di difficoltà e senza vera rappresentanza nel paesaggio politico dell’Italia, dove essa riteneva che – se la destra svolgeva più o meno il proprio mestiere, quello della continuità sociale e culturale – la sinistra dal canto suo non svolgeva il ruolo che normalmente le sarebbe spettato: quello di promuovere il cambiamento e il rinnovamento, in un periodo in cui l’Italia, come tutte le società dell’Occidente, rischia la decadenza e la marginalizzazione.
È soltanto alla testa di una sinistra ringiovanita e guarita della sua sclerosi culturale che Renzi poteva – e può – offrire a questa componente quasi sterilizzata della società italiana una vera rappresentanza politica, e quindi l’occasione di svolgere anch’essa un ruolo di fronte alla scontentezza della Nazione.
Perché gli italiani sono scontenti, come un gran numero di altri Europei. Solo che essi non dirigono la loro scontentezza contro la Germania o contro la Signora Merkel, ma piuttosto contro la loro propria classe politica, contro la nomenklatura dello Stato (che ha a lungo coinciso con quella dei partiti, per poi diventare ancora più chiusa ed inamovibile quando l’evidente crisi in cui questi sono piombati ha reso impossibile ogni ricambio); casta chiusa e che non si rinnova più se non per cooptazione senza che gli elettori – dopo l’abolizione del voto di preferenza – abbiano la possibilità di dire una loro parola.
Gli Italiani sono, anzi, assai più che scontenti. Come ha scritto il «Corriere della Sera» all’indomani del secondo turno delle elezioni locali (il cui primo turno si era tenuto contemporaneamente alle elezioni europee): «nel gran corpo dalla società italiana circola una rabbia blu ed impaziente».
Il fenomeno non è solo di oggi, anche se è andato progressivamente crescendo. E lo testimonia il fatto che da vent’anni senza interruzione, gli Italiani hanno votato maggioritariamente contro i governi successivamente in carica, e nessuno schieramento ha potuto mantenersi al potere. Nel 1994, il successo di Forza Italia ha segnato la preferenza degli Italiani per un leader non politico e dallo stile rozzo, ma completamente diverso da quello dei politici sino ad allora dominanti. Ed è stato l’inizio di una serie ininterrotta di “No!” rivolti dal popolo italiano alla sua pretesa classe politica. Già nel 1996, infatti, dopo nemmeno due anni a Palazzo Chigi, Berlusconi è stato battuto da Romano Prodi, e cinque anni – e tre diversi premiers – più tardi, nel 2001, il Cavaliere è stato riportato al potere dal voto popolare, per poi ritrovarsi ancora sconfitto da Prodi nel 2006. Ancora due anni, e nel 2008 il pendolo passa violentemente dall’altra parte e, da avversario di turno del governo in carica, Berlusconi s’è ripreso il posto a Palazzo Chigi. Infine, tra 2011 e il 2013, un confuso mescolarsi di pressioni extraparlamentari e di voto popolare è riuscito ad estromettere Berlusconi, a porre le premesse per l’avvento di Matteo Renzi: che da capo del Governo riceverà infine – per la prima volta – un forte segno di approvazione da parte del paese.
Ma la rabbia degli Italiani non è sopita. Ed è nuovamente apparsa al secondo turno delle elezioni locali che erano state associate alle Europee, quando il voto non è stato più visto come un modo di dire “Si” o “No” a Renzi, e quando gli elettori si sono trovati di fronte al miserabile personale politico dei partiti tradizionali. Questa rabbia ha allora ancora una volta “traboccato dalle urne”, e si è espressa in scelte estreme, come era già accaduto alle elezioni politiche del febbraio 2013, dopo le quali un trionfante Grillo aveva potuto qualificare Bersani, all’epoca segretario del PD, come “morto che parla”. Il secondo turno delle elezioni municipali suppletive o regionali che si erano tenuti un po’ dappertutto nella penisola due settimane dopo le Europee, avevano infatti ridato un po’ di vita al movimento del clown genovese, così come un nuovo soffio di vita a Forza Italia.
Con ben il 6% di voti in meno rispetto alle elezioni europee – ulteriore prova del fatto che quelle erano state un successo personale del nuovo Capo del Governo – il PD riportava in ogni caso un risultato molto migliore di quanto mai ottenuto prima che il giovane sindaco di Firenze arrivasse alla testa del partito.



Un sorriso da ragazzino ma denti d’acciaio

Come abbiamo visto, il PD, dopo il successo di Renzi alle primarie di dicembre 2013 e il suo avvento alla Segreteria, aveva ritirato a Letta il mandato di dirigere il Governo. Stranamente, ma solo in apparenza, anche le correnti ostili a Renzi – quelle stesse persone che egli dichiarava di voler “rottamare” – avevano partecipato all’operazione, che ha così sfiorato la brutalità, esponendo Renzi al rischio di dispiacere ad un gran numero di italiani che attribuiscono molta importanza alle buone maniere.
Il licenziamento di Letta, che il surrealista corrispondente in Italia di «Le Monde» ha addirittura confrontato alla caduta di Cesare sotto i colpi di Bruto – è stato invece un momento importante, e per vari motivi. In primo luogo, perché in quell’occasione si è avuta la prova che sotto il suo viso rotondetto e sotto il suo sorriso da bravo ragazzo, Renzi nasconde denti d’acciaio: caratteristica indispensabile quando si debbono affrontare nemici formidabili come quelli che egli ha esplicitamente identificato: i mandarini incrostati nella burocrazia, la nomenklatura che controlla i partiti, l’intellighentzia che esercita l’egemonia culturale.
E poi, persino i vecchi dirigenti del PD volevano licenziare Letta ed affidare a lui la massima responsabilità politica del Paese! Ma ciò non era frutto di benevolenza nei suoi confronti. Essi lo hanno scaraventato nella posizione più esposta ben sapendo che, a causa delle imminenti elezioni europee, egli avrebbe dovuto sottomettersi prematuramente ad un assai rischioso verdetto delle urne, che avrebbe potuto essergli fatale. Tanto più che, dopo le disastrose esperienze dei governi Monti e Letta i sondaggi davano il centro destra in forte ripresa. Fingendo di prestarsi al loro gioco, Renzi ha invece dato non solo una nuova prova della propria capacità di giocare il tutto per tutto, ma anche – come si vedrà il 25 maggio – di avere meglio di chiunque altro nel PD il “polso” del Paese e dell’elettorato.
Renzi, d’altro canto, non aveva molta scelta. Egli sapeva che, per dare una possibilità di successo al suo progetto di rinnovamento – e per sbarazzare il campo dalla minaccia antieuropeista di Grillo, un potenziale rivale che era stato con il suo 25% il vero vincitore delle elezioni politiche del 2012 – gli era indispensabile andare in prima linea, insediarsi a Palazzo Chigi, e farsi forte di un successo elettorale ottenuto mentre occupava la posizione di Presidente del Consiglio. E Renzi lo farà trasformando le elezioni europee in un referendum tra la speranza e la rabbia, e quindi tra lui e Grillo. Operazione peraltro non rinviabile, nella sua ottica di young man in a hurry – come lo ha definito il «Financial Times» – in quanto le europee del 2014 erano la sola consultazione che si sarebbe sicuramente tenuta prima del 2018, e dunque un’occasione unica per ottenere una consacrazione popolare. Egli ha dunque scelto di rischiare, anche se in quel momento tutti – tranne qualche osservatore indipendente – pensavano che la rabbia avrebbe vinto sulla speranza, cioè che il M5s aveva buone possibilità di sorpassare ed umiliare il Partito Democratico.
La fortuna e gli Italiani hanno riconosciuto merito all’audacia. E la speranza ha vinto. La vittoria del 25 maggio con l’inaudita percentuale del 41% dei suffragi ha consacrato Renzi. E ciò nonostante il suo nome neanche apparisse sulle schede elettorali, perché le liste dei candidati riproponevano ancora l’apparato e il personale dei vecchi partiti, con tutte la loro inconsistenza politica e personale.



Il partito dei giudici: declino o rinnovamento?

Il blitz di Renzi nella vita politica italiana segna chiaramente la fine della cosiddetta Seconda Repubblica, la nuova fase storica – nel complesso abortita – che avrebbe dovuto far seguito alla fine del comunismo e allo scandalo di “mani pulite”. Ma molto resta da fare per liquidare la disastrosa eredità di questo periodo. E sarà questa il prossimo compito di Renzi, che fino ad oggi ha avuto solo il tempo strettamente necessario per i tre passi essenziali che abbiamo già descritto, e per dare avvio a tre riforme fondamentali cui accenneremo più innanzi.
Imponendosi alla Segreteria del PD, il 15 dicembre 2013, Renzi si è dato il primo strumento della sua azione politica. Poi, il 22 febbraio 2014, si è assunto la rischiosa responsabilità di Presidente del Consiglio dei ministri. Ed infine, il 25 maggio 2014 egli ha conquistato ad un partito che vuole incarnare il ruolo della “sinistra riformista” – pur nella estrema complessità, ed anche ambiguità che tale espressione ha assunto nel nuovo secolo – il consenso che gli è necessario, e che naturalmente gli spetta nell’elettorato di un paese in grave crisi e disperatamente bisognoso di una nuova carica di energia vitale.
Capo del Governo da soli sette mesi, egli si trova tuttavia, come qualsiasi personalità che voglia oggi governare l’Italia, di fronte alla necessità di riconquistare allo Stato e alla politica alcuni spazi di potere senza il cui controllo lo Stato non può né operare né respirare: spazi che negli ultimi vent’anni sono stata abbandonati alle confraternite informali o segrete che, dopo la crisi di mani pulite, si sono sostituite ai partiti politici. E Renzi deve spazzare via le reti corrotte che gravitano attorno alle Amministrazioniregionali (da cui dipende, e val la pena di ricordarlo, circa la metà della spesa pubblica nella Penisola). Nonché recuperare ruoli e poteri che alla politica e allo Stato sono stati in parte sottratti dalla giustizia.
Si è molto parlato in Italia di “governo dei giudici” e di “partito dei giudici”. E sarebbe in effetti ben difficile non vedere che durante gli anni di Berlusconi la principale forza d’opposizione era la Procura di Milano. E nella primavera del 2014, per una coincidenza più che fortunata, l’avvento di un nuovo Presidente del consiglio che sembra voler rivendicare allo Stato ciò che è dello Stato ha coinciso con una fase in cui la Procura di Milano si è trovata ad essere meno unanime e meno aggressiva. E non appare neanche privo di significato il fatto che la gestione dei casi e i criteri di attribuzione dei fascicoli ai differenti giudici siano stati contestate da un membro “storico”, ma in passato non molto visibile, di questa Procura, il giudice Alfredo Robledo, che sinora si era occupato quasi soltanto di grandi questioni bancarie, talora dai forti risvolti politici internazionali.
Questi ha infatti pubblicamente sollevato problemi assolutamente centrali nella gestione della giustizia, che hanno avuto l’effetto di raffreddare – almeno provvisoriamente – alcune questioni giudiziarie la cui temperatura politica era diventata troppo elevata. Almeno provvisoriamente, tuttavia: perché tutto appare ancora incerto. Da un lato, infatti, un contraccolpo alla Procura di Milano rischia di confinare il Giudice Robledo in una posizione in cui egli non potrebbe di fatto svolgere alcuna indagine. E dall’altro, una paradossale coincidenza ha fatto così che all’assoluzione di Berlusconi in uno dei più clamorosi, e per lui più preoccupanti, processi aperti a suo carico, facesse seguito, poche settimane dopo, – da parte della Procura di Genova – l’incriminazione, con un’accusa assai clamorosa di un tal Tiziano Renzi, che capita essere il padre del Capo del Governo.
Nella primavera del 2014, tuttavia, alla sensazione di una almeno parziale e almeno temporanea de-politicizzazione della giustizia si è peraltro accompagnata un’inedita ondata di attivismo anti-corruzione. In coincidenza con l’avvento di Renzi alla massima responsabilità politica del Paese e con il clamoroso risultato da lui riportato alle elezioni europee, le iniziative anticorruzione si sono moltiplicate e – come se il sentimento di giudici fosse che essi possono ormai colpire molto più in alto di quanto essi abbiano mai fatto – l’arrivo di Renzi ha coinciso a Genova, Milano, Venezia con la condanna, l’arresto, l’incriminazione di personaggi di livello sempre più elevato. E, analogamente, l’ampiezza e il valore economico degli scandali sono apparsi sempre più grandi, come nel caso di Venezia per il progetto Mose e in quello di Milano per l’Expo. Non sono dunque piccole cricche quelle che vengono colpite; si tratta di ambienti di notevole forza economica e politica, principalmente del Nord, e di iniziative della magistratura che colpiscono, sempre più, alti funzionari ed ex ministri.
Anche molto notevole il fatto che, di fronte a questa ondata, i deputati del PD siano giunti a votare – come sottolineato dallo stesso Renzi in Parlamento il 6 settembre – l’arresto di uno dei loro. E che Renzi abbia obbligato alle dimissioni il sindaco di Venezia, eletto nelle liste del PD, e che pensava di poter tranquillamente restare al suo posto dopo una condanna patteggiata con il Tribunale.
Questo giovane politico sembra insomma non rispettare le tacite regole di solidarietà che la casta politico-burocratica ha sempre considerato anche più sacre di quanto non fossero i riti confuciani nella Cina imperiale. E sono proprio queste regole del gioco, non scritte, ma a tutti evidenti, e i privilegi che esse garantiscono indipendentemente da ogni criterio di merito, che da più di vent’anni sono all’origine della frattura tra governanti e governati.
Ed è stato in particolare di fronte alla corruzione – di cui gli scandali di Milano e di Venezia hanno dimostrato che essa continuava ininterrotta addirittura da prima della cosiddetta stagione delle “mani pulite” e che coinvolgeva gli stessi personaggi – che Renzi e andato più lontano nel suo impegno di rompere con uno squallido passato. L’iconoclasta ha infatti rotto l’unanimità delle voci che – politici e media riuniti – avevano subito iniziato a reclamare una ennesima legge destinata a meglio controllare i grandi appalti pubblici: una legge la cui lenta produzione parlamentare avrebbe ovviamente permesso ai mandarini della burocrazia e alla casta politica di guadagnare tempo in attesa che l’opinione pubblica dimenticasse, o fosse distratta da altri scandali. Ed una legge che sarebbe poi ovviamente stata altrettanto inefficace quanto quelle, assolutamente rituali, che hanno fatto seguito ad ogni precedente scandalo.



Il problema delle guardie

Renzi è parso invece considerare questo tentativo di “guadagnare tempo” come una pure semplice “perdita” di tempo, cosa che questi young man in a hurry non apprezza affatto. E ben lo si è visto all’inizio di giugno, quando il Tribunale di Venezia ha arrestato o incolpato trentacinque personalità implicate in una questione di corruzione relativa al costosissimo Progetto Mose, destinato a proteggere la città dall’innalzamento del livello del mare.
Quel giorno, Renzi era in partenza per l’Estremo Oriente. Ma ciò non gli ha impedito di far sentire la sua voce, per far comprendere che nessuna nuova legge anticorruzione era necessaria. «Il problema – egli ha detto – non è di fare nuove regole. Quelle che abbiamo ci bastano». E poi: «Il problema non sono le leggi. Il problema non sono neanche i ladri. Il problema – ha aggiunto – sono le guardie».
Le guardie! Parole che non sembravano poter venire dalla bocca del Capo del Governo, cioè della personalità pubblica cui risale in definitiva la responsabilità dell’efficacia e dell’onestà di tutte le “guardie”.
Parole sconcertanti dunque; anche se parole che non debbono essere state molto apprezzate dai mandarini della burocrazia e dalla nomenklatura del potere. Tanto più che tra coloro che sono stati arrestati o incriminati c’era un ex ministro e alcune personalità importanti del governo regionale. E poi, il già nominato Sindaco di Venezia, due altissimi responsabili del Magistrato delle acque del Po (il più grande bacino idro-geologico della Penisola) e persino un ufficiale superiore della Guardia di Finanza.
Ed è stato a questo punto che il riferimento alle guardie – completamente inaccettabile da parte del capo del governo è diventato comprensibile. Dopo qualche giorno di sconcerto, la Polizia giudiziaria inviata dal Tribunale di Napoli ha infatti operato un blitz nel quartier generale della Guardia di Finanza, a Roma, con sequestro di documenti e incriminazione di alcuni esponenti di questa struttura fondamentale dello Stato. E poi, quando nelle ore seguenti alcuni funzionari della stessa Guardia di Finanza si sono presentati alla più alta istituzione responsabile del sistema carcerario, procedendo ancora una volta ad un vasto sequestro di documenti e mettendo sotto accusa per corruzione nove persone, tra cui un prefetto molto conosciuto, ex-Capo di Gabinetto del ministro della giustizia del governo Letta: quello stesso capo del governo che il corrispondente di «Le Monde» paragonava a Giulio Cesare.
Ci sì è così potuti chiedere se qualcosa non cominciasse a scricchiolare nella nomenklatura. E si è soprattutto avvertito il sentimento di un clima nuovo, come se ci fosse un idem sentire tra almeno una parte del potere giudiziario ed un government with a mission, come ha detto del Governo Renzi un autorevole finanziere indiano che opera in Italia. E questo, se fosse confermato, sarebbe un fatto significativo in un paese in cui la giustizia è completamente indipendente dal governo, e sembra quasi considerare se stessa come una casta avente diritto a particolari privilegi, oppure – e spesso – come un attore politico, e talora addirittura come uno Stato nello Stato.
Le conseguenze di questo nuovo clima non si sono fatte aspettare, in particolare a cominciare da parte del M5S, chiaramente preoccupato che i suoi elettori potessero notare che Matteo Renzi stava tentando di mettere in atto quelle riforme che Grillo riesce solo confusamente a reclamare negli urli con cui intrattiene il suo pubblico.
Il comico genovese si è infatti proprio in quel momento precipitato ad offrire la propria collaborazione al Capo del governo. Ma il suo tentativo di intorbidare le acque, e di dare impressione che la “linea Renzi” contro la corruzione fosse in realtà una “linea Renzi-Grillo” ha rapidamente fatto fallimento. Perché il presidente del consiglio ha mostrato estrema freddezza di fronte alle reiterate richieste di dialogo degli eletti del M5S, ed ha escluso ogni incontro con Grillo in persona. E ciò nonostante questi avesse improvvisamente cambiato la sua abituale tenuta casual con una giacca e una cravatta, e la retorica a base di insulti con un documento scritto in cui venivano accettati i dieci principali punti del programma di Renzi.



L’incontro con il Male Assoluto

Questo idem sentire di cui si è avuta la sensazione tra il capo del Governo e i Tribunali, o almeno alcuni di essi, è stata tanto più notevole in quanto Renzi non aveva mai smesso, già prima della sua vittoria alle Primarie del PD, ma anche una volta eletto alla Segreteria del partito, di dare scandalo proprio sul fronte principale su cui il Tribunale di Milano si era impegnato in passato. Il passo decisivo più scandaloso di tutti, e quello che si può considerare abbia aperto una “fase Renzi” nella storia politica dell’Italia contemporanea, è stata in effetti quello di porre termine alla “guerra santa” condotta dalle sinistre contro il “Male Assoluto”: Berlusconi. Una guerra che il “partito dei giudici” ed i partiti successori del PCI avevano condotto per quasi per quasi vent’anni con grande sostegno di feroci articoli dell’«Economist», dello «Spiegel», di «Le Monde», dei media di Murdoch e delle pagliacciate di Sarkozy.
La prima cosa che Renzi ha fatto dopo essere stato eletto segretario del PD è stato invece di invitare il Cavaliere in persona alla sede del suo partito per un incontro che ha fatto giustizia di venti anni di luoghi comuni, rasserenato l’opinione pubblica, obbligato una buona parte dei media a fare un mezzo voltafaccia e soprattutto recuperato al Partito democratico fasce di opinione che sino allora gli erano sfuggite. E non perché si trattasse di fasce di opinione di centrodestra, e ancor meno “berlusconiane”; si trattava anzi di fasce di opinione irritate dalle esibizioni del Cavaliere in Italia e soprattutto all’estero, e dal discredito che ne conseguiva per l’Italia e gli Italiani. Ma fasce di opinione che i media “impegnati” e la cosiddetta intellighenzia di sinistra si erano completamente alienate, per l’unfairness degli attacchi di cui il Cavaliere era continuamente oggetto, e ancor più per i toni di “guerra santa”, e per l’umiliazione che questi toni finivano per infliggere alle professioni intellettuali, al sistema dell’informazione, inclusa quella televisiva, e soprattutto alla Magistratura, avvilita a strumento di diffamazione e linciaggio morale.
E a queste fasce d’opinione si aggiungevano, e in parte si sovrapponevano, coloro che erano in grado di valutare la gravità di alcuni comportamenti dei governi di centrosinistra, come quello di Romano Prodi, responsabile di un indulto catastrofico per la sicurezza dei cittadini. E in particolare la leggerezza con cui l’economista emiliano, che pure avrebbe dovuto essere in grado di valutare le conseguenze economiche del suo comportamento, aveva capovolto – dopo un incontro con Aznar – la sua iniziale intenzione di non portare l’Italia nell’Euro. E con essi tutti coloro che avevano potuto constatare come il centro-destra avesse finito – sotto l’urgenza della necessità – per fare «cose di sinistra», che sono state dettagliatamente messe in rilievo dal già citato professor Ricolfi: «cose di cui Prodi o Padoa-Schioppa menerebbero vanto, se le avessero fatte loro. Tanto per cominciare la stabilizzazione dei conti pubblici, fatta senza colpire la sanità e con il plauso di tutte le istituzioni sovranazionali, per non parlare degli ammortizzatori sociali[…] cassa integrazione in deroga, estensione degli assegni di disoccupazione, social card, sussidi alle famiglie e ai non autosufficienti».
Dallo “scandaloso” invito rivolto a Berlusconi e dalla successiva visita alla sede del PD è nato perciò un clima nuovo, assai più disteso, nonché un accordo politico vero e proprio, addirittura un “Patto” tra PD e Forza Italia, o almeno tra i loro due leaders. E ciò ha permesso, un mese più tardi, ad un nuovo governo presieduto dallo stesso Renzi di trovare un sostanziale consenso bipartisan al Senato, ramo del Parlamento in cui, dopo il deludente risultato ottenuto da Bersani alle elezioni del 2013, le sinistre non disponevano di una credibile maggioranza.
La fine dell’interminabile duello tra berlusconiani e antiberlusconiani non poteva che essere accolto favorevolmente in un paese che non ha mai fatto guerre di religione, e che non le ama. Ma era inevitabile che essa facesse rapidamente nascere una fronda nel partito di Renzi, il Partito democratico; una fronda composta non solo di “veterocomunisti”, come comunemente si ritiene, ma soprattutto di ex-democristiani, “culturalmente” ostili a Berlusconi non solo per un moralismo bigotto che condanna la “politica spettacolo” di cui il Cavaliere tende a far parte, ma in definitiva anche per aver “corrotto” l’Italia introducendo la sua chiassosa televisione “all’americana”.
Più concretamente, peraltro, questa fronda era pronta a formare un opportunista “fronte dei No” assieme agli estremisti del partito berlusconiano a protezione delle loro posizioni, in primo luogo in Parlamento. Ma le loro prospettive si sono rapidamente dimostrate incerte, tanto che sono stati rapidamente abbandonati dall’intellighentzia, la quale – per la diversità del mercato culturale rispetto a quello politico – deve orientare il proprio conformismo al lungo termine. Se ne è avuta la prova nei risultati del “Premio Strega”, il più importante primo premio letterario della Penisola che, a fine Luglio, è andato ad uno scrittore noto per aver in passato redatto il copione del Caimano, film di feroce propaganda antiberlusconiana, al quale però gli eventi successivi avevano ispirato un romanzo in cui egli racconta come l’amore gli abbia fatto scoprire che anche coloro che non odiano il Cavaliere possono essere considerati come degli esseri umani.
Per capire e misurare la forza di rottura dell’incontro tra Renzi e il “Male Assoluto” è interessante notare che nel momento in cui Renzi ha incontrato Berlusconi, il 18 Gennaio 2014, questi era appena stato espulso dal Senato e, privato persino del titolo di Cavaliere, era al punto più basso della sua decadenza politica. Ma Renzi, forse un po’ temerariamente, non ha avuto paura del contagio; ha anzi continuato ad avere incontri con il “Male Assoluto” anche una volta installato a Palazzo Chigi, nonostante i problemi giudiziari dell’ormai ex-Cavaliere si aggravassero senza sosta, prima che la già citata sentenza di assoluzione dall’accusa di corruzione di minorenne (18 luglio 2014) e – due mesi dopo, al termine delle lunghissime ferie della magistratura – l’incriminazione per bancarotta fraudolenta del padre di Matteo Renzi, venissero ad indicare che una pagina era stata girata nei rapporti tra Magistratura e potere politico.



Il rifiuto dei due forni

Neanche un osservatore straniero che abbia seguito l’attualità politica italiana nei corso dei mesi di Settembre ed Ottobre, ed in particolare un osservatore tedesco, come la Signora Merkel, può far a meno di notare alcune importanti novità. Da un lato, l’evidente consolidarsi di un atteggiamento di fiducia nel giovane ed irruente Capo del Governo da parte dell’anziano e cauto Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in più di un’occasione è pubblicamente intervenuto per portare il proprio sostegno alle riforme avviate dal Governo Renzi. E a ciò si è aggiunto il clamoroso successo conseguito dal Premier, e Segretario PD, all’interno del suo proprio partito, dove la fronda interna è risultata alla fine estremamente minoritaria, con immediati riflessi positivi sulla disciplina dei gruppi parlamentari.
Dal lato del centro destra, invece, evidenti segni di dissoluzione accompagnano il consolidamento al potere di questo governo. Nel tentativo di vanificare il “Patto” stipulato dai leaders delle due parti, e nonostante l’emergere, al fianco del Cavaliere, di un nuovo “garante del Patto”, nella persona di un altro fiorentino di notevole rilievo, l’antiretorico ma assai efficace senatore Denis Verdini, molti eletti della destra (non senza però la partecipazione di qualche eletto della sinistra) hanno determinato, nelle occasioni in cui il Governo non è direttamente coinvolto, come l’elezione dei membri della Corte Costituzionale, una situazione di così grave indisciplina da far temere la “decomposizione” del Parlamento.
E a ciò si accompagna un crescente atteggiamento di critica e di opposizione da parte di quelli che in Italia vengono definiti “i poteri forti”. Nello stesso giorno, ai primi di Ottobre, da un lato il quotidiano dell’aristocrazia milanese del danaro, e dall’altro il Presidente della Conferenza episcopale italiana hanno pubblicato duri attacchi all’operato del Governo e di Renzi personalmente, mentre un assai ricco industriale calzaturiero lanciava la propria risibile, ma provocatoria, candidatura a dirigere il Paese. E contemporaneamente è ricomparso, con una manifestazione di massa, il M5S, che ha annunciato di ridurre la propria partecipazione alla vita parlamentare per dedicarsi soprattutto all’ottenimento di un referendum popolare pro o contro l’uscita dell’Italia dalla moneta unica.
I primi sono tutti ovvi prevedibili segnali del fatto che Renzi sta mettendo in atto il suo programma di riforme e di lotta agli sprechi e alle rendite parassitarie, e del conseguente fatto che gli interessi toccati si agitano e tentano di ribellarsi e di fare opposizione. L’ultimo – il ritorno in piazza dei “grillini” con un’accentuata impostazione anti-europea – è invece il risultato di una precisa scelta politica di Renzi, e di una scelta di politica interna dagli importanti risvolti europei ed internazionali.
Sarebbe infatti non troppo difficile per un osservatore straniero, specie un ipotetico osservatore inglese consapevole della drammatica situazione in cui l’ondata euroscettica ha posto il Regno Unito, rendersi conto del perché Matteo Renzi – pur tra le grida scandalizzate, le obiezioni e le controproposte che accompagnano ormai da mesi il “Patto” stipulato con il leader del centrodestra – perseveri nell’alleanza con lo screditato (e non solo all’estero) Berlusconi anziché cercare quella con Grillo e col M5S. Quest’ultimo, come abbiamo visto, aveva dato ripetuti segni di disponibilità anche se alternati con insulti e con la buffoneria del suo capo carismatico. Perché allora scegliere il forno berlusconiano, quando si poteva trovare pane più abbondante, soprattutto più fresco, al forno delle cinque stelle? Certo! I rapporti tra Renzi e Grillo erano pessimi. Qualche settimana prima del 25 maggio, infatti, avendo creduto che l’apertura del leader del PD verso Berlusconi fosse un segno di debolezza, il clown genovese era partito violentemente in guerra contro il Segretario fiorentino del PD, nella certezza di metterlo in difficoltà e di strappargli un gran numero di consensi. Molti avevano creduto che ci sarebbe riuscito; e solo il 25 maggio ha dimostrato quanto Grillo si sbagliasse.
La campagna condotta da Grillo per le elezioni europee era stata tale da far pensare che avesse lasciato qualche ruggine nei rapporti con Renzi, e che questa fosse la ragione della chiusura del PD ad ogni collaborazione con il M5S. Ma Renzi possiede abbastanza le virtù del politico per non immaginare nemmeno che un risentimento personale o una sensibilità ferita possano contare qualcosa nel gioco delle alleanze. In realtà, è stato per una ragione di natura squisitamente politica, se dopo la sua bruciante delusione alle elezioni del 25 maggio, Grillo, il capo del partito della rabbia, aveva ottenuto solo una glaciale manifestazione di disinteresse in cambio dei vari passi e modi, più o meno coperti, con i quali aveva cercato di “agganciare” il Capo del governo.
Come ha finemente notato l’Agenzia Nuova Cina, Renzi aveva capito il senso politico del successo di Grillo alle elezioni dell’anno precedente meglio di Grillo stesso. Matteo Renzi aveva chiaramente intuito che quelli che avevano votato M5S nel 2013, al momento della prima apparizione di questo gruppo di protestatari, volevano solo inviare un segnale forte, volevano dare un avvertimento, ma certamente non volevano affidare l’Italia al comico genovese. E che questi, nel panorama politico italiano, poteva trovare solo una casella libera di cui impadronirsi – quella dell’antieuropeismo, del rifiuto dell’Euro e al limite della stessa UE –, casella i cui altri aspiranti, quelli della Lega, erano troppo zotici e patetici per costituire un problema.
Renzi poteva così sperare che gli Italiani che a Febbraio avevano votato per Grillo avrebbero prima o poi spostato il loro favore verso un leader consapevole del fatto che l’uscita dell’Eurozona non è proponibile, e che vuole far sentire le ragioni dell’Italia in Europa, rendendola più credibile attraverso un effettivo sforzo di rinnovamento della vita pubblica: qualcosa che Grillo non può garantire, ma solo reclamare nei suoi chiassosi comizi.



Un bipolarismo europeo

Matteo Renzi non ha certamente l’intenzione di abbandonare l’Euro, né l’Italia a Grillo. E ciò già basta a spiegare la sua freddezza nei confronti del clown genovese. Al contrario, la scelta di un’alleanza con Berlusconi è molto più coerente con il suo programma a lungo termine di rifondazione della dinamica democratica nella Penisola. Una mossa assai logica, al fine di rendere più compatto e funzionale il proprio partito - che è quello, come molti hanno notato, in cui si annidano i suoi nemici piu accaniti - è stata la costituzione di una segreteria collegiale del PD, che comprende tutte le sue diverse componenti, ma in cui compaiono solo gli elementi più giovani delle correnti che sono critiche verso il governo da lui diretto. Ma ciò chiaramente non gli basta. Dopo la vittoria alle Europee, Matteo Renzi si è infatti chiaramente dedicato a ristrutturare in maniera bipolare il paesaggio politico italiano nella sua totalità. Vale a dire che egli si occupa attivamente non soltanto di rinnovare il proprio partito eliminando la “vecchia guardia” burocratica, ma si occupa anche di dare coerenza al quadro delle forze che al PD sono alternative nella dialettica democratica dello scacchiere politico italiano.
Per quel che riguarda invece le conseguenze dell’azione politica di Matteo Renzi su queste forze politiche che si presentano come alternative al PD, c’e da dire che sin dalla sua vittoria alle elezioni europee Renzi ha avuto come obiettivo non solo quello di ricondurre ad un equilibrio bipolare una situazione in cui l’elettorato si era invece diviso tra tre forze di taglia grosso modo comparabile. Renzi ha avuto invece come finalità quella di creare non un qualsiasi bipolarismo, ma un bipolarismo che fosse in linea con quello degli altri paesi dell’Europa continentale. E che fosse soprattutto diverso dal bipolarismo che si sta delineando in Inghilterra, dove alle prossime elezioni ed oltre, quale che sia il primo partito, il secondo sarà quello costituto dagli antieuropeisti dell’Ukip.
La nuova legge elettorale prevista nell’accordo tra Renzi e Berlusconi favorisce il bipolarismo perché favorisce le coalizioni e, garantendo alla coalizione vincitrice un forte premio di maggioranza, e quindi il controllo del Parlamento, scoraggia la frammentazione partigiana.
Applicata ai risultati probabili di prossime elezioni, è assai probabile che questo meccanismo elettorale assicurerebbe una grande vittoria Renzi. Ma darebbe vita anche ad una opposizione formata da un centrodestra minoritario ma unito. Sarebbe così evitata la dispersione delle forze moderate e del centrodestra che Berlusconi era nel passato riuscita a riunire sotto la propria guida. Ma soprattutto – ed è questo il punto di politica estera più importante – il bipolarismo prodotto in Italia dalle prossime elezioni sarebbe allora assai simile al bipolarismo degli altri paesi del continente, dove si hanno una forza socialdemocratica da un lato ed una forza o una vasta coalizione popolare dall’altro.
Al contrario, la legge elettorale che Grillo aveva proposto in uno dei suoi tanti tentativi di “agganciare” il PD non prevedeva coalizioni, bensì un secondo turno di ballottaggio tra i due partiti arrivati in testa in un primo round aperto più o meno a tutti, grandi e piccoli partiti. E con questo sistema, almeno nel futuro prevedibile, i due partiti principali, una volta Berlusconi scomparso dalla scena per la frantumazione del centro destra, sarebbero probabilmente il partito di Renzi e il M5S: cioè un caotico partito della rabbia antitedesca ed antieuropea.
Il bipolarismo che potrebbe vedere la luce in questo caso – se non si rifiutasse chiaramente fin da ora di comprare il pane al forno delle cinque stelle – rischierebbe di essere fondato su una perniciosa opposizione tra un PD “condannato a governare” dalla mancanza di un’alternativa politica credibile, ed un monumento anti-europeo privo di programma e di una chiara identità sociale; e che, per far finta di esistere politicamente, dovrebbe sempre di più rassomigliare al partito antieuropeo inglese Ukip, col quale ha, peraltro, fatto alleanza a Strasburgo. Tale bipolarismo sarebbe insomma anomalo rispetto ai sistemi europei, e quindi pericoloso per l’Italia, e al limite per la stessa Europa.



Dalla “rottamazione” alle “riforme”

Il tentativo di Renzi di dare una nuova spinta vitale alla società italiana è dunque soltanto ai suoi inizi, anche se egli ha già ottenuto tre risultati importanti. In primo luogo, l’avvio concreto di una processo tendente a semplificare la pesante impalcatura dei troppi livelli di decentramento, in virtù dei quali una miriade di piccoli politicanti ha sinora vissuto e sperperato senza svolgere nessuna funzione utile. Poi, un drastico ridimensionamento del Senato, che in sostanza equivale all’abolizione del bicameralismo perfetto, conquista essenziale non solo per ridurre gli sprechi ma soprattutto per accelerare il processo legislativo di tutte le altre riforme in cantiere. Ed infine l’approvazione in Senato di un Jobs Act e di una delega a razionalizzare il mercato italiano del lavoro, con una riduzione del numero dei casi in cui la magistratura può intervenire non solo nei conflitti di lavoro, ma nella gestione vera e propria, di fatto decidendo della vita e della morte delle aziende e di interi settori merceologici.
Ma Renzi è ancora assai lungi dalla meta che sembra essersi proposto. Quanto già messo in cantiere non è che l’inizio dei cambiamenti di cui l’Italia ha bisogno. E gli ostacoli che egli incontrerà sul suo cammino sono una miriade, talora dei macigni, talora una polvere impalpabile, ma tutti estremamente insidiosi.
Anche se riuscirà a sopravvivere alla loro ostilità, egli ha ancora davanti a sé un programma immenso: la ristrutturazione del sistema politico; il recupero da parte dello Stato di alcuni poteri ciecamente trasferiti alle regioni, la riforma del fisco, quella dalla Pubblica amministrazione, quella della giustizia. E poi i problemi concreti che l’Italia deve ogni giorno affrontare, come i problemi posti da una fase negativa dell’economia mondiale, e come quelli imposti dalle folle che attraversano il Mediterraneo, e nei confronti dei quali l’opinione pubblica italiana non sembra disposta a rinunciare alla solidarietà.
Di fronte a sfide tanto numerose e di tale dimensione è ancora possibile che la coraggiosa avventura politica di Matteo Renzi subisca prima o poi, una sconfitta seria, o che perda una battaglia. E che venga quindi interrotta la sua azione per ridare all’Italia il ruolo che le spettano in Europa: azione a lungo termine e di cui si potrà fare un primo bilancio solo al termine del semestre di presidenza italiana. Perché l’impresa è audace; e il suo successo non è garantito.
Una battaglia perduta, in seguito alla quale Matteo Renzi dovesse abbandonare la posizione di Capo del Governo sarebbe certamente, e sotto ogni profilo, un colpo durissimo per l’Italia. Ma non si tratterebbe – probabilmente – di una disfatta. Perché Matteo Renzi, tranne imprevisti drammatici non passerà come una meteora nel cielo di Roma. Matteo Renzi è là per restare. E – se necessario – per riemergere rapidamente, portato dall’ondata di speranza suscitata dal suo tentativo, ma tramutata, in questo caso, in una ondata di furore se la vecchia politica dovesse riuscire ad abbatterlo.
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