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La scuola nel Mezzogiorno borbonico
di Giuseppe Giarrizzo
Lo storico meridionale che sceglie temi e problemi dell’età della Restaurazione sa di avere alle spalle una tradizione illustre, da Walter Maturi a Adolfo Omodeo, da Sandro Galante Garrone ad Armando Saitta, da Carlo Francovich a Gaetano Cingari, a Marino Berengo. Un largo ventaglio che si è aperto tra gli anni ’20 e gli anni ’70 del secolo passato, e che ha consolidato e l’ascendenza settecentesca delle “origini del Risorgimento italiano” e le radici europee del parto gemellare di liberalismo e socialismo. Ma cosa rimane nella storiografia più recente delle ragioni di quella tradizione? Molto e poco al tempo stesso: molto nell’attenzione vieppiù analitica per l’eredità della Rivoluzione, e poco per le origini del Risorgimento. Ed è soprattutto il tema della “modernizzazione” ad occupar le menti degli storici – modernizzazione nella riforma delle istituzioni, negli sviluppi della scienza e del pensiero, nei modelli formativi e nell’identità socio-culturale, nel linguaggio e nella trasmissione dei saperi, nella letteratura e nella pubblicistica, nella nuova geografia dello sviluppo e nei caratteri “originali” dell’urbanesimo (disegno urbano, architettura ed edilizia, socialità culturale). La modernizzazione appunto, i cui processi ed esiti indagati con respiro arioso e andamento critico per l’Italia centrosettentrionale “sviluppata”, trovavano per il Mezzogiorno “arretrato” o “sottosviluppato” ostacolo insormontabile nella debolezza dei segnali, nel tradizionalismo delle plebi impermeabili all’azione dei colti e preda della “servitù feudale”: la borghesia, la classe che si identificava col “progresso” civile ed economico, era la grande assente; e il cambiamento laddove c’era restava fragile e privo – anche a livello del “ceto civile” – di consistenza e di radici “moderne” nella vita civile e religiosa, nella politica e nell’amministrazione. Era la tradizione del grande meridionalismo, e della storiografia che in esso si riconosceva nella tensione tra la scuola di Fortunato (e di Salvemini) e quella di Croce, una tensione che pur stava alla base di quella tradizione illustre da cui abbiam preso le mosse.
Il meridionalismo del secondo Dopoguerra, diviso tra “questione contadina” e miraggio industrialista, contribuisce alla ricerca di nuovi approcci storiografici quando cogli anni ’60, gli anni del boom e dell’emigrazione, si esauriva per un processo endogeno: allora si prende atto del cambiamento della società e del territorio meridionali, quando si è costretti a concludere col fallimento dei progetti di “rivoluzione” del Mezzogiorno arretrato. Allora prendono forma nuovi approcci e un’urgenza di revisionismo negli anni ’70 e ’80 contagia la storiografia meridionale: al centro si pongono e la città e la borghesia, e la “modernizzazione difficile” del Sud diventa quasi un sobriquet. Per la Sicilia un ruolo importante hanno svolto negli anni più recenti, accanto alla scuola messinese di Cingari e a quella palermitana di Cancila, da Catania Antonino De Francesco e Enrico Jachello, e accanto a loro per la Sicilia moderna Franco Benigno e Mimmo Ligresti.
La Raffaele si colloca consapevolmente all’interno di questo campo storiografico e sceglie un tema (La bottega dei saperi. Politica scolastica, percorsi formativi, dinamiche sociali nel Meridione borbonico, Acireale-Roma, Bonanno, 2005) che la tradizionale distinzione/opposizione fra cultura prodotta e cultura consumata ha reso marginale, fuor che nell’interesse degli storici “sociali” della lingua – da Tullio De Mauro a Franco Lo Piparo, da Alberto Varvaro a Gabriella Alfieri – per la formazione della lingua comune in aree caratterizzate da parlate dialettali e da analfabetismo. Punto di attacco è il successo e la tenacia del “modello gesuitico”, tra Cinque e Settecento, che prevale sui rivali muratoriani o genovesiani, finché la espulsione prima, lo scioglimento poi della Compagnia non pone al governo delle Sicilie il problema dell’educazione in ogni suo aspetto, dall’alfabetizzazione affidata alle scuole normali (De Cosmi) al percorso formativo nelle professioni – dal medico al magistrato, dal militare all’architetto, dal sacerdote all’avvocato, in una rivoluzione del potere locale e centrale che trova nella burocrazia lo strumento ed il simbolo. La Raffaele mette ordine nella prima parte del suo lavoro ai dati noti e conclude per un confronto d’avvio tra la Napoli francese dei napoleonidi e la Sicilia inglese di Bentinck e del 1812 siciliano in materia di progetti (e di pratiche): sui diversi versanti di esperienza politica si è affermata l’esigenza «di una magistratura suprema cui affidare il controllo dell’istruzione in tutti i suoi gradi, dell’arruolamento dei docenti, dei metodi adoperati, della disciplina morale e politica degli allievi», e la scuola è un diritto del suddito-cittadino, ed un dovere dei governi. Il Mezzogiorno della Restaurazione si troverà a sperimentare modelli formativi che danno per scontate le esigenze civili indicate.
Sono perciò le pp. 133-274 del grosso volume a fornire un quadro assai folto, in cui il lettore – costantemente avvertito del mutare del contesto politico tra il 1816 ed il ’59 – trova non solo un ordito complesso cui le oscillazioni tra accentramento e decentramento ora fanno d’ostacolo, ora sono invece opportunità in un modello peculiare di “monarchia amministrativa”. L’estensione alla Sicilia della struttura napoletana comportava la creazione (a Palermo) di una Commissione di pubblica istruzione, che faceva capo al Luogotenente e da questi, in quanto parte dell’ordinamento degli affari interni, agli intendenti – cui era data facoltà di dialogare direttamente con la palermitana Deputazione degli Studi, promossa ora ad organismo regionale. «In primo luogo, i progetti relativi all’istruzione secondaria prendevano forma attraverso un perfezionamento delle scuole per i “dotti”: collegi e licei destinati alle fasce alte di questa nuova società composta da vecchi e nuovi ceti. In risposta alle istanze napoleoniche, che avevano dato ampio spazio ai militari e al ceto impiegatizio, Ferdinando elaborava collateralmente un’ampia normativa dedicata all’istruzione militare, alla configurazione di professioni che potessero ruotare attorno ad esercito e marina, ma anche alla formazione di “artisti”, diplomatici e musicisti. Il sovrano rinnovava altresì la scuola primaria attraverso l’introduzione dei coevi sistemi pedagogici mutuati dal mondo anglosassone, più attento all’evoluzione dell’economia (in questa direzione si collocavano anche le prime “scuole agrarie”) in senso industriale. L’antica cura per l’istruzione femminile infine tendeva ad uscire dalla dicotomia tra assistenza per le bisognose e cultura claustrale per le aristocratiche, sostanziandosi in un modello adattabile, attraverso l’istituzione di specifici “educandati”, anche alle donzelle civili» (p. 143). Tra scuole lancasteriane (Scovazzo) e recupero delle scuole normali, l’insegnamento elementare si espande in misura notevole: e a pp. 150-52 sono quadri essenziali di un confronto dei metodi e dati sui libri di testo. Impegno persino maggiore si osserva nella istituzione e nei programmi della scuola secondaria (collegi, licei) – da cui si transita ai gradi universitari: e anche qui (pp. 154-55 nota) sono definiti i testi ed i manuali.
Accanto alle Scuole militari, accresciute di numero, son le nuove professioni (ingegneri, veterinari, agronomi) ad attrarre l’attenzione come fattori di modernizzazione, in una con l’educazione “artistica” (conservatori di musica, scuole di ballo e di scenografia): la breve rottura del ’21 e i problemi di bilancio connessi sono fattori di involuzione e di arresto, ma il crescente trasferimento al potere locale registra una capacità di tenuta – persino attraverso la censura; e la Sicilia del “partito siciliano” conosce un notevole impegno su questo versante in particolare ad opera dello Scovazzo, di Scinà, e dei Vigo zio e nipote. La nuova, e più grave cesura del ’37 porterà ad una regressione conservatrice, che affida l’istruzione in crescita quantitativa (asili ed opere pie) al clero sotto rigido controllo dei vescovi. E nondimeno, tra le maglie della censura che vigila su stampa e circoli ma soprattutto su collegi e licei, si afferma a cavallo del ’48 il modello del Romagnosi: e gli anni ’50 conoscono tra stop & go una crescita significativa (cfr. a pp. 259-51 il quadro per il 1853 degli stabilimenti scolastici nell’Intendenza di Noto), che merita di essere più articolatamente collocata nel territorio.
Il quadro della bottega dei saperi è arricchito, nella sezione certo più originale del lavoro (pp. 277-369), dalla vita di bottega. Anzitutto confronti sinottici di regolamenti per la vita interna di licei, collegi e scuole secondarie; quindi la figura del maestro (doveri, formazione, concorsi) – con un importante quadro (1852-53) delle scuole nell’intendenza di Catania (pp. 326-335). Suggestivi i dati sulla “normativa applicata” e sui libri di testo tra adozione e censura (pp. 353-69). E come sempre accade, alla fine della lettura di un lavoro ricco di ordinate informazioni, le domande nuove partono dai nuovi dati: riguardano e l’indagine analitica dei testi “imposti” (la storia non solo editoriale di ognuno di essi, ma la loro collocazione nazionale ed europea in un contesto dichiaratamente censorio) e i percorsi formativi dei “precettori” (maestri, professori, “pratici”). Peraltro ogni conflitto sui modelli e sui “piani” traversa l’intero territorio, e si alimenta della conoscenza implicita o esplicita degli esiti – anche se soltanto previsti o desiderati, su cui vanno aggiustati gli strumenti, siano metodi o maestri. Sarà possibile così conoscer meglio il modo in cui il vissuto scolastico si consuma entro le maglie, or lente ora strette, della politica scolastica: e definire più da presso i consiglieri (per la Sicilia, le pagine su Nicola Scovazzo sono di grande interesse) e i responsabili locali. Peraltro le conclusioni tendono ad anticipare ricerche ulteriori e risultati atti a stabilizzare l’approccio e ad aggiungerne gli esiti al tenace dibattito sulla “modernizzazione” istituzionale del Mezzogiorno tra i napoleonidi e i Borboni.
E vorrò concludere perciò con una impressione che, se non leggo male, interpreta lo “spirito” di una ricerca alle prese con un tema la cui centralità non è ancora riconosciuta dalla storiografia maggiore, e che appare rimessa continuamente in discussione dalle crisi che segnano quel tormentato mezzo secolo. La Raffaele par suggerire che “la modernizzazione del Mezzogiorno” in materia scolastica non è una variabile dipendente dalla politica scolastica dei governi che si son succeduti, ma procede “a memoria”, con una costante capacità di accumulo del nuovo sul vecchio che i governi non hanno potuto o voluto distrugger per intero: la legge che ha imposto continuità a Napoli tra sistema francese e regime restaurato, ed in Sicilia fra restaurazione e sistema inglese, è diventata in qualche modo la chiave di una crescita che si sviluppa nonostante le difficoltà o la sistematica repressione e/o regressione reazionaria. Sol che si volti il guanto, e – com’è già stato fatto dalla migliore storiografia sul Mezzogiorno ottocentesco – si parta dal mutamento socio-culturale della società meridionale per misurare il dare e l’avere con le istituzioni, talune felici intuizioni di questa ricerca troveranno conforto e daranno spessore a quella “verità” del Risorgimento meridionale che da Maturi a Romeo, da Cingari a Renda fa parte dello sforzo critico che sa leggere nelle vicende di lungo periodo la carsicità di processi che non sono soltanto l’ingrottarsi difensivo di valori e di conoscenze ma hanno una loro dinamica che lo storico può cogliere attraverso la storia linguistica e lo “stile” della pratica, nella religione e nella morale. Dobbiamo esser grati all’importante contributo della Raffaele, se la vicenda qui ricostruita – e che non si identifica con pratiche correnti di pigro revisionismo – interpreta un aspetto decisivo della modernizzazione in area arretrata non come una deriva inerziale ma come un processo originale in un contesto che si caratterizza da sempre per lo storico paradosso della contraddizione tra alta cultura e bassa politica. Sarebbe ingeneroso se la via così aperta non trovasse in avvenire chi volesse percorrerla oltre: ingeneroso anche nei confronti della “memoria” di un passato che non lo si custodisce se, al pari del presente ragionare e scegliere, non lo si rimette ogni volta in discussione.
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