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Il metodo Renzi
di G. G.
Col progredire dell’azione del governo Renzi i problemi, le contraddizioni e i rischi della vita politica italiana si sono andati via via accentuando. Contrariamente all’apparenza, non è un dato per se stesso negativo. Quei problemi, contraddizioni e rischi erano accumulati da tempo. Sono, infatti, la rivelazione di quanto la politica italiana è andata negli ultimi venti venticinque anni accumulando di negatività, di questioni irrisolte, di insufficienze e carenze, di superficiali composizioni e di illusorie o soltanto temporanee soluzioni. Dovevano in qualche modo venir fuori, e il peggio sarebbe stato che fossero venuti fuori per l’inerzia e l’assenza di iniziative della classe politica nazionale. Sono, invece, venuti fuori e vengono posti all’ordine del giorno del dibattito e dell’attività politica grazie all’azione intensiva e innovativa del governo Renzi.
Lo stile di governo dell’attuale presidente del Consiglio dei Ministri ha sollevato e solleva discussioni e dissensi estremamente vivaci. Troppo parlare e annunciare, drasticità di contrapposizioni anche là dove sembrerebbe che la prudenza (politica) consigli altrimenti, dissacrazione poco scrupolosa di punti fondamentali del politically correct della tradizione politica italiana quale si è assestata nei quasi settant’anni della Repubblica, accenti provocatorii sulle più delicate questioni sociali, misure demagogiche non corrispondenti nella loro sostanza e nella loro praticabilità ai termini con cui sono annunciate, quasi un gioco di bussolotti tra ciò che si fa o si dichiara di volere e di fare e le misure concrete di governo poi adottate che vanifica quanto si dichiara e magari produce effetti negativi peggiori dei punti di partenza: ecco un elenco sommario e incompleto dei “difetti” o “errori” che si addebitano a Renzi.
Ne è risultata, perfino, una sua qualificazione come uomo sostanzialmente “di destra”, piuttosto paradossale dal momento che la destra ha cominciato ad adottare verso di lui un atteggiamento di crescente e più frequente critica, ma paradossale anche perché la distinzione di destra e di sinistra appare sempre meno congruente con la stagione politica che stiamo vivendo. Oppure, lo si è qualificato come “uomo dei poteri forti”, ricorrendo a un’altra delle mitologie politiche di cui il tradizionale politically correct del paese si è alimentato da gran tempo, ma che nella realtà del gioco politico si prova molto spesso come sintetica indicazione di gruppi di pressione e di potere, che nelle cronache quotidiane appaiono di risaputa e reciproca contrapposizione fra loro (e, infatti, è facile constatare che, se alcuni di questi gruppi dichiarano di apprezzare Renzi e di volerlo secondare, altri consimili gruppi tengono l’atteggiamento specularmente opposto).
In realtà, Renzi solleva queste reazioni per la densità che finora hanno dimostrato la sua azione politica e la sua attività di governo. Non che in questa azione e in questa attività tutto sia immediatamente chiaro e persuasivo. Appare, però, indubbio che, nel complesso, egli abbia operato e vada operando una trasformazione sia del linguaggio e del comportamento politico che del modo e dei contenuti, sicché – a ben vedere – è proprio questa globalità del fronte operativo sul quale egli si muove a determinare così spesso il disorientamento e le squilibrate reazioni di chi lo contesta, ed è la stessa globalità a rendere quotidiane e sempre più sconcertate e spesso esagitate le reazioni che egli solleva. E si direbbe pure che sia ancora questa globalità a portare Renzi a certe accentuazioni di tono che, da un certo punto di vista, possono apparire esagerate o inopportune. Di qui anche deriva la necessità di distinguere nelle sue azioni la scorza, per così dire, verbale dalla sostanza di metodo o di merito di tali azioni.
Si prenda il caso della sua presa di posizione per quanto riguarda il rapporto fra governi e sindacati. Il governo – ha detto Renzi – non tratta con il sindacato. Il governo si informa, discute, ascolta opinioni e desiderata, riservandosi l’autonoma e soggettiva valutazione di tale scambio di idee e di notizie ai fini della propria azione; e, a sua volta, informa, chiarisce, dettaglia, discute circa le materie di volta in volta in discussione, ma non si impegna in alcun modo sulla ricezione delle posizioni e delle valutazioni espresse dal sindacato e, tanto meno, stringe con il sindacato accordi o intese da assumere poi come materia da portare all’esame e alle risoluzioni del Parlamento. In altri termini, il discorso fra governo e sindacati non può in alcun modo trasformarsi in una sede deliberativa o pre-deliberativa di quanto il governo ritiene di fare. Le deliberazioni in materia – afferma Renzi – vanno riservate all’esclusiva disamina e discussione parlamentare, senza che il Parlamento si senta in alcun modo condizionato o suggestionato da intese o accordi tra le parti sociali e il governo, così come, a sua volta il governo deve avere la piena ed esclusiva titolarità e responsabilità di quanto presenta e propone al Parlamento.
Una tale presa di posizione ha sollevato reazioni sindacali perfino indignate, ma chi può dubitare che le affermazioni di Renzi corrispondano appieno alla corretta e più valida logica di un regime parlamentare? È sorprendente vedere come quelli che allo stesso Renzi imputano di non tenere abbastanza conto del Parlamento e che del Parlamento rivendicano a ogni piè sospinto la centralità, si dolgano poi che questa centralità Renzi la rivendichi anche nei confronti del sindacato. Così come è sorprendente che chi parla continuamente di “poteri forti” inclini poi a riconoscere al sindacato uno status e un ruolo addirittura da potere forte semiufficialmente costituito.
Allo stesso modo si imputa a Renzi una sottovalutazione del ruolo e, appunto, della centralità del Parlamento per il suo frequente ricorso al voto di fiducia. Una imputazione che sarebbe fondata, se non vi fosse qualche altro elemento da considerare. E, innanzitutto, che questa pratica del frequente ricorso al voto di fiducia non è stata affatto inaugurata da Renzi. Rientra, infatti, tra le prassi più consolidate dell’Italia repubblicana, particolarmente accentuatasi nell’ultimo ventennio, e non a opera di un’unica parte politica. Quando, inoltre, il governo si trova di fronte a migliaia di emendamenti, molti dei quali differiscono da altri solo per la punteggiatura e per l’uso di qualche sinonimo nei termini che adoperano, è difficile pensare che il governo non usi, a sua volta, ogni possibile espediente per uscire da un terreno così fittamente minato. Un terreno sul quale si arena non solo l’azione del governo, ma la stessa funzionalità del Parlamento. Il quale, però, non sembra affatto protestare, né imputare alcunché ad alcuno quando si determinano situazioni, come quelle ancora in atto, dell’elezione di due giudici costituzionali, e accetta ed esegue piuttosto passivamente i dettati e gli intenti delle forze politiche. E, infine, se il governo richiede un voto di fiducia su quanto porta all’approvazione del Parlamento, e se la fiducia viene regolarmente accordata, pur comprendendo che in ciò possa avere moltissima parte la disciplina di partito, è pur da pensare, però, che l’opposizione ai provvedimenti del governo non sia di carattere così radicalmente drastica da costituire motivo per insistere nella volontà di modificare quei provvedimenti e da determinare quindi problemi di coscienza.
La stessa logica Renzi esprime nei suoi comportamenti verso altre forze sociali e verso i suoi oppositori nel partito di cui è segretario. Così è stato verso i magistrati, ai quali egli si è rivolto in termini neppure pensabili fino a quando egli li ha usati (“i magistrati si oppongono? Brrrr… Che paura!”). Anche in questo caso, però, sono davvero molti quelli che ritengono difficile pensare che i magistrati possano a lungo continuare a credere di costituire coi loro organi rappresentativi una terza Camera dell’ordinamento repubblicano, come di fatto è diventato negli ultimi venticinque o trent’anni per quanto riguardava le leggi e le prescrizioni del governo e del Parlamento circa lo status, il trattamento economico, la responsabilità e l’attività dei magistrati. Una cosa sono l’autonomia della magistratura e le prerogative che essa comporta, assolutamente inviolabili l’una e le altre, a pena di danni irreparabili alla struttura costituzionale e liberaldemocratica dell’ordinamento, nonché alla sicurezza sia dei giudici che di chi è giudicato. Altra cosa è il reputare che la magistratura possa avere una connotazione tale da farne un potere dello Stato nello stesso senso in cui lo sono il potere legislativo e il potere esecutivo, la cui competenza si estende a tutta la vita civile e sociale e a tutti gli interessi del paese e della nazione, mentre quello della magistratura è strettamente delimitato dalle funzioni giudiziarie alle quali essa assolve. Il che è poi ben risaputo da una parte cospicua e autorevole della stessa magistratura, anche se il “politicamente corretto” della magistratura imposto dalla sua sezione più attiva e dinamica volge nell’altro senso cui si è accennato. Renzi sbaglierebbe, insomma, di molto se i toni dei suoi discorsi al riguardo non conservassero della magistratura il dovuto rispetto e la dovuta considerazione. Sul merito di quanto egli dice e fa si può e si deve, invece, discutere anche respingendone, al caso, decisamente le tesi e le affermazioni.
Quanto agli avversari interni di partito, i toni di Renzi, altrettanto perentorii che in tutti gli altri momenti della sua azione politica, si possono forse capire ancora di più. Si è detto che Renzi pensa non a un partito di iscritti, ma a un partito di elettori. Se così è, non vi è alcun male; anzi! Si è detto, altresì, che egli parla come se cercasse che dal suo modo di atteggiarsi nasca una scissione. Può darsi. Non siamo in grado di giudicare. Pensiamo solo che se una scissione del Partito Democratico vi fosse, gli scissionisti non avrebbero altra prospettiva che di ripercorrere la non fausta vicenda del PSIUP quando si staccò dal PSI; ed è forse proprio una tale idea a dare a Renzi una profonda sicurezza, nei suoi atteggiamenti che, dunque, anche in questo caso, sembrano riprensibili più per la forma che per la sostanza.
Gli esempi che abbiamo fatto vogliono solo indicare alcune problematiche, per le quali il giudizio su Renzi va molto elaborato e meditato, certamente in relazione alla sua attività e ai suoi atti concreti sia dal punto di vista politico che sociale, ma va tracciato anche indipendentemente dalla sua azione, poiché anche nello stile e nel metodo dei suoi atteggiamenti si esprime una sostanza non trascurabile di orientamenti e di fini politici (restando fermo, peraltro, che quanto da noi qui detto va approfondito e riferito anche ad altri aspetti e problemi, come, per l’appunto, ci proponiamo a ogni occasione di fare.
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