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Silvia Croce e Posillipo
di Giuseppe Galasso
Dire Posillipo e dire Napoli è tutt’uno; e non è un modo di dire, tanto quel nome evoca la città. La evoca, tra l’altro, già col suono del suo nome, ellenico come quello di Napoli. La evoca perché antico non molto meno della città stessa, se è vero che quel nome fu dato al luogo da Vedio Pollione che vi aveva costruito una villa. La evoca, poi, ancora di più perché in età moderna l’identificazione di Posillipo come nome topico dell’onomastica cittadina non ha fatto che diventare sempre più ampia e consueta.
Già i cronisti cittadini del ’600 notano più volte che nel tale o talaltro anno vi è stato «un bel Posillipo»: vi era stata, cioè un’estate mondana posillipina, una stagione di gite e feste a mare come sulle pendici della collina. Nella toponomastica della vecchia tradizione popolare l’attuale Via Partenope, più o meno a metà del suo percorso, aveva un luogo frequentatissimo dai popolani, che non si potevano permettere le costose gite e feste di Posillipo; e quel luogo era, perciò, chiamato “Posillipo dei pezzenti” (e chissà se possiamo tradurre con “lido mappatella”!). Da quando, poi, il re Gioacchino Murat nel 1812 cominciò a far costruire la strada che ora porta il nome di Posillipo (a sue spese, ossia dalla sua cassa personale), la collina è stata via via sempre più frequentata, perdendo progressivamente l’accentuata e ridente fisionomia agreste che la contraddistingueva, e che faceva quasi da rima al suo profilo marino, finché la più recente espansione edilizia non ne ha mutato l’aspetto nel modo che tutti sanno. E quasi in parallelo con l’avanzare di quella strada fino al Capo è andata pure nascendo la fama napoletana e, possiamo ben dire, internazionale di Posillipo, aiutata anche dalle tante dolci melodie delle canzoni napoletane in cui la collina ha gran parte.

***


Che Silvia Croce amasse la collina come qualsiasi altro napoletano purosangue era, per così dire, naturale. Nel suo amore per questa parte così essenziale e caratterizzante della nostra città e delle sue memorie c’era, forse, però, un qualcosa in più. Silvia era (come dire?) la più sbarazzina (nei limiti, ovviamente, in cui lo si poteva essere in casa Croce) delle quattro figlie del grand’uomo suo padre, che ai suoi desideri, e magari capricci, sembra essere stato più indulgente che alle sorelle.
Era la più piccola, Silvia, e quella tenerezza si capisce. Basti pensare a come nel diario, al 20 giugno 1931, nota: «la mattina sono stato inquieto per una febbraccia da cui è stata presa Silvietta, e che le ha impedito di recarsi alla prima comunione, che doveva fare stamane. Poi la febbre è caduta d’un tratto. Credo che sia stato un fatto nervoso, prodotto dalla preparazione di precetti, ammonimenti e scrupoli dell’istruzione religiosa che le è stata somministrata in questi giorni. Ieri era agitatissima, e non diceva perché, e poi volle essere accompagnata in chiesa a cercare un confessore: ho saputo poi che si tormentava per aver dimenticato di confessare di avere dato un calcio a un giovane che viene a studiare nella mia biblioteca e col quale usa simili scherzi». O si pensi a quando, il successivo 2 novembre la accompagna di persona da un dentista «per farle cavare quattro dentini»; o, il 10 ottobre 1932, a prendere un gelato, assieme alla sorella Lidia, terza delle sue figlie; o come, il 18 gennaio 1935, va al cinema «condotto da Silvietta e da Lidia»; o come il successivo 27 gennaio noti che «Silvietta mi ha condotto al cinematografo e mi ha fatto da guida e interprete»: annotazione davvero deliziosa, se si pensa all’allora quasi settantenne e più che famoso filosofo che si fa condurre al cinema e spiegare il film dalla figlioletta poco più che decenne. Ma Croce, che seguiva personalmente le figlie nei loro obblighi scolastici, e spesso impartiva ad esse lezioni in questa o quella materia, apprezzava anche la serietà e i buoni risultati delle ragazze negli studi, e se ne compiaceva (così come per la perizia cinematografica di Silvia). Ne scriveva il 2 marzo 1936 all’amico Vossler: «le mie quattro figliuole sono tutte in pieno rigoglio degli studi e degli entusiasmi letterari ed artistici»; e aggiungeva con un umanissimo tocco di paterna e ironica tenerezza: «debbo compiere qualche sforzo per non lasciarmi superare da loro. Persino la più piccola mi ha fatto notare l’altro giorno che io non sono abbastanza colto in cinematografia».
A giudicare, poi, dal diario paterno, le iniziative cinematografiche di Silvietta si andarono facendo sempre più frequenti (a volte per due giorni di seguito). Nella villeggiatura del 1935 in Piemonte, dove Croce aveva da tempo preso l’abitudine di trascorrere l’estate, il 25 agosto egli si fece indurre a portare Lidia e Silvia al cinema a Susa, trovandovi «grossa pioggia», sicché aveva «dovuto prendere un automobile per tornare»: grosso lusso per lui, il cui mezzo di trasporto ideale era, e rimase sempre, il treno. A Napoli, il 31 marzo 1936 si reca «con Silvietta a un cinematografo a vedere una sua attrice prediletta, Joan Crawford». Qualche volta – e così il 4 giugno seguente – Silvia accompagna il padre che si reca in Biblioteca Nazionale «per alcuni riscontri», per andare poi, con lui, al cinema.
Certo, la tenerezza, che abbiamo già richiamata, del padre appare sempre vivissima. Il 14 settembre 1936 nota di essere «andato a Torino con Lidia e Silvia», e di averle «portate a zonzo tutto il giorno e, in ultimo, a un cinematografo»: e il seguente giorno 28 nota che, pur indisposto, si reca a Torino «con Silvietta, alla quale avevo promesso questa gita e una visita al cinematografo»: una visita!
Naturalmente, non sono solo cinematografiche le uscite di Croce con le figlie (passeggiate, teatro), e con la più piccola in particolare, ma il cinema predomina nettamente. Il 30 marzo 1937 nota di aver portato al cinema Silvia «entusiasta per Greta Garbo e la signora delle camelie». Il 27 giugno va «a teatro, con Lidia e Silvia, a sentire, dopo quarantacinque anni o più, Miseria e nobiltà! Non è più la recita del vecchio Scarpetta: tutto è diminuito di tono e di brio; ma le ragazze si sono divertite straordinariamente» (dove si legge un interessante squarcio sulla giovinezza del filosofo).
A volte Croce porta con sé tutte le sue figlie, come il 2 maggio 1937 «al teatro Mercadante per una recita dei De Filippo». A volte, invece, porta con sé la moglie, Adele Rossi, come il 27 dicembre 1938, quando va al cinema con lei e con Silvia e nota: «Frou-frou! vecchie impressioni e ricordi di giovinezza» (che è un’altra delle rare notazioni di questo genere nel suo diario, relative alla sua giovinezza). E a volte, ovviamente, di andare al cinema egli non avrebbe avuto alcun desiderio, ma come nota il 28 febbraio 1937, «Silvietta, bon gré mal gré, [lo] ha condotto al cinema»: un altro piccolo squarcio sulla “prepotenza” che la ragazza, ormai quindicenne, poteva esercitare su un padre affettuoso, ma tutt’altro che incline a indulgenze.
Era anche provveduta, ormai, di un gusto maturo. Il 2 maggio 1940 porta il padre «a vedere un film francese, pieno di delicato affetto, come spesso i films francesi»; e il 29 giugno, quando era ormai cominciata la guerra, e si era anche già avuto un allarme aereo, accompagna il padre a far visita a Roberto Bracco, «che si trova provvisoriamente a Nola», che, insieme con lei, visiterà poi qualche altra volta.
La guerra condiziona ormai tutto. il 2 luglio Croce esce di casa con un amico, «come ier sera con Silvia, ma è un mortorio e faticosissimo», per cui «sarò costretto – conclude – a smettere le passeggiate serali», che erano una delle sue abitudini più care e inveterate. Si dirada anche la frequenza al cinema. Il 28 novembre «sono stato al cinema con Silvietta, tanto per non lasciar cadere la tradizione». Quando il 27 maggio 1941 accompagna le tre figlie che aveva con sé (Elena si era già sposata dal 1938) «al teatro Mercadante a una recita dell’Otello», nota che «siamo tornati a casa per le tenebre, a piedi, circa l’una dopo mezzanotte». La guerra non impedisce, tuttavia, che, pur fra allarmi aerei e varie altre circostanze avverse, la vita familiare continui con quella disciplinata affettuosità che era propria di casa Croce. E così, tanto per dirne una, il 18 agosto 1941, mentre si sta in villeggiatura in Piemonte, si nota che, essendo l’«onomastico di Elena, le tre sorelle con un’amica e con un giovane polacco che è qui, hanno fatto in suo onore la recita del Padrone delle ferriere». Iniziativa che si ripete il 31 agosto, quando «la sera, le tre figliuole minori, con le loro amiche la Mimma Carandini e la Nanda Russo, hanno dato una grande rappresentazione in molti quadri di un dramma giallo, da loro dialogato, in onore dell’onomastico di Raimondo (Craveri, ossia il marito di Elena), volendo usare pari trattamento al loro cognato di quello fatto alla sorella!». E si ripete pure il 27 settembre, quando si nota che, partita Elena col marito, le tre sorelle rimaste, «insieme con loro amiche di qui, ci hanno offerto una rappresentazione del Nerone di Cossa e alcune farse»; e, ancora il 6 ottobre, quando «la sera le tre figliuole con la figliuola del Carandini hanno improvvisata un’altra divertentissima rappresentazione teatrale».
Il 31 dicembre 1941 fu ancora un momento relativamente lieto, e Croce, con la moglie, salì «a casa degli amici Altavilla, dove erano già Lidia e Silvia, e tra lieta compagnia abbiamo inaugurato il nuovo anno». Poi cominciò il periodo più duro della guerra, anche se ancora ci si procurava qualche trattenimento di quelli un tempo frequenti, come l’8 febbraio 1942, quando – nota Croce – «le due ultime figliuole, con loro amiche e amici, ci hanno offerto la recita di commedie, brani di drammi e di tragedie».

***


Silvia, comunque, era ormai già tutta lei. All’apparenza, e anche in verità in giro, non era la più “intellettuale” delle sorelle, tutte, e soprattutto Elena, come si sa, autrici di studi importanti. Evidente è la meraviglia del padre quando nota, al 24 febbraio 1942: «le mie quattro figliuole hanno voluto che leggessi poesie di Di Giacomo; poi Silvia è venuta nel mio studio e si è trattenuta fino a mezzanotte in conversazioni filosofiche!». E fu pure il padre a darle, nell’estate del 1942, «il tema della tesi» di laurea, che avrebbe svolto nel suo terzo anno di università (e ciò per evitare una scelta che, come era accaduto per la sorella Lidia, Croce non trovasse inopportuna o insoddisfacente).
Rimaneva, comunque, la sbarazzina di sempre. Croce racconta, evidentemente divertito, che il 6 gennaio 1944 gli aveva fatto visita un ufficiale della marina americana,MichaelMusmanno, cui avevano affidato la protezione della villa, in cui alloggiava a Sorrento, dalle requisizioni militari solite in quel tempo; e gli aveva raccontato di essersi dovuto opporre a un generale inglese, che voleva, per l’appunto, requisire la villa in cui si trovava Croce. Riferendo questo colloquio, Musmanno, nota Croce, riferiva di aver sottolineato «al generale la sua dichiarazione che si sarebbe opposto in tutti i modi alla requisizione, battendo sopra una grossa pistola che gli gonfiava la tasca (una pistola, ha detto, che, senza colpire, col solo scoppio rovescia a terra un uomo. Il che ha suscitato l’entusiasmo di Silvietta, che ha supplicato: -Oh, sparatela per farcela sentire!)».
A Silvia, già ventiduenne, il padre ancora riservava, come si vede, il diminutivo Silvietta (e vale, forse, la pena che col diminutivo chiamava solo la sua prima figlia: Elenina).Della quale Silvia il padre ricordava allora che aveva fatto «alcuni schizzi» il pittore Antonio Franchini, caduto in combattimento contro i tedeschi. Ancora lei portava a cinema il padre (così il 28 ottobre 1944, a vedere «il film di Chaplin sul Dittatore»). Ma era ormai una donna, che si sarebbe presto fatta la sua famiglia e avrebbe vissuto, nello spirito dell’educazione ricevuta, ma con spiccata personalità, la sua vita familiare e, in ultimo, una sua presenza pubblica, di cui la presidenza del Suor Orsola Benincasa è stata la pagina più notevole, ma non la sola.

***


Che donna fosse diventata lo mostra il rapido profilo di Posillipo che qui si pubblica. Cultura, buon gusto, finezza di spirito, forte sensibilità alla bellezza della natura e dell’arte e altre doti di facile visibilità vi risaltano appieno. Non per nulla, a disdetta del minore profilo di “intellettuale” che spesso le si attribuiva rispetto alle sorelle, era donna di vastissime letture letterarie. Credo di poter dire, per personale esperienza, che la grande letteratura italiana ed europea dell’Otto e del Novecento le era addirittura familiare. E aveva, come tutti, qualche hobby intellettuale cui era molto, molto affezionata. Così, soprattutto, quello per Napoleone (non era la ragazza che voleva sentir sparare la pistola di Michael Musmanno?). Aveva, sul tema, una serie di letture impressionanti per la loro varietà e vastità, e molto volentieri si impegnava in conversazioni, anche approfondite, sulle vicende e le qualità del suo eroe, e ascoltava attentissima chi le parlava di lui e, magari, aggiungeva altri particolari, importanti o non importanti che fossero, alle sue già larghe conoscenze napoleoniche.
Il profilo di Posillipo è, in certo qual modo, un unicum nel contesto della sua (parca) attività di scrittrice. È del tutto superfluo commentarlo. Aggiungiamo solo che è anche, a suo modo, un documento storico, e ci ricorda un Posillipo che era ancor più vicino al «bel Posillipo» dei cronisti del Seicento che non al Posillipo di oggi, tanto più edificato e alterato, eppure ancora inconfondibile e impreteribile se si vuole parlare di Napoli (e, quindi, malgrado che – sia detto per inciso – la lotta per la difesa del paesaggio cui anche questo scritto appartiene, abbia dovuto registrare più delusioni che gioie).
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