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Asterischi: Due Guerre; Identità religiose; L’anno Quattordici; Filippo VI di Spagna; Spadolini; Il rapporto territorio-sviluppo
di Giuseppe Galasso
DUE GUERRE - Il susseguirsi di due grandi guerre nell’arco di venticinque anni non è stato inconsueto nella storia dell’umanità, che alla guerra si è sempre dedicata molto più che alla pace. Nel caso delle due guerre “mondiali” del 1914-18 e del 1939-45 non è, però, la ricorrenza temporale ravvicinata a costituire l’elemento più distintivo. Sono stati, piuttosto, a parte l’estensione davvero globale del conflitto, l’imponenza delle perdite umane, il profondo nesso tra potenza industriale e potenza bellica e numerosi altri elementi di una rilevanza quale non si era mai avuta prima.Ma, perché, a soltanto venti anni dalla conclusione della prima, una nuova e più micidiale guerra, dopo che nei venti anni intercorsi non si era fatto altro che deplorare quella prima terribile esperienza e ritenere inverosimile che si tornasse a prendere una strada della quale erano apparsi chiari i costi, i rischi e tutti gli enormi problemi che quella stessa esperienza o non aveva risolti o aveva essa stessa determinato ex novo?
Un interrogativo comprensibile, ma anche già affacciato e trattato innumerevoli volte fin da prima, addirittura, che la guerra si ripetesse, e altrettante volte risolto con le più diverse risposte che si possano immaginare, ma anche senza mai trovare i toni e gli argomenti che alla questione mettessero un punto fermo e che, soprattutto, incontrassero il consenso, non diciamo, universale, ma anche solo di una grande maggioranza degli interlocutori (tranne, per la verità, l’accomunare vincitori e vinti della prima guerra nella responsabilità di aver posto, consapevoli o meno, le premesse della seconda).
Non è, però, in tale questione che qui vogliamo entrare, bensì in quella, un po’ più peregrina, del ruolo rispettivo di quelle due guerre nel decidere le questioni di potenza per cui furono combattute. Che sia stato un ruolo decisivo al di là di ogni possibile dubbio e di ogni possibile misura storica è di una evidenza perfino banale. Ma visto che la rivincita della prima, che si ebbe dopo venti anni, non modificò il verdetto del 1918, ci si può chiedere se, in realtà, poteva modificarlo e se, perciò, avesse un senso tentare di modificarlo.
Sono, beninteso, domande chiaramente antistoriche. Se dopo la prima scoppiò una nuova guerra mondiale, vuol dire che ce n’erano tutte le ragioni. Che, poi, queste ragioni fossero o apparissero sufficienti o soddisfacenti o tali da meritare la pena di farle valere, è questione che si può decidere soltanto col senno di poi, che è, per definizione, quello degli storici (o, meglio, dovrebbe essere, visto quanto spesso, nei fatti, essi se ne mostrano sprovvisti).
Un po’ di esercizio di questo senno del poi è, appunto, quel che qui si vorrebbe tentare, partendo dall’osservazione che il verdetto della prima guerra mondiale era stato abbastanza netto. La Germania – principale protagonista di una politica di sovversione e rovesciamento delle gerarchie di potenza vigenti nel mondo agli inizi del secolo XX – era uscita nettamente sconfitta. Sul piano militare non aveva vinto. Si vantava di aver ritirato in patria invitto il suo esercito dalle regioni straniere che occupava al momento in cui nel novembre 1918 aveva chiesto un armistizio. Tutti sapevano però che quell’esercito invitto era a quel punto seriamente esposto al rischio non troppo lontano di un vero e proprio crollo, data la crisi complessiva delle risorse militari e civili della Germania, allorché l’armistizio fu chiesto. L‘insegnamento primo della guerra era stato proprio questo: la potenza militare, anche sviluppatissima, non era sufficiente a decidere un conflitto globale nell’epoca della civiltà industriale. Un altro insegnamento era stato che il sistema delle alleanze col quale si affrontava il conflitto era un’altra determinante fondamentale del suo esito.
La Germania, militarmente potentissima e preparatissima, non aveva il complesso delle risorse di cui disponeva il campo avverso, e il suo sistema di alleanze non aveva affatto il carattere complementare e globale di quello opposto. Soprattutto poi il verdetto di quel primo conflitto era fortemente preclusivo delle ulteriori possibilità della Germania di ripetere la sfida del 1914. Se si va a fondo nell’analisi delle condizioni della Germania del 1939 rispetto a quelle del 1914, è difficile non concludere che la Germania guglielmina era senz’altro più potente e più forte di quella hitleriana. La pace del 1919 le aveva drasticamente spezzato le ali non solo per le condizioni finanziarie draconiane che le furono imposte, ma anche per l’autentica e grave deminutio politica che in vario modo quella “pace cartaginese” le procurò. Una deminutio in parte rappresentata dalla perdita di un buon 15% del suo territorio (da 540.000 a 470.000 Kmq), in altra e maggiore parte con l’isolamento politico in cui in ultimo essa si era ritrovata all’uscita da quella guerra. Un isolamento che in seguito la Germania sembrò rompere clamorosamente. Nel secondo conflitto essa entrò alleata col Giappone e con l’Italia, laddove nel primo aveva avuto al suo fianco soltanto il già consunto Impero Ottomano. Il Giappone era, in effetti, una reale grande potenza; l’Italia più nella forma che nella sostanza. Il patto con Mosca del 1939 fu quello che raffigurarono allora varie caricature occidentali: un accordo fra due banditi, dei quali ciascuno lo firmava con la destra e con la sinistra nascondeva dietro la schiena il pugnale assassino. Giappone e Italia non potevano, d’altronde, equivalere all’alleanza globale che le potenze occidentali si rivelarono ancora una volta in grado di costruire e dirigere. La stessa potenza militare del 1939-40 non era quella del 1914. Non c’era più una grande marina. C’era una forte aviazione e un esercito dotato di armi e strategie nuove. Ma i trionfi del 1939-40 sfiorirono ben presto nell’estate del 1940 nei cieli inglesi col definitivo allontanamento di ogni progetto di invasione dell’isola, e nel dicembre del 1941 a poche diecine di chilometri da Mosca. Se mai fosse stata in dubbio, la sconfitta germanica apparve allora solo una questione di tempo. Non è un caso che USA e Gran Bretagna fissassero subito come loro obiettivo di guerra la “resa incondizionata” dei nemici: la reale dimensione della forza di Hitler era ad essi già chiara. Sotto le brillanti apparenze del primo biennio di guerra, la Germania del secondo conflitto si era rivelata ancora meno forte di quella del 1914 nell’affrontare una guerra mondiale. Il prosieguo del conflitto fino al 1945 non fu che un progressivo allontanamento da ogni speranza di vittoria. Gli alleati vincitori lo avevano ben capito, e, quando l’esito della guerra appariva ancora incerto e lontano, fissarono il loro obiettivo ultimo nell’unconditional surrene, la resa incondizionata del nemico: il che poteva sembrare un eccesso di fiducia e di una velleità di ripetere e aggravare la pace cartaginese del 1919, ma era semplicemente un calcolo non errato delle forze in campo anche rispetto al precedente conflitto, quando la resa incondizionata fu postulata solo quando i Tedeschi chiesero l’armistizio, che non fu trattato, ma un Diktat fu dettato dai vincitori, così come la pace che lo seguì.
A pensarci, la vicenda richiama quella che venti secoli prima aveva concluso la lotta fra Roma e Cartagine per il dominio del Mediterraneo occidentale. Anche quello fu, a suo modo, un conflitto globale, e, soprattutto, lo divenne per il suo esito. Le due potenze si affrontarono in due grandi e lunghissime guerre, la prima dal 264 al 240 a.C., la seconda dal 219 al 202 a.C. Nella memoria generale è rimasta impressa la seconda, con le imprese memorabili di uno dei più grandi capitani della storia, quale fu Annibale; con l’invasione difficile e inaspettata dell’Italia, varcando le Alpi d’inverno e con gli elefanti, e con le sconfitte gravissime inferte ai Romani nei primi due anni di guerra, fra le quali quella, famosissima, di Canne; con la lunghissima controffensiva romana, conclusasi con lo sbarco in Africa e con la vittoria risolutiva riportata a Zama da un altro grandissimo capitano, ossia Scipione, detto da allora l’Africano; e con la “pace cartaginese” che i Romani imposero ai vinti, e che ne stroncò per sempre le aspirazioni di grande potenza mediterranea e la predispose alla totale distruzione che Roma ne avrebbe operato poco più di mezzo secolo dopo.
Anche in quel caso la Cartagine di Annibale sembra più potente e più proiettata verso la vittoria di quella sconfitta nel 240 a. C., ma anche in questo caso l’apparenza inganna. Era stata, infatti, la guerra precedente a tagliare le unghie alla tigre cartaginese. Roma aveva iniziato quel conflitto quando non era ancora una potenza navale, e nel corso della guerra divenne tale, superando nettamente l’avversaria anche sul mare, e senza che in seguito Cartagine potesse più competere con lei sul campo che era stato fino ad allora la grande arena delle sue fortune e della sua espansione commerciale e imperiale. La guerra aveva, inoltre, escluso i Cartaginesi dall’Italia e dalle isole italiane, privandoli di ogni prospettiva di dominio e di grande attività al di là delle acque africane. La possibilità di strozzare quasi ancora in fasce la spinta militarista e imperialista di Roma nel Mediterraneo svanì per sempre per Cartagine e, come in un non lungo corso di tempo apparve definitivamente chiaro, per qualsiasi altro rivale nel Mediterraneo.
Insomma, le misure della storia erano già state largamente prese in quel primo conflitto. Poi Cartagine sembrò riprendersi. Si fece un suo nuovo e ricco spazio imperiale in Spagna, con le cui risorse sembrò rinverdire le radici della sua forza espansiva. Trovò nella famiglia dei Barca (un nome semitico vivo ancor oggi) la guida di un partito nazionalista e revanscista di grande forza, e in Annibale, che ne era un rampollo, un capo militare all’altezza dei più arditi progetti che ne erano nati. La sua fortuna nella guerra fu inizialmente travolgente. Si trovò anche un alleato che si aveva ragione di ritenere molto importante in Filippo V di Macedonia.Ma Roma aveva ormai conseguito dimensioni e potenza impossibili da superare in quel contesto storico, e dimostrò una saldezza interna e una saggezza e capacità politica anche maggiore della sua granitica potenza militare. Anch’essa lo sapeva. In nessun momento, anche in quello drammaticissimo del dopo Canne, ebbe mai la minima esitazione nel proporsi la totale e finale liquidazione della grande rivale. Secondo la tradizione, il Senato inviò allora una delegazione a incontrare Varrone, lo sconfitto e gravemente responsabile di quel disastro, a ringraziarlo di aver avuto fiducia nelle sorti della repubblica. E Annibale stesso lo doveva in qualche modo sospettare, poiché, come i suoi gli imputarono, non ardì porre a quella Roma, prostrata e in estrema difficoltà per quella sconfitta, l’assedio che i suoi gli chiedevano e ritenevano risolutivo.
Ovviamente, i paralleli storici sono sempre fatalmente arbitrari e ingannevoli. Le cose non si ripetono due volte uguali nella breve vita degli individui, e neppure nella lunga o lunghissima durata della storia. Però, sono suggestivi e, presi con le molle, ossia con tutte le dovute limitazioni, e anche precauzioni, finiscono sempre col dire qualcosa. Cartagine era una realtà storica e strutturale del tutto altra e diversa dalla Germania del ’900, il campo dei cui vincitori nel 1918 e nel 1945 era ancor più lontano dall’equivalere alla grande Roma che di Cartagine aveva trionfato. Eppure, alla suggestione di un doppio conflitto in mezzo secolo con tante e tali conseguenze nel III secolo a. C. e nel XX secolo d. C. si può indulgere con la certezza di non cedere soltanto alla tentazione di un ozioso wargame (nel che, peraltro, non vi sarebbe. poi, nulla di tanto riprovevole).



***




IDENTITÀ RELIGIOSE - Che la professione religiosa e la coscienza che se ne ha costituiscano un elemento, e spesso l’elemento dominante, nell’identità civile di un paese o di un popolo è noto da tempo immemorabile. Gli storici lo hanno tenuto, perciò, presente in modi varii, ma sempre congruenti con la rilevanza di quell’elemento.
In particolare in Italia si è parlato, così, di “religione civica”. Un concetto storiograficamente molto discusso, ma non improprio nel caso della storia così dinamica e singolare delle grandi e piccole città, per cui si è parlato dell’Italia come il paese delle “cento città”. Meno seguito o addirittura per nulla praticato è stato il sentiero religioso per quanto riguarda le identità provinciali e regionali. E alle regioni, appunto, in questa chiave hanno dedicato una raccolta di studi di varii autori (Italia sacra, ediz. Viella) Tommaso Caliò, Maria Duranti e Raimondo Michetti.
Il sottotitolo – Le raccolte di vite dei santi e l’inventio delle regioni – specifica ancora meglio sia il tema che il percorso seguito dai curatori e dai collaboratori del volume. Le vite dei santi, sono, infatti, in intima e originaria connessione con le fisionomie territoriali disegnate dall’ambito del loro culto, che queste vite promuovono o rivelano e consacrano. Il periodo preso in esame – dal XV al XVIII secolo – è anch’esso fortemente significativo. Si tratta del periodo in cui la geografia politica italiana assume e mantiene la fisionomia che durerà, con poche, anche se importanti, variazioni, fino all’unificazione del 1859-1861: il periodo definito degli “Stati regionali”.
L’assunto del volume è che le vite dei santi coltivate «nelle officine degli ordini religiosi» (ma: solo in queste officine?), muovendo dalla grande stagione umanistica e passando attraverso le dispute dottrinali dei successivi due o tre secoli, portano a rielaborare e disegnare in modi nuovi le identità regionali nella penisola. È questa la inventio di cui si parla: da un lato ritrovamento e dall’altro invenzione di spazi identitari corrispondenti, più o meno, con quelli che abbiamo finito col considerare anche istituzionalmente, nell’Italia unita, le regioni del paese. E ciò sia là dove fra gli Stati pre-unitari e queste regioni si può constatare una sostanziale corrispondenza, sia là dove gli Stati pre-unitari presentano geografie che, dal punto di vista della posteriore struttura regionale dello Stato, debbono essere definite pluriregionali (Stato Pontificio e Regno di Napoli).
Solo la lettura delle due introduzioni (Michetti e Caliò) e dei ventitré studi di cui consta il volume può dare il senso preciso della grande ricchezza di informazioni, di analisi, dei più disparati elementi e motivi di interesse che ne emerge per quasi tutte le regioni italiane (mancano Veneto, Friuli, Sicilia, Sardegna, ma vi è aggiunta tutta una particolare sezione per l’Umbria negli scritti del folignate Ludovico Jacobilli). Nell’impossibilità di rendere conto qui di tale ricchezza, ricordiamo solo gli studi sulle confraternite “italiane” a Roma; sulle connotazioni religiose in rapporto agli aspetti territoriali dei primi martirologi stampati in Italia; sulle molteplici identità abruzzesi viste attraverso la produzione agiografica; sui profili di regioni e città colti nelle vite di santi in area lombarda; su agiografia, territori e dinastia sotto i Savoia in Piemonte; nello «specchio del sacro» nella costruzione delle identità cittadine in Campania; sull’agiografia meridionale nel periodo spagnolo; su particolari personalità, come il Jacobilli, come Paolo Regio, Filippo Ferrari o Paolo Guantini.
Naturalmente, non si può sempre convenire sull’impostazione e sulle analisi di questi studi. Lo studio di Antonio Menniti Ippolito ha il merito di sollevare il problema, generalmente trascurato, del rapporto tra la Chiesa (e per essa, la Chiesa Romana) e lo Stato Pontificio: partecipazione, identità, osmosi istituzionale e civile. L’autore riprende anche il vecchio e giusto giudizio sulla “provincializzazione” della Chiesa nel ’700. Che, però, il matrimonio fra la Chiesa e quello Stato sia stato un matrimonio forzato, in cui «il contraente forzato all’unione» sarebbe stata la Chiesa, è un giudizio difficilmente condivisibile. In realtà, a essere forzata fu quell’ampia parte d’Italia che la Roma papale riuscì a portare sotto la sua sovranità. Ne fu, si, danneggiata la Chiesa per la forte temporalizzazione che ad essa ne derivò con sicuro nocumento del suo profilo religioso e spirituale. Molto di più ne fu, tuttavia, danneggiata la storia d’Italia e ne fu costitutivamente alterata la vicenda etico-politica, civile e culturale dei territori pontifici. Essi si trovarono stretti in una entità geo-politica affatto singolare, in cui il sovrano era anche pontefice e tra spirituale e temporale nessun confine certo si poteva stabilire. Per di più, quei territori erano fra loro molto più eterogenei e divergenti che in qualsiasi altro Stato italiano, senza riuscire né a perdere e dimenticare la propria identità, né a trascenderla in una identità nuova corrispondente alla singolare unità politico-istituzionale in cui finirono col dovere vivere le loro vite. È significativo che di tutti i vecchi Stati italiani l’unico a non essere stato mai rimpianto dopo l’unificazione della penisola e a non alimentare alcuna nostalgica tendenza restauratrice sia stato quello pontificio (e si pensi a quel che si è dovuto vedere e sentire per i Medici in Toscana o per il San Marco veneziano, per i Borboni nel Sud e gli Asburgo e l’antica Lega in Lombardia, e perfino per il vecchio mondo degli Stati sabaudi non ancora “guastati” dall’Italia).
Uguali sollecitazioni esercitano le due interessanti introduzioni. Nessun dubbio – mi pare – sia possibile sull’assunto, qui ampiamente dimostrato, di quel particolare veicolo culturale che sono le vite dei santi nel determinare identità, o almeno profili civili, che hanno forti valenze al di là degli ambiti cittadini, tradizionale campo di azione di influenza di quei veicoli culturali. È più che dubbio però, che le più ampie circoscrizioni che ne vengono delineate siano identificabili con le circoscrizioni delle regioni riconosciute e poi istituite nell’Italia unita, o siano riportabili alla medesima logica genetica e culturale del regionalismo italiano prima e dopo l’unità.
Gli elementi che possono indurre a pensare così non mancano, ma, anche quando essi appaiono più chiari e più forti, occorre chiedersi fino a qual punto si possa vedere e ammettere nelle regioni postulate da Caliò e Michetti l’anticipazione o un vero e proprio inizio delle tradizioni regionali posteriori o il quadro di una prima fase delle regioni italiane quali sono state definite e circoscritte fra il XIX e il XX secolo. Non bisogna mai omettere, infatti, di notare come le regioni delle quali questo meritorio volume parla sono circoscrizioni cultuali e devozionali: d’onde l’opportunità di tenere ben distinti i due piani – quello cultuale e devozionale e quello amministrativo e civile – che nel volume si tende a far convergere in molta stretta connessione. La distinzione non esclude, ovviamente, né la convergenza, né la connessione, ma sulla base di identità plurime, che vivono della loro specificità e la cui sintesi – l’identità di insieme – trascende, ed è perfino autonoma, rispetto a quelle molteplici componenti.
A suo tempo, Lucio Gambi negò, in pratica, pressoché ogni valore storico e strutturale alla geopolitica regionale dell’Italia unita. Egli riteneva semplici «compartimenti statistici» le regioni disegnate dalla pubblica amministrazione italiana. In realtà, questa posizione estrema non è giustificata dalla realtà della storia italiana. In questa realtà le distinzioni regionali sono antiche in Italia. È banalmente scolastico citare Dante, ma neppure se ne può fare a meno. Le sue regioni linguistiche forniscono un tempestivo riscontro dell’articolazione del paese su un piano di tanto interesse. Anche la delimitazione delle province del Regno di Napoli – tradizione, modificazione o fondazione di più antiche e complesse realtà provinciali – è una pagina importante del regionalismo italiano.
Anche la «sacralizzazione del territorio» – di cui, con molte interessanti osservazioni, parla Michetti – è una pratica antica, che già prima del Mille aveva segnato tappe importanti, e in molti casi, destinate a restare immutate o quasi, e che nei tre o quattro secoli dopo il Mille, con l’incremento delle popolazioni e dei luoghi abitati, con la riforma gregoriana e coi nuovi Ordini religiosi, dette all’“Italia sacra” quasi per intero una geografia che vive, in gran parte, ancora oggi. Gli svolgimenti dei secoli XV-XVIII, che questo volume ha il merito di aver fatto oggetto di un discorso specifico e di avere illustrato con molte e notevoli novità, sono, perciò, integrazioni e complementi, a ben vedere, della profonda aratura del campo geo-religioso compiuta negli otto o nove secoli precedenti. Da questa aratura l’inventio delle regioni italiane aveva già ricevuto, a nostro avviso, la maggior parte dei suoi tratti fondativi. Poche le variazioni o le scoperte o invenzioni regionali dei secoli successivi. Alquanto di più quelle provinciali, ma anche per esse, senza sostanziali sconvolgimenti del quadro precedente. La maggiore invenzione regionale posteriore – quella dell’Emilia – avverrà al di fuori del piano ecclesiastico-religioso, con la felice adozione del nome di una delle vie consolari romane per giustificare l’accorpamento politico-amministrativo della Legazione pontificia di Bologna e Ferrara con i due ducati padani di Modena e di Parma. L’accorpamento intendeva anche superare le annessioni di antiche tradizioni municipali e autonomistiche nel quadro del nuovo Stato nazionale unitario, e fu ulteriormente potenziato con l’associazione delle Legazioni pontificie romagnole, per cui nacque una regione che porta ancor oggi al suo interno le stigmate della sua complessa formazione.
Il che nulla toglie all’importanza di questo volume, sia perché, come dice Calaiò, la successiva «desacralizzazione delle figure dei santi non produsse una espunzione degli elementi devozionali e leggendari del dibattito regionalista, bensì una loro rivalutazione»; sia perché resta indubbiamente valida l’originale proposta scientifica del volume illustrata da Michetti, ossia «lo studio di un particolare tipo di raccolte agiografiche di carattere regionale», dovute a «quegli stessi autori di carattere regionale, quasi sempre membri di ordini regolari che cominciarono a specializzarsi tra la fine del medioevo e la prima età moderna nello studio erudito delle vite e del culto dei santi». Due indicazioni che è da sperare diano un apprezzabile impulso a proseguire e a dettagliare su ogni piano, a cominciare da quello geografico, la strada così indicata.



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L’ANNO QUATTORDICI - Gli anni della storia e della vita, pur ricorrendo con la puntuale regolarità dei calendari, rivelano poi, a guardare meglio, velocità e intensità di sviluppi per cui a volte un brevissimo periodo sembra lungo quanto un secolo e un lungo periodo non appare più denso e veloce di un singolo anno o di periodi molto più brevi. Quel che è certo è, però, che la successione degli anni è implacabile e che nel suo corso gli anni non passano mai invano. Preferire, su questo piano, un anno all’altro è questione ovviamente soltanto personale, oppure è giustificato dal valore simbolico che certi anni possono assumere (come quando si dice che «venti anni si hanno una sola volta», quasi che i ventuno o trentacinque anni o qualsiasi altro si abbiano due volte, ma si intende che i venti anni o i diciotto sono assunti a simboli della piena giovinezza).
Sulla scala secolare della lunga durata storica può essere divertente notare, ciò premesso, la ricorrente importanza che hanno alcuni numeri di anno quasi a ogni secolo. Poiché siamo nel 2014, prendiamo, ad esempio, proprio l’anno 14 di alcuni secoli della nostra era, ossia l’era cristiana.
Prendiamo qualche esempio già dal primo millennio. Subito si nota l’anno 14, in cui morì Augusto, che chiuse a 77 anni una vita di cui è stata sempre riconosciuta l’importanza nella storia del mondo antico, e in quella d’Italia e d’Europa in particolare, e di cui sopravvive anche nel calendario il ricordo col nome del mese di agosto. Nel 614 il monaco Colombano, esule dal regno dei Franchi, fondò a Bobbio (Piacenza) un monastero destinato a costituire uno dei più importanti centri di vita religiosa e di cultura del Medioevo. Nell’814 morì Carlomagno. In questo caso si trattava di colui che i posteri avrebbero considerato, con molta retorica enfasi, il fondatore o patriarca d’Europa e che, comunque, divenne una figura dalla molteplice proiezione mitica. Poi è sopravvenuto chi riduce tutto Carlomagno e la sua opera a mito, e non è così. Il grande sovrano franco diede all’Europa la sua prima identità (quella di un nuovo Impero Romano, poi definito Sacro), e la sua prima configurazione di popoli latini germanici e slavi (nelle lingue slave il suo nome prese il significato di “re”, ad esempio in ceco: král, dal germanico Karl, così come il nome di Cesare significò imperatore nelle più varie lingue: Kaiser, Czar etc.).
Quanto al secondo millennio, subito anche qui si trova nel 1014 l’incoronazione imperiale di Enrico II, ultimo dei sovrani sassoni dell’Impero, che si distinse tanto per la sua pietà religiosa da essere proclamato santo nel 1146, ma non riuscì a conservare l’espansione germanica oltre l’Elba, per cui dopo di lui il germanesimo dové ripartire verso est quasi daccapo, in quell’alternanza tra fortune germaniche e fortune slave che ha avuto l’ultimo e, sembra, definitivo episodio con gli esiti della seconda guerra mondiale, disastrosi per i germanici. Poi nel 1214 nella battaglia di Bouvines il re di Francia Filippo II Augusto, alleato con il papa Innocenzo III, batté il re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra e i suoi alleati, con conseguenze di grande rilievo, poiché al grande Federico II di Svevia, allora ventenne, fu assicurata la corona imperiale per un lungo regno denso di grandi sviluppi storici, mentre il re Giovanni si trovò di fronte a una crisi del suo potere in Inghilterra, per cui nel 1215 fu costretto a concedere quella Magna charta libertatum, che, con non piccola esagerazione, viene considerata come l’atto fondativo del regime costituzionale inglese. Nello stesso anno, inoltre, lo stesso papa Innocenzo III riconosceva ufficialmente l’università di Oxford, formatasi verso la metà del secolo XI, che divenne ben presto un grande centro sia per la tradizione degli studi platonici e agostiniani, sia per la ricezione in Europa delle conoscenze scientifiche arabe.
Può essere interessante notare che nel 1314 iniziò il viaggio del francescano Odorico da Pordenone, che durò sedici anni e che lo portò a essere il primo europeo ad attraversare la regione dell’Himalaya: una grande pagina, quindi, di quella tradizione di viaggiatori in Oriente di cui ricordiamo soprattutto, se non solo, Marco Polo.
Saltando al 1614 si trova l’ultima riunione degli Stati Generali del Regno di Francia prima di quella fatale del 1789 che diede origine alla rivoluzione francese. Poi è un susseguirsi regolare di scadenze secolari. Nel 1714 la pace di Rastadt completò la pace di Utrecht dell’anno precedente, per cui la Spagna aveva perduto tutti i suoi possedimenti d’Italia e dei Paesi Bassi, che a Rastadt furono confermati all’imperatore Carlo VI d’Asburgo, iniziando un’epoca di primato austriaco in Italia che, con varie interruzioni, durò fino all’unificazione italiana. Nel 1814 a marzo Napoleone abdicò e fu ridotto a sovrano dell’isola d’Elba, i vecchi sovrani cominciarono a tornare in Italia e in Spagna, il 1° settembre si aprì il Congresso di Vienna, la più famosa delle conferenze di pace prima di quella di Versailles un secolo dopo, e il 24 dicembre cessò la seconda e ultima guerra fra Stati Uniti e Gran Bretagna, iniziata nel 1812. Ma nello stesso 1814 l’inglese George Stephenson collaudava con successo la sua prima locomotiva a vapore; ed era, certo, un evento meno vistoso, ma non meno notevole dei grandi eventi politici e militari di quell’anno.
Nel 1914, infine, scoppiò la prima guerra mondiale, che, oltre a essere la più terribile fin’allora sperimentata, e oltre a deludere largamente le aspettative di coloro che la iniziarono e che la credevano “l’ultima guerra”, non valse a evitare che vent’anni dopo scoppiasse una nuova e nonmeno terribile guerra mondiale, in cui sarebbe definitivamente naufragato il ruolo e il prestigio dell’Europa nel mondo, già largamente inficiato dalla guerra del 1914.
E il 2014? Ancora non si può dire. Questo è, però, sicuramente e davvero il nostro problema.



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FILIPPO VI DI SPAGNA - Filippo VI è nipote di Alfonso XIII, che esulò nel 1931 per il risultato delle elezioni spagnole di quell’anno, che indicavano una netta prevalenza delle sinistre. Nacque allora la Repubblica spagnola, contro la quale cinque anni dopo, nel luglio 1936 vi fu il pronunciamiento, ossia la ribellione militare, che dopo tre anni di un’aspra guerra civile (con un milione di morti, all’incirca!) si concluse nel 1939 con la vittoria di Franco. Questi governò poi il paese con pieni poteri e quale «capo dello Stato» fino alla sua morte il 20 novembre 1975. Già il 14 dicembre 1969 egli aveva fatto svolgere, però, un referendum, per cui si decideva che alla fine del vigente ordinamento franchista sarebbe stata restaurata la monarchia. Il 22 luglio 1969 aveva in più designato il sovrano che doveva salire al trono nel principe Juan Carlos, che aveva già fatto venire in Spagna fin dal 1961, insediandolo a Madrid nel palazzo reale della Zarzuela, con una chiara indicazione preliminare.
Il principe Filippo è stato il solo maschio dei tre figli di Juan Carlos, e il nome datogli dal padre era una chiara espressione della volontà della restaurata monarchia di ricollegarsi alle tradizioni della grande Spagna del passato. Il Filippo precedente era stato Filippo V, pronipote di Luigi XIV di Francia, il Re Sole, che nel 1701 inaugurò in Spagna la dinastia borbonica e regnò fino al 1746. Figura un po’ singolare di sovrano, nel 1724 aveva abdicato a favore del figlio Luigi, che fu re solo, però, per meno di un anno. Il padre, sollecitato fortemente anche dalla sua seconda moglie, Elisabetta Farnese, volle tornare sul trono e facilmente vi riuscì.
Per gli italiani del Mezzogiorno fu Filippo V – non il suo primogenito di secondo letto, Carlo, nel 1734 – il primo sovrano Borbone. Sia il regno di Napoli che quello di Sicilia (così come la Sardegna e Milano) appartenevano allora alla Corona spagnola, e lo restarono fino al 1707, quando le vicende della politica europea fecero passare prima Napoli e poi la Sicilia (che dal 1714 al 1720 fu assegnata ai Savoia) agli Asburgo di Vienna, ramo collaterale degli Asburgo che regnarono in Spagna nel ’500 e nel ’600. E alle stesse vicende della politica europea, in cui i popoli non contavano, si dovette nel 1734 l’avvento ai troni di Napoli e di Sicilia di Carlo, figlio di Filippo V e della Farnese, come si è detto. Poi Carlo passò nel 1759 al trono di Spagna, riservato ai figli di primo letto di Filippo V, che erano, però, rimasti senza eredi diretti, e lasciò a Napoli il figlio Ferdinando, suo terzogenito, IV di Napoli e III di Sicilia, prima di diventare nel 1816 Ferdinando I delle Due Sicilie, il regno da lui allora istituito in considerazione di quelli che egli riteneva i suoi interessi politici.
Ma Filippo V può essere ricordato dai napoletani anche per un’altra ragione. Egli fu, infatti, il solo sovrano, nei duecento anni dell’appartenenza del Regno alla Spagna, a recarsi a Napoli, dove solo l’imperatore e re Carlo V si era recato nel 1535-36. La visita di Carlo V, che percorse il regno per via di terra dalla Calabria alla capitale, nella quale si trattenne per circa tre mesi, era stata memorabile per i suoi fasti mondani e per una serie di ragioni politiche di primaria importanza. La visita di Filippo V nel 1701, che durò dall’Epifania per un paio di mesi, fu più breve e meno fastosa, ma fu anch’essa importante; e giovò, fra l’altro, a consolidare il già sussistente orientamento filo spagnolo delle classi dirigenti del Mezzogiorno e a preparare il fallimento nel successivo settembre della cosiddetta «congiura di Macchia», che fu splendidamente narrata anche dal Vico, e che era volta a dare il trono di Napoli agli Asburgo di Vienna (che poi lo ebbero nel 1707, per le solite vicende della politica europea).



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SPADOLINI - Non fu lunga la vita di Spadolini. Si spense, infatti, a soli 69 anni da poco compiuti, nel 1994. Fu, in compenso, una vita piena e intensamente vissuta. Aveva trovato qualche difficoltà nell’avviarsi, negli anni più giovanili. Poi, da quando nei primi anni ’50 cominciò a collaborare al «Mondo» di Mario Pannunzio, la sua strada rimase tracciata. Fu la strada della liberaldemocrazia occidentale, di stampo più americano che britannico. Fu la strada degli ideali laici e risorgimentali, sentiti e rivissuti con l’occhio al presente, ma con l’idea fissa di una “Italia civile”o di una “Italia della ragione”, che rimase il suo ideale. Fu la strada dell’impegno culturale, senza spocchia da “intellettuale impegnato” o da sdegnoso moralista e, invece, con molto buon senso rispetto alle esigenze della politica nel suo quotidiano travaglio, non sempre illuminato di luci dall’alto.
Debuttò negli studi sulla storia dell’Italia unita seguendo il tema del rapporto fra i cattolici e la nuova Italia unita, e il lungo cammino perché liberali e cattolici trovassero un piano di colloquio e d’intesa. Tra chi voleva il Tevere larghissimo e chi lo voleva strettissimo, egli riteneva che quel fiume dovesse avere la sua giusta larghezza naturale, senza forzatura da nessuna delle due parti. Questi studi gli valsero nel 1960 la cattedra universitaria nel primo concorso italiano di storia contemporanea, insieme con Gabriele De Rosa e Aldo Garosci.
Col tempo questa posizione di equilibrio divenne in lui il criterio anche della sua linea politica. Occorreva che nessuna delle istanze storicamente e idealmente legittime venisse respinta per principio, anzi venisse accolta quale componente attiva, se comprovata nei fatti, di un’autentica liberal-democrazia. A questa luce considerò anche il problema comunista e la prospettiva del “compromesso storico” col PCI adombrato da Moro e da Berlinguer. Col tempo, però, maturò in lui anche la convinzione che ciò portava fatalmente a rendere L’Italia dei laici un’Italia di minoranza, come suonano i titoli di due suoi libri, senza peraltro che per ciò rinunciasse a nulla delle sue idee.
Furono, queste, anche le coordinate del giornalista e dell’uomo politico. A soli 29 anni andò a dirigere Il «Resto del Carlino» e vi restò per ben 13 anni. Poi nel 1968 passò a dirigere il «Corriere della Sera» e vi restò fino al 1972. Erano anni difficilissimi in un’Italia stretta fra contestazione, terrorismo e aspre lotte sociali. Il modo come li affrontò sul «Corriere» spinse Ugo La Malfa a candidarlo al Senato per il partito Repubblicano, che fu da allora il suo. Poi a ogni elezione fu confermato finché nel 1991 fu nominato senatore a vita.
Iniziò allora anche l’avventura di Spadolini politico e uomo di governo. Un’avventura sontuosa. Primo titolare del Ministero per i Beni culturali e ambientali (che riuscì a far istituire con decreto-legge nel 1974), nel 1979-80 fu ministro della Pubblica Istruzione e varò i famosi “provvedimenti urgenti” per l’università, che sbloccarono una lunga situazione di stallo della docenza universitaria. Nel 1980 divenne segretario del partito Repubblicano, e lo restò fino al 1987. Nell’agosto 1982 Pertini lo nominò a capo del governo: il primo non democristiano dal 1947. Col governo affrontò un’inflazione micidiale, e la portò dal 22 al 16% annuo. Ma ormai batteva l’ora di Craxi, che ne provocò la caduta, non sgradita neppure a molti democristiani. Il prestigio acquistato gli valse però un grande successo repubblicano nelle elezioni del 1983. Egli aveva fatto dei repubblicani i portabandiera della critica alla partitocrazia. Entrare poi nel governo Craxi (1983-87) non fu forse la scelta politica più congrua a quel ruolo. Con Craxi fu ministro della Difesa, anche dopo aver aperto una crisi di governo per l’incidente di Sigonella, che aveva provocato una forte frizione fra Italia e USA. Emerse allora tutto il suo fervido atlantismo in contrasto col terzomondismo, venato di sottile antiamericanismo, comune ai socialisti, a gran parte dei democristiani e a quasi tutta la sinistra. L’atlantismo non era, però, altro che una concezione rigorosa di ciò che l’Occidente e i suoi valori dovevano significare. E perciò, anche, fu più che perplesso quando dové subire nel 1982 una presa di posizione italiana di equidistanza fra Gran Bretagna e Argentina nel conflitto per le Falkland.
Ebbe ancora un incarico esplorativo per la formazione di un governo nel giugno 1989, ma lo rimise nel luglio seguente, non avendo trovato una valida maggioranza. In effetti, era, però, ormai un uomo delle istituzioni, e tale lo sancì l’elezione a presidente del Senato nel 1987 (per cui lasciò la segreteria repubblicana). Da presidente le sue doti istituzionali emersero ancora di più e fu riconfermato fino al 1994, quando per un solo voto la nuova maggioranza berlusconiana e leghista lo bocciò. Poi, poco dopo si spense, lasciando un’eredità di pensiero e di opere forse ancora non bene compresa e studiata (e utile anche nelle nostre attuali vicissitudini politiche).
Nel corso della sua vicenda politico-istituzionale la passione culturale non accennò mai ad attenuarsi. Per 13 anni nel consiglio della Bocconi, presidente del crociano Istituto Italiano per gli Studi Storici, gran consulente della casa editrice Le Monnier, direttore (e, invero, padre-padrone) della «Nuova Antologia», la storica rivista risorgimentale e liberale, contraltare della gesuitica «La Civiltà Cattolica», istituì poi la Fondazione Nuova Antologia, cui destinò parte del suo patrimonio e legò la sua ricca biblioteca di oltre 80.000 volumi. Foltissima fu la sua bibliografia di scritti storici e politici.
Gli fu spesso imputata una certa vanità politica e culturale. Certo, Spadolini non ne era alieno, né era perfetto. Meglio di tutti lo giudicò Montanelli, che ne sorrideva amabilmente: cosa infrequente tra toscani. Ma Montanelli ne capì molto bene anche le qualità, e non per nulla fu lui a consigliarne la candidatura a La Malfa nel 1972.




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IL RAPPORTO TERRITORIO-SVILUPPO - Il rapporto fra territorio e sviluppo rimane fra i più difficili nella gestione pratica – politica e amministrativa, ma anche nella spontaneità della società civile – dell’Italia contemporanea. Allo stesso tempo, questo rapporto rimane anche fra quelli dei quali appaiono ancora molto insoddisfacenti le trattazioni a livello dei relativi studi, e in particolare degli studi applicati alle necessità quotidiane e urgenti di azione a tale riguardo. Se poi inquadriamo il problema in un contesto più generale, l’insoddisfazione non può che risultarne accresciuta.
Enorme è stato il mutamento del quadro dell’economia e della società che nel corso del secolo XX si è dovuto registrare in tutto il mondo, anche nelle sue parti più arretrate: anzi, in queste parti arretrate, che poi sono quelle prevalenti nel contesto mondiale, lo si è notato ancora di più, poiché una particolarità dello sviluppo di questo periodo è che esso ha indotto mutamenti profondi nelle mentalità e nei comportamenti anche molto prima, o addirittura senza, che si producessero i mutamenti strutturali e reali, ai quali nelle parti più avanzate sono legati simili mutamenti di mentalità e di comportamento.
In Italia, di tutto ciò si presenta un caso esemplare, e per una doppia ragione: perché il paese non è stato tra i first comers dello sviluppo economico e sociale avviato dalla “rivoluzione industriale”, e perché in esso è sopravvissuto, e dura tuttora, un dualismo strutturale tra la parte più avanzata e quella relativamente arretrata, quasi compendiando in un unico scenario l’accennata casistica presente su scala mondiale.
In linea dimassima, la politica e l’azione economica e sociale dei governi hanno seguito nel corso del secolo XX con varia tempestività le diverse esigenze determinate dai mutamenti strutturali, dalle loro conseguenze a livello delle mentalità e dei comportamenti, nonché dallo storico dualismo del paese. Il pregiudizio per cui è sempre la politica a essere in ritardo rispetto alla società e ai suoi sviluppi culturali e materiali non è, perciò, del tutto fondato nemmeno nel caso dell’Italia, che pure passa per essere un paese di quelli che più risentono di una classe politica e di un ordinamento istituzionale inadeguati alla portata e alle esigenze dei suoi problemi.
Su un punto, tuttavia, si può parlare di un sicuro e grave ritardo della politica, e, cioè, nella considerazione specifica e generale del territorio quale quadro operativo dei disegni e dell’azione politico-amministrativa: un punto sul quale gli studi hanno avuto, invece, una grande continuità propositiva e innovativa. Basti pensare alle sorti della programmazione territoriale, paesistica e urbanistica, pur prevista da varie leggi, e tuttora largamente carente.
Le conseguenze, evidenti, si vedono nell’assurdo spreco della preziosa risorsa-paesaggio, nei molti irrazionali usi del territorio, nella crescente congestione urbanistica e in altri simili elementi, nonché in varii aspetti delle stesse attività economiche, che, pure, sono in molti a credere avvantaggiate da un’assenza o da una larga inapplicazione delle normative vincolistiche nell’uso del territorio.
Occorre ripetere che la valorizzazione del territorio non è solo un’esigenza estetica e razionalistica, ma una condizione concreta e specifica di attività che vanno dal turismo alla individuazione di localizzazioni e distretti industriali? O che essa è un’esigenza globale, da non attuare con interventi e provvedimenti isolati, ma con una visione generale del territorio? O che questo presuppone una piena e valida infrastrutturazione del territorio stesso? O che è vano protestare contro i vincoli paesistici e urbanistici, perché senza vincoli in materia di trasformazione e di uso o destinazione è materialmente impossibile anche solo parlare di una politica, quale che sia, del territorio?
Fra le molte deficienze e carenze della politica italiana nel corso del secolo XX quelle relative al territorio figurano, forse, con un triste primato. E, anche se in alcune parti del paese il problema presenta aspetti e condizioni più gravi – come, in generale, nel Mezzogiorno, in alcune zone del quale il problema tocca alcuni dei suoi vertici nazionali – e in altre sono diverse le condizioni e più soddisfacenti o meno insoddisfacenti. Un problema, dunque, comunque nazionale, ma che, proprio perché tale, dovrebbe anche prestarsi a essere più facilmente affrontato in modo organico e nelle giuste prospettive.
Aspettiamo ancora, invece, che venga definita appieno la normativa per le aree metropolitane; che si promuovano e si pratichino intese interregionali, a questo come ad altri riguardi; che tutela e protezione del paesaggio siano esercitate in modo molto più valido di quello che si vede; e che le aree industriali e i servizi trovino localizzazioni organizzate finalmente soddisfacenti. E vorremmo solo aggiungere qui, in primo luogo, che non si tratta, in fondo, di pianificare chissà quanto e come, ma solo di agire per determinare dimensioni funzionali del quadro territoriale in cui si opera e, quindi, anche delle attività che vi svolgiamo; e, in secondo luogo, che noi abbiamo parlato dell’Italia, ma non si creda che anche nei paesi più avanzati dell’Occidente tutto sia in ordine e soddisfacente e che dal punto di vista da noi accennato non vi siano problemi, e anche problemi seri.
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