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Diritti dell’uomo e schiavitù coloniale
di Marco Fioravanti
La schiavitù moderna e il diritto coloniale hanno suscitato negli ultimi anni un vastissimo interesse soprattutto nel mondo anglosassone e, successivamente, francese1. Meno attenta si è dimostrata, fino a pochi anni orsono, la letteratura scientifica italiana, giustificata da un duplice equivoco: da un lato la convinzione, divenuta quasi luogo comune, che con la fine del Medioevo la schiavitù nel Mediterraneo fosse scomparsa a vantaggio esclusivamente della tratta atlantica; dall’altro l’irrilevanza della tratta e della questione schiavista in assenza di possedimenti coloniali riconducibili, nel loro complesso, all’Italia.
Entrambi questi pregiudizi sono stati opportunamente superati dalla storiografia e dalla dottrina storico-giuridica più avveduta, le quali hanno rimesso al centro delle indagini sia le forme di servitù esistenti nell’Europa moderna (soprattutto quelle “private” nei confronti dei musulmani)2, sia il contributo del diritto coloniale otto-novecentesco, anche italiano, alla formazione del diritto pubblico europeo3.
Mancava tuttavia ancora nel panorama scientifico un lavoro che affrontasse la tematica della schiavitù e del diritto coloniale in Italia nel periodo dei Lumi, quando maggiormente si è affermata in Europa la riflessione al riguardo. Il libro di Alessandro Tuccillo, Il commercio infame. Antischiavismo e diritti dell’uomo nel Settecento italiano, Napoli, Clio Press, 2013 (il cui titolo riprende un’espressione utilizzata, in riferimento alla tratta, da illuministi italiani quali Gaetano Filangieri o Matteo Galdi), non si limita a colmare questa lacuna, inserendosi in uno spazio di indagine nella storia intellettuale del Settecento italiano, ma colloca il problema dello schiavismo e dell’antischiavismo, dei diritti dell’uomo e della questione coloniale, all’interno del più ampio panorama storiografico sulla valenza e la portata dei Lumi in Europa e particolarmente in Italia.
Attraverso l’analisi di una serie vastissima di percorsi e vicende intellettuali, oltre che di circolazione di uomini e idee – secondo una tradizione scientifica che risale al magistero di autori quali Franco Venturi e Furio Diaz, per giungere fino ad Anna Maria Rao e Vincenzo Ferrone – l’autore si sofferma sugli scritti di illuministi napoletani quali Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Francesco Longano, Matteo Galdi, e sul contributo abolizionista di Filippo Mazzei. Il volume inoltre affronta il libro XV dell’Esprit des lois e la sua recezione in Italia ad opera di autori quali Ermenegildo Personè e Antonio Genovesi. Il primo, letterato e giurista di origine leccese, proponeva una confutazione dell’opera di Montequieu basata sul rifiuto del «progetto riformatore illuminista di trasformazione della società mediante l’intervento del legislatore». Il secondo e più noto intellettuale muoveva invece le critiche all’Esprit des lois a partire dalla tripartizione tra onore, virtù e timore (rispettivamente attribuite dal magistrato di Bordeaux alle forme di governo monarchica, repubblicana e dispotica), ma in una prospettiva meno moralistica e tradizionalista rispetto a quella di Personè.
Particolare attenzione è dedicata a Ferdinando Galiani e alla sua analisi – soprattutto in Della moneta del 1751 – delle società commerciali rispetto alla tratta e alla schiavitù. L’economista e uomo politico partenopeo, partecipe del riformismo carolino a Napoli, nella sua ricostruzione della storia del commercio, muoveva dalle scoperte geografiche considerate come momento di svolta per lo sviluppo dell’economia europea. Egli, inserendosi nel dibattito sul lusso, tipico dell’epoca, non negava il carattere violento della conquista e non credeva che lo spirito di commercio potesse soppiantare, automaticamente, quello di usurpazione (come risultava dalla lettura dell’opera di Bernard Mandeville o di Jean-François Melon), ma difendeva l’idea che l’utilità fosse il criterio di analisi dei fenomeni sociali. I benefici della colonizzazione – sviluppo manifatturiero, abbondanza di materie prime e di metalli preziosi – non dovevano, secondo l’illuminista napoletano, nascondere che essa si basava sullo spirito di assoggettamento esercitato al punto da ridurre in schiavitù intere popolazioni.
Nella esaustiva ricostruzione del dibattito storiografico, sia internazionale che italiano, a partire dal lavoro pioneristico di Russel Parsons Jameson su Montesquieu, passando per le opere di Carminella Biondi e quelle, più controverse, di Louis Sala-Moulins, fino alle odierne teorie postcoloniali, il volume approfondisce particolarmente la svolta dei primi anni Settanta del XX secolo quando, sulla scia della riflessione francofortese, si affacciarono nel panorama scientifico (anche italiano) nuove interpretazioni che si allontanavano sempre più dal paradigma illuministico-progressista. L’autore è perfettamente consapevole di tutta la complessa produzione scientifica volta alla demistificazione dei Lumi e alla critica della modernità occidentale etnocentrica che sarebbe sfociata nell’imperialismo civilizzatore, ma se ne scosta. In particolare ridimensiona la tesi secondo la quale esisterebbe un filo rosso tra la concezione sulle differenze tra le razze posta dai Lumi e le ideologie razziste otto-novecentesche, senza tuttavia negarne un certo legame.
L’analisi del pensiero degli illuministi napoletani, in particolare, rappresenta per Tuccillo una lente per osservare e mettere alla prova alcune idee (ma anche luoghi comuni) sulle posizioni assunte dall’illuminismo su tale questione. L’obiettivo polemico dei pensatori riformisti partenopei, come di quelli d’oltralpe del resto, non era il colonialismo nel suo insieme, ma sia lo sfruttamento degli indios e degli africani, che la tratta e la schiavitù. La maggioranza dei philosophes italiani (tra i quali Galdi) auspicava infatti la diffusione di un «nuovo modello coloniale senza schiavitù, inclusivo e civilizzatore».
Rispetto al più ambiguo rapporto tra gli illuministi e i loro critici, l’autore cerca di ricostruire una visione dialettica sui Lumi, evocando numerosi esempi di lotta per la tolleranza e l’emancipazione, ai quali contrappone, forse in maniera un po’ rigida, il versante cattolico e conservatore. A suo avviso la controversia si può riassumere nella «offensiva contro il discorso di emancipazione dell’uomo attraverso se stesso». Nella ricostruzione di un dibattito condotto in maniera coinvolgente, emerge ciò che possiamo definire una “disputa” sull’universalità, ovvero uno scontro dottrinale tra i teorici dell’universalismo dei diritti e coloro che, soprattutto dal versante cattolico, ne prendevano le distanze. Per comprendere questa polemica l’autore affronta, tra l’altro, l’opera dell’ex-gesuita e biblista Gianbattista Roberti, il quale nelle sue Annotazioni sopra la Umanità del secolo decimottavo, del 1781, disapprovava l’umanesimo illuminista, puramente immanentista e accusato di «eccesso di universalità», al quale contrapponeva la fratellanza cristiana. Ad una valutazione severa nei confronti della schiavitù romana, non veniva affiancata un’altrettanto esplicita condanna di quella coloniale.
La posizione della Chiesa, tradizionalmente vicina agli ambienti coloniali e la cui legislazione era stata per secoli accondiscendente verso la legittimazione della schiavitù, aveva tuttavia contribuito a una critica all’universalità dei diritti dell’uomo. Ad esempio, la figura stessa di Nicola Spedalieri, non evocata nel libro, incarnava in maniera interessante le potenzialità e i limiti del pensiero riformista cattolico. Egli, come è noto, abbracciò in parte le idee del nuovo costituzionalismo rivoluzionario e nel suo Diritti dell’uomo, pubblicato nel 1791, sostenne la tesi della sovranità popolare, del contratto sociale e del diritto di resistenza. Secondo la storiografia più risalente egli rappresentava un movimento di idee nuove di tipo democratico e avanzato, mentre quella più recente ha ridimensionato l’aspetto innovatore della sua riflessione, sottolineandone i caratteri tradizionalisti4. Tuttavia nella sua opera, che può essere inserita nella cosiddetta «Aufklärung cattolica», egli, pur senza allontanarsi dall’ordine giuridico consolidato, si interrogò proprio sulla questione della pena di morte e della schiavitù5. Spedalieri precisava che quest’ultima dovesse essere considerata iniqua solo se conseguenza di una guerra ingiusta e che la Chiesa da un lato deplorava la condizione di miseria degli schiavi, dall’altro non criticava la pratica purché basata su ragioni fondate6.
Nell’esperienza rivoluzionaria francese risultò chiaramente la contraddizione tra i principi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la condizione di schiavitù dei sudditi coloniali (l’autore parla correttamente di deficit di universalità, ricordando che i diritti erano riservati all’uomo maschio e bianco ma anche, aggiungerei, proprietario). La figura dello schiavo infatti rappresentava il paradigma della negazione dei diritti dell’uomo nel secolo delle dichiarazioni giusnaturalistiche. Sarebbe stata la rivolta di Saint-Domingue a rendere inattuale il programma graduale e riformista dei rivoluzionari francesi spingendoli verso l’abolizione senza indennizzo per i proprietari di schiavi, con il decreto del febbraio 1794.
Nella rivoluzione americana le aporie erano ancora più evidenti e stridenti rispetto alle elaborazioni costituzionali susseguitesi dal 1776 ai primi dieci emendamenti del 1791. Nel grande patrimonio culturale di eguaglianza e libertà alla base del costituzionalismo nordamericano, che condusse una battaglia contro vincoli e limiti imposti dalla madrepatria, la schiavitù assurse a metafora ideale per rappresentare (e legittimare) la svolta rivoluzionaria. Allo stesso tempo tuttavia vennero relegati nella condizione di totale emarginazione e sottomissione nativi e schiavi, questi ultimi definiti con l’espressione eufemistica “resto della popolazione”, stabilendo che il loro numero, ridotto di tre quinti, dovesse essere sommato a quello delle persone libere per calcolare i rappresentanti. “Giochi di prestigio lessicali” che permisero di non menzionare mai la parola schiavitù nei testi costituzionali americani e francesi, per evitare una contraddizione in re ipsa.
Se è vero, dunque, che imputare ai Lumi di aver sconvolto un mondo ordinato e gerarchico, legato alle regole della tradizione giuridica e della natura, è un elemento tipico del pensiero reazionario e conservatore, è altrettanto significativa la posizione nei confronti dell’illuminismo – riconducibile alla teoria critica – che pone l’accento sulla eterogenesi di un’efficiente versione del dominio capitalistico, di cui, il colonialismo è stata un’espressione compiuta. Proprio le istanze universalistiche dei Lumi e la circolazione delle teorie eversive sulla tratta e la schiavitù, che configurarono una dimensione segnatamente internazionale dell’abolizionismo (internationale abolitionniste, secondo la felice espressione anacronistica di Yves Benot, ripresa dall’autore), si scontrarono con numerose aporie soprattutto rispetto alla loro ricaduta nella «mission civilisatrice»7 delle potenze coloniali, che avrebbero utilizzato il richiamo all’antischiavismo per legittimare l’espansione imperialista ottocentesca. Tuttavia, secondo l’autore, che si avvale della lezione di Norberto Bobbio (idealmente continuata da Luigi Ferrajoli), il progetto emancipatore illuminista portava con sé gli strumenti per superare e risolvere queste contraddizioni, al punto che il valore espansivo della Déclaration avrebbe portato linearmente fino alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. La linearità del percorso del “moderno” nondimeno appare più volte interrotta e accidentata, soprattutto se volgiamo, con lo stesso Tuccillo, lo sguardo alle rivoluzioni atlantiche di fine Settecento e alla “modernità coloniale”, quando le antinomie emersero nella loro asprezza. Il paradigma del lineare progresso della storia, che procederebbe percorrendo un tempo omogeneo e vuoto, stigmatizzato dalla critica benjaminiana all’idea di progresso8 – risulta per contro contrassegnato da cesure e discontinuità9.
Le ricerche più recenti, partendo proprio da una rilettura della storia dello sfruttamento schiavista, sia tra le coordinate atlantiche (Atlantic and Global History) che dalla prospettiva degli oppressi (Postcolonial e Subaltern Studies) hanno evidenziato da un lato il ruolo centrale svolto dal commercio di schiavi per la legittimazione del nuovo sistema economico e per la cosiddetta accumulazione originaria, dall’altro il peso delle rivolte servili nelle scelte abolizioniste10. Il libro di Tuccillo, che si inserisce in questo rinnovamento scientifico, partendo dalle argomentazioni sia di un interprete tra i più lucidi del ruolo emancipatore dei Lumi quale Jean Ehrard, sia di un intellettuale militante di grande profilo, più incline a distinguere tra le anime dell’illuminismo, come Yves Benot, sottrae la vicenda dell’abolizione della tratta e della schiavitù dai margini della storia intellettuale italiana ed europea, per restituirle pienamente la sua centralità nella nascita del mondo moderno.













NOTE
1 Per una analisi della vasta letteratura scientifica si veda M. Fioravanti, Il lato oscuro del Moderno. Diritti dell’uomo, schiavitù ed emancipazione tra storia e storiografia, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 42 (2013), pp. 9-41.^
2 Si veda L. Valensi, Stranieri familiari. Musulmani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2013.^
3 Cfr. G. Bascherini, La colonizzazione e il diritto costituzionale. Il contributo dell’esperienza coloniale alla costruzione del diritto pubblico italiano, Napoli, Jovene, 2012.^
4 Ora si dispone del lavoro di A. Pisanò, Una teoria comunitaria dei diritti umani. I diritti dell’uomo di Nicola Spedalieri, Milano, Giuffrè, 2004.^
5 Cfr. ampiamente M.R. Di Simone, Les droits de l’homme dans l'oeuvre de Nicola Spedalieri, in Droit naturel et droits de l’homme, Société d’histoire du droit, Journées internationale 2009 (Grenoble-Vizille), Grenoble, Presses universitaires de Grenoble, 2011, pp. 127-136.^
6 Ivi, p. 135.^
7 Si veda l’importante volume di D. Costantini, La mission civilisatrice. Le rôle de l’histoire coloniale dans la construction de l’identité politique française, Paris, La Découverte, 2008.^
8 Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997.^
9 Sul punto si veda S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica del presente globale, Verona, ombre corte, 2008, pp. 56 ss.^
10 Fondamentale la trilogia di R. Blackburn, The Overthrow of Colonial Slavery (1776-1848), London-New York, Verso, 1988; Id., The Making of New World Slavery 1492-1800, London-New York, Verso, 1997; Id., The American Crucible. Slavery, Emancipation and Human Rights, London-New York, Verso, 2011.^
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