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Kissinger e lo stato nazione
di Aurelio Musi
Le anticipazioni offerte da alcuni organi di stampa del libro di Henry Kissinger, World Order, di prossima pubblicazione, consentono non solo di riflettere attentamente sugli attuali scenari mondiali «fuori dall’ordine», per riprendere un’espressione di Krugman, ma anche di rivedere e ridiscutere alcuni stereotipi che circolano sia nel senso comune, sia – e la cosa è un po’ più grave – tra studiosi di scienze storiche, politiche e sociali.
Assai schematicamente richiamo i principali argomenti proposti da Kissinger. Egli scrive che fino alla seconda guerra mondiale l’ordine politico internazionale è stato garantito dall’equilibrio del potere e da leader illuminati. Nel secondo dopoguerra e per sessant’anni gli USA hanno detenuto la leadership internazionale, ispirata a due principi: una «governance partecipativa» e l’affermazione della democrazia anche attraverso la sua esportazione. L’Europa ha deciso di superare gli Stati nazionali ma senza preoccuparsi di creare nel suo organismo «gli attributi della statualità». Penso che per «attributi della statualità» Kissinger intenda i caratteri e le funzioni che lo Stato moderno occidentale è venuto assumendo e acquistando. Pur considerando i mutamenti di contesto, si può ragionevolmente ricordare che quei caratteri e quelle funzioni siano identificabili con la divisione tra la titolarità del potere sovrano e la sua gestione, l’unificazione della nazione, la difesa del territorio e dei suoi confini, l’amministrazione centrale, periferica, nazionale e internazionale, militare e civile (eserciti professionali, burocrazia centralizzata e diplomazia), la relativa unificazione del diritto e delle procedure giudiziarie, la politica fiscale e sociale. Il trasferimento di questi caratteri e funzioni dallo Stato-nazione a organismi sovrastatuali e sovranazionali come l’Unione Europea avrebbe dovuto significare sostanzialmente una politica di difesa e militare comune, istituzioni e amministrazione capaci di gestire una “governance” assai più complicata rispetto a quella degli Stati, una politica estera condivisa da tutti gli Stati membri in grado di pesare e incidere nel contesto internazionale, una politica fiscale ed economica, l’amministrazione di un diritto sovraordinato, le funzioni di welfare, la condivisione di politiche per i migranti. Le difficoltà di realizzare gli obiettivi anche “statuali” dell’Unione Europea sono derivati non solo dalla indisponibilità di alcuni Stati a trasferire sfere di sovranità e di giurisdizione alle istituzioni europee, ma soprattutto dalla sfiducia in queste stesse istituzioni, incapaci di raggiungere e di realizzare gli obiettivi dello Stato-nazione. Le conseguenze in Europa, secondo Kissinger, sono state un vuoto d’autorità all’interno e uno squilibrio di poteri ai confini.
All’origine dei molteplici problemi che gravano oggi in Medio Oriente sono quelli che Kissinger chiama «Stati falliti», cioè organizzazioni politiche nate e sviluppatesi frettolosamente e caratterizzate da un forte squilibrio tra componenti artificiali della statualità e aggregazioni nazionali prive di autocoscienza unitaria e tenute insieme non da un’equilibrata costruzione di Nation-building, ma da altri elementi assai fragili e in continua potenziale destabilizzazione. Le vicende del XX e del principio del XXI secolo presentano, tra gli altri paradossi e molteplici e differenti contraddizioni, l’esperienza della crisi degli Stati nazionali e insieme l’indubitabile emergenza di nuovi Stati e nuove nazioni. L’osservazione di questo paradosso sollecita un’attenzione maggiore ai percorsi storici che hanno condotto alle diverse formazioni nazionali, alla comparazione non solo tra i differenti esiti, ma anche tra tempi, modalità e dinamiche, al confronto tra alcuni percorsi europei, che sono stati e continuano a costituire uno svolgimento quasi modello, e altri percorsi che si sono sensibilmente distaccati da esso.
Un’indagine così complessa deve, in via preliminare, evitare di scegliere tra due alternative secche. La prima assume come unico termine e parametro di riferimento la nazione quale valore politico affermatosi nell’Ottocento romantico. La seconda svaluta completamente tale riferimento, quasi che non fosse un tournant decisivo della storia mondiale e costituisse esclusivamente un elemento di natura ideologica o, al limite, mitica.
Ritorno al paradosso ricordato in precedenza: sullo scorcio del XX secolo, un valore, la nazione, «appariva in crisi là dove era nato e si manteneva più consolidato e vigoreggiava, invece, altrove come grande o, comunque, pressoché inevitabile prospettiva e dimensione politico-civile di vecchi e nuovi paesi, di Stati di recente o meno recente indipendenza». Giuseppe Galasso, che ha riflettuto su questa vicenda incrociata di crisi, persistenza e fortuna del modulo nazionale, ne propone una spiegazione che egli stesso giudica semplicistica: «non sono (o non sarebbero) tanto le nazioni a dar luogo allo Stato nazionale quanto gli Stati a forgiare, se non a inventare, le nazioni». (G. Galasso, Nazione, in Enciclopedia del Novecento Treccani, vol. XI, supplemento II, Roma, Treccani, 1988, p. 309; Idem, L’Italia s’è desta. Tradizione storica e identità nazionale dal Risorgimento alla Repubblica, Firenze, Le Monier, 2002).
Ciò spiegherebbe sia la nuova ondata autonomista, federalista o secessionista, provocata o consentita dalla crisi dello Stato nazionale in Europa (in Italia per la Padania, in Inghilterra per Scozia e Galles, in Francia per la Corsica, in Spagna per Catalogna e Paesi Baschi, in Belgio per valloni e fiamminghi, in Iugoslavia per la scomposizione in tante piccole nazioni, eccetera), sia la formazione di cosiddette “nazioni immaginarie”, senza consistente base storica, politica e culturale, nei nuovi Stati nati dal processo di decolonizzazione.
La filiazione Stato-nazione non può essere tuttavia comprovata storicamente. Dovunque in Europa, anche laddove appare come un esito tardivo, contraddittorio e fragile, la nazione è il risultato di un processo storico di lunga durata: in nessun caso è stata un’invenzione puramente politica. E, nel caso delle nazioni emergenti, la cornice istituzionale non è stata sufficiente a creare la nuova formazione, che è nata soprattutto grazie a spinte di natura diversa, condizionanti sia il profilo statuale sia il profilo nazionale.
Il rischio futuro, intravisto da Kissinger, non è quello di una grande guerra mondiale, ma la formazione di sfere di influenza non più caratterizzate, come nella tradizione storica, dal conflitto fra nazioni, ma da conflitti regionali.
Come se ne esce? Secondo il grande vecchio della politica americana, con un ordine mondiale di Stati, con una «governance partecipativa», con regole controllate nelle relazioni internazionali.
Tre sono i punti del ragionamento di Kissinger su cui vorrei invitare a riflettere.
Nonostante la retorica di molti maitres a penser i quali ritengono ormai superata, obsoleta, se non morta e sepolta la forma Stato-nazione, quasi un reperto archeologico ottocentesco sostituito oramai da organismi sovra e multinazionali, pare che non sia ancora nata una nuova organizzazione politica in grado di sostituire lo Stato-nazione. Naturalmente solo chi si inventa idoli polemici fittizi può ritenere che lo Stato-nazione sia una forma statica. Esso è invece un prodotto che, come tutti i soggetti storici, è in divenire continuo, conserva caratteri permanenti e si trasforma: e nelle capacità di trasformazione rivela tutta la sua vitalità.
Lo Stato-nazione è un prodotto della modernità perché, oltre ad essere una costruzione storica nata e sviluppatasi nella prima età moderna e successivamente perfezionatasi fino a diventare, insieme con l’impero, la forma più importante di organizzazione politica interna e internazionale, continua a costituire un modello persino per chi combatte il mondo occidentale e vuole sostituire lo “scontro di civiltà” ad altre forme di conflitto. Si prenda ad esempio l’ISIS: certo esso guarda come obiettivo al predominio dell’Islam nel mondo, ma è singolare che usi l’espressione Stato islamico. Un apparente ossimoro? Se considerato in profondità, la dice lunga sulla capacità di attrazione che ancora conserva il modello dello Stato, dato da molti per morto. È singolare, insomma, il fatto che lo Stato, morto in Occidente, risorga in Oriente!
Kissinger parla di una prospettiva di «ordine mondiale»: ma quest’ordine – egli sostiene giustamente – deve continuare a passare comunque per gli Stati. E qui si aprono spazi notevoli per la ridefinizione del ruolo dell’Europa, culla dello Stato moderno e di tutti i valori ad esso collegati. Può dire molto – solo se lo vuole – l’Europa su quella «governance partecipativa» a cui fa riferimento Kissinger.
Certo bisogna dimostrare molta flessibilità nella proposta politica di «governance partecipativa». Essere aperti a soluzioni concordate e partecipate, che devono necessariamente prevedere la disponibilità al compromesso per evitare o bloccare conflitti all’origine. Significa concordare e concretamente realizzare federazioni di Stati, come ad esempio, seguendo la proposta di Marek Halter, la soluzione di tre Stati in Irak (curdo, sciita e sunnita); o una pluralità di Stati in contesti difficili, come «due popoli due Stati» per Israele e Palestina.
I problemi sono tanti: regole e confini controllati; le autorità legittimate a definirli. Ma intanto partiamo dal presupposto che gli Stati-nazione o come altro vogliamo chiamarli sono ancora vivi.
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