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La piazza in luogo del Parlamento
di Luigi Compagna
1. Quel maggio “radioso”, quell’autunno “funereo”

Nel 1915 l’Italia entrò in guerra per ragioni soprattutto, se non esclusivamente, di politica interna. Contro Giolitti, ma col consenso del sovrano, si scelse a maggio di zittire, o comunque di non lasciare che si esprimesse, il Parlamento. Erano in ballo questioni di politica estera (la guerra, la Triplice, il patto di Londra e via dicendo), che alle Camere non furono allora mai all’ordine del giorno.
Paradosso dei paradossi: dall’autunno del 1914, morto il giolittiano marchese Antonino di San Giuliano (Paternò Castello), al ministero degli esteri era arrivato Sidney Sonnino, uomo che in altre stagioni aveva pensato e scritto in termini di “tornare allo Statuto” e che, invece, nella primavera del 1915 non parve sfiorato dalla minima considerazione dei profili costituzionali della decisione di fare guerra. A meno di non volergli attribuire, oggi per allora, la perfida intenzione di arroccare il suo accigliato liberalismo nella difesa integrale dell'articolo 5 dello Statuto, cioè della condizione “extra-parlamentare” della politica estera.
Ci si avviò così verso il cosiddetto maggio “radioso” della storia d’Italia. A far fuori Giolitti si riuscì. Ma non definitivamente. Anzi, forse gli si precostituirono le basi per rientrare alla grande nel 1919. Quel 1915, giusta l’intuizione di Benedetto Croce, segnò comunque un punto decisivo di “non ritorno” di quel che era stato dall’Unità il nostro sistema di monarchia costituzionale e parlamentare.
Monarchico per la pelle, Giolitti non era stato, né aveva mai voluto sembrare, un mistico adoratore della monarchia. E non solo perché il misticismo di alcunché non apparteneva alla sua natura. Al suo re fu sempre leale, anche in quel maggio per lui penoso, ma mai da servitore, sempre da uomo libero, anzi da liberale impenitente che, da quando vi era entrato, aveva riconosciuto nel Parlamento la sua chiesa e, quindi, nel parlamentarismo la sua religione.
Ma qual era – si sarebbe domandato Giovanni Spadolini – la Monarchia ereditata da Giolitti? E quanta parte non ebbe, nella crisi suprema, il particolare complesso del sovrano verso il suo primo ministro, così attentamente osservato dall’Ansaldo? In realtà Giolitti attuava l’unica politica monarchica che fosse conciliabile con le masse popolari: quella che Missiroli chiamò la monarchia socialista solo per indicare un periodo di conservazione e di stabilizzazione sociale1.


Altro che “monarchia socialista”, sembra obiettare Spadolini a Mario Missiroli, suo antico maestro di giornalismo: la monarchia in Italia poteva essere soltanto giolittiana e quando, come nel 1915, volle ergersi, invece, a sintesi di patriottismo dannunziano, interventismo democratico, conservatorismo salandrino, sovversivismo reazionario, cioè a sintesi dell’antigiolittismo, fece male a se stessa. Assai più di quanto avesse creduto a maggio di aver fatto male a Giolitti.
Per tutto il sessantennio dell’Italia liberale la politica estera rimase spesso separata dalla sfera di competenza di quella interna. Spesso, ma non sempre. Nel caso di Antonio Salandra e del primo conflitto mondiale, tale aurea regola fu sottoposta a una rilevante eccezione in un duplice senso. Non soltanto, infatti, per la prima volta le decisioni sul se, il quando e a fianco di chi entrare in guerra sfuggirono in buona parte ai consolidati e tradizionali canali politici e diplomatici. Ma – ciò che è ancora più rilevante – la scelta di prendere parte al conflitto, gli alleati con i quali schierarsi e gli obiettivi che lo sforzo bellico avrebbe dovuto produrre fanno ritenere che l’eccezionalità dell’evento venne strumentalmente usata per attuare un’alternativa concreta al sistema impersonato da Giovanni Giolitti2.

Da qui quel clima di pseudo rivoluzione con il quale si entrò nel conflitto, promettendo «di far fare a Giolitti la fine del Ministro Prina, dando al Paese l’impressione che i trecento deputati», che pochi giorni prima avevano manifestato il loro consenso allo statista piemontese, «si fossero convertiti sotto la minaccia incombente di violenze di piazza»3. Le quali non mancarono affatto: anzi, a loro modo concorsero ad accreditare l’ipotesi di un’Italia a monarchia pienamente reintegrata nella propria sovranità da una sorta di colpo di Stato svoltosi in piazza, contro il Parlamento4.
La procedura seguita dal Quirinale durante la crisi poteva anche apparire a prima vista corretta: rapide ed esaustive consultazioni; accertamento che non si presentassero reali alternative al governo Salandra, appena dimessosi; rinvio, infine, dell’esecutivo al giudizio del Parlamento che – formalmente – restava libero di rovesciarlo. Formalmente, appunto, solo formalmente. Perché la sensazione, fra il 13 e il 16 maggio, fu che la piazza avesse esercitato una pressione non esclusivamente psicologica sulle istituzioni.
Difficile condividere alla lettera la ricostruzione di Denis Mack Smith, secondo il quale «il Re aveva deciso in maniera irrevocabile di portare a compimento il suo colpo di Stato»5. Ma difficile non aderire a quella di Cristopher Seton-Watson, che ritiene che l’esecutivo in carica avesse furbescamente abdicato alla sua funzione di «governo in Parlamento» e, quindi, abbandonato il Paese «nelle mani del Re e delle forze extraparlamentari»6.
Certo, se la crisi apertasi il 13 maggio non ebbe una soluzione nitidamente costituzionale, fu dovuto pure alle esitazioni dello stesso Giolitti. Ma la sua preoccupazione di non lasciare Vittorio Emanuele III completamente “scoperto” di fronte agli eventi (anche in termini di onorabilità della monarchia con le potenze dell’Intesa) era rispettabile. Non altrettanto la virulenta “campagna di maggio” condotta dal «Corriere della Sera» contro una inesistente «congiura giolittiana»7.
Subito dopo aver appreso che il re avrebbe rifiutato le dimissioni del governo Salandra, il Ministro delle Colonie Ferdinando Martini aveva annotato la decisione del re come «inimmaginabile»8. Interessante, su un piano diverso da quello costituzionale, la testimonianza fornita, alcune settimane dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria, da un noto pubblicista e propagandista francese, Jacques Bainville, pienamente al corrente delle ingenti risorse finanziarie e organizzative dispiegate dalla Francia in appoggio agli interventisti italiani.
Giunto nella capitale italiana alla fine di giugno, Bainville reputò che la guerra avrebbe rappresentato l’occasione, da tanto tempo attesa e finalmente arrivata, per dare al Paese «una sua vera sintesi, unificando le radici repubblicane e monarchiche del Risorgimento». Insomma una sorta di appuntamento “crispino” della nostra storia nazionale. Ma, da acuto indagatore dell’Italia “profonda”, gli bastarono poche settimane, a prescindere dalle numerose scritte di “abbasso la guerra”, per ammettere che, se Vittorio Emanuele III si fosse pronunciato contro l’intervento, alla fine «la folla si sarebbe acquietata»9.
Al maggio “radioso”, per dirla con Piero Melograni, che così titolerà il primo capitolo della sua opera sulla guerra10, sarebbe seguito un autunno “funereo”. Salandra sopravvivrà ad alcune imboscate parlamentari, arriverà a passare indenne il primo anno di guerra, ma subito dopo il suo governo cadrà vittima delle contraddizioni interne alla maggioranza, la quale un suo Giolitti non lo avrebbe mai più ritrovato. Neanche nel 1920, quando lo stesso Giolitti sarà per l’ultima volta alla guida di un governo.
Intanto avrebbe fatto storia il suo accantonamento, il “radiosomaggismo”, il prevalere della piazza sul Parlamento, il venire meno della garanzia statutaria, la brusca interruzione di continuità fra Stato nazionale e forma di governo parlamentare. Il 1915 avrebbe segnato nella storia d’Italia un termine ad quem dei più significativi. Non è un caso che avrebbe coinciso con quello scelto da Croce nel 1928 per la sua Storia d’Italia.



2. Patriottismo senza nazionalismo

La lacerazione del 1915 fu per Croce più profonda di quella del 1922. A suo modo, l’una aveva preparato l’altra, celebrando la forza contro la ragione, l’innovazione cieca e improvvisata contro la tradizione e il pensiero, gli istinti contro la logica. Sicché scrivere una storia d’Italia naturaliter giolittiana, per rendere onore alla serietà autentica di quanti avessero cercato di costruirla secondo le regole di una pacata ispirazione civile, gli parve una sorta di dovere etico-politico fin da quando quella lacerazione aveva avvertito.
Già nel 1915, nell’ultima pagina del Contributo alla critica di me stesso Croce aveva confessato che da tempo aveva in animo di dedicarsi non solo a lavori storico-teorici simili a quelli che aveva eseguiti «negli studi filosofici e di estetica e di critica letteraria», ma anche ad un’opera sullo svolgimento storico «del secolo decimonono in quanto viveva, nelle condizioni presenti della nostra civiltà, una storia che desse quasi mano alla praxis»11. Esagerato dedurne un «non possiamo non dirci giolittiani».Ma andava già maturando quel patriottismo senza nazionalismo, impermeabile ad ogni letteratura ammalata di dannunzianesimo, nel quale Croce avrebbe trovato e riconosciuto nel dopoguerra la propria identità politica.
La genesi della Storia d’Italia – rileverà Gennaro Sasso – e di quella d’Europa nel secolo decimonono, che nel 1915, a quel che pare, Croce concepiva come un unico libro, qui già si delineava; e se poi le due opere riuscirono diverse da come sarebbero state se la tragedia della prima guerra mondiale non avesse per allora impedito al filosofo di intraprenderne l’esecuzione, questo non toglie che il proposito di scriverle risalisse, in sostanza, a quegli anni12.

L’atteggiamento di Giolitti tra il ’15 e il ’19 era stato particolarmente apprezzato da Croce. Fino a volerne fare una sorta di simbolo positivo da opporre alle critiche che, da parte nazionalista e fascista, si era preso a rivolgere all’ultimo cinquantennio della storia italiana.
Non che Croce nel 1928 intendesse accreditare la propria biografia come sempre e comunque giolittiana (in base, magari, alla sua partecipazione nel 1920 al governo Giolitti). Ma ripensando il “se stesso” di prima del 1920 nel quadro dell’Italia giolittiana, divenuta intanto materia di esplicito giudizio storico, gli erano ben presenti le conseguenze negative che il liberalismo italiano aveva subito nel 1915 dall’emarginazione di Giolitti. In Italia esso, per Croce, era rimasto assai più debole e precario di quanto non fosse altrove in Europa e, quindi, necessariamente incapace di resistere con successo alla grande sfida che, nello sconvolgimento prodotto dalla prima guerra mondiale, le forze dell’irrazionalismo gli avevano rivolto con violenza ed ostinazione.
La politica di Giolitti, che Gioacchino Volpe reputava insufficiente per “troppa razionalità” e “troppo buon senso” a dettare slanci ed idealità nazionali di vasto profilo13, appariva invece a Croce, proprio in virtù del suo “razionalismo” e del suo “buon senso”, quella più vicina a realizzare il liberalismo. Liberalismo del quale per Croce non «bisogna coltivare un’idea astratta, cioè di così sublime perfezione da disconoscerla poi nella sua concreta esistenza, e con tale disconoscimento disporre gli animi a negargli realtà e valore»14.
Sicché, agli occhi di Croce, proprio il buon senso di Giolitti, la sua stessa «capacità di parlare sobrio e asciutto», diventavano le manifestazioni di una personalità politica alla quale il liberalismo era “connaturato”. Croce, naturalmente non accettava che la connessione tra liberalismo e “buon senso”, da lui richiamata, fosse un elemento di debolezza dei regimi liberali nella sfida lanciata loro dalle ideologie e dai regimi totalitari del secolo XX.
Tali ideologie e tali regimi erano dotati infatti di una capacità di colpire l’immaginazione, di suscitare adesioni entusiastiche (e mobilitazioni di massa), di cui invece il liberalismo italiano era giolittianamente privo. La stessa “religione della libertà” di cui Croce avrebbe parlato di lì a pochi anni nella Storia d’Europa nel secolo decimonono, non mirava ai nuovi soggetti della politica di massa15, né li avrebbe blanditi.
Il buon senso e la sobrietà, la capacità di dare espressione semplice – ma perciò anche “sostanziosa” – al ragionamento erano qualità che lo stesso Giolitti aveva rivendicato a sé. E nelle Memorie della mia vita (un testo, come mostrano le note della Storia d’Italia, molto utilizzato da Croce) – l’ex presidente del Consiglio aveva, del resto, definito «il buon senso» come «una delle principali doti dell’uomo di governo»16. La stessa politica di apertura ai socialisti veniva da lui giustificata con la convinzione che nelle masse, una volta che partecipino alla vita politica, «il buon senso finisce sempre alla lunga col prevalere inducendole a rinunciare ai mezzi rivoluzionari»17.
Il buon senso era qualità che Croce amava attribuire a se stesso, e che costituiva – come osservò Gramsci – una peculiarità del suo discorso filosofico. «Mi pare che la più grande qualità di Croce – scrisse appunto Gramsci in una lettera del 1932 alla cognata – sia sempre stata questa: di far circolare non pedantescamente la sua concezione del mondo in tutta una serie di brevi scritti nei quali la filosofia si presenta immediatamente e viene assorbita come buon senso e senso comune»18. Nella Storia d’Italia la considerazione di Croce per il buon senso si manifestava anche attraverso la tendenza ad esprimere giudizi di rilievo nelle forme di un linguaggio pacatamente assennato, ispirato appunto a un comune buon senso che – per la impermeabilità alle seduzioni dell’immaginazione, al disfrenarsi “dannunziano” delle passioni e agli eccessi d’ogni genere – ben si potrebbe definire borghese, ma forse ancor meglio giolittiano.
Giolitti per Croce era la personificazione quasi perfetta del “non-filosofo”, che Croce aveva sostenuto di amare “assai”, appunto come «l’uomo del buon senso e della saggezza», tutt’affatto diverso perciò dal «cattivo filosofo» da lui invece aborrito:
Direi […] che l’amo [il non-filosofo] come il figlio del filosofo […] perché quel suo buon senso non è altro realmente che l’eredità delle filosofie precedenti, accresciuta di continuo dalla capacità ad accogliere i risultati netti del nuovo filosofare […]. La filosofia si trasfonde nell’animo dell’uomo così fatto come semplice enunciato di verità evidenti, pronte e disposte a convertirsi in principi d’azione pratica […]19.

Non può stupire che nella Storia d’Italia non vi fosse la minima traccia delle aspre critiche formulate da Gaetano Salvemini nel 1909 contro il “ministro della mala vita” Giolitti. Anzi, il volume crociano finiva col rappresentare la radicale confutazione degli stessi presupposti su cui esse implicitamente si fondavano.
Certo, Croce riconosceva che in Italia «nelle elezioni il governo prendeva, ed era costretto a prendere, parte troppo grande». Ma si trattava della constatazione di una necessità, non di una damnatio memoriae, riferibile peraltro non al solo Giolitti. Nello stesso senso andava il rilievo, consegnato a un capitolo precedente, secondo cui “brogli” e “clientele” erano stati favoriti dalla riforma elettorale del 1882.
Soprattutto, però, c’è da dire che Croce confutava i fondamenti dell’intera rappresentazione di Giolitti come “corruttore” della vita politica e “dittatore” del Parlamento, poiché riconosceva appunto il carattere di necessità del fenomeno, che andava dunque considerato come parte, in un certo contesto storico non eliminabile, dell’attività politica. Croce pensava non competesse allo storico «soffermarsi sugli incidenti dei cosiddetti scandali bancari e sulle indagini delle responsabilità e delle colpe, materia prediletta dei moralisti a buon mercato, adoperata ai loro fini dagli oppositori». In generale metteva in guardia dal pericolo di «convertire in giudizi storici i giudizi che s’incontrano nella pubblicistica politica». E il riferimento all’antigiolittismo era evidente.
Giolitti, secondo Croce, non aveva preteso di forzare la storia come aveva fatto invece Crispi che, prigioniero della sua «vaghezza per le cose mirande», aveva sognato di cambiare alla radice il carattere degli italiani. Implicitamente Croce si teneva al giudizio che pochi anni prima, nelle Memorie, Giolitti aveva dato di se stesso e della propria politica: «le leggi devono tenere conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese […], ed adattarsi ad essi. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito»20.
Nel 1928 Croce aveva ormai ben chiare le ragioni per le quali il 1915, più che un termine a quo, fosse termine ad quem: per riportare a civile parlamentarismo gli stessi ispiratori del rabbioso e incivile antiparlamentarismo che aveva invaso le piazze italiane. Credendo di abbattere Giolitti, si era preteso di cancellare quella forma di governo parlamentare che fin dalle origini aveva segnato la vicenda dello Stato nazionale. Alla guida del governo, Salandra, in una guerriglia contro il capo della maggioranza parlamentare, Giolitti, si era sentito autorizzato alla guerra da una piazza rabbiosa. Il colpo assestato allo Stato nazionale ed al suo Parlamento nel ’15 sarebbe stato fortissimo. Assai più di quel che si era creduto di riservare alla persona di Giolitti.
Del resto, la grande riformulazione del liberalismo crociano era avvenuta tra il 1915 e il 1928, soprattutto sul terreno della storiografia, compresa la teorizzazione della storia etico-politica. L’incontro intellettuale, civile, morale, con l’uomo di Dronero ed il suo liberalismo, aveva così contribuito ad un “se stesso” crociano ormai maturo, o comunque più maturo di prima, come nota assai bene Giuseppe Galasso risalendo il corso della storiografia crociana e la sua impronta nella formazione del suo pensiero politico21.



2. Politica interna e politica estera

Risalire a quel che era stato il rapporto fra politica interna e politica estera nell’Italia liberale è difficile. Quel che è certo è che il 1915 segnò in ogni caso uno strappo extra-parlamentare, anzi anti-parlamentare, alla tradizione costituzionale.
«La rappresentanza dello Stato all’estero – aveva fatto rilevare una volta il Presidente del Senato Domenico Farini al Presidente del Consiglio marchese Antonio di Rudinì – è un attributo del potere esecutivo: non si può derogare a questa massima neppure per delle feste»22. Si trattava di un invito fatto al Parlamento nell’aprile del 1896 di partecipare alle feste di celebrazione della storia ungherese con l’invio di una delegazione: invito inaccettabile, secondo Farini, stante il dettato dell’articolo 5 dello Statuto in tema di “potere estero”, che veniva definito pertinenza pressoché esclusiva del Re.
Al di là dell’episodio e della stessa previsione normativa, nel periodo statutario la Corona esercitò sulla nostra politica estera tutto il proprio peso. L’evoluzione della nostra forma di governo in senso parlamentare, che pur ci fu, non ebbe grandi riflessi, quindi, né nelle “cose militari”, né in quelle della diplomazia23. Quella del Ministro degli Esteri, tratto spesso dalla carriera diplomatica, e del Ministro della Guerra, appartenente altrettanto spesso alle forze armate, più che una scelta di governo era ritenuta una co-scelta da condividersi con il Monarca24. Né venne mai meno, del resto, la massima sollecitazione del Sovrano al momento della indicazione del Segretario Generale del dicastero degli Esteri, oltre che degli ambasciatori e degli addetti militari25.
Soprattutto nei primi tempi dello Statuto, più che di un’istituzione, la diplomazia ebbe il carattere di un’aristocrazia di servizio. Solo in età giolittiana, la carriera diplomatica si aprirà alla borghesia alta e media. «La realtà della diplomazia giolittiana – noterà Renzo De Felice – si distacca notevolmente da quell’immagine di club subalpino frequentato esclusivamente da famiglie della vecchia aristocrazia in cui non era penetrato lo spirito dei tempi»26.
Nel 1790, all’Assemblea Costituente francese si era sottolineato come i trattati e in generale gli affari internazionali interessassero direttamente i cittadini e come il potere del Monarca di ratificarli,ma anche quello di negoziarli, andasse rivisto. Il costituzionalismo italiano parve sempre, al contrario, assai più legato all’antico regime. La segretezza della diplomazia, esorcizzata dagli uomini della Rivoluzione, dai Mirabeau, dai Barnave, dai Pétion27, non fu mai fonte di particolare preoccupazione e di particolari garanzie “parlamentari” per un liberalismo italiano, sotto questo profilo pienamente monarchico e consapevolmente tocquevilliano, cioè più liberale che democratico.
Per me – aveva spiegato Tocqueville fin dal tempo de La democrazia in America – non esito a dirlo: è nella direzione dei rapporti esterni alla società che i governi democratici mi appaiono inferiori agli altri […] La politica estera non richiede l’uso di quasi nessuna delle qualità proprie della democrazia, ed esige invece lo sviluppo di quasi tutte quelle di cui manca28.

Liberali come Giolitti e come Croce su questo punto avrebbero convenuto con Tocqueville. Anche a spese della cosiddetta “collegialità” di governo29. Ma con quel che accadde nel 1915 ad entrambi sarebbe divenuto impossibile non considerare il 1915 termine ad quem dei loro precedenti sentimenti di politica costituzionale. Perché? Perché il modo in cui si pervenne alla guerra rompeva la tradizione costituzionale, cioè nei fatti violava lo Statuto del Regno.
Rimase l’impressione – scriverà Croce – e le fu dato risalto da taluni, che la volontà del popolo, o di gruppi di uomini risoluti parlanti in suo nome, si fosse sovrapposta alla volontà del Parlamento, come se nell’ordinamento costituzionale il Parlamento non rappresentasse esso soltanto la volontà del popolo; e che il popolo o quei gruppi di uomini avessero provveduto all’amore e alla fortuna d’Italia con l’intelligenza e la volontà che la sua Camera e il suo Senato non possedevano. A questa incrinatura nel rispetto per la legale rappresentanza nazionale allora si badò poco e da pochi, e il gran guadagno ottenuto e il turbine della guerra vi passarono sopra e lo fecero dimenticare per allora; ma non poterono fare che l’accaduto non fosse accaduto30.

Parole decisive, a loro modo definitive, quelle di Croce. Come se l’Italia risorgimentale gli avesse conferito un mandato storiografico a pronunciare il proprio “grido di dolore” di fronte alla vistosa incostituzionalità del maggio radioso. Uno strappo, una lacerazione che accomunò Croce e Giolitti, nella loro patria interiore oltre che nella vita pubblica.
A rifiutarsi di ritenerla incostituzionale, oltre che difforme dalla continuità di prassi politica, restò il solo Salandra: non senza l’ineleganza di coprirsi lui con la figura del re e non viceversa, come sarebbe stato nello spirito dello Statuto. «La politica estera – dirà Salandra – non era, per antica tradizione, argomento di discussione nel Consiglio dei Ministri. Essa si svolgeva in intima cooperazione fra il Ministro degli Esteri e il Presidente del Consiglio, cui ogni giorno erano comunicati i dispacci di qualche importanza. Di tutto era informato il Sovrano»31.
Più affidabile la ricostruzione di Seton-Watson, secondo cui fin dalla fine del 1914 Salandra e Sonnino collaborarono esclusivamente fra loro al fine di non consultare quasi nessuno, tranne il re, aggirare ogni verifica parlamentare e poter così «decidere le sorti dell’Italia in ansiosa ma orgogliosa solitudine»32. Il che corrispondeva pienamente alla ricostruzione di Croce.
Alle questioni di politica estera Giolitti aveva sempre dedicato assai meno attenzione che a quelle di politica interna. Almeno fino al 1915, quando proprio a lui, proprio perché a capo della maggioranza parlamentare, capitò di trovarsi bersaglio di una politica estera dal volto ipocrita e incattivito dalla politica interna.
La stessa Triplice, che il governo Depretis aveva stipulato il 20 maggio 1882 a Vienna, dopo l’intervento francese sulla costa tunisina di un anno prima, era sempre stata per Giolitti un riferimento quasi rituale, insufficiente a tutelare gli interessi mediterranei dell’Italia, ma in grado di garantire una generica stabilizzazione degli equilibri europei.
In ogni ebollizione, di scenario o di contesto che fosse, Giolitti aveva sempre fatto appello alla massima prudenza. L’articolo 5 dello Statuto gli pareva sacrosanto. Le nostre relazioni con le potenze europee andavano sottratte agli umori delle discussioni parlamentari, lasciando al sovrano, specie nei momenti di crisi internazionale, il suo spazio di manovra.
Fino al 1915, non c’è dubbio, il suo riserbo in politica estera era stato l’altra faccia del suo rispetto per la tradizione monarchica, quale s’era affermata attraverso la rivoluzione del Risorgimento. Politica interna e politica estera si sarebbero sempre dovute articolare e comporre secondo dialettica dei distinti, mai degli opposti, nella idea che della politica e dell’Italia aveva coltivato Giolitti e con lui Croce.
Solo che nel 1915 Giolitti incappò brutalmente in quel che non aveva ancora direttamente sperimentato: quanto pesasse nell’Italia liberale la politica estera e quanto questo peso ne determinasse il destino. Era così dal tempo di Cavour, ma dopo Crispi probabilmente Giolitti aveva coltivato la presunzione che non fosse più così. La politica estera, si leggerà poi in una famosa pagina di Federico Chabod, non è altro che «un momento, un aspetto di un processo storico assai più ampio e complesso, abbracciante tutta quanta la vita di una nazione»33.
Pagina crociana, quella di Chabod. Quindi, niente affatto anti-giolittiana. Del resto, fra il 1915 e il 1919, Giolitti ebbe ampio modo di riflettere e di comprendere, con sofferenza e dignità, che dopo il 1915 il nesso fra la forma di governo parlamentare, lo Statuto ed il re fosse tutto da riscrivere. Ed a suo modo, come si vedrà, Giolitti nel 1920 lo avrebbe riscritto.



3. Lo strappo

La dichiarazione di guerra avvenne ai sensi dell’articolo 5 dello Statuto albertino del 4 marzo 1848 in forza del quale il re «comanda(va) a tutte le forze di terra e di mare; dichiara(va) la guerra; fa(ceva) i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che imponessero un onere alle finanze, o variazioni di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo l’assenso delle Camere».
Il Patto di Londra vaticinava ma non garantiva affatto variazioni del territorio dello Stato (Trento, Trieste e altro) se non, come ovvio, in caso di vittoria. Di per sé, quindi, esulava dai trattati da comunicare preventivamente alle Camere e da sottoporre al loro assenso preventivo. Esso però, sotto il profilo degli oneri finanziari, andava lo stesso approvato dal Parlamento, al quale però non poté essere proposto perché in forza del suo (del Patto) articolo 16 doveva rimanere segreto sino alla sua efficacia. La decisione suprema fu dunque del “governo del re” al riparo dell’incipit dell’articolo 5 e completamente extra-parlamentare e, nei fatti, anti-parlamentare.
Le clausole del Patto rimasero ignote sino a quando, conquistato il potere con la Rivoluzione d’Ottobre, il governo bolscevico avrebbe aperto gli archivi dello zar e lo pubblicò. In tal modo Lenin fece sapere che tra le sue clausole (art. 15) vi era l’esclusione della Santa Sede dal futuro congresso della pace: con buona pace dei cattolici interventisti (pochi) e di quelli che servirono lealmente la Patria. Si apprese inoltre che tra i territori promessi all’Italia in caso di vittoria il patto non comprendeva affatto la città di Fiume. «Salandra, Sonnino e… altri non l’avevano considerato necessario»34.
Il 3 maggio 1915 il governo denunciava il Trattato difensivo del 1882 con Vienna e Berlino e, dopo una temporanea remissione del mandato e frenetiche consultazioni per dar vita a una nuova compagine, il 23 maggio dichiarava guerra all’impero austro-ungarico in applicazione del Patto di Londra: parziale e molto sospetta agli occhi dei nuovi alleati (mai amici), che ne controllarono a vista le mosse e in molti casi le tarparono le ali. La guerra contro la Germania venne poi dichiarata dall’Italia il 25 agosto 1916. Non c’è dubbio che la tela dello Statuto avesse subito un vistoso strappo. Per salvare il ruolo dellamonarchia e per non scalfirne le prerogative, si era scelto nel 1915 di umiliare ruolo e prerogative del Parlamento.
Quel sistema inglese, accolto nelle costituzioni francesi del 1814 e del 1830, amato dai Constant35 e dai Cavour, naturale antidoto agli eccessi di plenitudo potestatis del Monarca (anche laddove il testo costituzionale gli attribuisse il potere estero) era stato calpestato. Alle esitazioni e ai dubbi dei parlamentari si erano preferite le certezze del popolo in piazza. Il parlamentarismo (come principio) si era rivelato ancor più fragile del giolittismo (come politica).
Nella storia costituzionale inglese, a forti continuità e per lo più senza strappi, il Parlamento, oltre a scegliere e mantenere in carica il primo ministro, aveva sempre assicurato “funzione espressiva” (esprimere l’opinione del paese sugli argomenti trattati), “funzione pedagogica” (insegnare alla nazione ciò che non sa), “funzione informativa” (far conoscere al paese opinioni “altrui” che, senza la cassa di risonanza del Parlamento, non si conoscerebbero). Bagehot ne avrebbe fatto una dottrina36.
Senza uguale prestigio, ma con analogo spirito, la storia costituzionale italiana aveva sempre avuto nella azione politica esercitata in Parlamento una consuetudine liberale di rappresentanza e compensazione nazionale dignitosissima. La si fece venir meno, anzi la si strappò, con leggerezza monarchica seppur con calcolata accortezza. Da quel maggio radioso l’Italia non avrebbe tratto ragioni di vanto, meno che mai d’orgoglio.








NOTE
1 G. Spadolini, Il mondo di Giolitti, Firenze, Le Monnier, 1969, p. 24^
2 F. Lucarini, La carriera di un gentiluomo. Antonio Salandra e la ricerca di un liberalismo nazionale (1875-1922), Bologna, il Mulino, 2012, p. 7.^
3 A.C. Jemolo, Nazionalisti e interventisti, in AA.VV, Trent’anni di storia politica italiana 1915-1945, Torino, Eri, 1967, p. 31.^
4 L’ipotesi viene prospettata soprattutto da R. Martucci, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla Repubblica (1848-2001), Roma, Carocci, 2002.^
5 D. Mack Smith, Italy. A modern History, trad. it., Storia d’Italia, 1861-1969, Bari, Laterza, 1969, p. 449.^
6 C. Seton-Watson, Italy from Liberalism to Fascism, trad. it., Storia d’Italia dal 1870 al 1925, Bari, Laterza, 1967, p. 515.^
7 Cfr. L. Albertini, Venti anni di vita politica. L’Italia nella guerra mondiale. La crisi dal luglio 1914. La neutralità e l’intervento, Bologna, Zanichelli, 1951, parte II, vol. I, pp. 344-345; A. Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2004; F. Paoloni, I nostri bosches. Il giolittismo partito tedesco in Italia, con prefazione di B. Mussolini, Milano, Edizione del «Popolo d’Italia», 1916.^
8 F. Martini, Diario 1914-1918, a cura di G. De Rosa, Milano, Mondadori, 1966, p. 422.^
9 Cfr. A.J. Thayer, Italy and the war. Politics and culture, 1870-1915, Madison, University of Wisconsin Press, 1964, trad. it. L’Italia e la Grande Guerra. Politica e cultura dal 1870 al 1915, Firenze, Vallecchi, 1969, vol. II, p. 603.^
10 P. Melograni, Storia politica della grande guerra 1915-1918, Roma-Bari, Laterza, 1977.^
11 B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso,Milano, Adelphi, 1989, p. 76.^
12 G. Sasso, La “Storia d’Italia” di Benedetto Croce- Cinquant’anni dopo, Bibliopolis, Napoli, 1979, p. 18.^
13 Cfr. G. Volpe, Italia Moderna, Firenze, Sansoni, 1973 p. 244.^
14 B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1973, p. 225.^
15 Cfr. G. Belardelli, Liberalismo e “buon senso”: Giovanni Giolitti nel giudizio di Benedetto Croce, in «Il Pensiero Politico», febbraio 2006, p. 307.^
16 G. Giolitti, Memorie della mia vita (1922), Milano, Garzanti, 1945, p. 37 (in relazione a Depretis). Cfr. anche Ivi p. 20, dove si definiva Quintino Sella «il tipo perfetto dell’uomo di buon senso, fermissimo e rettissimo».^
17 Ivi, p. 38 (cfr. anche p. 192).^
18 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura diA. Santucci, vol. II, Palermo, Sellerio, 1996, p. 567.^
19 B. Croce, Etica e politica, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 157.^
20 G. Giolitti, Memorie della mia vita…, op. cit., p. 319.^
21 Cfr. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 2002.^
22 D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, vol. III, Roma, 1962, p. 925.^
23 A giudizio di E. Ragionieri, Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, Torino, 1976, p.1680, «per dettati statutari e per rapporti di forza reale, il peso della monarchia si affermò come decisivo nel campo della politica estera più ancora che in ogni altro settore della vita del paese».^
24 Cfr. R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, il Mulino, 1979, p. 41; F. Grassi, Introduzione al volume La formazione della diplomazia italiana 1861-1915, Atti del Convegno svoltosi a Lecce dal 9 all’11 febbraio 1987, Milano, 1989, p. 34.^
25 Cfr. E. Decleva, Il compimento dell’Unità e la politica estera, in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatini e V. Vidotto, vol. II, Roma, 1995, p. 121; E. Serra, La burocrazia della politica estera italiana, in La politica estera italiana (1860-1989), a cura di R.J.B. Bosworth e S. Romano, Bologna, il Mulino, 1991, pp. 72-78.^
26 R. De Felice, Presentazione della Indagine statistica. La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915), Roma, 1956, p. XV.^
27 Cfr. B. Mirkine-Guetzèvicth, La technique parlementaire des relations internationales, in Recueil des cours de l’Académie de droit international, Paris, 1937, pp. 235-250.^
28 A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Biblioteca di Scienze Politiche, a cura di A. Brunialti, vol. I, parte seconda, Torino, Utet, 1884, p. 230.^
29 «La collegialità del consiglio dei ministri – ricostruisce A. Acquarone, in Tre capitoli sull’Italia giolittiana, Bologna, il Mulino, 1987, p. 60 – fu spesso esautorata dall’iniziativa personale di Giolitti che su molte questioni politiche fra le più importanti non esitava a procedere per conto suo, riservandosi la decisione nella sicurezza di non essere contestato». Problema fortemente sentito da un monarchico leale come Giolitti, estraneo ad ogni feudalesimo di ministero, soprattutto nel corso del suo secondo governo, fu quello di far valere, all’interno del Gabinetto, il primato da Presidente del Consiglio sui ministeri Esteri, Guerra, Marina, gelosamente custoditi come strumenti dell’antico rapporto della dinastia con lo Stato. (Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia, Bari, Laterza, 1974, p. 276).^
30 Siamo qui all’ultima pagina di B. Croce, Storia d’Italia, cit., che spiega eloquentemente la scelta del 1915 come termine ad quem. L’Italia, come Victor Hugo dice della guardia imperiale nella battaglia di Waterloo, «entra dans une fournaise»: ed il come essa si comportò è per Croce vicenda che «non appartiene alla nostra storia, e forse non ancora ad alcuna storia».^
31 A. Salandra, L’intervento - Ricordi e pensieri, Milano, Mondadori, 1990, p. 79.^
32 C. Seton-Watson, L’Italia dal liberalismo al fascismo 1870-1925, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 570.^
33 Cfr. B. Vigezzi, Volpe, Croce, Chabod, la storia della politica estera dell’Italia liberale e la discussione sullo storicismo, in «Italia contemporanea», 22 (1991), pp. 397-418.^
34 Così, con sarcasmo e non senza pregiudizio favorevole a Giolitti, A.A. Mola, Giolitti e l’articolo 5 dello Statuto, in «Libro Aperto», aprile-giugno 2010, p.70.^
35 «L’Inghilterra merita ancora di servirci da modello. I trattati sono esaminati dal Parlamento, non per respingerli o per annetterli, ma per determinare se i Ministri hanno compiuto i loro doveri nell’informarlo». (B. Constant, Principes de politique, 1815).^
36 Cfr W. Bagehot, The English Constitution, C.U.P., Cambridge, 2001 (1867), pp. 95-97 (trad. it., La Costituzione inglese, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 42-44).^
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