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Le tristezze europee dell'Italia
di G. G.
Il discorso del neo presidente Juncker per la presentazione della nuova Commissione Europea, ossia del nuovo governo dell’Unione Europea, non è stato del tutto di quelli soliti in tali occasioni. Juncker ha messo in rilievo che nella sua squadra vi sono varii elementi di novità, a cominciare dalla presenza di un numero maggiore di donne, ma ha soprattutto dichiarato che l’obiettivo principale della Commissione deve essere quello di dare un deciso impulso alla crescita e al lavoro nell’Unione, nella maggior parte della quale entrambi gli elementi da tempo sono carenti.
Tutti si sono chiesti di quali mezzi l’Unione davvero disponga per conseguire tali obiettivi. Già suscita dubbi il fatto che al commissario per tale settore, il francese Pierre Moscovici, ritenuto un convinto fautore dello sviluppo da promuovere, sia stato affiancato, e delegato proprio al lavoro, agli investimenti e alla crescita, il finlandese Jyrki Katainen, ritenuto un altrettanto convinto fautore delle tesi rigoriste care alla Merkel, che solo così avrebbe accettato la nomina del commissario francese. La domanda più importante da farsi sembra, però, un’altra, e cioè quella, già indicata, dei mezzi concretamente a disposizione della Commissione per mirare agli obiettivi che sono stati enunciati da Moscovici. Cambierà il rapporto tra PIL e deficit di bilancio imposto agli Stati membri? Sarà mantenuto in tutto il suo vigore il fiscal compact? Si continuerà ad annaspare tra la comune convinzione che una notevole detassazione sia, specialmente per alcuni paesi (
in primis, l’Italia), uno strumento indispensabile e prioritario per la ripresa economica, e il rigore fiscale e di bilancio su cui si è basata finora la linea dell’Unione?
Infine, neppure si andrà molto lontano, a nostro avviso, se tutto il contributo europeo più diretto alla crescita sarà costituito dai cosiddetti fondi strutturali (i cui criteri di assegnazione e la cui supervisione sono anch’essi a tutt’oggi largamente insoddisfacenti).
È su questi problemi che bisognerà (al più presto!) risentire Juncker, ed è su di essi che l’operato della Commissione sarà valutato, e tanto più dopo l’enunciazione dei suoi obiettivi da parte del neo presidente. Ma per l’Italia il problema non si ferma qui. All’indomani della presentazione della Commissione da parte di Juncker si è avuto la pubblicazione del rapporto europeo sulla competitività. Il dato che più colpisce, qui, è che si è calcolato al 25% la perdita dell’industria italiana rispetto al 2007, per cui in meno di un decennio l’Italia passa da paese ad alta competitività a paese in stagnazione e, addirittura, in declino.
Come se non bastasse, l’ex presidente della Commissione Barroso, ora preposto all’organismo di monitoraggio della competitività, ha commentato, per quanto riguarda l’Italia, il rapporto ora pubblicato notando che l’Italia risulta indietro in quasi tutti gli indicatori tenuti presenti per calcolare il grado di competitività dei paesi dell’Unione, e cioè accesso ai finanziamenti europei, ricerca e sviluppo, integrazione nel mercato unico. Esemplificando, Barroso ha sottolineato che l’Italia è quintultima nell’Unione per l’utilizzazione dei fondi strutturali europei.
Noi possiamo commentare solo osservando per l’ennesima volta – e non siamo affatto sicuri che sarà l’ultima – che il paradosso italiano raggiunge proprio qui il suo vertice. Noi contribuiamo in non trascurabile misura alla costituzione del monte finanziario utilizzato per la concessione dei fondi strutturali, e non riusciamo neppure a utilizzarne la parte che ci spetterebbe per effetto della ripartizione comunitaria di quei fondi, e trasformandoci quindi di fatto in prodighi alimentatori dello sviluppo altrui, per cui ci ritroveremo, sul mercato europeo e internazionale, concorrenti sempre più agguerriti alimentati dalla nostra inettitudine a fare i più elementari dei nostri interessi.
E fossero almeno finite qui le nostre tristezze. L’apertura dell’anno scolastico è, a sua volta, coinciso con la pubblicazione del rapporto annuale OCSE sull’istruzione. Per l’Italia qualche notizia lieta. Si registra, infatti, fra il 2000 e il 2012 un sensibile miglioramento per il livello generale di istruzione. Per quanto riguarda, poi, la matematica, fra i 15enni è aumentata la percentuale di quelli con voti alti, mentre i 25-34enni risultano migliori delle generazioni precedenti nelle competenze matematiche.
Subito, però, il buono è offuscato – e pesantemente offuscato – dal negativo. Il livello italiano di istruzione resta nettamente al di sotto della media OCSE. Fra i 34 paesi della stessa OCSE l’Italia è l’unico ad aver diminuito la spesa per la scuola (-3%) e per le istituzioni scolastiche (-4%), mentre la media OCSE è salita del 38%. Un altro primato negativo si ha per gli investimenti (-5%). Gli stipendi degli insegnanti della scuole primarie e secondarie sono diminuiti dal 2008 al 2012 del 2%. Per gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado con 15 anni di esperienza sono diminuiti del 4,5%.
Ma c’è ben altro. Per la scuola primaria e secondaria la spesa italiana è in linea con la media OCSE, ma per la scuola secondaria è inferiore del 7% e per l’università è inferiore di ben il 28%. Abbiamo una specie di primato per i frequentanti della scuola materna, con il 92% di iscritti agli asili infantili, ma poi più si sale nella scala scolastica più cresce l’abbandono degli studi prima di completare l’obbligo scolastico o prima di raggiungere il termine degli studi, fin quasi al 15% per gli studenti fra 15 e 19 anni (media europea 10%). La percentuale dei laureati è salita dall’11 al 22%, ma siamo tuttora a uno degli ultimi posti in Europa per numero di laureati. Sono diminuiti in modo preoccupante i diciottenni che si iscrivono all’università (dal 51% del 2008 al 47%). Nelle stesse matematiche, in cui si sono avuti i miglioramenti sopra indicati, i nostri laureati hanno un punteggio non superiore a quello delle scuole secondarie di molti paesi europei, mentre perfino i 25-34enni, pur migliorati, continuano a piazzarsi solo al penultimo posto per competenze matematiche, e per la comprensione di un testo scritto risultano addirittura gli ultimi fra quelli dei paesi considerati. I nostri insegnanti non solo hanno visto diminuire le loro retribuzioni, ma percepiscono meno degli occupati in altri settori con lo stesso titolo di studio; per il 62% essi hanno più di 50 anni; i nostri orari di insegnamento sono sotto la media europea, e il carico di allievi per insegnante continua a essere superiore rispetto a quello degli altri paesi di confronto. E, infine, l’80% delle risorse destinate alla scuola va via per le retribuzioni del personale, insegnante e non.
Incredibile? Non tanto. Doveva avere qualcosa del genere in mente il presidente Renzi quando ha dichiarato che la scuola è la priorità assoluta del governo; e deve avere una qualche idea delle condizioni effettive della ricerca in Italia, se ha annunciato che ad essa verrà destinato un miliardo di euro. E se associamo qui scuola e ricerca, non è, ovviamente, per caso: la qualità della ricerca dipende anche (e, a mio avviso, non poco) dalla qualità dell’istruzione dei ricercatori. E non vogliamo dire nulla di ciò che la scuola significa dal punto di vista della pari dignità di tutti i cittadini o dal punto di vista della formazione di una comunità libera e aperta, il che non significa avere la porta spalancata a qualsiasi vento soffi da qualsiasi parte, o indulgere alle spinte anarchiche ingovernabili di singoli e di gruppi sensibili e inclini solo alla considerazione e all’incremento di quel che il Guicciardini felicemente definiva come il “particulare”. Né vogliamo dire che cosa la scuola è e comporta per l’insorgere e per il continuo crescere dei formidabili problemi rappresentati dall’integrazione sociale e culturale di milioni di immigrati europei e, ancor più, extraeuropei, e ciò in aggiunta ai non lievi problemi italiani interni di reale e piena integrazione culturale e sociale di tutta la nostra comunità nazionale, che un alto grado di integrazione, in gran parte del paese e in gran parte della società, non ha ancora raggiunto.
Finora, come provvedimenti concreti si è avuto, per quanto riguarda la scuola, pressoché solo l’annuncio di circa 20.000 assunzioni di personale insegnante e non. È un buon inizio? Lo vedremo. Quel che, però, è subito da dire è che non solo in questo settore, ma in pratica in tutti gli altri settori che decidono del livello di sviluppo e di qualità dell’economia e della società del paese, occorre avere in testa un’idea di quel che si vuol fare. Finora di idee del genere si è sentito qualcosa solo per l’università, e, invero, non di molto chiaro e persuasivo.
Se si vuol dare alla scuola quella priorità che di fatto è da sempre sua, perché dalla scuola dipende la grande macchina della promozione civile e morale di grandi e piccole comunità, e perché nell’epoca della civiltà tecnologica in cui viviamo la priorità dell’istruzione è ancor cresciuta, e di molto; se si vuole questo, bisogna dedicarvi impegno, risorse e tempo senza risparmio. E ciò anche perché le remore al cambiamento e le resistenze corporative e culturali in questo settore sono di ogni genere, e bisogna esservi preparati. Quanto poi agli altri settori, continua, a nostro avviso giustamente, e solo a titolo di esempio, la recriminazione della mancanza di una vera politica industriale italiana degna di questo nome, così come continua la polemica, altrettanto giusta, sul troppo elevato livello di tassazione, che stronca gli impulsi, quali che siano. ai consumi, agli investimenti e al risparmio.
Barroso ha espresso nel suo discorso piena fiducia sull’operato e sui propositi del governo Renzi, così come è ormai diventato consueto in tutti gli interventi europei che si riferiscono all’Italia di oggi. Questa fiducia la nutriamo anche noi, e tanto più in quanto ci stanno sotto gli occhi gli enormi ostacoli espliciti e latenti che all’azione del governo si frappongono. Sappiamo pure, però, che certe fiducie attendono risposte tanto più tempestive e persuasive quanto più è ampio il grado di fiducia che si manifesta. Il che è certamente ben noto anche al presidente Renzi. La politica ha questo di buono, di non essere un’arte dell’altro mondo, e ciò anche perché è in alta misura rimessa addirittura al buon senso. Che, come scriveva saggiamente il Manzoni, è tutt’altra cosa che il senso comune.
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