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Il Congresso italiano di Psicoterapia Esistenziale
di Rosa Ciacco
È una dimensione quasi epica quella che si poteva percepire al I° Congresso italiano di Psicoterapia Esistenziale, tenuto a Roma presso l’Università Europea, il 23-24 maggio 2014. Il congresso, infatti, ha affrontato il tema “Orientamenti clinici e rapporti con psicologia, psichiatria, counseling e consulenza filosofica”. Ciò significa che l’evento si è configurato come terreno di confronto tra le diverse scuole di pensiero e i rispettivi diversi approcci metodologici nell’ambito specificatamente esistenziale, con l’intento – ed è qui l’eccezionalità – di realizzare quella che si è dimostrata ampiamente come una possibile e proficua integrazione degli approcci. Integrazione che, sulla scena del panorama italiano – angustiato dai tentativi di definire confini di settore sulla base di ciò che ogni disciplina “non è” rispetto all’altra, piuttosto che sulla base delle effettive potenzialità di ciascuna – assume carattere di meritoria straordinarietà.
Nell’introduzione al convegno lo psichiatra Gianfranco Buffardi, che dell’iniziativa è stato direttore scientifico, ha spiegato che
la psicoterapia esistenziale apre all’integrazione senza remore, in quanto è in grado di dialogare con altre metodologie (colloquio clinico, approccio psicofarmacologico, counseling, consulenza filosofica, mediazione) e con qualsiasi altro modello della mente. Infatti, il modello a cui fa riferimento è eticamente corretto – dice – in quanto non deterministico. La non invasività della psicoterapia esistenziale è favorita dalla sospensione del giudizio (epoché) operata dal professionista,

ed ha sottolineato che «la scelta dell’integrazione tra i processi terapeutici in psichiatria risponde ad un’esigenza etica oltre che ad un’utilità operativa, in quanto consente la modularità e plasmabilità dell’intervento».
Pertanto, sulla scia di quanto accade in Inghilterra – dove organismi come la BACP (British Association for Counselling & Psychoterapy), la BPS (British Psychological Society) e la «ES Association» di Ernesto Spinelli, da tempo realizzano un dinamico e produttivo dialogo tra i metodi – il convegno è stato aperto non solo agli psicoterapeuti esistenziali, ma a tutti coloro che, come sostiene Buffardi, potessero avere interesse «ad acquisire una competenza psicoterapeutica esistenziale per implementare la loro potenzialità di cura e migliorare l’approccio al paziente». Già nell’invito al convegno lo psichiatra chiariva che
il congresso propone per la prima volta in Italia un dialogo tra le scuole di psicoterapia esistenziale, nate da stessi principi epistemologici e clinici che hanno avuto evoluzioni indipendenti e differenziate. Diversamente dalle psicoterapie umanistiche esistenziali, le psicoterapie esistenziali sono strettamente legate alla riflessione filosofica propria del pensiero esistenziale, ponendo alla loro base principi quali l’unità e l’irriducibilità del singolo, l’esistenza che precede l’essenza e la plasmabilità delle possibilità umane. La filosofia antropofenomenologico-esistenziale è stata costante compagna delle riflessioni degli psichiatri clinici e degli psicopatologi (Jaspers, Binswanger, Minkowski, Lang, Cargnello, Piro, Szas, Callieri, Borgna), nella continua ricerca di strumenti che potessero dialogare con la singolarità dell’uomo, al fine di sostenerlo nel cambiamento e nel superamento delle proprie difficoltà. Negli ultimi anni si sono sviluppati approcci metodologici diversi, quali quelli delle professioni d’aiuto, che nascono dallo stesso modello esistenziale, ma che non hanno competenza terapeutica. L’integrazione di metodologie diverse può favorire la crescita del singolo e sostenere il percorso terapeutico: da qui l’esigenza di favorire il dialogo tra queste metodologie, com’è parte del compito di questo congresso. Diversamente da altre psicoterapie, la psicoterapia esistenziale non individua un’origine eziologica di una malattia contro cui agire, ma sostiene e stimola la capacità di agire del singolo nei confronti delle difficoltà. Questo fa sì che essa possa essere d’elezione anche in quelle condizioni di grave disagio causate da malattia fisica.

Il congresso, sotto il patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, ha avuto tre fautori fondamentali: la Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale (SIPE), l’Istituto di Scienze Umane ed Esistenziali (ISUE) e l’Istituto di Filosofia e Antropologia Clinica Esistenziale (IFACE), oltre che il sostegno dell’Università Europea di Roma, ribadito con estrema convinzione nel messaggio di benvenuto dal Rettore, P. Luca Maria Gallizia. Questi enti sono espressione della pregevole attività di alcuni uomini, che di questa iniziativa sono stati protagonisti – mi si lasci passare l’analogia, forse non tanto peregrina – come moderni argonauti.
La Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale ha sede a Torino ed è diretta dallo psichiatra Lodovico Berra. È stata fondata
nel 1998 con l’intento di riunire psicologi, psichiatri e psicoterapeuti interessati ad un confronto attivo sulla psicologia e sulla psicoterapia di orientamento fenomenologico-esistenziale. La comune formazione psicoanalitica dei membri del gruppo della SIPE ha portato ad una necessaria, e […] oggi indispensabile, rivalorizzazione di aspetti della psicoterapia dinamica, ormai ampiamente condivisi dalla comunità scientifica internazionale, con il proposito di congiungere l’orientamento psicodinamico psicoanalitico classico con quello fenomenologico-esistenziale, come già tentato, a suo tempo da autori come Ludwig Binswanger e Medard Boss. Questo ha fatto sì che oggi la SIPE proponga un modello che vuole superare le usuali distinzioni tra orientamenti psicoanalitici del profondo e quelli detti umanistici, riconoscendo tutta una serie di principi della psicoterapia, ormai stabilmente accettati dalle principali correnti di pensiero psicologiche psicoanalitiche, ponendo maggior attenzione e rilievo ad alcuni aspetti caratteristici della filosofia e della psicologia esistenzialista1.

L’ISUE, a sua volta, ha sede a Napoli, ed è sorto nel 1988, ad opera di professionisti quali lo psichiatra Gianfranco Buffardi, che ne è presidente, e Ferdinando Brancaleone, psicoterapeuta e direttore scientifico dell’Istituto. Tra gli obiettivi fondamentali dell’organizzazione è la promozione del modello neo-esistenziale quale modello psicologico, ed in particolare la diffusione di metodologie alternative nelle professioni d’aiuto, come il Counseling, che, riconosciuto come professione non regolamentata solo nel 2000 dal CNEL, l’Istituto ha sostenuto e proposto, sfidando l’ostracismo delle lobby culturali, fin dagli anni Ottanta. Non solo, l’ente si occupa di sviluppare ricerche e pragmatiche integrate sia nella prevenzione e cura del disagio esistenziale sia nella gestione delle patologie psichiatriche. La S.T.I.P. (Società per le Terapie Integrate in Psichiatria), che Buffardi presiede dal 1996, è pregevole espressione di tale volontà. Peraltro, attualmente l’Istituto è promotore dell’Antropologia Clinica Esistenziale, disciplina che si sviluppa dalle correnti fenomeno-antropologiche: dalla fenomenologia di Husserl, agli esistenzialismi filosofici del ’900 e alle varie applicazioni psichiatriche che se ne sono avute, come quelle di Jaspers e di Binswanger, nonché alla Logoterapia di Victor Frankl2.
Lo stesso indirizzo di Antropologia Clinica Esistenziale caratterizza l’IFACE. L’organismo ha sede a Roma ed è diretto da Guido Traversa, docente di Filosofia Morale presso l’Università Europea e coordinatore del Master in “Consulenza Filosofica e Antropologia Esistenziale” presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, al quale va l’indiscusso merito di aver sottratto la pratica filosofica all’asfittico limite finora impostole dal mondo accademico italiano e di aver promosso l’apertura della Consulenza Filosofica al dialogo con le altre metodiche terapeutiche dal sostrato filosofico, in particolare fenomenologico-esistenziale.
Queste le personalità che hanno condotto l’impresa, che si configura per tutti, riportando le parole di Lodovico Berra, come «un punto di arrivo e nello stesso tempo un punto d’inizio» del loro percorso professionale. Inizio perché, come lo stesso Berra ha esplicitato, è la prima volta che ci si è confrontati su un argomento, l’indirizzo esistenziale, che sembrava marginale nel contesto della psicoterapia, psichiatria e psicopatologia. Lo spunto è venuto dall’annuncio del convegno mondiale di Psicoterapia Esistenziale previsto per il 2015 a Londra, in coincidenza con l’iniziativa di Ernesto Spinelli di creare una Confederazione Mondiale di Società di Psicoterapia Esistenziale. Il censimento operato a tal fine ha evidenziato una realtà mondiale ampiamente eterogenea, in cui si vedono confluire orientamenti simili e differenti – come l’antropoanalisi di Binswanger, la Daseinanalyse, la Logoterapia, o i vari approcci umanistici – certamente specchio della multiforme composizione dell’esistenzialismo (o più opportunamente “esistenzialismi”) ma che rendono necessaria la definizione di una identità pur nella diversità.
Questa è, pertanto, la necessità espressa dal convegno, e da Berra sottolineata, di un invito a trovare dei punti comuni nelle differenze e specificità di ciascun indirizzo, così da dare una connotazione alla corrente italiana dell’approccio esistenziale, nella convinzione che le differenze siano una risorsa, una garanzia di arricchimento e dinamicità. Il confronto tra le diverse correnti è stato condotto nella cornice di tre sessioni dai seguenti argomenti:

I. Filosofia, antropologia e antropofenomenologia esistenziale;
II. Psicoterapia esistenziale: clinica e cura;
III. Le metodologie d’aiuto e la psicoterapia esistenziale.


All’interno di queste aree tematiche sono avvenuti, oltre ai numerosi interventi dei relatori di acclarato spessore, le lectiones magistrales del bioeticista tedesco Dietrich von Engelhardt e del già citato Ernesto Spinelli – sulle quali tornerò successivamente – e alcuni seminari, mentre in parallelo sono stati svolti workshop particolarmente stimolanti. Ernesto Spinelli ha tenuto, infatti, un laboratorio di Existential therapy in practice: other-focused listening and challenging, in cui ha illustrato, sulla base della propria esperienza nella pratica terapeutica esistenziale, le possibilità e difficoltà che il terapeuta incontra nella relazione col cliente. Essendo questa caratterizzata dalla narrazione, Spinelli invita il terapeuta ad essere parte integrante e attiva, ad assumere l’atteggiamento volto ad “essere con” e ad “essere per”, egli dice, attraverso un ascolto che è comprensione ma anche stimolo nei confronti di quel cliente specifico e del suo modo di essere lì. Luigi Longhin, psicoterapeuta, membro OPIFER e dell’Istituto Neofreudiano, ha affrontato il tema Perché tanta violenza?; Guido Traversa, insieme a Stefania Lombardi e D. Pavoncello ha condotto un laboratorio su Le passioni dominanti; Valeria Salsi, educatrice con le attività espressive e membro ISUE, Mario Truscello, educator esistenziale, direttore del progetto ISUE “pittura interiore” e lo psichiatra e psicoterapeuta Bruno Valente hanno dato dimostrazione della corrispondenza tra arte e terapia; Ferdinando Brancaleone, insieme ai consulenti filosofici e counselor esistenziali ISUE Renato Massimiliano Buffardi e Rosa Sgambato, ha effettuato un laboratorio di Consulenza Filosofica; Gianfranco Buffardi, in collaborazione con la psicoterapeuta e counselor esistenziale Anna Desiato, ha discusso su Farmacoterapia, psicoterapia e counseling esistenziale: processi d’integrazione per le gravi patologie psichiatriche, psicosi e depressione.
Una sezione Poster, inoltre, che ha presentato interessanti esiti e prospettive di studio, è stata allestita in esposizione permanente nei due giorni di attività del congresso: La resilienza e la psicoterapia esistenziale, di A. Desiato; Sessuologia e psicoterapia esistenziale, di R. Sgambato; Il modello esistenziale applicato al trattamento dei sistemi autistici: un cambiamento di rotta, di Maria Francesca Ferraro; Saramago scrittore e filosofo esistenzialista, di M. Truscello, Renato M. Buffardi e G. Buffardi; La psicoterapia esistenziale e le dipendenze, di A. Desiato, B. Valente e G. Buffardi; La psicoterapia neoesistenziale, di F. Brancaleone e G. Buffardi; La Logoanalisi come arte maieutica, di Rosa Ciacco, consulente filosofico e counselor esistenziale ISUE; “Canone Inverso”: una nuova etica della sofferenza e del disagio esistenziale, di Divina Lappano, consulente filosofico e counselor esistenziale ISUE; Passioni e opportunità ai tempi della crisi: chi era Shakespeare per Freud, di Stefania Lombardi; Counseling Esistenziale e scrittura di sé, di Maddalena Sannino, consulente filosofico e counselor esistenziale ISUE.
Tornando alle relazioni, dopo l’introduzione ai temi e le motivazioni espresse da Buffardi e Berra, si è avuta la prima lectio magistralis. Dietrich von Engelhardt, filosofo e bioeticista tedesco, direttore dell’Istituto di Storia della medicina e della scienza dell’Università di Medicina di Lubecca, ha illustrato il rapporto Malattia-malato, terapia-medico nella prospettiva antropologica.
Il passo preliminare che egli ci ha fatto compiere è il superamento della posizione cartesiana che ha caratterizzato la scienza moderna. Suggerisce, infatti, di guardare all’uomo non solo come dualità “oggettività fisica/soggettività psichica-spirituale” dell’espressione corpo/anima, ma considerare anche le altre due dimensioni in cui l’essere si esplicita, caratterizzate da una “oggettività oggettiva e generale”, che è la natura, e da una “soggettività soggettiva e generale”, che è la cultura.
Da questa considerazione, egli desume l’esigenza di recuperare lo scarto esistente tra le due prospettive, quella medica e quella psicoterapica, la prima della quale ha per legge la “salute” del malato, mentre la seconda antepone a tutto la “volontà” del soggetto. Von Engelhardt invita, piuttosto, ad assumere l’atteggiamento di “empatia”, essenziale per comprendere il malato ed il senso della malattia, giacché, ricordando Jaspers, «l’altezza dell’umanità si misura con la profondità della memoria».
Lo studioso passa a considerare le inevitabili implicazioni etiche del rapporto medico-malato. Il medico deve esprimere giudizi, valutare i suoi interventi, riconoscere delle priorità, operare delle scelte, tenendo sempre in considerazione il labile confine con la sfera del diritto. In tal senso, egli rilancia un’altra proposta attinta dall’antichità. Invita a non distinguere tra salute e malattia, bensì a considerare sempre la presenza dell’una nell’altra, mantenendosi in una condizione di “neutralità”, che auspica sia per la psicoterapia che per la scienza medica. Se non si considerasse la presenza della salute nella malattia, non avrebbe senso, egli dice, parlare di terapia. L’intento è quello di recuperare quel cambio di prospettiva, da verticale ad orizzontale, assunto con la modernità. Mentre nel Medioevo si aveva una concezione della malattia e della medicina in prospettiva religiosa, secondo un’ottica trascendente che esauriva il percorso escatologico dell’esistenza umana nella resurrezione di Cristo, la modernità, secondo von Engelhardt, ha assunto la prospettiva trascendente, ma secolarizzandola nel tentativo di restitutio. Lo sviluppo scientifico e tecnologico ha fatto sì che l’uomo potesse ambire a realizzare il paradiso in terra, cioè a “restituire” con la terapia quella condizione di salute, che è constitutio. Ancor di più, ci fa notare, la medicina, ha assunto come propri scopi i nostri desideri, come, ad esempio, quello dell’immortalità.
Negando qualsiasi chance a questa prospettiva medica, egli considera che bisogna modificare il giudizio sulla malattia. Essa non è solo un fenomeno fisico, ma anche sociale e spirituale, e la sua definizione, dunque, rappresenta sempre un giudizio fattuale che assurge a giudizio normativo. Giudizio che può assumere un’ottica più ampia, come accade in Inghilterra, dove non è necessariamente negativo. Nella lingua inglese, infatti, sono presenti diverse variazioni semantiche per “malattia” con differenti connotazioni (illness, indica lo stato di malessere, disease in senso medico-scientifico, sickness allude alle implicazioni sociali della malattia). Van Engelhardt, a questo punto, va ben oltre, riproponendo la definizione che ha dato Novalis della malattia come «arte di vivere», ed, in particolare, delle malattie croniche come «anni (di studio) dell’arte di vivere». Pertanto, invita a considerare la pienezza esperienziale che può derivare anche dalla malattia, come larga parte di letteratura testimonia, con il monito di valutare nella maniera più opportuna l’intervento sui sintomi, come può essere in una malattia psichica, che spesso possono risultare ricchezza e cura essi stessi.
Ecco perché egli propone una integrazione alla definizione di salute data dall’Organismo Mondiale della Sanità. Definire la salute come «stato di completo benessere fisico, spirituale, sociale, e non semplice assenza di malattia» riconosce oltre alla dimensione biologica anche quella spirituale e sociale, ma descrive una condizione utopica. Lo stesso Jaspers sostenne che, facendo riferimento a questa definizione saremmo tutti malati. Von Engelhardt indica brillantemente come salute «la capacità di convivere con l’etica, con la malattia e con la morte», piuttosto che l’assenza di malattia, o di dolore, o di morte, e ritiene paradossale l’obiettivo di agire su una condizione che è costitutiva dell’essere. A suo dire, la medicina può contare solo su un successo parziale, in una condizione di limitatezza che devono acquisire oltre che medici e psicoterapisti, anche malati, e quanti ruotano nell’universo dei malati, ossia parenti e amici.
La concezione di “malattia” che hanno medici e malati, dunque, è da ritenere basilare perché essa condiziona anche lo scopo della terapia. Se la malattia è intesa come un guasto meccanico, anche la terapia sarà concepita come riparazione tecnica e il rapporto medico-paziente sarà del tipo tecnico-macchina. Laddove, invece, si fa riferimento alla sofferenza di un essere umano, la terapia corrisponderà al modello di relazione personale, o esistenziale.
Da storico della medicina, egli rinviene questa distinzione nell’antichità, innanzitutto in Platone, il quale già contemplava l’applicazione di quella essenziale norma bioetica che oggi è definita “consenso informato”. Platone distingueva tra «medico degli schiavi» «medico dei liberi», ossia il medico tiranno che non ascolta il paziente e ordina ciò che l’esperienza gli suggerisce, e il medico scienziato, che studia origine e natura della malattia e interagisce comunicando al malato le proprie impressioni, confrontandosi anche con la famiglia, in un vicendevole arricchimento, e soprattutto prescrive solo se ha l’assenso del paziente.
Nell’antichità il bioeticista rinviene anche l’alta ispirazione alla “solidarietà sociale”, alludendo al dovere morale di ciascun individuo a “farsi medico” ed intervenire per la salvaguardia della salute dei propri simili. Diversi sono gli esempi in tal senso, desunti dal mondo dell’arte. Sulla coppa di Sòsia, ad esempio, si vede Achille che fascia il braccio ferito di Patroclo, mentre nei racconti di Erodoto si trova testimonianza dell’usanza in Babilonia di portare sulla piazza i malati indigenti in modo da garantirgli quantomeno i consigli dai passanti che avevano già sperimentato quella data sintomatologia.
Scardinata la considerazione di una relazione medico-paziente come soggetto-oggetto, lo studioso tedesco, incita a riconoscervi due soggetti che, entrando in relazione, «realizzano» norme e valori di cui sono portatori. Egli ci ricorda che, dalla condizione di completa empatia che caratterizzava tale rapporto nel Medioevo, si è passati, nel Rinascimento, alla triplice tipizzazione descritta da Paracelso (medico-agnello, che dà tutta la sua lana al paziente; medico-lupo, che danneggia il paziente; medico-malerba, che attinge la sua competenza solo dai libri, senza tener conto dell’esperienza), per raggiungere successivamente, una condizione di oggettivazione a completo discapito del valore del soggetto, determinata dal riduzionismo tecnologico indotto dal progresso scientifico. In tal senso, ad esempio, oggi si è impoverito il fondamentale concetto di dietetica, rispetto a quale era nell’antichità. Secondo la visione cosmologica e antropologica dell’uomo e della malattia, essa – che era uno dei tre rami della terapia, insieme alla chirurgia e alla terapia medicinale – era al primo posto, con un significato molto diverso dall’attuale. Se oggi è ridotta alla semplice sfera del nutrimento, allora considerava il rapporto dell’uomo con le sei dimensioni della vita, res non naturales, che non si autoregolano, ma dipendono dall’uomo (luce-aria, sonno-veglia, mangiare-bere, attività-riposo, evacuazione e passioni).
Contro tale tendenza riduzionistica, von Engelhardt afferma che in Europa si sono avuti diversi movimenti. Egli fa riferimento, ad esempio, a Bernhard Naunyn, per il fatto che, pur incitando ad una medicina “scientifica”, non ha dimenticato che essa ha per fine l’uomo ed implica, pertanto, delle problematiche etiche che rendono opportuna una commistione di scienze naturali e umane, di biologia ed etica. In particolare, ricorda un altro esponente della medicina antropologica, Victor von Weizsächer, che ha parlato di una medicina dalla «doppia struttura» – quella della corrispondenza oggettiva «malattia-medicina» e quella della corrispondenza soggettiva «uomo in bisogno-uomo che aiuta» – da realizzarsi come «comprensione transiettiva», ossia comprensione del «come» lo stesso malato si comprende.
Fondamentale, a questo punto del discorso, il riferimento a Jasper, per aver sancito una connessione, nel dualismo metodologico, fra «spiegazione (fisica) e comprensione (psichica)». Secondo Jaspers la comprensione, che si realizza in diverse dimensioni (statica, genetica, razionale, spirituale, esistenziale, metafisica), rende il medico «non un tecnico, né il Salvatore, ma un’esistenza per un’altra esistenza, un essere umano effimero, che realizza con l’altro, nell’altro e in se stesso (tre dimensioni) la dignità, la libertà e la volontà, riconosciute come norme». I diversi tipi di comprensione e spiegazione non si escludono, anzi possono essere collegati l’uno all’altro. L’ontologia dell’eziologia, in tal modo, non determina la logica della terapia.
In questa ottica, un passaggio determinante, come pure complesso, è informare il paziente, poiché nel momento della diagnosi ha origine la causalità prognosi-terapia. La qualità dell’informazione si muove su una scala i cui poli sono il tacere la diagnosi (non il mentire) e la solidarietà nella verità della situazione. È sempre il paziente, avverte von Engelhart, a decidere dove collocarsi sulla scala della diagnosi. Egli potrebbe anche non voler sapere. È da questa posizione che si guarda alla terapia. Senza un consenso informato, infatti, la terapia diverrebbe una “lesione personale”. Nella proposta bioetica di von Engelhardt, però, non sono sufficienti informazione e consenso, egli sostiene bisogna aggiungere il rispetto delle leggi e dei costumi dei paesi. Queste sono, a suo dire, le quattro componenti che giocano nella sfida del «consenso informato».
Considerando il paziente come persona, dotata di coscienza e determinata dal contesto culturale, e valutando pertanto anche il «guadagno secondario» che può derivare dall’infermità, come forma di esistenza superiore, la medicina si configura, secondo lo studioso, come «medical-illuministic», come cultura. Malattia e salute sono fenomeni fisici, ma anche psichici, sociali e spirituali, la salute non è solo positiva come la malattia non è solo negativa. Oggettività e soggettività, spiegare e comprendere sono ugualmente necessari. Pertanto van Engelhardt suggerisce di realizzare sia in medicina che in psichiatria una commistione dei suddetti due tipi di evidenza. Abbandonando la pretesa di conoscenza oggettiva nella considerazione della complessità dell’essere, e abbracciando una onni-comprensione metafisica dell’esistenza, si può superare la sofferenza di quella situazione-limite che è la malattia, inserire l’inesorabile nella quotidianità, e far sì che uomini malati possano essere spiritualmente sani. Questa è la chiave per rendere Sisifo felice.
Alla relazione del prof. Von Engelhardt ha fatto seguito l’intervento di Guido Traversa che, interrogatosi su La cura: perché la filosofia e quale filosofia?, ha posto in evidenza il ruolo indispensabile di impianti logici, ontologici ed etici per fondare una nozione di identità personale a partire dalla quale impostare il discorso filosofico, esistenziale e della “cura”. La relazione di Claudia Navarini, bioeticista e docente di filosofia morale presso l’UER, ha vagliato La difficile autodeterminazione dell’io fra fenomenologia dell’esistenza ed etica. Partendo dalla considerazione che «l’uomo nella relazione personale si sperimenta sempre come strutturalmente dipendente dall’altro e insieme come individualità portatrice di un senso unico e unitario», consegue che l’esistenza è caratterizzata dalla «tensione fra conoscenza individuale, forma più profonda a livello gnoseologico, e categorizzazione dell’esperienza, frutto del processo astrattivo». In tale prospettiva, acquistano particolare valenza i «concetti di autonomia e di autodeterminazione, e ruolo centrale ricopre il fenomeno dell’autorilevazione – dell’amante all’amato – nella logica del sapere e dell’agire».
Lo psichiatra Gilberto di Petta, nella relazione Analisi del dasein: dualità e pluralità della cura, ha ribadito la validità del modello terapeutico ad orientamento fenomenologico derivato dalla Daseinanalyse di Binswanger, esperita personalmente nell’attività svolta presso i Servizi sociosanitari pubblici, in particolare nell’ambito della tossicomania. Ha testimoniato la «ricchezza di potenzialità, applicative e trasformative, che derivano dall’applicazione pratica di questa metodologia, il cui merito risiede nel recupero della frattura tra il soggetto, gli altri e il mondo-della-vita, nell’evidenza di senso che il reciproco esperirsi nella carne ed ossa della propria presenza (Dasein) dischiude».
Alla relazione di Di Petta ha fatto seguito il primo seminario, dal tema “Jaspers a 101 anni dalla Psicopatologia Generale”. In quest’ambito Gianfranco Buffardi ha presentato l’Antropologia Clinica Esistenziale come evoluzione pratica della lezione jaspersiana sulla psicopatologia. Essa, attraverso strumenti quali la Logoanalisi coscienziale e la Logodinamica subliminale, realizza praticamente nel counseling e nella psicoterapia esistenziale quei riferimenti epistemologici (l’uomo inteso nella sua totalità, unicità, irripetibilità, comprendere in luogo di chiarire, sospendere il giudizio), che hanno in Jasper punto nodale. Hanno proseguito il confronto Giuseppe D’Acunto e Massimiliano Biscuso, entrambi docenti di filosofia presso l’APRA e UER, i quali hanno relazionato sui principi ispiratori dell’idea di analisi esistenziale di Medard Boss il primo, e su alcuni spunti desunti dal testo di Jaspers Il medico nell’età della tecnica. A costoro si è unito Riccardo Piovesana, dell’Université catholique de Louvain (Belgio), che si è soffermato sul concetto di Einfühlung (empatia), proponendone una lettura come movimento di comprensione, in relazione alla riflessione fenomenologica di Edith Stein, al fine di delinearne la problematicità in ambito psicopatologico, tra i limiti e l’attualità dell’opera jaspersiana.
Nel contesto della seconda sessione si è svolto il secondo seminario, sugli “Strumenti e metodi propedeutici”. Maria Rosaria Liotto, counselor esistenziale di Napoli, illustrando Autodistanziamento ed umorismo nel pensiero di Frankl, ha ricordato la grande lezione dello psichiatra tedesco sulla capacità di ristrutturazione emotiva propria dell’umorismo, in quanto, appunto, fattore di autodistanziamento. Allo stesso autore ha fatto riferimento Fabrizio Biasin, invitando ad una valutazione critica del concetto di epoché come declinato in ambito filosofico e nel contesto della psicologia clinica. Gianfranco Buffardi, a sua volta, ha presentato come necessaria la formazione dei professionisti all’intervento aspecifico, considerando che i fattori aspecifici (sospensione del giudizio, ampliamento delle mappe, metacomunicazione, empatia, ecc.) delle psicoterapie, ritenuti eticamente validi e dall’intrinseco contenuto terapeutico, oltre che attivi nella maggior parte delle professioni d’aiuto, comportano benefici non trascurabili, quali: maggiore consapevolezza del paziente, minor rischio di “ricadute” esistenziali, contenimento “ragionato” delle proiezioni, ed una maggiore efficacia dell’intervento specifico del modello adottato. In ultimo, nell’ambito del seminario, è stato presentato il volume dello psichiatra Adolfo Ferraro, Voglio la neve qua ad Aversa. Scrivere sui muri dell’ospedale psichiatrico giudiziario, che ha portato all’attenzione, come veri e propri inni alla vita, i graffiti degli internati, a dimostrazione della irrefrenabile – e non trascurabile in alcuna forma di espressione – esigenza umana di comunicare, raccontare e raccontarsi.
Di notevole spessore e foriero di nuove prospettive, è stato l’intervento di Ernesto Spinelli, Relatedness, Uncertainty and Anxiety: An Existential Perspective. Lo psicoterapeuta, di origini italiane, è presidente della ES Associates di Londra, che, fondata nel 1988, tiene sotto osservazione il fenomeno delle metodologie ad orientamento fenomenologico-esistenziale, nel tentativo di dare una definizione all’analisi esistenziale. Egli sostiene che, avendo avuto l’opportunità di incontrare i tanti professionisti che seguono questo indirizzo nel mondo, ha sentito una comunanza, pur nelle differenze di metodo, che gli ha fornito lo stimolo a cercare i principi fondamentali comuni. Lo psichiatra americano Irvin Yalom – che attualmente risulta essere lo psicoterapeuta vivente più accreditato a livello mondiale – ritiene impossibile parlare di “terapia esistenziale”, in quanto sostiene che i temi tipicamente esistenziali siano importanti da discutere con i pazienti in qualsiasi metodologia applicata. Spinelli non condivide tale posizione, ma ammette che finora è stato un errore controbatterla accettando che fossero questi temi ad identificare la terapia esistenziale. Egli precisa, infatti, che tali temi più che esistenziali siano temi dell’esistenza, ed in tal senso tematiche universali, comuni a tutte le metodologie. Pertanto, suggerisce di porre lo sguardo altrove, specificatamente ai principi che orientano l’interpretazione di tali temi, individuare le “strutture universali”, come ad esempio sono il principio di un sistema mentale “inconscio” e la teoria del transfert e controtransfert nelle metodologie psicoanalitiche.
In tale ottica, egli sostiene di aver rinvenuto tre principi fondamentali, presenti in modo più o meno esplicito, in tutte le declinazioni esistenziali: la relazionalità, l’incertezza e l’ansia. La “relazionalità” è il principio della relazione. Spinelli supera la definizione che ne dà Merlau-Ponty, il quale parla della relazione io-mondo come «l’uno dentro l’altro», poiché mantiene l’io e il mondo come due entità distinte. Non si ritiene neanche soddisfatto della definizione di Emily Scida, che pure fa dell’individuo non l’inizio dell’essere, ma una sua conseguenza. Spinelli chiarisce che l’idea di relazionalità cui fa riferimento è un’Idea di ciò che precede la soggettività. Per aiutare la comprensione di tale principio ricorre all’analogia del tè, chiede di immaginare che il tè contenuto in una tazza sia tutto l’essere. La porzione di tè estratta col cucchiaino è un’unità, unica e irripetibile, che è parte, ma è nello stesso tempo tutto il tè. L’individuo, dunque, non va visto come esistente in se stesso, bensì come espressione del Tutto. La terapia che da questo principio esistenziale deriva, sarà meno interessata all’individuo e molto più interessata a «come» l’individuo si rappresenta e si dà presenza, al «modo in cui esiste». Spinelli riprende il terapeuta americano Kenneth Gergen, esponente del costruzionismo sociale, affermando che l’Io non è un principio di azione, bensì un traguardo relazionale. Egli sostiene sia questa l’idea centrale del principio di relazionalità.
Il secondo principio è l’“incertezza”, che caratterizza l’individuo in modo perenne, anche nella stessa incertezza, che altrimenti sarebbe certezza. Il terzo è l’“ansia”, che Spinelli considera, in consonanza con Kierkegaard, come la possibilità della libertà. Incertezza ed ansia sono connaturati all’Essere, ogni momento contiene relazione e incertezza perché l’Essere è in continua evoluzione, ogni momento è momento di morte e rinascita. Tuttavia l’ansia non ha valore né positivo né negativo in sé, dipende dal valore che l’individuo gli attribuisce.
A seguito di Spinelli è intervenuto Lodovico Berra, che ha illustrato I principali aspetti della psicoterapia esistenziale SIPE. Lo psichiatra, pur riconoscendo l’influenza di Freud su Binswanger e Heidegger, riflessa nei modelli dell’antropoanalisi e della Dasainanalyse, ha ricordato Boss, Jaspers, Minkowski, Kierkegaard, Sartre, per poi ricollegarsi al pensiero di Michele Torre, psichiatra del Novecento, che fu direttore dell’Istituto di Clinica Psichiatrica e della Scuola di Specializzazione in Psichiatria nell’Università di Torino, di cui egli fu allievo. Cercando di dare dei punti fermi nella pratica della psicoterapia esistenziale, egli sostiene che l’analisi dell’esistenza nelle sue articolazioni fondamentali (Eigenwelt, Mitwelt, Umwelt, e Uberwelt) diventa un punto di osservazione e di lavoro centrale. A tal fine, esalta l’importanza della relazione intersoggettiva, o relazionalità. Un aspetto d’indagine potrebbe essere la verifica del grado di «insufficienza esistenziale» ed eventualmente il suo superamento. Altra dimensione è la verifica ed eventuale rinnovamento o configurazione della «visione del mondo». Senza dimenticare l’analisi e la verifica della riorganizzazione del «progetto esistenziale» e in conseguenza anche l’indagine o ricerca dell’autenticità del progetto o dell’esistenza dell’individuo. Da quanto detto, il processo terapeutico centrale si configura essere quello di aiutare il paziente a riconoscere e sperimentare la propria esistenza nelle sue dimensioni di autenticità e di inautenticità, ponendo in una differente prospettiva le classiche tecniche psicanalitiche che, secondo Berra, non dovrebbero essere abbandonate, anche nella prospettiva esistenziale. L’aspetto che distingue la psicoterapia esistenziale non sono i diversi strumenti terapeutici quanto piuttosto la cornice in cui tali tecniche vengono comprese, e soprattutto l’atteggiamento del terapeuta verso il paziente. Berra ha evidenziato che l’elemento fondamentale risulta proprio la capacità del terapeuta di mettersi in relazione in una dimensione intersoggettiva attiva e vitale basata sulla sintonizzazione e sull’empatia, che struttura la possibilità di accedere direttamente all’esperienza e vissuto del paziente. A questo punto, rispondendo a Bosch – essenziale riferimento nella psicoanalisi e analisi esistenziale, il quale ritiene che l’analitica esistenziale non possa offrire al terapista classico nessun concetto, termine o espressione, ma solo una maniera di atteggiarsi e di comportarsi di fronte al paziente – Berra chiarisce che, a definire meglio il generico «atteggiarsi e comportarsi», il modo di porsi del terapeuta esistenziale anche di fronte alle tecniche psicoanalitiche classiche, è l’«atteggiamento filosofico».
Continua Berra:
l’atteggiamento è una disposizione mentale relativamente costante di osservare e rispondere in certi modi particolari alle situazioni del mondo. […] L’atteggiamento filosofico potrebbe consentire di porsi di fronte alle situazioni liberi da pregiudizi e condizionamenti socioculturali. È il “so di non sapere” socratico. Anche l’epoché è un cercare di andare oltre ai nostri pregiudizi, forse mai definitivo, mai completo. Porsi in una differente posizione di visione delle cose e del mondo. Quindi in una condizione che definiamo “di trascendenza”. Secondo me qui oggi noi stiamo cercando di trascendere anche le tecniche psicoterapeutiche classiche. Vedere totalità invece di particolarità, essenza invece di generalità. E questo è in genere ciò che fa il filosofo. Infatti, tra di noi ci sono filosofi, perché l’approccio esistenzialista più di ogni altro richiede l’apporto della filosofia e di un atteggiamento filosofico. In un numero della nostra rivista «Dasein» ho scritto L’arte e la scienza nella psicoterapia esistenziale; come se oggi nella psicoterapia esistenziale si dovessero fondere tra di loro due capacità artistiche e scientifiche, questo soprattutto perché oggi, se il nostro orientamento vuole avere dignità e pari forza d’altri orientamenti deve riconoscere una certa scientificità. Non possiamo esimerci da uno sguardo scientifico, ma non possiamo neanche dimenticare uno sguardo artistico, allora dobbiamo cercare di combinare quella che è la psicologia scientifica con la filosofia umanistica, come se dovessero fondersi insieme, collaborare in una sinergia che le potenzia reciprocamente, e quindi come se dovessimo fondere soggettività e oggettività, come dovessimo far confluire lo “spiegare e comprendere” fenomenologico di cui abbiamo parlato, come dover mettere insieme la riproducibilità scientifica con la creatività artistica, e quindi dovremmo far sì che lo psicoterapeuta diventi filosofo, ma anche il filosofo diventi psicoterapeuta.

Ampiamente convinto che si stia configurando ormai una nuova visione del mondo, in una prospettiva antropologica, desunta da alcuni concetti chiave della filosofia esistenziale è risultato essere Ferdinando Brancaleone, che ha discusso su Antropologia neo-esistenziale, psicoterapia e professioni d’aiuto. Egli ha posto in evidenza un fattore che ritiene direttamente legato alle filosofie dell’esistenza, quello degli stati di coscienza. Ricollegandosi al concetto di “relazione” espresso da Spinelli, Brancaleone ha ricordato che il principio fondamentale di quelle che definisce «filosofie dell’esistenza» è «l’esistenza precede l’essenza». Ciò significa che l’essere, che ha già in nuce la propria essenza, biologica-genetica, si realizza nel tempo, scegliendo attimo per attimo, fino all’atto ultimo che è la morte. È il concetto del Dasein heideggeriano, dell’essere per la morte. Ogni attimo è, pertanto, costitutivo per l’essere, in ogni attimo egli sceglie se aderire alla propria essenza o meno, essere autentico o inautentico. Brancaleone ricorda, quindi, le diverse dimensioni attraverso le quali si svolge l’esistenza, Eigenewelt, Mitwelt e Umwelt, per dire che esse sono condizionate dalla nostra condizione di «esseri consapevoli». Una consapevolezza, quella dell’uomo, che è metaconsapevolezza. L’uomo ha cioè facoltà di «essere consapevole di essere consapevole». Ciò significa che l’uomo dipende dal proprio stato di coscienza, ed appare chiaro che, cambiando lo stato di coscienza, cambia anche il modo di esperire la realtà e gli altri.
In tal senso, Brancaleone, concordando con Spinelli sul fatto che nella psicoterapia ad orientamento esistenziale non ci sia una progettualità pregressa, ribadisce quanto sia importante condurre un dialogo aperto, senza un fine preciso, con l’unico scopo di ampliare la relazione per concedere all’altro di esperire stati di coscienza, di consapevolezza che gli permettano di accedere ad una comunicazione, meglio autocomunicazione, tale da ottenere un’esistenza più appagante. La relazione, dunque, è comunicazione, e non solo nel senso Io-Tu, ma anche Io-Tutto, una relazione che non si può comprendere se non in uno stato di coscienza. Per tale motivo, Brancaleone ritiene che la psicoterapia ad orientamento esistenziale, in Oriente come in Occidente, non possa trascurare gli «stati di coscienza alternativi» e la mistica. Sono vie di consapevolezza. E ricorda la definizione che il Don Juan di Castaneda dà del guerriero, come colui che sa stare bene nel «Tonal», che è la quotidianità, il nostro mondo, «l’Umwelt», ma sa anche accedere al «Nagual», il livello superiore, attraverso uno stato di consapevolezza alternativo molto intenso. L’accesso ad uno stato di consapevolezza maggiore avviene attraverso il processo che Jaspers definisce Existenzehrellung, il rischiaramento esistenziale, che consente, quindi, la possibilità di una maggiore sintonia col proprio essere, unico e irripetibile. A tal fine, Brancaleone, che da anni conduce studi di Psicolinguistica col CISSPAT (Centro Italiano Studio Sviluppo Psicoterapie A Breve Termine) di Padova e con l’ISUE, ha elaborato delle metodiche comunicative – Logoanalisi coscienziale, Logodinamica subliminale e Logodinamica analitico-esistenziale, che formano la Psicolinguistica generativo-trasformazionale – che consentano di ottenere, come egli stesso ha detto, «progressive e umili possibilità di atteggiarsi in modo tale che si permetta di svolgere, nella relazione Io-Tu, un dialogo aperto che, pur non avendo finalità e progettualità, riesce a far in modo che l’altro ne abbia beneficio esistenziale per il suo essere unico e irripetibile».
Lo psicoterapeuta Domenico Bellantoni (ALÆF e UPS di Roma) ha proposto Linee guida per una strategia analitico-esistenziale frankliana, mentre E. De Monte e Antonio Tamburello, quest’ultimo professore straordinario di Psicologia Clinica dell’UER, hanno illustrato Il concetto di matrice d’ordine dei significati di vita tra perpetuità e divenire. Lo psichiatra Luigi Scapicchio, direttore di «Psichiatri Oggi», nella relazione Il desiderio di felicità, ha ripercorso le definizioni del concetto di felicità nella storia della filosofia. Lo psicoterapeuta Javier Fiz Perez, bioeticista e docente UER, ha sostenuto le ragioni etiche di una Psicologia sociale e filosofia esistenziale per un approccio integrale, mentre la psicoterapeuta Anna Contardi, ricercatore in Psicologia Clinica dell’UER, discutendo su Integrità e benessere nel modello cognitivo-causale, ha inteso evidenziare come peculiarità del modello cognitivo-causale il puntare a favorire il contatto con il senso di valore personale esistente in ogni persona, a prescindere da altre condizioni emotive, situazionali e relazionali.
Un terzo seminario ha affrontato la tematica su “La donna e la psicoterapia esistenziale”, in cui Elisabetta Zamarchi, consulente filosofico e membro del direttivo SICOF (Società Italiana di Counseling filosofico), riflettendo su Vite femminili nell’ossimoro di una dipendente autonomia: quale il progetto esistenziale delle donne del III millennio?, ha esposto «l’idea di una “cura filosofica” tesa a chiarificare a ciascuna il valore unico dell’esperienza soggettiva, quale discrimine contro l’adesione irriflessa a modelli di femminilità seriale o a utopie di fusionalità relazionale». Successivamente, Viviana Lo Schiavo, psicologa e counselor di Napoli, ha presentato la Mediazione Esistenziale come ulteriore modalità di intervento nel panorama del Counseling Esistenziale. Infine, Vittorio Volterra, psichiatra e docente di Psichiatria forense presso l’Università di Bologna, e Viviana Visca, criminologa di Trento, hanno riconosciuto il beneficio di un approccio esistenziale nell’intervento di cura dei soggetti autori di stalking.
Un ulteriore contesto seminariale ha presentato Le applicazioni del modello esistenziale nelle professioni d’aiuto. Il professore emerito di Psichiatria della Seconda Università di Napoli, Antonio Scala, ne ha illustrato i risvolti nella riabilitazione psicosociale, laddove la Comunità Terapeutica viene ad assumere una importante funzione pedagogica-terapeutica, giacché, applicando il concetto del “prendersi cura” piuttosto che di semplice “cura”, focalizza l’attenzione non ai sintomi, ma alla “presenza”, ponendosi, dunque, l’obiettivo non tanto di aiutare il paziente nel recupero di abilità perdute, quanto piuttosto riabilitarne il “modo d’essere”, nelle varie dimensioni: corpo, spazio, tempo, relazioni. Daniel Sousa, docente dell’Istituto Superiore di Psicologia Applicata di Lisbona, ha invece proposto il metodo dell’«Analisi Fenomenologico-Genetica» dell’esistenza, derivato dal «metodo fenomenologico statico e genetico» di Husserl, descrivendolo come capace di sublimare la dicotomia esistente nell’ambito della psicoterapia esistenziale tra metodi descrittivi o ermeneutici d’intervento.
La pratica filosofica e il pensiero fenomenologico-esistenziale. Opportunità e spunti di riflessione ha affrontato l’intervento di Giancarlo Marinelli, counselor filosofico SICOF, mentre Silvana Ceresa, psicologa, psicoterapeuta, membro del direttivo SIPE, si è espressa su Psicoterapia e counseling filosofico: differenze e peculiarità, ribadendo l’opportunità di una comunicazione tra i diversi ambiti per evitare di incorrere nel rischio che Jung definiva di una «psicologia senz’anima», che decade a sociologia dell’individuo. Ha fatto notare come in realtà psicologia e filosofia si rispecchino l’una nell’altra, e soprattutto come entrambe costituiscano «un “apprendimento”, non dei primi livelli, ma di deutero-apprendimento alla Bateson, dell’apprendere ad apprendere, per mezzo dell’acquisizione di strutture cognitive attraverso l’esperienza».
Nel complesso, dunque, nella ricchezza degli interventi, che hanno fatto luce sulle tante sfaccettature del contesto esistenziale, si sono visti emergere i punti di contatto, sulla base dei quali si potrà lavorare per redigere un atto che formalizzi “l’unità nella molteplicità”, direi, del contesto italiano, nell’ottica, a sua volta, della relazione col contesto mondiale. Nella Tavola rotonda finale, al di là della necessità, ricordata da Berra, di demarcare le opportune differenze tra gli approcci sulla base di quanto prescrive la legislazione italiana, con specifico riferimento alla condizione della consulenza filosofica, professione non ancora regolamentata, ciò che è stato desunto come necessario è il dover attualizzare, pur ponendosi nel suo solco, il rapporto con l’esistenzialismo, o meglio, come Brancaleone ribadisce, filosofie dell’esistenza. I concetti desunti dalle precedenti matrici filosofiche rivivono oggi, nella loro applicazione clinica, con significati originali, come accade per il concetto di epoché, simile, ma non identico né alla matrice scettica né alla declinazione effettuata da Husserl. È quel significato che, secondo Brancaleone, va primariamente formalizzato, così da poterne derivare i caratteri specifici per un certo tipo di operatività, in modo da poter parlare sia di una filosofia, che di un’antropologia e di una clinica non “esistenzialista”, bensì “esistenziale”, e forse, più opportunamente, “neo-esistenziale”.
Questa la rotta segnata per la nave salpata da Roma con un equipaggio che trova il suo punto di forza proprio nell’eterogeneità di esperienze e competenze, dando conferma del fatto che un organismo, basti pensare al corpo umano, funziona proprio nella differenziazione delle specializzazioni. Partenza dal molo “relazionalità”.





NOTE
1 Dal sito www.psicoterapiaesistenziale.org.^
2 Cfr. sito www.isue.it.^
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