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Il Mezzogiorno d’Italia tra immagini storiografiche e realtà storiche
di Marco Trotta
La ripresa degli studi sul Mezzogiorno continentale ha riproposto temi e problemi afferenti ai nodi della plurisecolare questione meridionale. Intorno alla quale si è alimentata un’inedita discussione sullo storico divario tra il Nord e il Sud del Paese. Insomma, si è tornati a parlare di attualità del problema meridionale, e a mostrare interesse verso quelle categorie del dibattito storico, economico e sociale, che da oltre un secolo si sono collocate alla base di indirizzi culturali e di interventi politici in favore del Mezzogiorno.
Da tale punto di vista, non è sembrato affatto tramontata la tradizione del meridionalismo classico, che appartiene al patrimonio di idee costruito in duecento anni di battaglie, denunce, elaborazioni teoriche da parte di grandi artefici del pensiero meridionale. A questo nobile passato è apparso giusto ridare smalto per arrivare a fornire, oggi, della questione meridionale la versione più moderna di un “problema aperto”, la cui rappresentazione coglie – come sostiene a ragione Giuseppe Galasso nel suo recente e denso lavoro sulla questione meridionale – «un Mezzogiorno ancora coinvolto in pieno, e in tutto il suo complesso, in una condizione di grave deficienza di sviluppo moderno», continuando a mantenere «vivo nella sua eloquente portata il dualismo italiano nella struttura economica e sociale del paese»1.
Nelle vicende del Sud ancora sussistono, insomma, tutti i motivi che fanno della questione meridionale un problema attuale e nazionale. Non sono caduti gli ostacoli allo sviluppo: sebbene mediante termini sicuramente mutati, ancora vivo appare il ritardo di sviluppo rispetto al resto d’Italia o fuori dell’Italia, tale da rendere ancora del tutto operante l’indirizzo dualistico dello svolgimento economico e sociale del nostro Paese.
La ripresa d’interesse sul Mezzogiorno riveste, pertanto, un duplice importante significato: innanzitutto essa conferma l’urgenza di un ritorno ad una riflessione generale sulle strutture e sui nodi dello sviluppo nel Sud; inoltre, questa ripresa comprende la necessità di distanziarsi da una pervicace visione culturale e politica della questione, che da circa un ventennio ha posto al centro della propria elaborazione non il Mezzogiorno considerato nella sua complessiva problematicità, ma un Sud declinato piuttosto al plurale credendo, così, non solo di poter cogliere le contraddizioni esistenti all’interno del suo quadro, ma anche e soprattutto di esaltare le qualità positive emergenti da una molteplicità di realtà economiche locali2.
Occorre rendere del Mezzogiorno «un’immagine più complessa e articolata» – come ha sottolineato Luigi Musella nel suo recente libro dedicato ad un bilancio degli studi sul meridionalismo3 – rispetto a prevalenti indirizzi storiografici che negli ultimi tempi hanno fornito della realtà meridionale un quadro semplificato e distorto. Il riferimento esplicito dell’Autore è, in effetti, al gruppo di studiosi – l’editore Carmine Donzelli e vari storici, fra i quali, Piero Bevilacqua – raccolto intorno al periodico di storia e scienze sociali, «Meridiana», che una ventina di anni fa, con i seminari calabresi di Copanello4, inaugurò una nuova stagione di ricerche, e la cui premessa era di ritenere infondato il carattere dell’arretratezza con cui si era alimentata in più di un secolo la questione meridionale, reputata ormai obsoleta; di negare, in pratica, il dualismo Nord-Sud, e di considerare, inoltre, il Mezzogiorno non più corpo unitario ma entità differenziata e suddivisa in una pluralità di aree, delle quali era da rimarcare il dato positivo e qualificante delle peculiarità economiche locali5.
Tale indirizzo revisionista ha avuto, tra l’altro, il sostegno di una certa tradizione anglosassone di studi sul tema: le analisi di Robert Lumley, Jonathan Morris e Nelson Moe6 hanno confermato e giustificato le frontiere di un nuovo meridionalismo, offerte dall’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (IMES), di cui la rivista «Meridiana» è tuttora diretta emanazione. In un lavoro di ricerca di qualche anno fa, che ambiva ad essere il manifesto di riscrittura in profondità della storia del Mezzogiorno, emerge un’analisi che segna una svolta singolare delle linee interpretative classiche del Sud, nel senso, cioè, di ritenere in sostanza superata la questione meridionale, privilegiando un approccio esclusivo alla storia sociale e alla microstoria, con la malcelata pretesa di modificare modalità di linguaggio ritenute retoriche e tradizionali del pensiero e della cultura meridionali.
Nel saggio Le sfide del meridionalismo: la costruzione di una nuova storia dell’Italia meridionale, Jonathan Morris7 ha posto in discussione i presupposti scientifici del meridionalismo classico, che hanno fornito del Meridione l’immagine di un «mondo immutabile, arretrato»: così la questione meridionale, quella dei suoi interpreti classici, è diventata l’unica storia plausibile di un Sud che si è rivelato il prodotto di una “falsa omogeneità”, per cui il sottosviluppo meridionale ha rappresentato l’insieme dei caratteri negativi della propria struttura. L’obiettivo di questo neorevisionismo storico, rigettando la cornice classica del meridionalismo, è stato quello di contestare la questione, il divario, l’arretratezza meridionali come stereotipi duri a morire. Nell’introduzione a Nelson Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, Piero Bevilacqua ha, infatti, rilevato come una simile tendenza di studi rappresentasse un patrimonio di «ricerche mai accodate alla vulgata storiografica dominante – come spesso è accaduto a tanta storiografia politica straniera, subalterna alle gerarchie accademiche italiane – e anzi portatrici di coraggiose innovazioni interpretative»8.
Si è trattato di una ipoteca metodologica e interpretativa della questione meridionale, che ha dato valore alla pars destruens, volta a condannare quella regione d’Europa, il Sud d’Italia, «in cui più facilmente lo sguardo critico dell’osservatore ha finito con l’appannarsi, degenerando spesso in mito favolistico, quando non in inerte e superficiale stereotipo»9. Il che è bastato al gruppo di «Meridiana» per superare, in maniera del tutto disinvolta, la rappresentazione del dualismo Nord-Sud, responsabile di aver distorto un’analisi corretta della condizione meridionale, di aver impedito di cogliere dinamiche endogene ai mutamenti storici meridionali, e di non aver considerato, al contrario, i tratti distintivi di un Mezzogiorno declinato al plurale: tanti piccoli Mezzogiorni, come aree più o meno felici in un unico grande contenitore. Una sorta di inno alle potenzialità positive di trasformazione del Sud, che Galasso ha radicalmente criticato, in quanto «le punte di eccellenza dell’economia meridionale non fanno sistema: rimangono singoli iceberg nuotanti sparsamente nel mare circostante delle condizioni del Mezzogiorno, delle quali accentuano, anzi, con la loro stessa incidenza statistica, il livello comparativamente non felice rispetto al resto del paese»10.
È qui, per così dire, che si è determinato un equivoco di fondo: l’aver confuso, cioè, – come hanno fatto, ad esempio, gli animatori di «Meridiana» – il concetto di dinamismo con quello di trasformazione. Infatti, «i mutamenti intervenuti a macchia di leopardo nel Mezzogiorno – ha sottolineato, in proposito, Aurelio Musi – non solo non hanno determinato una condizione di dinamismo complessivo, ma non hanno nemmeno eliminato del tutto alcuni termini storici della questione meridionale, come povertà, analfabetismo, emigrazione»11.
Paolo Macry ha evidenziato come l’immagine speciale del Mezzogiorno segni «quella divisività che sembra essere tra i caratteri salienti dell’Italia contemporanea»12, e costituisca la visione del dualismo italiano esemplificata in «stereotipi antropologici, politiche economiche, forme di rappresentanza a scala macroterritoriale, nonché il grande e sfaccettato fiume del meridionalismo»13. Con una rinnovata tensione metodologica, abbinata ad un orizzonte politico-culturale che ha permesso agli “studi imesiani” una certa visibilità mediatica, l’impresa donzelliana ha realizzato una sorta di “crossfertilization” di indirizzi e discipline contigue alla storia, per sostituire al modello dualistico italiano «la sottolineatura delle differenze esistenti dentro il Sud»14.
Nella prima stagione dell’attività dell’IMES il confronto è avvenuto tenendo pur conto della validità di modelli regionali applicati alla storia moderna del Mezzogiorno d’Italia, emersi in fondamentali lavori come Economia e società nella Calabria del Cinquecento di Galasso15, e Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna di Maria Antonietta Visceglia16, nei quali emblematicamente la dimensione statica della storia meridionale (si pensi qui alla tesi del “blocco di cinque secoli” per lo sviluppo meridionale) è stata superata da un’efficace analisi di lungo periodo, dove è stato possibile ravvisare il senso pieno di quelle trasformazioni che si sarebbero poste all’origine dell’Italia contemporanea17.
Nonostante l’intenzione iniziale di far prevalere le ragioni di un dialogo equilibrato con parte importante della storiografia nazionale, confrontatasi con temi innovativi della questione meridionale, l’impostazione di «Meridiana» ha finito col tempo per offrire del Mezzogiorno, stretto tra il suo immobile passato ed un contraddittorio presente, un’immagine frammentaria e disarticolata: se il Mezzogiorno si trasforma, una certa “cultura” della questione meridionale è dura a morire e si attarda sulla retorica della sua inamovibilità, rendendo il Sud prigioniero di deformazioni e demonizzazioni, alla mercé del «vecchio vizio della recriminazione» e di «esortazioni ideologiche», «utili in realtà solo alla conservazione di vecchi equilibri e interessi». Insomma, sotto questo profilo, il Sud si è qualificato come «la più grande metafora territoriale dell’Italia unita»18.
A questo quadro ermeneutico si è, pertanto, preferito un nuovo lessico politicoeconomico che ha partorito la categoria di “Mezzogiorno peculiare”, aggiungendo, quindi, il valore della specificità nell’intento di affrontare il non-problema meridionale per ridefinirne l’identità e superare, così, l’antico stereotipo. Si è trattato di un paradigma che ha contribuito a caratterizzare le negatività di un certo Meridione: le sue carenze infrastrutturali; una certa refrattarietà allo sviluppo produttivo autosostenuto; la particolarità di un mercato del lavoro gravato da un alto tasso di disoccupazione e di qualità strutturalmente diversa dal più generale contesto nazionale ed europeo; la scarsa educazione civica delle locali popolazioni che cancella la prospettiva del bene comune; la diffusa presenza della criminalità organizzata che, in assenza di una solida funzione repressiva dello Stato, inficia e condiziona la questione della legalità e dell’ordine pubblico; la politica locale che si svolge in un ristretto quadro democratico, con comportamenti elettorali quasi esclusivamente votati al clientelismo, e a tutto discapito, molto spesso, della limpida formazione del consenso e di una regolare selezione delle classi dirigenti.
Il Mezzogiorno, così, è diventata una categoria storica svuotata del suo contenuto etico-politico, e privata di unitaria problematicità sociale. Per altri versi essa si è avviata ad assumere una connotazione sociale dai segni positivi sostenuta in prevalenza da elementi quantitativi, quasi che l’inferiorità economica non fosse mai esistita e ci si trovasse in presenza al suo interno di isole felici; ed ancora, quasi che – paradosso più grande – la questione meridionale si profilasse come una mera invenzione della tradizione meridionalista liberale e democratica19.
Sono indici, quelli brevemente descritti, che hanno senza dubbio messo in rilievo le insufficienze di un “Mezzogiorno sottodotato” ed attraversato da un processo di modernizzazione senza sviluppo; ma questo modello è stato contestato, i suoi punti qualificanti quasi del tutto smentiti. Si prenda, per esempio, la questione del senso civico dei meridionali. Qui la critica serrata dagli esponenti di «Meridiana» è stata rivolta ad un ennesimo stereotipo che avrebbe connotato la millenaria storia del Mezzogiorno: un chiaro esempio di determinismo storico che avrebbe coinciso con una certa inclinazione di lungo periodo al particolarismo e all’interesse egoistico, che contrassegnarono l’età dell’assolutismo feudale di Federico II, di contro alla salda tradizione civica e collettiva dei Comuni settentrionali. Una mentalità sociale, quindi, radicatasi lungo novecento anni di storia che non si sarebbe potuta modificare perché i meridionali – è questa la conclusione dell’IMES – un elevato spirito pubblico non lo hanno mai posseduto.
In verità, su questo punto a lungo si soffermarono scrittori meridionalisti dell’Ottocento unitario. Da Torraca a Turiello, da Villari a Franchetti, da Sonnino a Fortunato, da Nitti a Salvemini, per tutti fu chiaro il dato dell’inferiorità del Mezzogiorno alle prese con un basso funzionamento delle regole. La spiegazione di ciò consisterebbe in un deficit di presenza istituzionale sul territorio: «Non è esclusivamente dal versante della società che si può guardare a questo problema: è il tono delle istituzioni, la loro capacità sanzionatoria, la loro autorevolezza, in ultima analisi la loro credibilità a determinare o meno un grado elevato di civicness»20.
Una questione di lungo periodo: già nell’Ottocento unitario Napoleone Colajanni aveva espresso con efficacia il concetto di “Stato assenteista” nel Mezzogiorno, e lo aveva precisato con l’estraneità presso i meridionali di servizi efficienti e di funzioni pubbliche. Più Stato-meno Stato: questo chiedeva il meridionalista siciliano per il Sud, dove la modernizzazione delle strutture statali era pressoché assente. Come altri meridionalisti egli poneva «un problema di visibilità dello Stato nel Mezzogiorno: presente nei suoi apparati, assente come organo politico di programmazione economica, sociale e civile. Sono, a ben vedere, le due facce della modernità ambigua dello Stato nel Mezzogiorno d’Italia»21.
Ed allora, come si può uscire da una simile «ambiguità storica»? Come suggerisce Aurelio Musi, «colmando i dislivelli di statualità fra Nord e Sud del paese»22: evitando, cioè, di prospettare soluzioni in direzione di più mercato e meno Stato, più privato e meno pubblico, come chi, per esempio, continua a sostenere proposte radicali di federalismo non solo fiscale. Allo stesso modo, è utile riflettere su ciò che ha rappresentato in termini di intrecci politico-affaristici e di utilizzo distorto di risorse pubbliche, nella crisi del sistema politico italiano, il cosiddetto «partito unico della spesa pubblica», che ha proliferato nel Sud soprattutto dopo il terremoto del 1980 e fino ai primi anni Novanta23. Per questi aspetti è stato sicuramente possibile trovare alcuni punti di incontro con la prospettiva di «Meridiana», che su tale terreno non ha tuttavia rappresentato novità di rilievo: riproporre un’identità plurale per il Mezzogiorno, un modello di sviluppo legato all’interazione tra tutti i settori economici, l’affermazione di una classe dirigente endogena all’altezza dei compiti, significa, infatti, riandare alla tradizione del meridionalismo classico.
Si è parlato, inoltre, di rilancio del livello locale, delle istituzioni comunali. L’esempio può essere offerto dalla legge n. 81 del 1993, di riforma elettorale amministrativa. Nel dare più potere ai sindaci, almeno in una prima fase della sua sperimentazione, si è pensato che finalmente si potesse configurare una immedesimazione più incisiva tra comunità e rappresentanza istituzionale locale, imperniata sulla figura del primo cittadino (ma anche dei presidenti di provincia). Il sindaco è divenuto simbolo politico e strumento per rafforzare il senso civico dei cittadini meridionali. Casi, in tal senso, non sono mancati: l’esperienza di Bassolino a Napoli, di De Luca a Salerno, della Poli Bortone a Lecce, tra quelle più eclatanti nel Meridione, hanno registrato, quanto meno inizialmente, una più alta qualità della vita pubblica e una certa sensibilità verso questioni collettive. Col tempo tale tendenza si è andata affievolendo per l’esplodere di molteplici tensioni e contraddizioni incubate nello stesso spirito della legge del ’93, e per le reazioni di cittadini ancora una volta illusi e delusi da un deficit concreto di partecipazione politico-amministrativa, da un gioco democratico sempre più asfittico, dalla crescita degenerata del «partito personale», dal mancato rinnovo di classi dirigenti24.
Sulla questione della criminalità, strettamente correlata al tema, per così dire, dell’educazione civica meridionale, il controllo dello Stato sul territorio, nonostante gli sforzi profusi, è sembrato, pertanto, debole e incapace di fronteggiare un fenomeno che non può ovviamente combattersi solo con strumenti repressivi, pur decisivi, ma non sufficienti ad avviare quelle iniziative di promozione sociale, volte a coinvolgere e sensibilizzare tutti i livelli della società civile: la forza delle istituzioni pubbliche messa al servizio delle province meridionali per programmare interventi strutturali e promuovere riforme. E il Meridione di occasioni per il proprio riscatto ne ha sicuramente avute: innanzitutto la legislazione speciale, con cui in più riprese si è cercato di intervenire per risolvere problemi di particolare gravità: la legge per il “risanamento” di Napoli dopo il colera del 1884, i provvedimenti speciali per la Basilicata nel 1902, la legge per l’industrializzazione di Napoli25.
Si è trattato di misure sicuramente calate dall’alto, che se da un lato hanno messo in luce i caratteri storici di una realtà meridionale composita, con l’evidente contrasto tra città e campagna, tra aree interne e zone costiere, tra Napoli e le altre province; d’altro canto hanno registrato l’assoluta incapacità di autogoverno da parte della locale classe politica, e la conseguente impossibilità di dare vita a processi di maturazione nei quali fossero le autonomie locali a dare la spinta necessaria a favorire il riscatto meridionale. È, d’altra parte, quello che denunciarono nel clima di ripresa della vita civile, dopo le macerie della seconda guerra mondiale, epigoni del meridionalismo azionista come Guido Dorso e Carlo Levi26.
Per altri versi, il tema dell’arretratezza meridionale si è legato fortemente alla relazione storica tra comportamenti elettorali e clientelismo. Uno degli elementi più interessanti del problema ha riguardato il fattore della governabilità nazionale che il Mezzogiorno è riuscito ad assicurare dall’avvento al potere della Sinistra storica di Depretis nel 1876 fino agli anni Novanta del XX secolo. Il paradigma di una propensione governativa del Sud ha funzionato all’interno di una cornice politica, dove il voto di appartenenza ideale, favorito dal sistema proporzionale puro, si confondeva con i giochi clientelari espressi al livello di blocco di governo, «come una sorta di competizione tesa a garantire il massimo di favori possibili»27.
I sostenitori di questa visione propendono, dunque, per una valutazione che tende a registrare come importante novità la fine del proporzionale e l’introduzione del maggioritario, nel senso di limitare largamente il deprecabile fenomeno del clientelismo. Un’aspettativa che si è rivelata infondata, poiché lo scambio clientelare (il do ut des), non è affatto tramontato. Con la caduta delle opzioni ideologiche il voto ha mutato la propria caratteristica di scambio sicuro e si è tradotto in un comportamento elettorale che fa dell’incertezza l’elemento della propria connotazione28.
Ma vi è anche un ulteriore profilo da considerare nella riflessione su questo punto. Esso riguarda la questione amministrativa che nella storia di lungo periodo del Mezzogiorno si è associata alla questione meridionale, e costituisce senza dubbio un aspetto non secondario di quella continuità storica avente ad oggetto la connessione tra burocrazia comunale e mediazione politica locale. Essa «ha segnato fino ad oggi la vita civile del Mezzogiorno d’Italia e […] ha caratterizzato persino periodi di rottura e di trasformazione istituzionale dello Stato»29. Un intreccio che ha prodotto corruzione elettorale, clientele, malcostume civile, e soprattutto collusione tra politica e amministrazione locale: fenomeni, questi, di cui le conclusioni della famosa Inchiesta Saredo al principio del Novecento hanno tracciato un preoccupante affresco30. Il modello politico-amministrativo meridionale, dalla sua genesi preunitaria fino all’esperienza contemporanea, si è connotato in particolare per la supremazia del notabilato, decisivo per l’affermazione di gruppi di potere locale, a cui si possono accostare altri due elementi: l’identità privatistica del comune meridionale sotto il profilo giuridico nel processo di lungo periodo, e la tendenza storica ad una scarsa mediazione burocratica31.
In un Mezzogiorno nel quale la dimensione dell’antico problema restava grande e tale da richiedere l’attuazione di grandi opere pubbliche, anche le leggi speciali sono divenute una scelta prioritaria della strategia politica dello Stato, un mezzo decisivo dell’intervento straordinario che sarebbe servito a dimostrare il proprio carattere aggiuntivo rispetto all’ordinarietà della spesa statale. Tuttavia, esso si è subito profilato come elemento sostitutivo di questa stessa spesa. «La spesa straordinaria è diventata in varia misura sostitutiva di quella ordinaria, e su di essa sono ricaduti sovente spese e pesi propri della normale attività della pubblica amministrazione», giustamente osservava nel 1978 Galasso in un importante saggio sulle contraddizioni della “politica speciale” nelle regioni meridionali32. E tra le ragioni della discutibile metamorfosi venivano annoverate le lentezze croniche della burocrazia italiana, che aveva finito con il trasmettere anche agli istituti competenti in materia di trasferimento di risorse al Sud quei vizi tradizionali della macchina dello Stato, individuati nell’«elefantiasi burocratica», in «gravi lentezze procedurali», in «costi amministrativi»33.
In tal modo, la questione meridionale non solo si è misurata su di un piano economico e sociale, ma si è collocata pure al livello politico ed istituzionale. Ciò ha finito per coinvolgere le responsabilità di classi dirigenti locali, a cui spetterebbe un ruolo di primo piano nel dare rilievo ad una prospettiva di sviluppo meridionale; uno sviluppo non più connesso all’esperienza di politiche speciali, bensì frutto maturo di una gestione ordinaria delle risorse statali.
Resta ancora attuale, nonché auspicabile, a distanza di quasi trent’anni dalla riflessione di Galasso, la capacità del Mezzogiorno di non cedere alle lusinghe di concessioni statali di stampo straordinario, foriere di «malversazioni clientelari» e di «politiche di potere (non necessariamente ad opera soltanto dei politici locali) fondate sul sottogoverno e sui mezzi, relativamente ingenti, di una competenza speciale», ma di saper interpretare la questione meridionale con «il saio dell’umiltà», superando, quindi, ma non cancellando, sia la tradizione del meridionalismo “classico”, sia l’esperienza di quello fautore, nel secondo dopoguerra, di politiche speciali in favore del Mezzogiorno34. L’obiettivo, insomma, è quello di promuovere strumenti di autonomia territoriale a carattere consultivo e decisionale, tali da poter partire dal basso, e non essere invece calati, e ciò che più importa, subiti dall’alto.
Inserire il Mezzogiorno nel quadro delle «politiche ordinarie per l’Italia» ha significato dare spazio ad una generale riflessione sulle potenzialità innovatrici dello sviluppo locale per le regioni meridionali. La diffusione, soprattutto negli ultimi tempi, del localismo come antidoto non solo al declino meridionale, ma anche come scelta di sviluppo nazionale, ha visto scendere in campo i sostenitori dell’esperimento della cosiddetta «nuova programmazione»35. Ma in cosa è consistita questa «nuova programmazione» per il Sud? Essa avrebbe dovuto rilanciare l’economia meridionale attraverso nuovi strumenti operativi, quali i patti territoriali, i contratti d’area. Negli ultimi dieci anni si è molto insistito su questi indirizzi di politica industriale per il Meridione. Lo sviluppo locale – come ha ammesso l’economista Nicola Rossi – ha prodotto una propria burocrazia, «ormai parte integrante e spesso struttura portante dei processi decisionali meridionali e non solo»36.
Non corrisponde al vero, pertanto, l’affermazione dell’economista Carlo Trigilia secondo cui lo sviluppo locale sia stato sacrificato al Sud, in quanto esso «è stato, sotto molti profili, il riferimento imprescindibile delle politiche di sviluppo degli ultimi anni con risultati – questo sì – francamente inferiori alle attese […] i patti territoriali e i contratti d’area sono diventati ormai, nel linguaggio comune, le espressioni di un fallimento»37. Non si tratta, allora, di limitarsi a sconfessare le politiche di crescita locale, bensì di orientarle verso un uso razionale che produca risultati per il Mezzogiorno, eliminando quella nota sproporzione fra impegno massiccio di energie e di risorse ed esiguità dei risultati, generata in seguito alle difficoltà palesate dall’intervento straordinario.
Uno degli argomenti preferiti da una lettura, per così dire, decadente dell’arretratezza meridionale, ha puntato storicamente l’indice sui fattori deterministici alla base dell’inferiorità del Mezzogiorno. Uno dei testi che più di ogni altro, nella seconda metà dell’Ottocento, sferrò impietosamente l’attacco alle strutture meridionali fu sicuramente quello di Alfredo Niceforo, L’Italia barbara contemporanea (1898), nel quale il pregiudizio nei confronti dei meridionali finiva anche per tradursi in strumento di lotta politica. Fu Antonio Gramsci, tra gli altri, a denunciare – come è noto – l’anima intollerante e razzista sia dei Niceforo, che dei Loria, dei Lombroso, esponenti di quella corrente culturale del positivismo ottocentesco che offrì la propria adesione al partito socialista del Turati, assecondandone lo spirito antimeridionale, volto a fare delle «aristocrazie operaie» del Settentrione – come disse il Salvemini – il proprio simbolo sociale trascurando il potenziale serbatoio rivoluzionario di un movimento contadino meridionale abbandonato a se stesso38.
Una sorta, insomma, di etnocentrismo applicato al Sud, che descrive lo stato di civiltà di un popolo ridotto alla miseria, espressione di un individualismo esasperato, e pendant di un Nord avanzato socialmente e a forte vocazione industriale. Niceforo sosteneva quelle tesi alla fine dell’Ottocento, quando il processo di State building, da oltre vent’anni, aveva conseguito una tappa importante: la definitiva atomizzazione delle classi dirigenti meridionali, in primo luogo delle sue deputazioni, incanalate nel quadro delle maggioranze parlamentari e di governo, su cui si era fondato sin dalla sua nascita il funzionamento del sistema liberale.
In altri termini, era stato sconfitto un insidioso regionalismo, delle cui mire egemoniche si era fatto interprete ed artefice il meridionale Giovanni Nicotera, leader dell’opposizione meridionale negli anni della Destra storica al potere, che aveva invano tentato di aprire al Mezzogiorno, nel primo quindicennio dello Stato unitario, la strada verso un rinnovato protagonismo sociale e politico, e di contribuire a farne sentire tutto il suo peso nella definizione degli indirizzi nazionali di governo. Si trattò di un disegno strategico che sostanzialmente fallì39. Il fallimento avrebbe fatto del Mezzogiorno unitario non solo un’area della marginalità politica ed economica, ma anche il soggetto negativo del modello italiano di “democrazia latina”: fagocitato nel vortice dello scambio clientelare tra centro politico e periferia amministrativa, e sintomatico strumento di quella prassi del trasformismo, che bene ha espresso la «carenza di grandi alternative e di stabili contrapposizioni politiche e di principio»40.
L’unità dello Stato italiano era apparsa il frutto di scelte liberali di tipo sovrastrutturale, indipendenti – come è noto – da fattori economici che in nessun caso avevano condizionato il percorso rivoluzionario risorgimentale, mentre l’idea unitaria era stata portata avanti da democratici e moderati, del Nord come del Sud, consapevoli entrambi che il Mezzogiorno andasse riscattato nel segno della cultura liberale attraverso un radicale processo di modernizzazione41.
Della coscienza di non poter colmare la differenza con le regioni settentrionali, i meridionali avvertirono tutto il peso. Si trattava, tuttavia, di un divario che preesisteva all’Unità. Su questo punto si sono prodotti modelli storiografici quasi, o del tutto, inclini a voler giustificare il dato dell’inferiorità meridionale con la presenza di fattori negativi che avevano ostacolato per le province meridionali il traguardo dell’Unità in posizione paritaria, e di trasferire nell’ambito della questione meridionale continuità di lungo periodo.
È stata, per esempio, sottolineata la prevalenza di colture agricole di tipo specialistico nel Mezzogiorno del secolo XVIII, mentre il Nord partecipava alla prima rivoluzione industriale; è stato denunciato il malgoverno spagnolo della prima età moderna come causa del cattivo funzionamento delle istituzioni meridionali e dell’attardarsi della feudalità; è stata, inoltre, evidenziata la diversità di destini tra la tradizione repubblicana comunale del Centro-Nord e la plurisecolare esperienza della Monarchia nel Sud. Si è finito, però, col trascurare il fatto che di questione meridionale si può, in effetti, parlare solo in presenza di un’unità istituzionale e territoriale, che in sostanza ne diventa la condizione preliminare, senza la quale sicuramente non si sarebbe potuto porre il problema di cosa fare per superare ritardi e differenze.
L’integrazione nazionale del Mezzogiorno fu, pertanto, un evento inevitabile e positivo. Come ha osservato Musi, esso fu «inevitabile perché rappresentò la realizzazione di un obiettivo perseguito con determinazione e passione dalle più avanzate élites intellettuali che vedevano, già dal primo Ottocento, nell’unificazione del paese l’unica via per costruire la patria sul fondamento della libertà; positiva perché attraverso l’integrazione nazionale il Mezzogiorno partecipò a pieno titolo al lungo e complesso processo di sviluppo dell’Europa»42.
La dissoluzione del Regno di Napoli fu, altresì, un fatto necessario perché consentì di far fronte ai gravi problemi che attanagliavano il Meridione, e pure a far risaltare tutta la pregnanza di una questione napoletana che si legava alle sorti della città di Napoli, non più capitale del Regno, ma grande metropoli meridionale43. L’unificazione italiana rese il Mezzogiorno economicamente e socialmente più debole. Già in presenza di un’economia asfittica ed incapace di autosostenersi, caratterizzata da una larga dipendenza dal capitale straniero, sul mercato interno ed estero il Meridione si presentò in posizione di estrema fragilità. I suoi interessi economici furono ulteriormente penalizzati prima da politiche liberoscambiste e poi dal protezionismo negli anni Ottanta dell’Ottocento.
Nel primo ventennio unitario il Mezzogiorno fornì un contributo notevole, sia in uomini che in mezzi finanziari, per favorire quell’accumulazione originaria di capitale che servì ad assecondare il decollo industriale del Nord. Ma «fu allora – come ha dimostrato Guido Pescosolido – che il mercato meridionale cominciò ad assumere un’importanza sempre maggiore per i prodotti delle industrie settentrionali»44. Si trattava di una situazione di fondo che avrebbe fotografato la reale caratura del dualismo italiano: il Mezzogiorno subì, nell’età liberale, quegli effetti negativi dell’accelerazione fondamentale che le regioni settentrionali, le più progredite, dettero al processo di modernizzazione economica nazionale, in chiave di competizione europea45.
Ponendo l’accento sulle cause dello storico dualismo italiano, Macry ha osservato: «La sottovalutazione delle differenze nel Sud finisce per corrispondere ad una sottovalutazione dei suoi punti alti […]. Di regola, il Mezzogiorno viene identificato con la plebe della grande metropoli, con la sua nobiltà parassitaria, con i “residui feudali” del latifondo, con le terre del grano e della transumanza e via dicendo, mentre si perde in una sorta di effetto dissolvenza il Sud della rete urbana adriatica, delle infrastrutture commerciali periferiche, dei mercanti e degli imprenditori provinciali, degli agrumi e della seta»46. Tuttavia, queste punte elevate non spiegano tutta la complessità meridionale, né possono dare l’idea del progresso meridionale: differenziazioni ne esistono nel Mezzogiorno, come è ovvio ed evidente: tra città e campagna, tra zone costiere e versanti appenninici, tra Tirreno e Adriatico; ma queste vanno viste in un’ampia cornice, all’interno della quale far comprendere l’omogeneità del problema meridionale. Quei punti alti rappresentano, ovviamente, solo la soglia visibile di un potente iceberg, nel quale stanno racchiuse le problematiche storiche denunciate dalla tradizione meridionalistica, dalla cui «cappa deformante» si è creduto di voler liberare il Mezzogiorno47.
Ma cosa è stato il meridionalismo se non, appunto, «un movimento culturale e politico che aveva giovato a richiamare l’attenzione sui problemi di struttura e di sviluppo del Mezzogiorno, e come una tradizione di studi che aveva contribuito a illustrare meglio e ad approfondire a più soddisfacente livello, nonché, per alcuni versi, a scoprire la realtà storica e la fisionomia attuale del Mezzogiorno»48? Si è trattato di una compagine che ha affondato le radici nel secolo XVIII, negli studi sociali ed economici dei riformatori meridionali, che avevano innovato l’analisi del Sud: un territorio non più rappresentazione di un «paradiso abitato da diavoli»49, ma un paese caratterizzato dallo stallo economico: era soprattutto la crescita agraria ad essere inficiata da gravi difficoltà nella concorrenza con paesi europei allora avanzati, come Francia, Olanda, Inghilterra50.
Come si vede, il nodo della modernizzazione delle strutture meridionali era già chiaro alle origini dell’Unità italiana, tra Settecento e prima metà dell’Ottocento, nel pensiero di studiosi – Genovesi, Galanti, Galiani, Filangieri ecc. – che non si ammantava di veli ideologici, ma produceva analisi rigorose e sperimentate e faceva del metodo scientifico l’orientamento concreto nell’individuazione di arretratezze e ritardi che connotarono l’inferiorità economica e sociale del Sud prima del 1860. Altro che rappresentazioni mistificanti della composita realtà meridionale.
Costituisce ormai un dato storico, e insieme storiografico, il fatto di considerare il divario Nord-Sud preesistente all’atto dell’unificazione; una differenziazione nella quale, ad esempio, la condizione preunitaria dell’industria meridionale «aveva scarsa consistenza e limiti strutturali che di per sé ne precludevano, almeno a breve, possibilità di ulteriori consistenti realizzazioni»51. Certo, è noto come l’indirizzo di politica economica dello Stato unitario perseguisse l’interesse nazionale nel segno dell’industrializzazione del paese e, quindi, della competizione in chiave europea. Ed è altrettanto noto come questo processo si fosse posto nella direzione di un aggravamento dello storico ritardo meridionale, che comunque si era attestato come dato preesistente all’Unità. Tuttavia, se di squilibrio economico-sociale si deve pur parlare, allora l’attenzione deve essere senz’altro spostata dalla dimensione nazionale a quella europea: è in tale ambito, che va indubbiamente misurato il divario socio-economico che, rispetto ad un maggiore dinamismo di paesi concorrenti, lo Stato liberale si trovò a dover fronteggiare nella seconda metà del XIX secolo; e si trattò di una situazione largamente condivisa dall’intera penisola.
È pur vero che la questione meridionale, nei suoi termini storici, si sia materializzata e sviluppata con il 1861; ma più che le sue ragioni economiche, a prevalere in quel momento e successivamente fu piuttosto il profilo politico e sociale del problema. Necessità, innanzitutto, di tutela dell’ordine pubblico; legittimazione del nuovo regime artefice della fine di un Regno plurisecolare; oggettiva difficoltà di inserire nel contesto unitario e nazionale una popolazione che presentava una diversità di quadri mentali, sociali, di costume, di tradizioni, di culture, alimentatisi durante un tempo storico lunghissimo e all’interno di una divisione politica che si è rivelato un elemento costante e risolutivo della tradizione storica italiana52.
Tutti aspetti di un’unica questione, quella meridionale appunto, che conservò motivi di continuità, ma espresse pure decisivi elementi di novità. Basti pensare, per esempio, alla questione napoletana, al passaggio a metà Ottocento della città partenopea da nazione napoletana a grande metropoli meridionale di una nazione unitaria, con tutti i dilemmi di una complessa realtà urbana, svuotata ora di storiche funzioni politiche ed istituzionali. La Napoli liberale, non più borbonica, insomma, finisce nel mirino del meridionalismo classico, le cui denunce dei mali napoletani costituiscono un versante importante della questione del Mezzogiorno ed un fronte non secondario del sottosviluppo meridionale53.
Dopo una trentennale rincorsa del mercato del Nord alla conquista di nuovi spazi a discapito dell’industria meridionale, l’interesse nazionale, in tal modo prevalso, avrebbe dovuto consentire nel lungo periodo la ripresa del Mezzogiorno e la possibilità di avviare in quelle regioni le premesse per uno “sviluppo autopropulsivo”. Illuminante, da tale punto di vista, si conferma la riflessione di Rosario Romeo: il 1887 aveva rappresentato per l’industria settentrionale il momento propulsivo dell’economia nazionale verso una modernizzazione di tipo europeo, certamente favorito da una politica statale di protezione, con la conseguenza di un Mezzogiorno agricolo ed esportatore definitivamente danneggiato. Dopo la fine dello Stato liberale e l’avvento del fascismo, politiche autarchiche non aiutarono un paese arretrato e a vocazione agricola. Con la Repubblica democratica, l’indirizzo economico italiano assecondò i consumi di massa e il commercio mondiale, «quando il Mezzogiorno aveva una necessità vitale di maggiori investimenti e dunque di minori consumi a livello nazionale»54. Ecco l’importanza, sottolineata da Romeo, di una politica “straordinaria” nei confronti del Mezzogiorno, capace di «assicurargli un certo grado di partecipazione agli incrementi di reddito e di benessere realizzati nel dopoguerra»55.
Dal 1950, al cospetto di immancabili clientelismi, fenomeni di corruzione, edificazione di “cattedrali nel deserto”, dissipazione di risorse, la maggioranza dei meridionali ha potuto iniziare a godere di un benessere più ampio. Si è trattato, tutto sommato, di «una scelta che non aveva autentiche alternative al cospetto della situazione economico-sociale del Mezzogiorno come quella esistente nel 1948 e che comunque ha portato a progressi superiori, in assoluto, a quelli di qualunque altra area del Mediterraneo»56.
Nel Mezzogiorno la tradizione liberale del meridionalismo ha intravisto nell’assenza di una borghesia “industriosa” il germe sociale della propria inferiorità; un dato che va a qualificare un contesto geoeconomico «materialmente determinato nella sua struttura e condizione naturale», ma che diviene, per così dire, il fattore negativo di un Meridione visto come spazio storico all’interno del quale la “questione meridionale” può trovare la sua naturale soluzione nel quadro unitario della politica nazionale57. È interessante notare come questa che fu essenzialmente la visione crociana, conferisse al problema meridionale non solo una specificità propria, ma sempre ne sottolineasse la forte valenza nazionale. Il che avvenne in un quadro politico-istituzionale, espressione di uno Stato liberale che fu elitario e permeato dal profilo dinamico dei ceti borghesi più produttivi58.
Nel delineare i caratteri originari di un “altro meridionalismo”, contrapposto ai canoni dell’identità meridionalistica, Aurelio Musi ha posto in luce come i suoi più attivi rappresentanti, Pasquale Turiello su tutti, dessero una lettura, per così dire, in controluce della storia meridionale, della quale rimarcavano innanzitutto il dato permanente dell’assenza di «coordinamento fra cultura e politica»59. A questa tesi si aggiungeva «l’impietosa analisi della borghesia meridionale dopo il 1799»60. Nel solco di una lettura cuochiana della realtà meridionale61, soprattutto in rapporto alla famosa teoria dei due popoli, l’analisi fu condivisa da non pochi esponenti del mondo politico ed intellettuale del Sud, i quali tra Otto e Novecento tuonarono contro la debolezza intrinseca del quadro sociale meridionale, incapace di esibire una “borghesia industriosa”. Questo sostenne, ad esempio, il marxista Arturo Labriola. Di notevole interesse appaiono, infatti, le pagine di Storia di dieci anni. 1899-1909, in cui il socialista antigiolittiano descrive alcuni caratteri storici radicati nella società meridionale:
L’unico ceto medio che in queste condizioni si era potuto formare – egli sosteneva – era il ceto dei curiali o dei tribunalisti, come lo chiama il Galanti, classe di causidici e di parassiti, che furono un veleno per il mezzogiorno. Giannone dice che erano cresciuti per il grande disordine delle leggi e per i grandi mutamenti di fortuna, avvenuti sul cadere del regime vicereale. Si aveva bisogno di loro per la difesa delle cause, come consiglieri nei testamenti, nei contratti, per regolare le cose dei privati. I primi baroni del regno cercavano averli benevoli e in qualunque occasione si presentasse facevano per gli avvocati ciò che non avrebbero fatto per sé medesimi: Non soltanto trattavano con loro con sommo rispetto e davano loro il primo posto nelle vetture, ma frequentavano le loro case e si sentivano favoriti quando in concorso di altri erano preferiti nelle udienze. Era questa la sola borghesia del mezzogiorno. Al tempo del Galanti – il nostro grande e così poco noto economista – soltanto in Napoli se ne noveravano 6214. In tutto il regno i tribunalisti erano 26 mila. Costoro rovinarono lo spirito del mezzogiorno62.

Labriola non fu il solo a registrare mali atavici della plurisecolare storia meridionale e più specificamente napoletana. Per esempio, nel condannare una borghesia meridionale priva di ogni connotazione mercantile, il repubblicano Colajanni rincarava la dose descrivendone alcune «funzioni odiose»: «l’intermediarismo agrario, il piccolo commercio del danaro, le professioni liberali e soprattutto l’avvocatura che Colletta chiamò peste del reame di Napoli»63. Come ravvisa giustamente Musi nel citare Governo e governati in Italia, l’opera più significativa e famosa di Pasquale Turiello, è in pratica nell’Italia post-unitaria che si misura l’«incapacità della borghesia meridionale di promuovere una vera riforma sociale», la quale segna indelebilmente «il senso della frattura fra settentrionali e meridionali», da riconoscere nel «rapporto di natura personale con lo Stato»; in un certo «familismo amorale»; ed ancora nello «scarso senso della comunità»; nella relazione, infine, «tra diffidenza di sé e diffidenza verso gli altri»64.
Tra storia e contemporaneità il divario Nord-Sud si è ritrovato dall’Unità ad oggi in mezzo al guado di stagioni politiche alterne, contrassegnate da luci ed ombre, nutrendosi di innumerevoli, vivaci, e spesso contrastanti, immagini e visioni di una realtà storica fondamentalmente unitaria, il Mezzogiorno, che, pur in presenza di “dinamismi” e differenziazioni territoriali, continua a registrare il mancato superamento del dualismo e «il suo complessivo sottosviluppo o ritardo di sviluppo rispetto ad altre aree d’Italia e fuori d’Italia»65.
Proprio al fine di evitare di incorrere nella rappresentazione esaltata di «tanti Mezzogiorno che hanno finito per rendere obsoleta la “questione meridionale”», occorre, in ultima analisi, rivendicare con forza – come sostiene Musi – un «Mezzogiorno come contesto, da ricostruire volta per volta nella genesi e nella struttura dell’insieme, interpretando i segni non come elementi del discorso ma come fatti storici e integrandoli nell’analisi dei processi fatti di continuità e trasformazioni»66. Ed occorre farlo una volta per tutte allo scopo di «liberare la storia del Mezzogiorno da una duplice prospettiva erronea e infeconda: il costruttivismo assoluto, teso a leggere il Mezzogiorno come testo, discorso, tutto racchiuso nelle categorie e nei modelli inventati o immaginati dagli storici; la dispersione nei mille rivoli delle strategie parziali, delle microstorie locali, che hanno frantumato la fondamentale unitarietà dell’oggetto storico»67.
Come ha affermato Gérard Delille, in un recente ed emblematico lavoro sulle storie locali del Mezzogiorno, i «fatti storici» non sono discorsi: in quei fatti, come nel «movimento storico», vanno, pertanto, sempre reintrodotti gli «oggetti» dello storico68.
In definitiva, il Mezzogiorno resta, per dirla con Galasso, un problema aperto, ma anche e soprattutto un problema politico, che deve nuovamente investire le responsabilità di un intero quadro politico nazionale, oggi in perenne cammino verso una transizione che, dopo più di dieci anni dalla sua crisi risolutiva, sembra non avere più fine né una chiara definizione progettuale. Non si tratta, tuttavia, di «auspicare la formazione di partiti e sindacati meridionali diversi da quelli di altrove. Significa solo che il Mezzogiorno deve costituire un problema aperto anche per chi vi vuole agire con maggiore pregnanza di azione e di pensiero, sia del Sud o del Nord o di altrove. E, per quanto ci riguarda, siamo sempre dell’opinione che le migliori combinazioni e alleanze politiche per il Mezzogiorno siano le stesse che possono essere ritenute le migliori per l’Italia nel suo complesso»69.
La partita, insomma, si gioca in mare aperto. Le statistiche parlano di un Sud fermo, che esibisce un tasso di occupazione assestato su livelli inferiori al 50%70. Questo evidenzia due cose: la conferma della distanza fra il Nord e il Sud del Paese, che rinnova il disegno storico di un’Italia a due velocità; il fallimento della ricetta secondo cui i problemi si risolvono riformando il mercato del lavoro. La battaglia delle idee per far fronte ai nodi dello sviluppo meridionale dovrà, allora, passare per riforme strutturali che provvedano a ridurre sensibilmente la tassazione sul lavoro. Si tratta, in ultima analisi, di una battaglia nel segno dell’auspicato «meridionalismo della cultura dei problemi», che può contribuire a ridefinire il percorso del generale indirizzo economico per le regioni meridionali, che non può assolutamente essere attraversato da manovre finanziarie di risanamento dei conti pubblici, quasi sempre penalizzanti per il Sud; e che può provare a delineare, nella garanzia di un mutamento radicale di rotta, un rinnovato profilo dello Stato nel processo di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia.







NOTE
1 G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Manduria (Ta), Lacaita, 2005, p. 8. «L’ondata culturale che aveva prodotto la negazione della “categoria Mezzogiorno” – prosegue lo storico – è andata ancor più drasticamente rifluendo; e si è tornati a parlare del Mezzogiorno quale grande problema aperto e complessivo come poche altre volte si è fatto, e ne parlano sempre più spesso, e con esibita e disinvolta convinzione, come se avessero sempre detto le stesse cose, anche molti dei brillanti campioni dell’improvvisazione politica e culturale che volevano negare la “questione” e la “categoria”» (pp. 9-10). Sotto questo profilo, si veda, per esempio, G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 2003; e la immediata risposta di Galasso in Id., Abolire il Sud? Non è possibile, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 febbraio 2003. Di diverso avviso L. De Rosa, La provincia subordinata. Saggio sulla questione meridionale, Roma-Bari, Laterza, 2004, dove polemicamente viene espressa l’idea che il Sud avrebbe cessato di esistere proprio con l’Unità d’Italia a causa di politiche, ordinarie e straordinarie, che imposero modelli economici incapaci di avviare lo sviluppo del Mezzogiorno. Cfr. pure, Il meridionalismo fa i conti con la storia. Interviste a L. De Rosa e G. Galasso, a cura di G. Cesarino, in «Il Cerchio», luglio-settembre 2004, pp. 26-28.^
2 «Aveva perduto ogni significato, che non fosse soltanto geografico, lo stesso termine Mezzogiorno, perfino sul terreno storico. Bisognava, invece, parlare di Mezzogiorno al plurale. Il Mezzogiorno era, in effetti, una serie di realtà diverse fra loro». G. Galasso, Mezzogiorno..., cit., p. 15.^
3 L. Musella, Meridionalismo. Percorsi e realtà di un’idea (1885-1944), Napoli, Guida, 2005.^
4 Cfr. Materiali IMES, Copanello (Cz), 2-4 giugno 1987.^
5 Cfr. D. Cersosimo, C. Donzelli, Mezzo giorno e mezzo no. Realtà, rappresentazioni e tendenze del cambiamento meridionale, in «Meridiana», maggio-settembre 1996, pp. 23-73. Si veda, inoltre, C. Donzelli, Mezzogiorno tra “questione” e purgatorio. Opinione comune, immagine scientifica, strategie di ricerca, in «Meridiana», 1990, n. 9, Materiali ’90, pp. 13-53, dove sono tracciate le linee direttrici delle ricerche “imesiane”, come le grandi trasformazioni attraverso la privatizzazione del pubblico, le illegalità, le identità, le economie e i mercati, i circuiti politici, le egemonie urbane. Da tale punto di vista, cfr., per esempio, P. Bevilacqua, Riformare il Sud, in «Meridiana», 1998, n. 31, Sviluppo pp. 13-47, e G. Barone, Mezzogiorno ed egemonie urbane, in «Meridiana», 1989, n. 5, Città pp. 19-44, S. Lupo, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, in «Meridiana», 1998, n. 32, Luoghi e identità pp. 17-52.^
6 Cfr., ad esempio, The New History of the Italian South: The Mezzogiorno revisited, ed. by R. Lumley and J. Morris, by University of Exeter Press, Exeter, UK, 1997. (Trad. ital., Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia, Roma, Carocci, 1999); e N. Moe, The view from Vesuvius. Italian culture and the southern question, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London, 2002. (Trad. ital. Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, prefazione di P. Bevilacqua, Napoli, L’ancora del mediterraneo, 2004). Cfr. anche, J. Dickie, Darkest Italy. The Nation and the Stereotypes of the Mezzogiorno. 1860-1900, London, 2000; M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione: rappresentazioni del Sud prima e dopo il ’48, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 1998. Cfr., infine, S. Cafiero, Questione meridionale e unità nazionale. 1861-1995, Roma, NIS, 1996: una più equilibrata ricostruzione delle cause e dei caratteri strutturali del ritardo del Mezzogiorno d’Italia.^
7 J. Morris, Oltre il meridionalismo..., cit., pp. 11-29.^
8 Op. cit., p. 5.^
9 Ibidem.^
10 Cfr. G. Galasso, Mezzogiorno..., cit., p. 28. Si veda pure la recensione al volume di Galasso, di A. Musi, Meridione eterna questione, in «La Repubblica», edizione di Napoli, 7 dicembre 2005.^
11 A. Musi, relazione in Meridionalismo vecchio e nuovo, Atti del Convegno, Rionero in Vulture (Pz), 31 ottobre 2001, Rionero in Vulture (Pz), Calice editori, 2002, pp. 19-22. Sulle stesse tematiche insiste anche G. Pescosolido, Il problema del Mezzogiorno e le strategie meridionalistiche, in «Nuova Storia Contemporanea», 4 (2000), pp. 77-88. Si veda pure, a proposito di mutamento meridionale, G. Galasso, La “modernizzazione” (1945-1975), in Id., L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Lecce, Argo, 1997, pp. 257-295. Sul versante di una lettura, per così dire “imesiana”, della questione meridionale tra statalismo, riformismo e modernizzazione, con uno specifico sguardo al Mezzogiorno insulare, cfr. G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Torino, Einaudi, 1986. Inoltre, sul tema dell’emigrazione, sempre utile G. Galasso, Lo sviluppo demografico del Mezzogiorno prima e dopo l’unità, in Id., Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, Einaudi, 1975; pure Galasso, “Civiltà contadina” ed emigrazione, in Id., L’altra Europa, cit., pp. 547-562. Sull’attualità dei flussi migratori (soprattutto extracomunitari) nel Mezzogiorno in rapporto al deflusso meridionale, cfr., ad esempio, G. Galasso, Mezzogiorno e migrazioni, in «Corriere del Mezzogiorno», 12 febbraio 2006.^
12 P. Macry, Se l’unità crea divisione. Immagini del Mezzogiorno nel discorso politico nazionale, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di L. Di Nucci, E. Galli della Loggia, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 63-92; cit. a p. 63.^
13 Ibidem.^
14 P. Macry, Trent’anni di storia sociale (con vista sul Mezzogiorno), in «Contemporanea», 8 (2005), pp. 209-231; cit. a p. 228.^
15 Napoli, Guida, 1992. «Molte tesi di Galasso su un’imprenditoria meridionale legata esclusivamente alle possibilità offerte dallo Stato e concentrata a Napoli, la città dalle grandi possibilità, sono poi riprese ed ampliate da diversi studi di “Meridiana […]. È ripreso il discorso sul ruolo non propulsivo di Napoli che condiziona negativamente il tipo di specializzazione agricola di molte aree campane e del Mezzogiorno, non riuscendo a guidare nessun processo di modernizzazione ed anzi influendo in modo tradizionale sulla formazione delle élites meridionali»: cfr. G. Cirillo, La frontiera del nuovo meridionalismo. L’IMES tra alterne stagioni. Note a margine del convegno, in Meridionalismo vecchio e nuovo..., cit., pp. 23-25.^
16 Napoli, Guida, 1988.^
17 Nel solco della tradizione delle storie regionali nel Mezzogiorno, inaugurata dagli studi di Galasso, cfr., ora, G. Brancaccio, Il Molise medievale e moderno. Storia di uno spazio regionale, Napoli, ESI, 2006. Per un’analisi della storiografia sugli studi di storia regionale nel Mezzogiorno d’Italia, cfr. M. A. Visceglia, Regioni e storia regionale nel Mezzogiorno d’Italia: note per un profilo storiografico, in Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, a cura di A. Musi, Napoli, ESI, 1991, pp. 13-41.^
18 Cfr. D. Cersosimo, C. Donzelli, Mezzo giorno e mezzo no..., cit., p. 24.^
19 «Sembrava quasi che la “questione meridionale” se la fossero inventata i meridionalisti. E questo in effetti, si finì col dire, accomunando, anzi, ai meridionalisti, nella responsabilità di una costruzione ideologica deformante e fuorviante, i “patrioti” del Risorgimento, coloro che si erano opposti alla dinastia borbonica e che, per denigrare quest’ultima, avrebbero imbastito la “leggenda nera” di un Mezzogiorno arretrato, vero “barbaro e infedele” della modernità. Era una distorsione evidente dei fatti, e, tuttavia, finì con l’avere molta fortuna. Si curava poco il fatto che quei “patrioti” erano anch’essi convinti di una grande ricchezza potenziale del Mezzogiorno, fino ad allora trascurata o mal gestita o ignorata o compressa da un malgoverno secolare (spagnolo prima che borbonico); e ancora meno si curava il fatto che proprio contro questo luogo comune della ricchezza naturale del Mezzogiorno e del malgoverno come unico responsabile della sua povertà storica prese posizione il meridionalismo che trovò in Giustino Fortunato il suo evangelista». Cfr. G. Galasso, Mezzogiorno..., cit., p. 16.^
20 D. Cersosimo, C. Donzelli, Mezzo giorno e mezzo no..., cit., p. 58.^
21 A. Musi, in Meridionalismo vecchio e nuovo..., cit., p. 22. Cfr., inoltre, A. Musi, Salerno moderna, Cava de’ Tirreni (Sa), Avagliano, 1999, dove si sottolinea il carattere “assente” di una media città meridionale tra età moderna e XX secolo. Più in generale, sempre in relazione a questi aspetti, si veda Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, a cura di A. Musi, Napoli, ESI, 2000.^
22 A. Musi, in Meridionalismo vecchio e nuovo..., cit., p. 22. Cfr., da una tale prospettiva, F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia, Torino, Einaudi, 2002.^
23 Cfr. A. Musi, Due Sindaci e un Cardinale, Napoli, Pironti, 2002, p. 36 ss..^
24 Cfr. A. Musi, La stagione dei sindaci, Napoli, Guida, 2004.^
25 Sulla natura dei provvedimenti nittiani per il “risorgimento economico” di Napoli, agli inizi del Novecento, come uno dei tre tentativi di industrializzazione napoletana, dopo quello dei Borbone nell’Ottocento e il successivo dei governi democristiani nella stagione repubblicana, cfr. F. S. Nitti, D. De Masi, Napoli e la questione meridionale. 1903-2005, Napoli, Guida, 2005, che si presenta come un’utile comparazione delle due Napoli a un secolo di distanza. Oggi, anche se Napoli pare aver perduto i “treni dell’industrializzazione”, occorre costruire per l’antica capitale del Regno «un circuito di attività che rispondano ad almeno alcune delle funzioni a cui l’economia materialmente produttiva continua a rispondere ovunque. Nessun errore sarebbe maggiore e peggiore del credere che i processi, ormai constatati un po’ ovunque, di deindustrializzazione delle aree più strettamente urbane e (all’apparenza) delle economie più avanzate si risolvano in una radicale assenza di hard-economy». Cfr., in proposito, G. Galasso, Napoli e la questione meridionale, in Napoli, problemi e prospettive. Atti del Convegno promosso da «Mezzogiorno Europa» in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, Palazzo Serra di Cassano, 21 novembre 2005, in «Mezzogiorno Europa», 6 (2005), pp. 5-8. Per un approfondimento della questione sempre utile risulta G. Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P. Allum, Roma-Bari, Laterza, 1978, in particolare p. 176 sgg.. Per un quadro storico-politico dell’industrializzazione a Napoli e in Campania, cfr. A. De Benedetti, Il sistema industriale (1880-1940), pp. 445-605; M. D’Antonio, L’industria in Campania tra politica e mercato, pp. 1187-1224, entrambi in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Campania, a cura di P. Macry, P. Villani, Torino, Einaudi, 1990.^
26 Cfr. G. Dorso, La rivoluzione meridionale. Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia, Avellino, Sellino, 2003. Sulla cosiddetta “scoperta del Mezzogiorno” in rapporto alla civiltà contadina, si veda pure A. Musi, A chi appartiene Carlo Levi, in Id., Bandiere di carta. Intellettuali e partiti in tre riviste del dopoguerra, Cava de’ Tirreni (Sa), Avagliano, 1996, pp. 83-91.^
27 D. Cersosimo, C. Donzelli, Mezzo giorno e mezzo no..., cit., p. 63.^
28 «Oggi è davvero difficile sapere ex ante chi vincerà e chi perderà. Il voto assume allora una più rischiosa misura di opzione; non vale più solo come riconferma rassicurante; attiva comportamenti che possono avere effettive conseguenze politiche; e quindi rende la partita più interessante, per chiunque la giochi». Ivi, p. 69.^
29 A. Musi, Burocrazia comunale e mediazione politica nel Mezzogiorno tra Ottocento e Novecento, in «Scienze Politiche». Rivista annuale della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Salerno, 1999, pp. 31-45; cit. a p. 45.^
30 Cfr. Regia Commissione di Inchiesta per Napoli. Relazione sull’amministrazione comunale, a cura di G. Saredo, 2 voll., Roma 1901. Sulle conseguenze dell’attività della Regia Commissione sul tessuto cittadino si vedano le efficaci considerazione di A. Aquarone, L’Italia giolittiana (1896-1915). Le premesse politiche ed economiche, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 417.^
31 Cfr. A. Musi, Burocrazia comunale e mediazione politica..., cit., p. 32.^
32 Cfr. G. Galasso, Meridionalismo 1978: il saio dell’umiltà, in Id., Passato e presente del meridionalismo, Napoli, Guida, 1978, vol. II, pp. 215-248, ora in Id., Mezzogiorno..., cit., pp. 305-335.^
33 «Degenerazione burocratica, dunque; e, con essa, la degenerazione politica: l’intervento straordinario e i suoi organi come riserva di caccia o merce di scambio con i potentati politici locali e nazionali in ragione dei complicati, spesso addirittura tortuosi equilibri di una “democrazia latina”, afflitta da molti dei mali del deteriore e più vieto parlamentarismo e dai mali nuovi di un esasperato corporativismo, quale è quella italiana. Così: dispersione della spesa in mille rivoli per accontentare un po’ tutti; oppure spese faraoniche per opere faraoniche messe su per il prestigio o per le più concrete pressioni di questo e di quello. E, inoltre, assunzioni di favore e superflue negli uffici politico-amministrativi o nei luoghi di lavoro; affarismo diffuso nell’esecuzione della spesa; preoccupazione dominante della resa politica o economica di ogni iniziativa a più breve scadenza invece che dei suoi effetti meno immediati e più conclusivi». G. Galasso, Mezzogiorno..., cit., p. 307^.
34 Ivi, p. 330.^
35 Cfr. N. Rossi, Mediterraneo del Nord. Un’altra idea del Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 84-85.^
36 Ivi, p. 86.^
37 Ibidem.^
38 Cfr. A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, ora in Pensare l’Italia, a cura di G. Vacca, Roma, Fondazione Istituto Gramsci - L’Unità, 2004, pp. 13-48; e G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino, Einaudi, 1955. Per gli aspetti politico-culturali della cosiddetta inferiorità dei meridionali, cfr. C. Petraccone, Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2000; e A. De Francesco, 1799. Una storia d’Italia, Milano, Guerini e Associati, 2004. Si veda, infine, A. Placanica, L’identità del meridionale, in «Meridiana», 1998, n. 32, Luoghi e identità cit., pp. 153-182.^
39 Cfr. M. Trotta, Politica e territorio. Le deputazioni meridionali e la riforma elettorale del 1882, ne I segni della memoria. Quadri generali e contesti locali. Istituzioni, società e territorio, a cura di S. Raffaele, Catania, Cooperativa Universitaria Editrice Catanese di Magistero, 2005, pp. 183-192.^
40 Cfr. G. Galasso, Italia nazione difficile. Contributo alla storia politica e culturale dell’Italia unita, Firenze, Le Monnier, 1994, p. 98.^
41 Cfr. L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, Padova, Marsilio, 1994, p. 17 sgg. Sulla costruzione dello Stato liberale e i cosiddetti “esclusi del Sud” si veda pure A. Lepre, Italia, addio? Unità e disunità dal 1860 a oggi, Milano, Mondadori, 1994, p. 28 sgg. Cfr., altresì, i saggi di L. Cafagna, Il saccheggio del Sud, pp. 49-52, e di G. Belardelli, Le due Italie, pp. 53-62, in Aa.Vv., Miti e storie dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1999. In stretta sintonia con tali tematiche si veda C. Petraccone, Le “due Italie”. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Roma-Bari, Laterza, 2005. Cfr., infine, G. Galasso, Antistoria d’Italia, Risorgimento e Unità, in Id., L’Italia s’è desta. Tradizione storica e identità nazionale dal Risorgimento alla Repubblica, Firenze, Le Monnier, 2002, pp. 275-320.^
42 A. Musi, Dalla “nazione napoletana” alla nazione italiana, in G. Vitolo, A. Musi, Il Mezzogiorno prima della questione meridionale, Firenze, Le Monnier, 2004, p. 196, dove è forte il richiamo alla storiografia di Croce. Cfr., più in generale, A. Musi, Il Sud nello Stato unitario, in Aa. Vv., La chioma della vittoria. Scritti sull’identità degli Italiani dall’Unità alla Seconda Repubblica, a cura di S. Bertelli, Firenze, Ponte alle Grazie, 1997, pp. 85-99.^
43 Cfr. G. Galasso, Napoli capitale. Identità politica e identità cittadina. Studi e ricerche 1266-1860, Napoli, Electa, 2003. Si veda, pure, A. Musi, Napoli, una capitale e il suo Regno, Milano, Touring Club, 2003.^
44 G. Pescosolido, Il problema del Mezzogiorno e le strategie meridionalistiche..., cit., p. 82.^
45 Cfr. R. Romeo, Contadini e operai nell’ “eterno Sud”, in Id., Scritti storici 1951-1987, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 374-376.^
46 P. Macry, Se l’unità crea divisione. Immagini del Mezzogiorno nel discorso politico nazionale, cit., p. 72.^
47 Per questi aspetti cfr. A. Capone, Il risorgimento nel Mezzogiorno e la tradizione meridionalista, in «Clio», 26 (1990), n. 3, pp. 377-395, che è sembrato assecondare la tendenza ad abbandonare la tradizione del meridionalismo classico.^
48 G. Galasso, Il Mezzogiorno..., cit., p. 15.^
49 Cfr. B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, Milano, Adelphi, 2006.^
50 «La sua agricoltura, spiega Galasso, – il settore tradizionalmente più apprezzato – appariva, infatti, appesantita e bloccata dal regime feudale, dalla manomorta ecclesiastica e da numerose altre remore, ma soprattutto dalla carenza di liberi, dinamici, attivi coltivatori e imprenditori in proprio». G. Galasso, Il Mezzogiorno..., cit., p. 16.^
51 G. Pescosolido, Arretratezza e sviluppo, in Storia d’Italia, 2. Il nuovo Stato e la società civile, a cura di G. Sabbatucci, V. Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 217-328; cit. a p. 237. Si vedano pure, più in generale, G. Aliberti, Strutture sociali e classe dirigente nel Mezzogiorno liberale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979; e, con diverso approccio problematico, P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Roma, Donzelli, 1997.^
52 G. Pescosolido, Arretratezza e sviluppo..., cit., p. 243.^
53 Cfr. P. Villari, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Napoli, Guida, 1979, con cui – come è noto – si inaugura la lunga stagione del meridionalismo e si pone l’accento sui problemi sociali di Napoli, non più capitale. Sul nesso Mezzogiorno-sottosviluppo cfr. G. Pescosolido, Dal sottosviluppo alla questione meridionale, in Storia del Mezzogiorno, Il Mezzogiorno nell’Italia unita, vol. XII, diretta da G. Galasso, R. Romeo, Roma, Edizioni del Sole, 1989, pp. 17-90.^
54 R. Romeo, Contadini e operai nell’“eterno Sud”..., cit., p. 375. Cfr., altresì, R. Romano, L’emergere di un’economia dualistica, in L’Italia delle cento città. Dalla dominazione spagnola all’unità nazionale, a cura di M. L. Cicalese, A. Musi, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 104-114, che sembra propendere, a proposito delle radici dualistiche dello sviluppo italiano, verso un orizzonte storiografico che contesta le ragioni di un «meridionalismo lamentoso e rivendicazionista»: il chiaro riferimento dell’Autore è al modello interpretativo di Luciano Cafagna, del quale cfr., ad esempio, Contro tre pregiudizi sulla storia dello sviluppo economico italiano, in Storia economica d’Italia, 1. Interpretazioni, a cura di P. Ciocca, G. Toniolo, Milano-Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 297-325.^
55 Ibidem.^
56 G. Pescosolido, Il problema del Mezzogiorno e le strategie meridionalistiche..., cit., p. 87. Su questa problematica, oggetto non secondario di discussione tra i riorganizzati partiti della Repubblica, cfr., per esempio, B. Croce, Taccuini di guerra. 1943-1945, a cura di C. Cassani, Milano, Adelphi, 2004. Nel secondo dopoguerra particolarmente acceso fu il dibattito tra le diverse aree politico-culturali – la cattolica, la laica, la marxista – sulla questione meridionale e sui caratteri del nuovo meridionalismo: cfr., in proposito, P. Saraceno, Il nuovo meridionalismo, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2005; G. GALASSO, Seguendo il P.C.I.. Da Togliatti a D’Alema (1955-1996), Lungro (Cs), Marco editore, 1998; Francesco Compagna meridionalista europeo, a cura di G. Pescosolido, Manduria (Ta), Lacaita, 2003; U. La Malfa, Il Mezzogiorno nell’Occidente. Antologia degli scritti e dei discorsi, a cura di G. Ciranna, Roma-Bari, Laterza, 1991; A. Maccanico, Sud e Nord: Democratici eminenti, Manduria (Ta), Lacaita, 2005; D. Ivone, Meridionalismo cattolico (1945-1955), Milano, Vita e Pensiero, 2003; A. MUSI, Bandiere di carta. Intellettuali e partiti in tre riviste del dopoguerra..., cit.; La questione meridionale ne «Il Mondo» di Mario Pannunzio, a cura di F. Erbani, Roma-Bari, Laterza, 1990; Aa.Vv., Economia e società nel Mezzogiorno nell’ultimo quarantennio. Un bilancio nel ricordo di Umberto Zanotti Bianco, Manduria (Ta), Lacaita, 2005. Sull’impegno della cultura meridionale in favore della rinascita del Mezzogiorno, cfr. Cultura laica e impegno civile. Quarant’anni di attività di Piero Lacaita Editore, a cura di G. Quagliariello, 2 voll., Manduria (Ta), Lacaita, 1990. Si veda, infine, la testimonianza di un dirigente comunista meridionale, G. Amarante, Gli intellettuali e il Mezzogiorno, in Id., Memoria storica. Scritti vari 1997-2000, Salerno, Marte, 2001, sugli esiti di un importante Convegno organizzato a Napoli nel 1952 dal «Comitato Nazionale per la Rinascita del Mezzogiorno», e presieduto da Francesco De Martino.^
57 Cfr. A. Musi, Pasquale Turiello: Nord e Sud nella storia d’Italia, in L’Italia delle cento città. Dalla dominazione spagnola all’unità nazionale..., cit., pp. 79-85; cit. a p. 81.^
58 Cfr. R. Romeo, Cavour, il suo e il nostro tempo, Intervista a cura di G. Pescosolido, in «Mondoperaio», 38 (1985), n. 3, pp. 93-102.^
59 A. Musi, Pasquale Turiello: Nord e Sud nella storia d’Italia..., cit., p. 83.^
60 Ibidem.^
61 Cfr. A. De Francesco, Il Saggio storico e la cultura politica italiana fra Otto e Novecento, introduzione a V. Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli, Manduria (Ta), Lacaita, 1998, pp. 9-197. Si veda, inoltre, Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli. Atti del Convegno Internazionale, Campobasso 20-22 gennaio 2000, a cura di L. Biscardi, A. De Francesco, Roma-Bari, Laterza, 2002.^
62 Edizione a cura di N. Tranfaglia, Milano, Feltrinelli, 1975 (la prima edizione è del 1910), p. 110.^
63 A. Musi, Pasquale Turiello: Nord e Sud nella storia d’Italia..., cit., p. 84. Cfr. anche N. Colajanni, La condizione meridionale. Scritti e discorsi, a cura di A. M. Cittadini Ciprè, Napoli, Bibliopolis, 1994.^
64 Ivi, pp. 84-85.^
65 Ivi, p. 81.^
66 A. Musi, Segni, memoria, storia: il Mezzogiorno come oggetto storiografico, ne I segni della memoria. Quadri generali e contesti locali. Istituzioni, società e territorio..., cit., pp. 19-29; cit. a p. 29.^
67 Ibidem.^
68 G. Delille, Le maire et le prieur. Pouvoir central et pouvoir local en Méditerranée occidentale (XV-XVIII siècle), Rome, École Française de Rome, 2003, p. 12.^
69 Cfr. G. Galasso, Mezzogiorno..., cit., pp. 36-37.^
70 I dati dell’Istat sulla forza lavoro nel 2005 confermano le difficoltà delle dinamiche occupazionali italiane e fotografano un Paese che rimane spaccato in due. I tassi di occupazione raggiungono nel Nord livelli più alti della media europea: 68,4% in Emilia Romagna, 67,1% nel Trentino Alto Adige, 65,5% in Lombardia; mentre il Mezzogiorno si mantiene su livelli nettamente inferiori: 44,5% in Calabria, 44, 4% in Puglia, 44,1% in Campania e 44% in Sicilia. Fonte: «Il Sole 24 Ore», 19 aprile 2006. Per una riflessione retrospettiva ed insieme prospettica su questi temi, cfr. M. Lo Cicero, Produttività e competitività dell’economia italiana (1993/2003), in «L’Acropoli», 6 (2005), pp. 488-512. Cfr. pure, P. Sylos Labini, Scritti sul Mezzogiorno (1954-2001), a cura di G. Arena, Manduria (Ta), Lacaita, 2003, che ha insistito sulla necessità di un profondo cambiamento nella definizione di politiche ed interventi per il Sud.^
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