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Quo Vadis Africa? Cooperazione e crisi nell'Africa Centrale1
di Claudio Consalvo Corduas-Tanguy Herman Pounekrozou
1. Premessa

Alla domanda “Quo vadis, Africa?”, è difficile oggi rispondere, sebbene il destino di questo continente condizioni il futuro dell’intera Europa.
Il continente africano copre un’area di 30.221.532 km2. Vi sono ben 54 Stati; è, quindi, il continente con più Stati indipendenti e sovrani. Si parlano circa 2.000 lingue diverse. Esistono circa 47 grandi gruppi etnici diversi. Questi scarni dati, già da soli, evidenziano la vastità e complessità dell’analisi delle problematiche relative sia alla coesistenza tra tante diversità, sia all’individuazione e ad un’efficace politica di cooperazione internazionale in quest’area del globo.
Tale vastità e complessità suggeriscono, in questa sede, di concentrare l’attenzione su un’area che presenta delle peculiarità rappresentative delle problematiche presenti in tutta la fascia centrale dell’Africa, caratterizzata da diffusa emigrazione: cioè sul Bacino del Congo e quindi sulla Repubblica Centrafricana che ne è il cuore.
Questo Stato è, infatti, collocato in una posizione centrale e strategica nel continente africano, privo di sbocchi al mare. Il fiume Oubangui non rappresenta, infatti, una via d’acqua permanente per quanto collegata al fiume Congo e quindi al mare. Ha una Costituzione laica, ma raccoglie in sé due grandi comunità, la cristiana e la musulmana, con due lingue ufficiali: il Francese ed il Sango. Le sue vicissitudini sono, quindi, rappresentative di quelle presenti in tutta l’area centrale dell’Africa, che si è rivelata una delle regioni potenzialmente più ricche di questo continente.
Ex colonia francese dell’Africa Equatoriale Francese (AEF), l’Oubangui-Chari o Ubangi Shari è diventato Repubblica Centrafricana con l’acquisto dell’indipendenza avvenuta il 13 agosto 1960. Tuttavia, l’influenza della Francia sulla politica e sull’economia di questo Stato dell’Africa centrale è tuttora consistente.
Il 24 marzo 2013 segna la data dell’ennesimo colpo di Stato nella Repubblica Centrafricana. Il quinto dalla sua indipendenza. La coalizione ribelle “Séléka”2, a maggioranza musulmana, si installa al potere con il suo leader Michel Djotodia che si è autoproclamato Presidente. Come conseguenza, il Paese è stato travolto da un’ondata di violenza. Secondo le Nazioni Unite, sui 4,5 milioni di abitanti che conta questo Paese dell’Africa centrale, piccolo secondo gli standard africani, 2,6 milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari d’emergenza e 1,3 milioni non hanno abbastanza di che sfamarsi. Una crisi questa senza precedenti che evidenzia uno Stato allo sbando e da anni sull’orlo del default. Dal 10 gennaio 2014 il Paese è guidato dalla Presidentessa ad interim Catherine Samba-Panza.
Terzultimo (0,352) nella lista di stati africani per Indice di sviluppo umano come estrapolato dal Rapporto sullo Sviluppo Umano del 2013 compilato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nell’ambito del Programma di Sviluppo, pubblicato il 14 marzo 2013, la Repubblica Centrafricana è uno dei paesi più poveri del pianeta. Questo paese dell’Africa centrale è caratterizzato fin dalla sua indipendenza, avvenuta come detto nel 1960, da instabilità politica, militare e sociale, nonché dalla successione di diversi regimi al vertice del potere. Oggi, in seguito alla crisi del marzo 2013 ed al suo carico di tensioni, si parla di una situazione di “non Stato” che preoccupa la Comunità internazionale per la posizione geopolitica di questo paese. Una preoccupazione giusta che fa riflettere sull’efficacia delle politiche di sviluppo attuate sia dalla classe dirigente centrafricana, sia dai suoi partner allo sviluppo. In effetti, gli osservatori della vita politica della Repubblica Centrafricana sono concordi nel dire che sono tre in linea di massima i problemi di questo paese: 1) la povertà, 2) la sicurezza e 3) la governance. Problemi che vanno affrontati non solo al livello interno ma anche esterno, cioè in un quadro regionale ed internazionale.
Un’analisi del quadro geopolitico in cui interagisce il Bacino del Congo rappresenta il primo percorso di riflessione che seguiremo, per poi focalizzare l’attenzione direttamente sulla Repubblica Centrafricana, cercando di limitarci alle cause generali ed alle conseguenze della crisi che quest’area sta vivendo e concentrando, infine, l’attenzione sulla peculiarità della cooperazione internazionale allo sviluppo nell’Africa centrale in generale ed in questo paese in particolare. Risolvere questo problema significa anche curare all’origine le cause delle spinte migratorie da questa area del globo verso l’Europa; prospettiva oggi comunque riservata alla parte “ricca” della popolazione, cioè a coloro che hanno almeno la possibilità economica di pagare il viaggio verso la loro “America”. Inoltre, far conoscere più nel dettaglio le questioni che affliggono il Centrafrica e tutta l’area del Bacino del Congo, cioè dell’Africa centrale, significa favorire una sensibilizzazione dell’opinione pubblica e politica europea, ed in particolare dell’Italia, per una problematica che risulta essere molto meno distante da noi di quanto possiamo pensare e condizionerà il futuro dei nostri figli e per una cooperazione internazionale più attenta alle realtà locali.



2. La geopolitica del bacino del Congo

L’Africa Centrale in generale ed il Bacino del Congo in particolare sono stati uno dei principali soggetti di discussione tra le grandi potenze occidentali a partire dalla Conferenza di Berlino3 del 1884-85. In tale Conferenza, l’Africa ha assistito, inconscia, alla sua spartizione ed all’inizio del sistematico colonialismo occidentale. La Conferenza internazionale di Berlino – promossa dal Cancelliere tedesco Bismarck e dalla Francia, svoltasi tra il 15 novembre 1884 ed il 26 febbraio 1885, ha visto la partecipazione oltre che della Germania e degli Stati Uniti, anche di Paesi europei come il Belgio, la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, il Portogallo, la Spagna – ha concorso a segnare il destino dell’Africa per il tempo a venire. Il suo obiettivo, in un momento in cui la “febbre” civilizzatrice era in pieno svolgimento, consisteva nel raggiungere un accordo tra i Paesi occidentali sulle regole di occupazione/colonizzazione del continente con la creazione di un’area di libera circolazione e di libero commercio per l’economia occidentale. Nessun rappresentante africano, però, fu invitato o poté partecipare anche solo come osservatore a tale Conferenza. I diplomatici partecipanti, che non erano mai stati in Africa, furono assistiti dagli esploratori, il britannico Stanley e l’italo-francese Brazzà, e tracciarono delle frontiere senza sapere – per i limiti delle tecnologie dell’epoca – le ricchezze che esse racchiudevano e – per ignoranza ed indifferenza – le realtà culturali ed istituzionali dei popoli che ci vivevano e tuttora ci vivono. Pertanto, stante l’assenza di rappresentanti africani alla Conferenza di Berlino, i loro interessi non furono presi in considerazione, né d’altro canto all’epoca le loro esigenze avevano rilevanza presso i potentati occidentali.
Sotto il profilo degli effetti sociali, dalla Conferenza di Berlino e poi per effetto della c.d. Scramble for Africa (la corsa per l’Africa), tanti popoli africani, loro malgrado, si sono ritrovati, nel tempo, divisi e confinati in frontiere terrestri a loro estranee, sottoposti a Stati coloniali ed a un’autorità centrale non federale spesso lontana o ignara delle loro esigenze, assemblati con altri popoli, aggregati con altre culture e civilizzazioni. Questa situazione, imposta dall’alto, non ha consentito in alcun paese africano la convivenza pacifica tra popoli ed etnie disomogenee tra di loro per realtà culturali diverse ed a volte antagoniste, né la creazione di una classe dirigente, condivisa e super partes, nonché dotata delle necessarie coperture politiche “trasversali”. Queste disomogeneità sono state anche favorite dall’interesse dei colonizzatori, di qualsiasi tendenza ideologica, antichi e recenti, quale strumento per controllare le popolazioni locali e sfruttare il loro territorio, secondo l’antico principio del “divide et impera” su popoli ed etnie diverse, per una «occhiuta rapina, che lor non tocca e che forse non sanno»4. Di queste disomogeneità, oggi, si alimenta anche il fondamentalismo, il fanatismo religioso ed il terrorismo.
Sotto il profilo economico, alla Conferenza di Berlino, le difficoltà per raggiungere un accordo tra le grandi potenze sulle aree di influenza nell’Africa centrale erano generate da antagonismi ed aspettative stimolate da generici appetiti. Successivamente, nella fase della colonizzazione, da precisi interessi per accaparrarsi le risorse naturali di questa sub-regione africana che si è rivelata una delle regioni potenzialmente più ricche di materie prime e risorse naturali, ma attualmente la più povera ed instabile dell’Africa sub-sahariana. Oggi, diverse potenze operanti nel mondo approfittano della debolezza di questi Stati e degli appetiti della loro classe dirigente per ottenere il massimo utile.
Altro motivo di tensione è provocato dal fatto che la maggior parte dei paesi dell’Africa centrale dispongono di frontiere “porose” e non hanno delle politiche comuni forti in materia di difesa e di controllo delle loro frontiere. La Repubblica Centrafricana per esempio ha 5.203 km di frontiere terrestri che sfuggono nella maggior parte al controllo dello Stato soprattutto nelle regioni del Nord-Est e Nord-Ovest. In queste zone di alta permeabilità, è facile la trasmigrazione di forze ribelli e mercenarie, di bande armate e di briganti che alimentano la maggior parte delle ribellioni, che sono state e sono tuttora causa di instabilità politico-militari e sociali nell’area del Bacino del Congo.
La realtà culturale africana è ancora oggi quella delle tribù o dei clan che molto lentamente stanno superando i tratti culturali di originaria aggregazione comune, come le lingue o i dialetti e le alleanze tradizionali, per costituirsi in popoli. Il territorio e la tradizione, come per tutti gli altri popoli della terra, rappresentano comunque un patrimonio da custodire e tramandare di generazione in generazione, di cui in ogni caso bisognerebbe tener conto in questa lenta evoluzione delle diverse comunità verso una presa di coscienza comune. La spartizione dell’Africa, sulla base della presupposta nozione di Stato nazionale e non federale, come sarebbe più conforme alla realtà socio-culturale dell’Africa, nonostante la costituzione di ben 54 Stati indipendenti, ha risposto originariamente agli interessi economici e politici delle grandi potenze occidentali, tenendo in scarsa considerazione l’effettiva realtà dei popoli africani. In effetti, per l’Occidente, a partire dalla Conferenza di Berlino, a lungo i popoli africani sono stati considerati incivili secondo gli standard occidentali e quindi da civilizzare a tutti i costi, perché il governo e la civilizzazione “all’occidentale” avrebbero implicato per loro anche la pace e la libertà.
All’indomani della seconda guerra mondiale e per la pressione delle Nazioni Unite, gli Stati colonizzatori europei in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli hanno concesso l’indipendenza ai paesi africani, già precostituiti, che erano sotto il loro controllo o dominio. Gli Stati che emergono dalla disgregazione delle entità formate sull’istituzione coloniale: Sudan, Etiopia, Congo, ecc., si scompongono in sotto-unità o Stati nazionali. Tuttavia, il passaggio dall’amministrazione coloniale a quella africana non è stato ben preparato o ben realizzato per questi paesi. L’eredità coloniale è un’eredità difficile da gestire per le nuove classi dirigenti africane anche se generalmente formate in Europa. Le spaccature e le divisioni a sfondo tribale e clanico che emergevano sono state strumentalizzate da tutte le componenti ideologiche, operanti nel mondo, per finalità economiche e di controllo politico. Le crisi dei governi di diversa matrice clanica si sono moltiplicati, innescando guerre civili ed internazionali. I regimi politici che possono instaurarsi in questi contesti sono nella maggioranza dei casi dittatoriali o militari. Lo Stato viene considerato come un bene personale da accaparrarsi e gestire per l’interesse di un solo individuo e del gruppo o del clan al quale egli appartiene.
Successivamente, nuove teorie e fondamentalismi, anche di tipo religioso, hanno aggravato le divisioni tra alcune delle componenti etniche africane, portando a conflitti e crisi socio-politiche senza precedenti. Divisioni aggravate poi dal processo di forzata democratizzazione all’occidentale dei paesi africani, imposta soprattutto dalle Istituzioni internazionali (ONU, BM o WB, FMI, ecc.), come condizione per i loro interventi, e spesso dagli interessi economici delle multinazionali presenti in loco le quali preferivano avere a che fare con Governi centrali ed autoritari.
In questo quadro si inserisce la svendita di enormi territori dei paesi africani a soggetti esteri, pubblici (p. es. la Cina, la Francia, gli Emirati Arabi Uniti) o privati (p. es. l’ENI, la TOTAL). Ciò comporta un ulteriore stabile impoverimento del patrimonio pubblico dei paesi interessati, per quanto possa essere giustificato da motivi contingenti, nella migliore delle ipotesi per la copertura di esposizioni finanziarie dei paesi, nella peggiore per interessi personali o di clan.
Per contrastare queste tendenze la comunità internazionale dovrebbe concorrere a stimolare e tutelare gli interessi delle collettività locali, instillando fin dalla formazione scolastica la nozione prima e la pratica poi secondo cui lo Stato nazionale deve garantire la gestione del bene pubblico, come elemento appartenente a tutte le comunità presenti in ogni paese. Per la costituzione di Stati forti e stabili è fondamentale compiere questo passo. Tutto ciò non è stato compiuto per molti paesi africani con l’innesco del processo di democratizzazione all’occidentale, senza un parallelo processo di autocoscienza nei singoli cittadini. In Occidente il maturare di questi processi ha richiesto tempi e costi, in alcune occasioni anche di milioni di vite umane. Il germe della democrazia, con il rispetto per le minoranze, non trova ancora rispondenza nell’attuale contesto socio-culturale africano. Le contrapposizioni tipiche del sistema democratico, fisiologiche in Occidente, assumono spesso caratteri patologici in contesti africani con caratteristiche diverse ed ataviche contrapposizioni, con la frequente pratica della cosiddetta pulizia etnica. Anche le divisioni e le crisi nei sistemi democratici, in Africa, tendono ad assumere carattere talmente destabilizzante che viene anche da chiedersi se la “democrazia” sia un bene o un male per l’Africa, al di là di quanto illustri economisti hanno preconizzato5.
In effetti, per l’introduzione e l’effettiva operatività di sistemi ed istituzioni democratiche occorre un essenziale presupposto: l’esistenza di una collettività condivisa, cioè di un popolo. Ciò ancora manca in diverse aree dell’Africa ed in particolare dell’Africa centrale, divisa tra tribù e clan rivali per i quali la presa del potere, anche attraverso sistemi elettorali democratici, rappresenta l’occasione per prevaricare su altre etnie, su altre tribù, su altri clan. D’altro canto, il mondo ormai è coinvolto dal vortice della globalizzazione e tutti i popoli aspirano alla libertà, al benessere ed allo sviluppo. In questo contesto, certamente, non si può fare a meno della forma di governo democratica che promuove, infatti, questi valori oltre che la tutela dei diritti umani. Resta da approfondire quanto la cooperazione internazionale stimoli la coniugazione dei principi democratici, con le tradizioni culturali locali e con la necessaria tolleranza verso i diversi da sé, le idee diverse, le etnie diverse, le storiche tensioni tra le componenti etniche, le radici culturali diverse, le religioni diverse e spesso intolleranti verso gli “infedeli” o i non praticanti.
L’era della globalizzazione – connessa allo sviluppo dell’informatica, della tecnologia e della comunicazione (ITC), accanto all’incremento dell’istruzione e della conoscenza – sta comportando grandi trasformazioni nel mondo e lo sviluppo di aree arretrate del pianeta. Sotto questo profilo, andrebbe approfondita l’accessibilità ad internet ed il relativo costo rispetto al reddito medio delle popolazioni interessate6, per verificare l’effettiva incidenza dell’informazione globalizzata sulle crescenti aspettative della popolazione africana. Anche una accessibilità agevolata e quindi più diffusa ad internet potrebbe essere oggetto di progetti di cooperazione internazionale, accanto agli interventi per l’alfabetizzazione. La ricerca del benessere e dello sviluppo portano i popoli a non accettare ed a combattere le ineguaglianze, le discriminazioni. Il crescente potere delle società civili e dei mass media e le attività umanitarie degli organismi internazionali e non governativi portano alla promozione dei diritti umani e allo sviluppo di ogni individuo. Le aspirazioni di parte dei popoli africani come quelle degli altri popoli del mondo si scontrano con le prevaricazioni dei poteri dittatoriali conferiti ai loro dirigenti dal consenso interessato di una parte spesso minoritaria della popolazione, abituata storicamente all’intolleranza verso il diverso da sé, innescando così le ordinarie crisi socio-politiche. Le società africane sono caratterizzate, infatti, da grandi contrasti sociali: o si è povero o si è ricco. Non esiste nella maggior parte di esse una classe media che possa creare un equilibrio e mediare tra le contrapposte fazioni.
Inoltre, la globalizzazione, lo sviluppo delle ITC e la liberalizzazione dell’economia e dei mercati consentono il trasferimento non solo dei capitali, ma anche delle competenze di cui hanno bisogno i paesi africani per incrementare la crescita delle loro economie ed il loro sviluppo. Questi capitali sono detenuti o dai capitalisti locali o dalle grandi multinazionali che dettano le loro condizioni e sfruttano le risorse africane per interessi esclusivamente propri e non anche diffusi tra le popolazioni locali. Tutto questo con il consenso delle classi dirigenti africane che ne traggono profitti personali. Le crisi socio-politiche ed i conflitti civili nascono anche da questa situazione che mette in stallo lo sviluppo, inteso non solo come crescita economica ma anche come progresso civile. In fondo a tutto c’è, però, la questione della povertà in cui la maggior parte delle popolazioni sub-sahariane languono. La povertà toglie la dignità all’essere umano e causa frustrazioni, toglie l’impegno per il miglioramento civile a favore dell’esigenza di garantire la mera sopravvivenza. La povertà è la principale causa della stagnazione socio-politica in Africa.
In sintesi, possono così evidenziarsi gli elementi da prendere in considerazione per individuare una terapia di lungo termine dei mali che affliggono gli Stati del Bacino del Congo e con esso tutto il continente africano e limitare l’instabilità socio-politica caratteristica dell’Africa sub-sahariana e conseguenti spinte migratorie: 1) contrasto della porosità delle frontiere-colabrodo; 2) contrasto della proliferazione degli armamenti; 3) incremento delle politiche comuni in materia di difesa e di controllo delle frontiere; 4) contrasto dell’interesse di Stati e multinazionali, facenti capo a tutti i grandi paesi del mondo, per le risorse naturali e minerarie che vi si trovano, senza stimolare gli investimenti di ritorno nei paesi interessati; 5) agevolare gli investimenti nazionali per l’accesso delle popolazioni all’informazione globalizzata; 6) rispettare i caratteri peculiari delle popolazioni che vivono nell’Africa centrale; 7) controllo internazionale sull’utilizzazione delle risorse di questo continente per sottrarlo alla rapacità degli stranieri e dei locali; 8) privilegiare gli interventi di cooperazione con trasferimento di know how; 9) favorire la circolazione delle merci e delle persone, tramite lo sviluppo della rete stradale, per l’accesso ai mercati; 10) per i paesi senza sbocchi al mare, consolidare l’internazionalizzazione delle vie d’acqua e dei canali o di corridoi terrestri per l’accesso al mare e l’eliminazione delle barriere doganali su detti corridoi e vie d’acqua; 11) incrementare il federalismo statale, ove occorra, e la mobilitazione dal basso delle risorse; 12) infine, l’avvio di un processo di democratizzazione effettivamente condiviso e partecipato, con alti livelli di trasparenza per combattere la corruzione.
L’Africa è potenzialmente ricca, ma economicamente e politicamente arretrata, ecco il suo paradosso e la sua condanna, quasi come una donna molto bella ma povera e quindi indifesa. Un paradosso che trova le sue spiegazioni nell’analisi che abbiamo fatta anche se, lo sappiamo, non è esaustiva. La grave crisi economica ed umanitaria in Africa centrale e le instabilità politiche trovano le loro ragioni essenzialmente negli elementi suesposti ed è in questo contesto che si colloca la crisi centrafricana che adesso andiamo ad approfondire.



3. La crisi centrafricana

In questo contesto potenzialmente esplosivo, nasce la Repubblica Centrafricana il 13 agosto 1960 con la fine del colonialismo, ma in un ambiente fortemente caratterizzato da instabilità istituzionali e cicliche. In effetti, da più di vent’anni essa ha subìto gli effetti negativi e collaterali delle guerre nella regione dei Grandi laghi, nel Burundi, nel Ruanda, nella Repubblica democratica del Congo, nella Repubblica del Congo, nel Ciad e nel Sudan (Darfour e Sudan del Sud), nonché della lotta contro la Lord’s Resistance Army (LRA) di Joseph Kony in Uganda. Nella Repubblica Centrafricana sono concentrati e sono stati accolti i profughi provenienti da questi paesi. Inoltre, attraverso il Ciad ed il Sudan, l’Africa centrale si apre sull’Africa settentrionale ed il Corno d’Africa, importando anche da quest’area le tensioni sue proprie. Le conseguenze della guerra in Somalia, in Eritrea e recentemente della Primavera araba sono effetti evidenti della proliferazione delle tensioni, del traffico di armi da guerra e della formazione di bande armate e mercenarie, destabilizzanti per la gran parte dei regimi politici in questa zona dell’Africa sub-sahariana.
La storia della Repubblica Centrafricana dalla sua indipendenza ad oggi è la storia di uno Stato sconvolto da gravi crisi socio-politiche e militari che ha visto molteplici cambiamenti al vertice del potere esecutivo. Queste instabilità politiche non consentono la messa in atto di istituzioni forti e stabili a garanzia di uno sviluppo sostenibile. Per il tema che ci interessa in questa sede, analizzeremo solo le cause di queste crisi per capire la peculiarità di quella attuale che ha visto la discesa agli inferi di questo paese e la sua caduta nell’anarchia totale.
Ubicata al centro del continente africano tra le latitudini 2° e 11° Nord e 14° e 28° Est, la Repubblica Centrafricana è uno dei paesi più poveri al mondo. Copre 622.984 km2 senza sbocco al mare, con vie d’acqua stagionali e non permanenti. Confina con il Ciad, il Sudan, il Sudan del Sud, la Repubblica Democratica del Congo, la Repubblica del Congo ed il Camerun. Un territorio di 4,5 milioni di abitanti, vasto come la Francia ed il Belgio riuniti. Con una densità di 8,3 abitanti/km2, la popolazione centrafricana è distribuita in modo ineguale, concentrata soprattutto intorno alle aree urbane, e deve fronteggiare oltre alla povertà, gravi problemi legati all’assenza del decentramento dell’autorità dello Stato e dell’emigrazione, causa di un forte esodo rurale.
La crisi politico-militare del già citato 24 marzo 2013 è l’ennesima crisi di questo genere che la Repubblica Centrafricana conosce sin dalla sua indipendenza. La peculiarità, la complessità e l’esplosività di quest’ultima ci porta a cercare le sue cause sia all’interno che all’esterno. Il periodo che noi prendiamo particolarmente in considerazione nell’ambito di questa analisi è quello che va dal 1993 al 2014 a causa delle crisi militari e politiche a ripetizione che ci si sono succedute in questo lasso di tempo.
Le prime elezioni libere e democratiche nella Repubblica Centrafricana sono state organizzate nel 1993. Queste elezioni videro la vittoria di Ange-Félix Patassé contro il Generale André Kolingba che era stato al potere dal 1981 al 1993 in seguito ad un golpe militare che aveva destituito il Presidente David Dacko che nel settembre 1979, con l’aiuto delle forze armate francesi, aveva messo a segno un colpo di Stato contro Jean-Bédel Bokassa, autoproclamatosi imperatore nel 1977, a suo tempo anch’egli sostenuto dalla Francia.
Appena eletto Ange-Félix Patassé vide il suo regime traballare fino all’ammutinamento di una parte dell’esercito centrafricano nel 1996. In realtà Patassé aveva ereditato una situazione socio-politica complicata. La fine del precedente regime di André Kolingba era caratterizzata da tensioni sociali createsi per i piani di aggiustamento strutturale e l’accesso al multipartitismo ed alla democrazia richiesti ai paesi africani dalle Istituzioni di Bretton Woods (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) e dalle potenze occidentali. Queste tensioni erano sopravvissute alle elezioni del 1993. Il paese, per i suoi gravi problemi strutturali, non poteva fronteggiare le richieste dei manifestanti per il rispetto dei loro diritti da parte dello Stato, per una liberalizzazione dell’economia e per il benessere sociale. Le manifestazioni e le dimostrazioni organizzate dalla società civile e dai sindacati si moltiplicarono, né mancarono gli scontri. Nel 1996 ebbe luogo il primo ammutinamento di una parte dell’esercito. Questo fatto segnerà l’inizio di un ciclo di crisi politico-militari che culmineranno poi in due colpi di Stato7 nel 2003 con François Bozizé, contro il Presidente Ange-Félix Patassé, e l’ultimo, nel 2013 con Michel Djotodia, contro François Bozizé.
Il 24 marzo 2013, dopo una lotta di un anno contro il governo di François Bozizé e il fallimento degli accordi di Libreville dell’11 gennaio 2013, la coalizione ribelle Séléka, con forze musulmane e mercenarie, guidata dal diplomatico Michel Djotodia, realizza un colpo di Stato e prende il potere. Michel Djotodia si autoproclama Presidente, sospende la Costituzione, disarma le Forze armate centrafricane ed instaura un Governo di Transizione. Il paese cade nell’anarchia. A questo punto i ribelli Séléka al potere commettono gravi vessazioni contro la popolazione civile in tutta impunità. Si sono osservate scene di massacri, di stupri, di rapine e di saccheggi contro le popolazioni civili indifese ed i loro beni. La coalizione Séléka8 per sua composizione e struttura è risultata essere un gruppo militare eterogeneo. Una volta raggiunto l’obiettivo della presa del potere, gli elementi che la componevano sono tornati sotto il comando dei loro capi che sono dei veri e propri “signori della guerra” o meglio “professionisti della guerra e dei colpi di Stato”. Le vessazioni che hanno commesso e le loro azioni sono sfuggite al controllo del comando centrale militare e del loro capo Michel Djotodia, al potere.
Inoltre, nella loro marcia sulla capitale dal nord al sud, da Birao a Bangui, i ribelli Séléka hanno distrutto tutto quello ch’era rimasto dall’autorità e dell’amministrazione pubblica del paese, con edifici e documenti. Si sono accaniti contro tutti i simboli dello Stato e della sua autorità compromettendo il futuro del proprio stesso paese e con enorme distruzione del patrimonio pubblico. Sono stati saccheggiati comuni, tribunali, prefetture, questure, case e uffici dei rappresentati del governo in ogni paese e città. Per loro lo Stato era cristiano, anche se la Costituzione stabilisce che il Centrafrica è una Repubblica laica. Una parte dei membri della coalizione Séléka, come detto, erano mercenari. Una volta conquistato il potere, questi mercenari dovevano esser pagati secondo gli accordi stipulati. Il mancato rispetto di questi accordi ha fatto sì che questi si sono rivalsi sulla popolazione, sulla ricchezza del paese.
Per l’assenza dello Stato e l’inesistenza delle forze di difesa, i contadini si sono costituiti in gruppi di auto-difesa chiamati “Anti Balaka”9 per difendersi dai massacri, stupri, saccheggi e rapine perpetrati da gruppi di ribelli della coalizione Séléka. I due gruppi si sono affrontati con le comunità alle quali appartengono o dicono di appartenere, ovvero la comunità musulmana e la comunità cristiana. Il conflitto ha assunto così anche un’altra piega, quella religiosa: cristiani da una parte e musulmani dall’altra, oltre i vecchi antagonismi sociali, la povertà, l’esclusione sociale e politica, l’insicurezza e l’instabilità generalizzata!
La coalizione Séléka ha fatto crollare quello ch’era rimasto di un paese che da anni aveva cessato di esistere via via che l’autorità si era concentrata a Bangui senza una politica federalista di decentramento delle istituzioni statali e con un esercito nazionale politicizzato, demoralizzato, mal addestrato e, poiché carente di attrezzature adeguate ed efficaci, non si è potuto impegnare nella difesa dell’integrità territoriale della nazione. Le forze armate centrafricane si sono infatti scompaginate all’indomani del colpo di Stato.
A ben guardare, tre spiegazioni potrebbero essere prese in considerazione per capire il comportamento di parte della coalizione Séléka, dopo aver conquistato il potere e la capitale Bangui: 1) il bottino di guerra; 2) la contestazione di una parte della popolazione musulmana da essa rappresentata e da sempre emarginata ed esclusa socialmente; 3) infine, sotto il profilo politico, il progressivo deteriorarsi dell’autorità dello Stato dopo anni di instabilità militare e politico-sociale, nonché di prevaricazioni etnico-religiose.
Come conseguenza di tale disordine, Michel Djotodia, su pressione della comunità internazionale e dei Governi dell’Africa centrale, è stato costretto alle dimissioni il 10 gennaio 2014.
Oggi la Repubblica Centrafricana, su nomina del Consiglio Nazionale di Transizione, è guidata dalla Presidentessa ad interim Catherine Samba-Panza, cristiana, avvocato ed ex sindaco di Bangui, che dovrà gestire le elezioni democratiche del 2015.
Secondo Sidik Abba, editorialista del giornale «Jeune Afrique», con le sue risorse e le sue potenzialità naturali, la Repubblica Centrafricana potrebbe essere un paese faro in Africa. Tuttavia, con un’economia ancora per l’80% legata all’agricoltura ed alla pastorizia, la Repubblica Centrafricana è un paese povero e debole, ma ricco di risorse naturali come diamanti, oro, legni pregiati per l’ebanisteria, uranio, ed altre risorse naturali non ancora sfruttate o individuate. Inoltre, la sua crescita economica potenziale incontra un serio ostacolo nella mancanza di un’adeguata rete stradale e di un collegamento con il mare sia diretto che indiretto attraverso permanenti vie d’acqua. La maggior parte della sua popolazione vive con meno di 2 dollari USA al giorno. Una popolazione all’interno della quale si vive con pesanti cleavage: ricchi e poveri, urbani e rurali o contadini, città e paesi, istruiti ed analfabeti che creano gravi conflitti interclassisti ed intercomunitari ogni volta che si manifestano tensioni nel paese.
L’odio di cui i musulmani sono ora vittime da parte dei gruppi Anti-Balaka, oltre alla originaria volontà di vendetta, è dovuto anche ad una questione di povertà: uccidere o fare emigrare i musulmani per impossessarsi dei loro beni ed arricchirsi. In effetti, l’economia centrafricana è da sempre in gran parte nelle mani della popolazione musulmana che rappresenta una classe sociale moderatamente benestante.
Quale è l’aspetto della povertà nella Repubblica Centrafricana?
La povertà in questo paese è caratterizzata innanzitutto da una mancanza di opportunità economiche aggravata dalla mancanza di servizi statali, compresi i servizi sociali. L’agricoltura ed il piccolo bestiame, principali fonti di reddito e di attività su tutto il territorio, soffrono sia dell’insicurezza delle colture, dei conflitti con i transumanti, della scarsa qualità e mancanza di importazioni (semi, fertilizzanti, ecc.), nonché dell’assenza di opportunità di commercializzazione. Il tutto anche per la mancanza di accesso al mare del paese. Ci sono altre attività economiche come l’artigianato e la pesca, ma rimangono fenomeni marginali. Molte regioni soffrono dell’assenza o del malfunzionamento delle infrastrutture di collegamento (strade e fiumi) primarie e secondarie, del collegamento al mare anche per via fluviale, nonché delle fonti di approvvigionamento energetico.
L’altro aspetto della povertà centrafricana si scopre nei servizi sociali di base. A questo livello, infatti, l’analisi dell’accesso all’istruzione ed ai servizi sanitari dimostra che c’è una disuguaglianza spaziale con una quasi-assenza di tali servizi fuori della capitale. Le attività svolte in questo campo dalle strutture religiose e da alcune ONG internazionali sono marginali rispetto alle esigenze generali. Negli ultimi anni, l’istruzione primaria ha registrato diversi anni di fermo o “in bianco”, a causa della cattiva gestione del corpo insegnante (mancato pagamento degli stipendi e di budget di funzionamento). I centri sanitari sono in gran parte inoperanti o abbandonati per le stesse ragioni e per la cronica mancanza di attrezzature. L’accesso all’acqua rimane problematica, nonostante le risorse idriche del paese, per assenza di infrastrutture e di gestione dell’approvvigionamento.
A questa situazione generale si aggrega quella, speciale, dell’estrema precarietà di una popolazione crescente di sfollati interni a causa delle ostilità dei ribelli e le esazioni dei roadblockers o banditi. La combinazione di questi diversi elementi si traduce in un continuo deterioramento degli indicatori sociali che si riflette direttamente sulla classifica del paese nel mondo, secondo l’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite. La qualità e lo stato delle infrastrutture economiche e sociali di base sono tali che circa il 70% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. La Repubblica Centrafricana è classificata così al 171° posto su 175 paesi e gli indicatori sociali sono in costante deterioramento.
Oggi è in questa situazione di assenza o di precarietà dello Stato, di povertà aggravata, di insicurezza o di instabilità cronica e di mancanza di governance che la Comunità internazionale è chiamata ad intervenire per non lasciare peggiorare le cose. Occorrerebbe un intervento efficace che possa mettere decisamente questo paese arretrato sui binari di uno sviluppo effettivo e sostenibile. La situazione di insicurezza nel paese è un fattore che innesca ed aggrava la sua povertà e vulnerabilità. Al contrario, investire nella crescita economica e nello sviluppo civile è un fattore limitante di questa insicurezza. Deve costituirsi un solido legame tra crescita e sicurezza, accompagnato da un minimo di stabilità politica in questo paese, perché possa essere garantito il suo sviluppo complessivo. Su questi obiettivi primari deve investire la cooperazione internazionale nell’Africa centrale oltre che nella Repubblica Centrafricana.



4. Pace e sicurezza in Centrafrica per la stabilità e lo sviluppo sostenibile di tutta l’Africa Centrale

Per quanto evidenziato in precedenza, non dovrebbero sussistere alibi perché la Comunità internazionale metta in atto interventi idonei a risolvere definitivamente la crisi umanitaria degradante, presente attualmente nel cuore dell’Africa. La Repubblica Centrafricana è praticamente un paese che non esiste. Non si può più tollerare che la questione centrafricana sia considerata una questione esclusivamente africana che ostacola il cammino dell’area centro africana verso la stabilità e lo sviluppo sostenibile. Bisogna agire ed agire bene. Perciò la Comunità internazionale deve prendere piena coscienza dov’è chiamata ad intervenire e conoscere bene le realtà locali. Essa deve contribuire effettivamente all’affermazione dello Stato centrafricano come Stato sovrano, libero ed indipendente, e di conseguenza, alla piena restaurazione del potere dei suoi organi politici istituzionali su tutto il territorio nazionale, che sola può che avere effetti benefici per la popolazione nel suo insieme. In vista degli obiettivi del millennio, individuati in sede ONU, è imperativo elaborare un efficiente programma di sviluppo per questo paese, che includa anche la soluzione dell’accesso al mare, e per tutta la regione dell’Africa centrale, poiché ormai, con questa ennesima crisi, il raggiungimento dei detti obiettivi del Millennio per la Repubblica Centrafricana è realmente compromesso. Le vere politiche e strategie per lo sviluppo sostenibile di questo paese dipenderanno dall’efficacia delle azioni dei suoi partner allo sviluppo in collaborazione con i suoi dirigenti.



4.1 Gli aiuti della Comunità internazionale

Quali potrebbero essere i pilastri d’intervento della Comunità internazionale in Centrafrica? Potremmo enumerare quelli di assoluta urgenza che sono:
• Sicurezza ed umanitario.
• Politico e sociale.
• Finanziario ed economico.

Da quanto esposto, emerge che la crisi centrafricana è molto complessa ed è rappresentativa della condizione della parte centrale del continente africano. Gli sforzi della Comunità internazionale per fronteggiare e risolvere le tensioni in tale area, devono essere canalizzati indiscutibilmente nelle tre suindicate direzioni: 1) sicurezza e umanitaria; 2) politica e sociale; 3) finanziaria ed economica.



4.1.1 Interventi per la sicurezza e l’umanitario

L’insicurezza e l’assenza dello Stato in Centrafrica, aggravate dalla presa del potere da parte della coalizione Séléka, hanno avuto come conseguenza diretta una crisi umanitaria molto grave. Gli elementi indicati in precedenza mostrano e testimoniano tale gravità. La popolazione ha urgente bisogno di assistenza sanitaria e psicologica per i traumi subiti, di acqua potabile, di cibo e di protezione. È pregiudiziale creare dunque un corridoio umanitario per rifornire direttamente la popolazione di medicinali e viveri, utilizzando le rappresentanze locali. L’imperativo, dunque, è creare le condizioni affinché la sicurezza sia stabilita in tutto il paese, permettendo così agli aiuti umanitari di essere recati presso le popolazioni, che in certe parti del paese, sono in fuga nelle foreste da oltre un anno.
Risolvere la questione della sicurezza consentirà la ripresa delle attività socio-economiche, garanzia di sviluppo. I conflitti centrafricani che erano interni all’inizio hanno rivestito poi in questi ultimi anni un carattere regionale.
Il 5 dicembre 2013 è stata approvata all’unanimità, ai sensi del Capitolo VII, artt. 39-51, della Carta delle Nazioni Unite, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizza l’intervento militare della Francia al fianco di una missione africana MISCA in Centrafrica. Questa risoluzione prevede la restaurazione dell’ordine sull’insieme del territorio centrafricano, un embargo sulla vendita delle armi da guerra in Centrafrica ed infine l’invio dei Caschi blu dell’ONU.
Forte di questo mandato dell’ONU, le Forze internazionali in Centrafrica hanno immediatamente iniziato il disarmo pacifico o forzato di tutti coloro che sono in possesso di armi da guerra nel paese, per poi smobilizzarli e reinserirli nella società. È auspicabile che la Francia, la Comunità internazionale, i partner allo sviluppo della Repubblica Centrafricana possano condividere questo impegno. Non basta un sostegno morale, occorre un impegno materiale, logistico e finanziario effettivo e permanente.
La sicurezza dell’Europa si gioca in Africa, per ridurre i flussi migratori alla spicciolata10 provenienti da questo continente e le immancabili tensioni nell’àmbito dell’Unione Europea (U.E.) di questi ultimi anni. Ridurre la pressione dell’immigrazione clandestina può comportare, anche sotto il profilo finanziario e non solo umanitario, un risparmio notevole per l’U.E. È essenziale che l’Europa e l’Occidente si impegnino seriamente, efficacemente e concretamente nella risoluzione dei conflitti armati africani. L’Unione Europea è il primo partner allo sviluppo della Repubblica Centrafricana, occorrerebbe da parte sua, attraverso la missione EUFOR-RCA11, un impegno articolato sul piano militare, civile, formativo per la sicurezza di questo paese. Una sensibilizzazione dell’opinione pubblica e politica europea sarebbe doverosa in questo senso.
La missione EUFOR-RCA dovrebbe prevedere che tutti coloro i quali saranno disarmati e che non risulteranno essere cittadini Centrafricani dovranno essere ricondotti nei loro paesi di origine, con opportuni interventi di reinserimento sociale. A tal fine occorrerà anche la collaborazione e la cooperazione di tutta una serie di Stati. Coloro che saranno ritenuti come autori o coautori di crimini di guerra in Centrafrica dovranno essere giudicati e puniti in conformità alla legge di questo paese o al diritto internazionale. In alternativa, potrà ipotizzarsi, per i cittadini centrafricani coinvolti, la costituzione di una “Commissione per la Verità e la Riconciliazione”, come realizzata in diversi Stati dopo dittature, terrorismo di Stato, violazione dei diritti umani, ecc., sotto il patrocinio internazionale. La condizione per beneficiare dell’amnistia e del reinserimento sociale dovrà essere la piena confessione dei crimini perpetrati12.
Quando sarà costituito un nuovo ed efficiente esercito in Centrafrica, le forze armate di tutti i paesi dell’Africa centrale dovranno creare una rete di sicurezza regionale per proteggere le frontiere e lottare contro i traffici transfrontalieri di armi e contro i banditi che circolano da un paese all’altro. Una polizia regionale sarebbe da costituire e da addestrare con la collaborazione della U.E. Dato il fallimento degli interventi militari in questi ultimi anni, a causa del suo mancato finanziamento e sostegno materiale e logistico oltre che il suo rifornimento di uomini, la CEEAC13 ed i partner allo sviluppo devono impegnarsi per trovare i mezzi e mettere in piedi tale forza armata, auspicabilmente dotata di sensibilità democratica. Soprattutto andrebbero individuati i mezzi per stimolare l’interesse locale, anche economico, a favorire questo processo.
Le forze africane che costituiscono la MISCA14 devono avere anche loro un mandato chiaro. Che il loro coinvolgimento per la soluzione della crisi centrafricana debba essere considerato come un bene per tutto il continente e possa essere imparziale. In passato, alcuni soldati africani in missione a Bangui non furono imparziali. Un esempio eclatante fu quello dei soldati del Ciad che favorirono i ribelli della coalizione Séléka, forse per comune orientamento religioso. Occorre dunque una forza panafricana indipendente e credibile in Centrafrica per non ripetere gli errori di questi ultimi due decenni.
L’impegno della Comunità internazionale per la sicurezza della Repubblica Centrafricana non deve concludersi con la semplice creazione di un corridoio umanitario, esente da interferenze militari di Séléka e di Anti-Balaka, per risolvere l’attuale crisi umanitaria, ma prolungarsi nel tempo affinché la stabilità di questo paese possa essere effettiva. La Comunità internazionale sarà in grado di chiudere questo capitolo d’intervento, solo quando le frontiere saranno messe in sicurezza, e quando, in collaborazione con le autorità del paese, si costituirà una nuova ed efficace forza repubblicana in grado di difendere la nazione e il suo popolo.
Vista la dimensione regionale della crisi centrafricana, sarebbe il caso di riflettere e condividere una strategia per una soluzione concertata e un approccio globale nella risoluzione dei conflitti nel centro Africa, a prescindere dalla forma prevista o approccio adottato. Infatti, se le minacce, le crisi ed i conflitti ignorano le frontiere e rivelano un carattere transnazionale, i meccanismi di contrasto dovrebbero avere anch’essi un carattere transnazionale, e quindi svilupparsi in un insieme sub-regionale o regionale. A questo proposito, i meccanismi sub-regionali per la prevenzione e la regolamentazione, come i Consigli di Pace e di Sicurezza (COPAX)15 della CEEAC e il recente “Patto di non-aggressione, della Solidarietà e dell’Assistenza reciproca” della CEMAC16 dovrebbero essere favoriti.
Inoltre, la situazione attuale in Centrafrica è un vero banco di prova per l’architettura di pace e sicurezza di tutta l’area dell’Africa centrale. Se le organizzazioni africane hanno potuto schierare una forza attraverso la MISCA, purtroppo quest’ultima non è in grado di svolgere appieno la sua missione. È quindi necessario inventare una partnership ad hoc innovativa con le Nazioni Unite, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Francia per compensare urgentemente questo deficit di capacità. Infatti, più di dieci anni dopo la creazione dell’architettura di pace e di sicurezza dell’Unione africana con l’appoggio della comunità internazionale, si deve riconoscere che in Centrafrica, la soluzione africana richiesta da tutti non si attuerà mai senza un supporto esterno più intenso e più veloce. In questo senso bisognerebbe mettere in atto dei meccanismi U.E.-Africa per l’attuazione delle risoluzioni emerse dai dibattiti al 4° vertice U.E.-Africa tenutosi a Bruxelles dal 2 al 3 maggio 2014 sul tema: “Investire nelle persone, prosperità e pace”.
Per lo sviluppo di qualsiasi paese la stabilità, la sicurezza e la libera circolazione dei beni e delle persone sono più che necessarie e fondamentali. I partner allo sviluppo della Repubblica Centrafricana dovrebbero d’ora in poi tener conto di questo imperativo, affinché possano essere pensate ed elaborate, in cooperazione con le sue autorità attuali e future, giuste, efficaci ed efficienti politiche e strategie per il suo sviluppo e la sua integrità.



4.1.2 Interventi in ambiti politici e sociali

La crisi centrafricana ha rivelato la realtà di una classe politica corrotta ed irresponsabile. Le élite centrafricane sono nella loro maggioranza claniche. In effetti, la politica centrafricana è caratterizzata dal tribalismo, dalla corruzione, dalla demagogia e dalla mancanza di una buona gestione della cosa pubblica. I partner allo sviluppo, dovrebbero d’ora in poi cercare di puntare sull’educazione, sullo sviluppo sostenibile e sulla buona amministrazione dello Stato in questo paese. Bisogna creare le condizioni per l’instaurazione di una democrazia valida e condivisa. Per questo una campagna di sensibilizzazione, informazione e formazione della classe dirigente e politica della Repubblica Centrafricana sarebbe più che mai necessaria e salutare. Ci vorrà del tempo, della pazienza e delle energie per arrivare a questo risultato. Il nuovo governo Séléka, su pressioni internazionali, ha nominato un Consiglio Nazionale di Transizione che ha stabilito in 18 mesi il periodo per giungere alle nuove elezioni democratiche. In realtà, un periodo di 18 mesi è del tutto insufficiente per questo paese, dove tutto è da ricostruire, a partire dal censimento e dalla ricostituzione dell’anagrafe della popolazione. Lavorare per la creazione e l’instaurazione delle istituzioni, anche di tipo federale, stabili e solide in Centrafrica sono garanzie per lo sviluppo e per la modificazione della mentalità degli uomini. È necessaria un’ingerenza della comunità internazionale nella politica interna centrafricana nell’interesse del suo popolo, perciò le politiche come quelle promosse dalle Istituzioni di Bretton Woods sul finire degli anni ’90 del secolo scorso dovrebbero essere integrate, in quanto la lotta alla corruzione nell’amministrazione pubblica deve essere accompagnata e sostenuta come obiettivo primario, parallelamente alla costituzione di strutture democratiche.
Una democrazia condivisa in Centrafrica potrebbe anche essere realizzata con un percorso che ne limiti temporaneamente la sovranità sotto un controllo internazionale affidabile, attraverso la formazione di un capitale umano e la valorizzazione delle forze endogene in grado di promuovere e sostenere un nuovo modello di governo. Il deficit democratico centrafricano è anche dovuto all’arretratezza ed alla carenza di istruzione della popolazione che è in maggioranza analfabeta. Investire considerevolmente per l’istruzione di questo popolo significherebbe gettare la base del suo sviluppo. Come disse Nelson Mandela, nel 1997, in uno dei suoi discorsi «l’istruzione e la formazione sono le armi più potenti per cambiare il mondo». Un sistema scolastico centrafricano pensato ed elaborato in funzione della realtà culturale ed ambientale del paese è da auspicare. Questa crisi ha evidenziato l’esistenza di una popolazione estremamente divisa, lontana dal costituirsi in unico popolo, per cui il primo impegno risulta essere l’educazione alla riconciliazione ed alla pace e riconoscersi in un’unica entità civile, cioè in una collettività condivisa, ricca di diversità positive.
Pace e riconciliazione sono le priorità sulle quali i partner allo sviluppo della Repubblica Centrafricana dovrebbero investire per ricompattare questa società tanto divisa, anche per questioni confessionali. Coinvolgere le competenze della Comunità di San Egidio sarebbe un contributo efficace in questo senso, visti i risultati ottenuti in paesi come il Mozambico. Anche l’organizzazione di un vero dialogo nazionale con l’instaurazione delle Commissioni per la verità e la riconciliazione potrebbe velocizzare il cammino verso la ricerca della pace e della riconciliazione. La giustizia dovrà anche fare il suo corso, affinché non ci siano impunità. Con la distruzione delle anagrafi, attuate nei conflitti, sarà necessaria un’amministrazione capace di fare un lavoro accurato di censimento per risolvere questo problema, prima dell’organizzazione delle future elezioni. In proposito, l’analogo esempio della Costa d’Avorio potrebbe servire da linea guida per l’amministrazione centrafricana.
Il legame di sangue e quello culturale che unisce i centrafricani tra di loro e l’uso unico della lingua ufficiale, locale e nazionale, la lingua Sango, che caratterizza la Repubblica Centrafricana tra gli altri popoli dell’Africa centrale sono i fattori determinanti che potrebbero essere promossi per la riconciliazione, la pace e la risoluzione di questo conflitto.
Ci sarà molto da fare sul piano politico e sociale ora e dopo l’attuale crisi in Centrafrica. La Comunità internazionale dovrà evitare di commettere gli stessi errori e l’indifferenza del passato che hanno causato l’arretratezza di questo paese “cuore” dell’Africa.



4.1.3 Aiuto finanziario ed economico

La realtà economica della Repubblica Centrafricana in questi ultimi anni si comprende bene dalle seguenti indicazioni17:
• PIL (nominale): 2.172 milioni di $ (2012) (162° posto).
• PIL pro capite (nominale): 480 $ (2012) (180° posto).
• PIL (PPA): 3.849 milioni di $ (2012) (163° posto).
• PIL pro capite (PPA): 851 $ (2012) (179° posto).
• ISU (2011): 0,343 (basso) (179° posto).

Da questi indici si capisce che la Repubblica Centrafricana è uno dei paesi più poveri del pianeta. Con la crisi attuale la sua situazione economica si è ulteriormente deteriorata. Un sostegno al bilancio di questo paese sarebbe più che salutare per riavviare la macchina economica centrafricana e permettere ad un Governo di Transizione, indipendente, di realizzare programmi prestabiliti e concordati con la Comunità internazionale. A tal fine, il risanamento delle finanze pubbliche e la lotta alla corruzione sono fattori preliminari delle politiche da portare avanti in questo paese.
La Repubblica Centrafricana è un paese senza sbocco al mare. La sua economia dipende molto dagli scambi commerciali che ha con i suoi vicini. La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale (CEEAC) di cui fa parte la Repubblica Centrafricana deve mettere in atto una sua politica di integrazione economica con la cancellazione di una parte dei dazi doganali per consentire alla fragile economia di questo paese di respirare e svilupparsi. In questo quadro di interventi occorrerebbe garantire il suo accesso al mare, anche con l’internazionalizzazione delle vie d’acqua, rese navigabili, e permanenti, nonché esenti da oneri doganali. Il bilancio dei pagamenti del Centrafrica è sempre in disavanzo. Le materie prime esportate non bastano a compensare il fabbisogno in beni e servizi di prima necessità della popolazione. L’agricoltura arretrata, che occupa l’80% della popolazione, è un’agricoltura di sussistenza. I partner allo sviluppo di questo paese devono sostenere l’impegno per la sua modernizzazione. Per arrivare a sostenere il fabbisogno di cibo della sua popolazione, la Repubblica Centrafricana ha bisogno di un’agricoltura moderna, sia intensiva che estensiva, nonché della relativa rete di distribuzione idrica per far fronte alla stagione secca che qui dura circa sei mesi.
Insomma, per un accompagnamento forte, un impegno efficace e di qualità, la Comunità internazionale va chiamata urgentemente al capezzale di un Centrafrica agonizzante, seguendo la regola del coordinamento, della complementarità e della trasparenza nelle sue azioni, in base ed attuando i tre pilastri sopra indicati. La crisi centrafricana è la conseguenza di tutto ciò che non è stato fatto o è stato tralasciato nelle strategie e politiche di sviluppo nei paesi del centro dell’Africa, soprattutto a livello della sicurezza e dell’integrazione economica regionale. Riuscire a creare le condizioni di una stabilità politica, economica e sociale in questa zona dell’Africa è un guadagno per lo sviluppo non solo dei relativi Stati, ma dell’Africa in generale e poi della stessa Europa.



5. Conclusione

Oggi la Repubblica Centrafricana è uno Stato allo sbando che contribuisce all’instabilità dell’intera regione. La sua posizione geografica, in una zona di generale e permanente instabilità politico-militare e sociale, potrebbe invece rappresentare l’asse portante dello sviluppo del continente. La costruzione di uno Stato forte, sovrano, stabile e prospero nella, per ora solo nominale, Repubblica Centrafricana sarebbe una garanzia per una generale stabilità e sviluppo. La crisi centrafricana è nazionale, ma la sua soluzione è internazionale, i vantaggi indotti potrebbero essere generali. Posto nel centro del continente africano, come il cuore in un corpo, la salute della Repubblica Centrafricana interagisce con la stabilità e lo sviluppo dei paesi confinanti. Per questo la Comunità internazionale e regionale dell’Africa centrale sono chiamate ad essere complementari nella ricerca delle soluzioni al problema centrafricano.
Date le origini e l’impatto regionale della crisi centrafricana, la risoluzione di tale impasse ha come mezzo la cooperazione allo sviluppo. La situazione politico-militare della Repubblica Centrafricana è il risultato dell’inerzia e dell’assenza di un interesse di fondo e costante che la Comunità internazionale ha sempre dimostrato per questa parte del mondo. I conflitti armati nel mondo in generale ed in Africa in particolare sono veri ostacoli allo sviluppo sostenibile del pianeta ed in particolare dell’Europa. Trovare insieme le vie ed i mezzi efficienti per risolverli sarebbe l’inizio di una vera ed efficace cooperazione internazionale allo sviluppo anche per curare all’origine sia le ragioni delle spinte migratorie di quella parte della popolazione africana che può pagare almeno il prezzo del transito verso la speranza, sia la piaga di coloro che sono destinati a restare nella povertà e nella fame.








NOTE
1 Testo della relazione prodotta per il Convegno “Cooperazione italiana allo sviluppo: semestre europeo, Expo e Agenda post 2015” tenuto il 4 giugno 2014 presso l’Università La Sapienza di Roma.^
2 “Séléka” in lingua Sango, una delle due lingue officiali della Repubblica Centrafricana, significa “alleanza”.^
3 Detta anche Conferenza dell’Africa Occidentale o Conferenza sul Congo.^
4 G. Giusti, nella poesia “Sant’Ambrogio”, così bolla la politica imperiale austriaca nella prima metà del XIX secolo.^
5 Cfr. di Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2000.^
6 In effetti, risulta che in molti paesi dell’Africa centrale un’ora di collegamento internet, peraltro lento, costa circa 2 USD, a fronte di un reddito giornaliero pro capite inferiore a 2 USD. Resta da accertare quanto il detto costo risponda anche ad interessi politici locali.^
7 Sono quelli che hanno portato a cambiamenti di regime. Ci sono stati ben altri che non hanno avuto successo come quello di André Kolingba, Jean Jacques Demafouth e François Bozizé nel 2001.^
8 Costituito nel settembre 2012 al nord della Repubblica Centrafricana, il gruppo “Séléka” ha rappresentato una coalizione di tre principali gruppi ribelli centrafricani CPJP, CPSK e UFDR che dal 2005 hanno iniziato a combattere contro il potere di François Bozizé. Il mancato rispetto degli accordi politici siglati con quest’ultimo ha rappresentato la loro rivendicazione principale, oltre il richiamo al Governo ad interessarsi delle sorti delle popolazioni del nord del paese emarginate dal potere centrale. Queste popolazioni del nord della Repubblica Centrafricana sono, infatti, a maggioranza musulmana, mentre il sud, dove è collocata la capitale Bangui, è cristiano. Il nord centrafricano è confinante con i paesi musulmani come il Ciad ed il Sudan. Oltre che a reclutare i suoi elementi nelle popolazioni locali, la coalizione ribelle Séléka ha beneficiato dell’apporto dei mercenari musulmani originari di questi due paesi frontalieri. Le guerre del Darfour e del Sudan del Sud ed i conflitti ciadiani degli anni passati hanno permesso la circolazione di armi da guerra e la costituzione di bande armate in questa zona che sfugge al controllo dello Stato a causa dell’assenza effettiva dell’amministrazione e dell’autorità dello Stato. I bracconieri e i banditi ci si sono installati contribuendo all’instabilità politico-sociale del paese. Un “no man’s land” si è instaurato, quindi, in quest’area con il deterioramento progressivo dal 1996 ad oggi della sicurezza ed il venire meno dell’autorità e della sovranità dello Stato centrafricano, come in altri analoghi casi in questo immenso territorio dell’Africa centrale.^
9 Questa denominazione viene dall’espressione francese “Anti balla AK 47”. I membri di questa milizia assumono i rituali tradizionali e con gli amuleti di cui si coprono si ritengono invulnerabili contro le pallottole dell’arma di guerra AK 47. Combattono, infatti, con armi di fabbricazione artigianale e con i machete.^
10 L’immigrazione clandestina in Italia, da tutti i paesi del globo, è aumentata dell’800% nell’ultimo anno.^
11 Il Consiglio europeo ha stabilito il 10 febbraio 2014 un’operazione militare dell’UE per contribuire ad un ambiente sicuro nella Repubblica Centrafricana, come autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nella risoluzione 2134 (2014). Questa decisione crea la base giuridica per l’azione denominata EUFOR-RCA.^
12 Cfr., A. Krog, Terra del mio sangue, Roma, Nutrimenti, 2006.^
13 Communauté Economique des Etats de l’Afrique Centrale.^
14 Mission Internationale pour la Centrafrique.^
15 Conseil de Paix et de Sécurité.^
16 Communauté Economique et Monétaire de l’Afrique Centrale.^
17http://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_Centrafricana^
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