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Asterischi
di Giuseppe Galasso
BOBBIO - «Sempre affascinato, mai convinto»: così scriveva Norberto Bobbio in una sua pagina del 1969, ora nei suoi Scritti su Marx, testi inediti pubblicati da Cesare Pianicola e Franco Sbarberi (ed. Donzelli). È, come si vede, una notazione autobiografica di ordine, più che altro, psicologico, ma non è solo questo. È, anzi, il succo del problema che Marx costituì per lui.
Nella stessa pagina egli notava che l’interesse per Marx si era acceso soprattutto in tre momenti della sua vita: l’«antifascismo militante» a Padova nel 1941-42, la «ricostruzione» post-bellica nell’Italia del 1945-1950 e la «crisi universitaria» del 1968. Per il resto della sua vita avrebbe potuto di certo segnalare un quarto momento: il crollo del «comunismo reale» e l’eclisse dell’idea marx-comunistica dal 1989 in poi.
Gli editori di questi scritti e appunti – che, tra l’altro, ci introducono un po’ nel laboratorio, nell’officina intima della sua riflessione e ci offrono nuovi particolari e inflessioni del Bobbio politico e filosofo della storia e della politica – insistono, a ragione, sul liberalsocialismo quale caratteristica di fondo del pensiero politico di Bobbio, nella scia di Carlo Rosselli e in ideale continuità con la sua adesione al Partito d’Azione. Opportuna è, perciò, la loro citazione dall’introduzione, del 1994, a un volume sul liberalsocialismo, che merita di essere letta in rapporto non solo agli interessi marxiani di Bobbio, bensì anche alla fisionomia più propria dell’anima, direi, ancor prima e più che della letterale formulazione, del suo pensiero politico. Quanto ai problemi di libertà e di uguaglianza del nostro tempo, egli affermava, «se vogliamo dire che i due problemi rinviano, il primo, alla dottrina liberale, il secondo, a quella socialista, diciamolo pure. Ma io mi riconosco meglio, anche emotivamente, nel motto “Giustizia e Libertà”», ossia nel motto formulato da Rosselli, che fu lo slogan ideologico del Partito d’Azione.
Sennonché, proprio da qui emerge, fra l’altro, l’impulso ideologico e politico che portò Bobbio alla sua tormentata, ininterrotta e ammirevole riflessione sul socialismo quale problema-cardine della politica e del pensiero contemporaneo. A leggere, anzi, gli scritti qui raccolti ci si può anche chiedere se lo stesso suo interesse per Marx non sia da leggere – oltre che alla luce dei suoi interessi filosofici e politici più volte messi in luce da varii studiosi e qui ricordati dai due editori nell’introduzione – anche in rapporto alla parte imponente di Marx nello sviluppo del movimento e del pensiero socialista. Egli lo lascia intravvedere qui fin dall’inizio, ad esempio, dell’appunto su Il marxismo teorico in Italia, del 1958. «Tentativi falliti» egli giudica qui quelli di Gobetti e Rosselli di «un inserimento della tradizione liberale nel movimento operaio, e un distacco del socialismo dal marxismo». Difficile, dunque, staccare il socialismo dal marxismo: punto che distingue alquanto Bobbio dalle correnti liberali e democratiche più tipiche del pensiero politico italiano, e lo mette in una singolare posizione intermedia fra l’area «laica» e quella socialista della nostra democrazia.
Un’area non comoda per lui che si trovò a muoversi con ricorrenti difficoltà fra due settori di fatto antagonisti, e con un disagio che, quanto a Marx, trovò una felice espressione nel titolo di un altro volume di suoi scritti marxistici: Né con Marx, né contro Marx. Difficoltà e disagio che non attenuarono, peraltro, il suo interesse per Marx neppure dopo il 1989. Anche se fin da un altro interessante scritto del 1946, ora edito, egli citava Rosselli per affermare che era «venuto il momento di dissociare il socialismo e il marxismo», riducendo quest’ultimo soltanto a «una delle molteplici teorie del movimento socialista», questa dissociazione egli poi non la praticò mai davvero. Ritenne, anzi, alla fine, che del pensiero di Marx fossero destinati sempre a sopravvivere almeno due punti, e cioè, scriveva a Sylos Labini nel 1991, «il primato dell’economia sulla politica e sull’ideologia» e «il processo di mercificazione universale prodotto dall’universalizzazione del mercato»: due punti che il nostro pensiero liberaldemocratico riteneva fra i meno accettabili di Marx e, ancor più, del marxismo.
Valgano queste poche notazioni a indicare l’interesse degli scritti marxistici di Bobbio ora editi. Un maestro tormentato, ma autentico e di grande spessore, che può riuscire non abbastanza illuminante o persuasivo quanto a soluzioni e risposte specifiche e nette ai problemi che si pose, ma che, senza contare la ricca serie di studi e di insegnamenti che ne fanno uno dei nostri maggiori studiosi e pensatori del suo tempo, continua a mantenere largamente la sua forza di sollecitazione e di suggestione sia teoretica che etico-politica.



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PHELIPE VI DI SPAGNA - Il principe Filippo di Borbone diventerà, dunque, anticipatamente, il re Filippo VI di Spagna. Il re Juan Carlos, primo re di Spagna a portare un doppio nome (come avvenne per il papato con Papa Luciani, Giovani Paolo I) è stato, a giudizio di tutti, un buon re. Degli scandali in famiglia, le sue accentuate propensioni agli incontri con belle donne, le ostentazioni fotografiche del lato B di qualche principessa e altri elementi hanno annacquato la sua reputazione, ma, ugualmente a parere di tutti, non ha offuscato o annullato la sua reputazione di sovrano che ha mantenuto e garantito, per tutto quanto gli era possibile e gli competeva, lo sviluppo democratico del paese. Lo si è visto costantemente, e in particolare nel passaggio dalla lunga dittatura di Franco e in più di qualche momento difficile della vita politica del paese. A meno che, naturalmente, non venga fuori che l’abdicazione c’è stata per motivi diversi da quelli strettamente personali che appaiono quelli, sia pure assai vagamente e indirettamente, indicati dal re abdicante. Speriamo, tuttavia, soltanto che non lo si proclami, come ormai pare di rito, «re emerito».
Filippo VI è nipote di Alfonso XIII, che esulò nel 1931 per il risultato delle elezioni spagnole di quell’anno, che indicavano una netta prevalenza delle sinistre. Nacque allora la Repubblica spagnola, contro la quale cinque anni dopo, nel luglio 1936 vi fu il pronunciamento, ossia la ribellione militare, che dopo tre anni di un’aspra guerra civile (con un milione di morti, all’incirca!) si concluse nel 1939 con la vittoria di Franco. Questi governò poi il paese con pieni poteri e quale «capo dello Stato» fino alla sua morte il 20 novembre 1975. Già il 14 dicembre 1969 egli aveva fatto svolgere, però, un referendum, per cui si decideva che alla fine del vigente ordinamento franchista sarebbe stata restaurata la monarchia. Il 22 luglio 1969 aveva in più designato il sovrano che doveva salire al trono nel principe Juan Carlos, che aveva già fatto venire in Spagna fin dal 1961, insediandolo a Madrid nel palazzo reale della Zarzuela, con una chiara indicazione preliminare.
Il principe Filippo è stato il solo maschio dei tre figli di Juan Carlos, e il nome datogli dal padre era una chiara espressione della restaurata monarchia di ricollegarsi alle tradizioni della grande Spagna del passato. Il Filippo precedente era stato Filippo V, pronipote di Luigi XIV di Francia, il Re Sole, che nel 1701 inaugurò in Spagna la dinastia borbonica e regnò fino al 1746. Figura un po’ singolare di sovrano, nel 1724 aveva abdicato a favore del figlio Luigi, che fu re solo, però, per meno di un anno. Il padre, sollecitato fortemente anche dalla sua seconda moglie, Elisabetta Farnese, volle tornare sul trono e facilmente vi riuscì.
Per noi meridionali fu Filippo V – non il suo primogenito di secondo letto, Carlo, nel 1734 – il primo sovrano Borbone. Sia il regno di Napoli che quello di Sicilia (così come la Sardegna e Milano) appartenevano allora alla Corona spagnola, e lo restarono fino al 1707, quando le vicende della politica europea fecero passare prima Napoli e poi la Sicilia (che dal 1714 al 1720 fu assegnata ai Savoia) agli Asburgo di Vienna, ramo collaterale degli Asburgo che regnarono in Spagna nel ’500 e nel ’600. E alle stesse vicende della politica europea, in cui i popoli non contavano, si dovette nel 1734 l’avvento ai troni di Napoli e di Sicilia di Carlo, figlio di Filippo V e della Farnese, come si è detto. Poi Carlo passò nel 1759 al trono di Spagna, riservato ai figli di primo letto di Filippo V, che erano, però, rimasti senza eredi diretti, e lasciò a Napoli il figlio Ferdinando, suo terzogenito, IV di Napoli e III di Sicilia, prima di diventare nel 1816 Ferdinando I delle Due Sicilie, il regno da lui allora istituito in considerazione di quelli che egli riteneva i suoi interessi politici.
Ma Filippo V può essere ricordato da noi napoletani anche per un’altra ragione. Egli fu, infatti, il solo sovrano, nei duecento anni dell’appartenenza del Regno alla Spagna, a recarsi a Napoli, dove solo l’imperatore e re Carlo V si era recato nel 1535-36. La visita di Carlo V, che percorse il regno a piedi dalla Calabria alla capitale, nella quale si trattenne per circa tre mesi, era stata memorabile per i suoi fasti mondani e per una serie di ragioni politiche di primaria importanza. La visita di Filippo V nel 1701, che durò dall’Epifania per un paio di mesi, fu più breve e meno fastosa, ma fu anch’essa importante; e giovò, fra l’altro, a consolidare il già sussistente orientamento filo spagnolo delle classi dirigenti del Mezzogiorno e a preparare il fallimento nel successivo settembre della cosiddetta «congiura di Macchia», che fu splendidamente narrata anche dal Vico, e che era volta a dare il trono di Napoli agli Asburgo di Vienna (che poi lo ebbero nel 1707, per le solite vicende della politica europea).



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PIAZZA MERCATO - Piazza Mercato, tra le chiese di Sant’Eligio e del Carmine, è stata fra le più belle di Napoli finché dopo l’ultima guerra un orribile mostro edilizio ne ha sbarrato la prospettiva dell’intero lato sul mare e alterato misure e volumi della sua delicata armonia, in pittoresco contrasto coi rumori del mercato e il gridare e agitarsi di una folla innumerevole. Inclusa nelle mura nel 1270, fu sempre teatro di fatti storici memorabili. Nel 1268 vi fu decapitato Corradino di Svevia. Nel 1799 vi furono impiccati molti «patrioti» della Repubblica. In mezzo vi fu Masaniello, poiché la piazza fu la vera base di azione di quel giovane tribuno, che vi arringava la folla e ne indirizzava gli umori e le azioni, dopo aver iniziato la rivolta che per nove mesi fece temere alla Spagna di perdere Napoli, uno dei suoi più importanti possessi europei. Masaniello, però, ne vide solo i primi dieci giorni, dal 7 al 17 luglio 1647. In quei giorni Masaniello oscillò fra buon senso e moderazione ed eccessi furiosi e incoerenti. In ultimo appariva dispotico e scriteriato. Era stato avvelenato? L’enorme potere cascatogli in mano lo aveva tratto fuor di senno? Non lo sapremo mai. Certo, fu gente della sua parte a ucciderlo a tradimento nel dormitorio della chiesa del Carmine, dove dopo la festa della Madonna il 16 luglio si era ritirato. Cinque giorni dopo se ne fecero trionfali funerali, presenti le maggiori autorità, partendo dalla chiesa del Carmine e tornandovi dopo cinque ore. Quelle ossa andarono poi disperse, ma il nome del giovane tribuno continuò a circolare in tutta Europa e rimane il più noto forse della storia di Napoli nel mondo, sempre collegato al suo quartiere natio, con un significato simbolico che supera di molto il suo significato storico.



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«IL CAPITALE» DI PIKETTY - Si sa quale successo abbia avuto il libro di Thomas Piketty, Le capital au XXIe siècle, edito da Seuil alla fine dell’anno scorso, pur essendo un volume di 1000 pagine irte di dati, statistiche e grafici che esigono indugi e riflessioni. Né è difficile capire che il successo sia dovuto certo alle qualità dell’opera, ma anche al fatto che si tratta della ripresa, dopo tanto tempo, dei problemi posti non solo da Marx, ma da quasi tutti gli economisti classici. E, benché Marx risulti costantemente assente nelle discussioni economiche correnti, dopo che per più di un secolo ne aveva occupato larghissima parte, il tema del capitale ha sempre continuato a tornare e ritornare in quelle discussioni esplicitamente o implicitamente.
Piketty non si è tirato indietro dinanzi alla vastità e complessità di un tema dai mille risvolti e dalle profonde radici e implicazioni teoriche, storiche e pratiche, partendo dall’assunto che bisogna «rimettere la questione della ripartizione al centro dell’analisi economica». I risultati della sua ricerca sono riassunti da lui stesso.
Il primo è che bisogna diffidare di qualsiasi determinismo economico in «questo campo» perché «la storia della ripartizione delle ricchezze è sempre una storia profondamente politica e non soffre di essere ridotta a meccanismi puramente economici». Il secondo, che anche per lui «è il cuore di questo libro», porta a constatare che «la dinamica della ripartizione delle ricchezze mette in gioco meccanismi possenti che spingono alternativamente nel senso della convergenza e della divergenza» (ossia una riduzione o una contrazione delle differenze) e che «non esiste alcun processo naturale e spontaneo che permetta di evitare che prevalgano tendenze destabilizzanti e non egualitarie». In aggiunta, Piketty rigetta pure sia l’idea che la progressiva e crescente centralità della tecnologia nelle attività produttive e nei servizi condurrebbe fatalmente «al trionfo del capitale umano sul capitale finanziario e immobiliare»; e l’idea recente per cui «l’allungamento della durata della vita condurrebbe automaticamente a una sostituzione della “guerra fra le classi” con la “guerra delle età”».
In conclusione, Piketty afferma con decisione che «lo sviluppo dinamico di una economia di mercato e della proprietà privata» consente molte riduzioni delle differenze in fatto di ricchezze, ma contiene anche molte forze che tendono ad accrescere queste differenze in maniera pericolosa «per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano». L’accrescimento delle differenze è legato per lui al fatto che il tasso di rendimento privato del capitale può essere molto e a lungo più alto del tasso di crescita dei redditi e della produzione. Quando ci sono periodi di alta crescita (5% all’anno o più) questo non si risente, ma quando i tassi di crescita si riducono al tasso duraturo di 1 o 1,5% all’anno, come accade in tutte le economie mature e più avanzate, allora la maggiore redditività del capitale rispetto ala crescita dei redditi e della produzione diventa quasi fatale: e questo sembra a Piketty uno scenario molto probabile per il XXI secolo. Di qui la sua idea che il rimedio-principe a un tale rischio sia un’imposta progressiva annua sui patrimoni a partire da 1 milione di euro.
Soluzione, invero, un po’ deludente, e lo stesso Piketty ne mostra la difficoltà senza «un alto grado di cooperazione internazionale e di integrazione politica regionale». Ma questo non offusca il merito di Piketty. Egli ci ha richiamato alla logica implacabile dell’economia e del mercato, ma ci ha richiamato anche al ruolo essenziale della politica che incanala quella logica nelle direzioni in cui prende forma l’assetto della società. Ed è un richiamo importante in un’epoca in cui si parla ormai solo del mercato come realtà tutta asettica e automatica. Inoltre si parla qui, come si è visto, anche di tecnologia, questione delle età, politiche regionali, cooperazione internazionale, tassi di sviluppo, remunerazione del capitale etc.: tutte cose che, insieme con molte altre riguardano da vicino l’Italia dei nostri giorni, e con l’Italia (superfluo dirlo) il Mezzogiorno.



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POLICA ESTERA ITALIANA - Gli eventi recenti hanno rafforzato il rilievo della politica estera nei governi europei. In realtà, questo settore dovrebbe essere sempre la prima cura di ogni governo. È un errore di scienza e di prassi politica ritenere che la politica estera interessi solo i paesi di effettiva e rilevante potenza, mentre i paesi medi e piccoli non vi avrebbero interesse. Naturalmente, non è così, e si può affermare che per i paesi medi e minori la politica estera sia anche più importante.
In Europa occidentale questi errori si possono solo in parte spiegare col declino verticale della sua posizione mondiale dopo la guerra del 1939-45 e col disgusto e la stanchezza provocati dalle rovinose esasperazioni del nazionalismo. In Italia, poi, dopo il 1945 la politica estera si concentrò, di necessità, sull’alternativa tra Occidente (democratico) e Oriente (comunista), e ben presto a questo si unì l’impegno europeistico.
Erano scelte di grande saggezza, convalidate dal corso ulteriore delle cose, e si accompagnarono a una carica di entusiasmo politico e culturale in gran parte del paese. In seguito sono diventate un po’ abitudinarie. Vi si sono aggiunti, da un lato, una certa timidezza verso alleati e partners di quelle scelte; dall’altro lato, un forte svilimento dei valori fondanti di una comunità nazionale, pur immune da tentazioni nazionalistiche. Il primo elemento deriva certo dall’esperienza delle prove infelici del paese come grande potenza nella guerra del 1940-45. Il secondo si lega alla convinzione che una cultura e una classe politica poco attente a tali questioni hanno diffuso per tutto ciò che odorasse di preoccupazione nazionale, subendo e favorendo un vero complesso d’inferiorità verso gli altri paesi occidentali, per cui, come minimo, si parla alla cieca di «anomalia» italiana. E non parliamo dello spettacolo troppo spesso offerto dalla vita politica interna, che certo al prestigio del paese quasi mai ha giovato.
Da ciò è derivato che già dalla fine degli scorsi anni ’50 il ruolo internazionale dell’Italia è stato di solito secondario anche rispetto alla certo modesta posizione del paese nelle gerarchie mondiali di potenza. La diplomazia, specie di vecchia scuola, ha fatto quel che poteva. I ministri degli Esteri, se si escludono il conte Sforza e qualche altro caso, non hanno mai acquistato rilievo internazionale, anche quando erano figure più che degne nel quadro italiano. Per di più, specie da parte cattolica e della sinistra, le velleità di una propria politica mediterranea, filoislamica e terzomondistica hanno spesso alimentato la vecchia fama dell’Italia come paese solito ai «giri di valzer» nei suoi rapporti internazionali.
Ciò spiega, almeno in parte, perché abbiamo, sì, concluso molti affari in giro per il mondo, ma non siamo riusciti a difendere gli interessi della nostra agricoltura in Europa, abbiamo accettato un cambio lira/euro secondo molti non troppo equo, e veniamo tenuti sempre in seconda fila nelle sedi internazionali che più contano (senza dire dello sconcertante caso dei due marinai in India).
Il succo è sempre quello: alla politica estera e ai suoi riflessi nelle questioni interne del paese in Italia non si fa attenzione. E lo diciamo in particolare per il Mezzogiorno. Si parla tanto del suo destino mediterraneo, delle sue potenzialità extraeuropee, della sua necessità di sostegni finanziari e normativi a scala europea. Tutto ciò richiede, però, una certa conduzione degli Affari Esteri, e solo in parte minore si può fare per altre vie.
Oggi la sparizione nel governo del ministero per la Coesione aggiunge a ciò un motivo di più. Alcuni ritengono la sparizione un fatto positivo. Per noi non è così, anche se la Coesione non si è rivelata utile per trasformare la politica speciale per il Mezzogiorno in un indirizzo davvero unitario della nostra politica economica e di sviluppo. Se oggi sparisce, poco male, purché quella trasformazione sia poi realizzata per vie istituzionali finalmente efficaci ed evidenti, non trascurando, comunque, come finora è stato, le preoccupazioni internazionali sulle quali ci siamo soffermati.
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