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Napoli in alcune recenti pubblicazioni di lingua inglese
di Vincenzo Pepe
«Per quale motivo c’ero venuto, se non perché volevo bene a questa gente e a questa terra?»

Nel salutare l’apparizione sincrona (1993) dell’edizione italiana di By the Ionian Sea (1900) di G. Gissing, The Gallery (1947) di John Horne Burns, e Naples ’44 (1978) di Norman Lewis, Raffaele La Capria qualche decennio fa identificava nella comprensione emotiva ed affettiva, prima e più ancora di quella intellettiva, non solo l’elemento che accomuna le tre opere citate, ma la condizione stessa dell’intelligenza delle cose napoletane. «È … il suo capire “per simpatia”», egli diceva difatti del Lewis (ma il discorso valeva per gli altri tre), «il filo segreto che regge tutto il libro…»1
Lo stesso filo, ma non «segreto» stavolta, sembra reggere altre opere su Napoli apparse di recente sul mercato editoriale inglese, e a non molta distanza di tempo l’una dall’altra: In the Shadow of Vesuvius, della canadese Jordan Lancaster, apparsa nel 2005; The Ancient Shore: Dispatches from Naples, di Shirley Hazzard e Francis Steegmuller, del 2008; Street Fight in Naples, dell’australiano Peter Robb, pubblicata nel 2010; Virgil’s Golden Egg and other Neapolitan Miracles, di Michael A. Ledeen, pubblicata nel 2011, e Impressions of Southern Italy, di Sharon Ouditt, della fine del 2013.
Non segreto, perché, stando a quanto si legge nelle prefazioni e nel corso della trattazione, la genesi affettiva di tutti questi testi è dichiarata dagli stessi autori2. Questa dichiarazione d’amore per la città e la sua storia, però, esplica a ben vedere una funzione comunicativa più complessa della semplice informazione sulle motivazioni dell’opera, come sembrano suggerire alcuni elementi testuali. La prefazione della Lancaster, per esempio, si apre con in esergo una citazione dalla Storia del Regno di Napoli del Croce, nella quale il filosofo si chiede il motivo per cui la «sublime storia napoletana sia in genere non nota, anzi addirittura sconosciuta e negata». La dichiarazione della Lancaster, allora, è il criterio storiografico centrale della sua opera, per effetto del quale l’amore per la città e per la sua storia è nello stesso tempo causa ed effetto di conoscenza, oltre ad essere condizione di diffusione di questa conoscenza. Diversamente dalle guide turistiche che propagano i luoghi comuni e gli stereotipi della Napoli da cartolina, allora, l’opera della studiosa canadese aspira a porsi come disvelamento della identità di Napoli attraverso la sua storia, la quale «è meglio definita dai suoi cittadini più che dai suoi edifici e dai suoi monumenti». Coerentemente con questo assunto, il sottotitolo dell’opera annuncia la narrazione di «una storia culturale di Napoli», mentre la breve introduzione, nel trasportare idealmente il lettore nel milieu fisico napoletano, chiarisce anche il senso del titolo: questa storia si svolge «all’ombra del Vesuvio», e non in senso spaziale-geografico. Perché il vulcano non è elemento coreografico statico, esterno alle vicende che si svolgono alle sue falde; con la sua «presenza minacciosa» esso catalizza e dialettizza invece gran parte di quelle vicende; è esso stesso motore di storia. Diventa metafora di quanto di istintivo, imprevedibile, alogico, informa gli atteggiamenti, le tradizioni, la religiosità e la struttura mentale del popolo napoletano. Significativamente, dopo cinque capitoli dedicati alle varie epoche della storia di Napoli dalle sue origini mitiche fino ai tempi nostri, l’autrice conclude la trattazione con l’inserimento della «smorfia», per ribadire forse che la comprensione della realtà unica, specifica e irripetibile di Napoli e della sua storia, richieda in ultima analisi il ricorso a categorie diverse da quelle della logica.
Da un moto d’affetto per la città e per la sua gente nasce anche The Ancient Shore, della scrittrice australiana Shirley Hazzard e del marito Francis Steegmuller3. A differenza della Lancaster, però, questi due scrittori non propongono una carrellata storica, bensì una serie di testimonianze a carattere lirico-narrativo sulla città, sul suo circondario, e sui Napoletani. Dopo due capitoli dedicati, rispettivamente, alla rievocazione/celebrazione dello scenario di Posillipo («A Scene of Ancient Fame»), e a quello del paesaggio vesuviano («In the Shadow of Vesuvius»), la scrittrice ne dedica uno al restyling della città per il G7 del 1994 («Naples Redux»), e un altro alla misteriosità e imprevedibilità di Napoli («City of Secrets and Surprises»). Questo capitolo, assieme al successivo «An Incident at Naples», scritto dallo Steegmuller, e di cui si dirà dopo, sono forse quelli più interessanti del volume.
Chi ama Napoli si vede costretto molte volte a difenderla dalle accuse di quei visitatori che, sulla base delle poche e grossolane impressioni acquisite in soggiorni brevissimi di qualche giorno, pretendono giudicarla e condannarla. Questi visitatori trovano irritante «la devozione che Napoli ispira in tutti quelli che la conoscono bene», ma sembrano non rendersi conto che l’affetto per la città richiede la sua conoscenza, e questa è un processo lento. È vero, concede l’autrice: molte sono le cose che lasciano a desiderare a Napoli, e che rendono la città indifendibile (le strade sporche, i musei disorganizzati, i servizi carenti e inaffidabili); ma è anche vero che la città «è una incomparabile civiltà in sé, l’unica città del mondo classico... a sopravvivere nei nostri tempi», e ad aver lasciato testimonianze di tutte le fasi della sua storia trimillenaria. Se si aggiunge poi che la realtà napoletana sembra esibire come tratti fondamentali la predilezione per l’esotico e lo strano, e, per converso, il rifiuto di «ciò che ha carattere di sistema», si comprende come sia assurdo pretendere di penetrarne l’essenza senza l’agio e il tempo necessario:
Napoli richiede tempo…le rivelazioni non sono istantanee come a Firenze o a Roma e richiedono uno stato d’animo che si fissa nel forestiero solo gradualmente, come una rivelazione in se stessa.

Né il tempo e l’agio bastano, perché, come viene precedentemente chiarito nel capitolo su Posillipo, la comprensione della realtà napoletana richiede necessariamente il ricorso all’immaginazione e, più importante, ancora, alla capacità da parte dell’osservatore di liberarsi delle sue categorie, e di mettersi in discussione:
Si ha bisogno di agio, si ha bisogno di immaginazione. E di qualcosa in più: vulnerabilità. Vulnerabilità al tempo interfogliato; alle esperienze non suscettibili delle nostre classificazioni pronte, e all’impenetrabile fenomeno del luogo, che nessuno mai, a quanto mi risulta, ha mai spiegato.

Ma qual è la realtà misteriosa alla quale siamo iniziati a Napoli, si chiede ancora l’autrice. Che cosa spiega il «senso della vita profondamente intriso dalla consapevolezza della morte, che dà valore al più piccolo piacere come dato da Dio, mentre attribuisce fatalisticamente le sfortune al più bieco alleato di Dio, il Destino?» La risposta è semplice: a costituire la fisionomia di Napoli è il mistero stesso, e il paradosso ne è l’anima:
In effetti il paradosso ha tanto a che fare con il disagio avvertito dal forestiero al suo arrivo a Napoli, quanto con il richiamo che la città esercita sul suo affetto al momento della partenza. Il tempo è lungo qui, ma una città con un vulcano non è un posto dove scordare la mortalità. Perché per gente che vede l’esistenza come sintesi, non ci sono elementi in conflitto, e Napoli offre poche zone neutrali dove ai turisti venga risparmiato il peggio. La concezione puritana secondo la quale un senso di piacere non può trovare giustificazione in mezzo al degrado manifesto non significa niente per i Napoletani - i quali sanno che il piacere non lo si può rimandare alle circostanze ideali. Per esperti di sopravvivenza, il trionfo e la tragedia sono indivisibili.

Se i primi capitoli del volume in esame si soffermano sui luoghi fisici del contesto napoletano, quello scritto dallo Steegmuller, dal titolo «An Incident at Naples», mette a fuoco l’universo umano che lo popola. È la narrazione di una disavventura occorsa allo scrittore a Porta Capuana dove fu vittima di scippo e violenta aggressione fisica. La vicenda, però, è raccontata non per caratterizzare la brutalità e la violenza che pur costituiscono parte della realtà di Napoli; ma per rimarcare i sentimenti di umanità, la cortesia e in particolare il senso di solidarietà di cui sono capaci i Napoletani. Non a caso la narrazione serve soprattutto a delineare le fisionomie di quanti in quella brutta esperienza furono allo scrittore vicini con parole di conforto e con aiuto materiale: dai passanti agli infermieri e ai medici del pronto soccorso, dai poliziotti ai tassisti, è un universo di brave persone capaci ancora di attenzione per i malcapitati e i più sfortunati, a differenza di quanto succede nelle altre metropoli, sui cui marciapiedi si può anche morire nell’indifferenza generale. Accanto e insieme alle sue tante contraddizioni e paradossi, ai suoi tanti lati bui, e nonostante i tratti violenti che è capace di esibire, Napoli ancora dà motivo di speranza. Il punto è espresso ancora una volta dalla Hazzard quando ricorda il «colpo di fortuna» a lei capitato:
Immagini dell’arcano, del grottesco, del diabolico non mancheranno mai di sconvolgere ed estraniare - composte, come in tutte le grandi città, di moderna violenza e cattiveria. Ma pochi giorni passeranno senza qualche fresca scoperta di dignità, delicatezza, e sopportazione, o nei quali non si sia umiliati o esaltati da atti di umana solidarietà e inesprimibile grazia. Per quanto riguarda me, ogni nuovo arrivo su questa sponda è una letizia. E mi meraviglia quando penso al colpo di fortuna che mi portò qui la prima volta a vivere in intimità con questo spirito civilizzato e a condividerne la sua lunga avventura.

Da un «residuo di passione» per Napoli nasce anche Street Fight in Naples, di Peter Robb. In armonia con il sottotitolo che annuncia il racconto di «una storia non vista della città», quest’opera segue il filo invisibile che lega opere letterarie e figurative della storia napoletana (in particolar modo del ’600) e le fa parlare simultaneamente, per permettere al lettore di lingua inglese di cogliere in esse non solo il rapporto che le lega al loro secolo, ma anche quanto di immutato, di «eterno» si è preservato nella realtà napoletana fino ai giorni nostri. Questa necessità di far rivivere sincronia e diacronia, nasce dal convincimento dell’autore, che è lo stesso, si ricorderà, espresso dal Gunn agli inizi degli anni Sessanta, che il «tempo a Napoli non è lineare» e che «il passato vi è più presente che nelle altre città», perché «alcune cose vi accadono da migliaia di anni, e… solo in modo indiretto si può arrivare alle loro interconnessioni». Tutto questo spiega perché lo scrittore eviti la trattazione cronologica, e si affidi invece ad un metodo di rappresentazione il quale accosta testimonianze e documenti per farli parlare simultaneamente, in un gioco di rinvii, echi, sovrapposizioni, reminiscenze, al quale non poche volte fornisce materia la massa stessa dei ricordi autobiografici dell’autore il quale visse a Napoli per moltissimi anni. Un esempio di come il flusso dei ricordi colori nel testo del Robb la rappresentazione della realtà napoletana, può essere fornito dal modo in cui il lettore viene introdotto ai Quartieri spagnoli seguendo il flusso delle percezioni ottiche e olfattive nell’autore messo in moto dalla memoria della prima volta che lui stesso visitò quel luogo:
Quando salii per la prima volta per i Quartieri era autunno e lì è come se fosse sempre autunno. L’elevazione del pendio e gli alti edifici su una compatta griglia di vicoli stretti li rendeva leggermente più freschi in estate, leggermente più caldi in inverno.
Le strade erano buie perfino nei giorni di sole, tranne nei minuti in cui un’accecante lama di luce affondava in un vicolo. L’odore nelle strade era stranamente pulito. Sapeva di minerale, ammoniaca, sale, fumo, con tracce di vino rosso, pesce fresco, buccia d’arancia, pane fresco, aceto, pizza bruciata e sporco che si lava con acqua e sapone nel suo deflusso a valle.

È su questo sostrato di esperienze mnestiche che lo scrittore colloca poi le informazioni storiche relative a quel luogo, ovvero le notizie sulla selvaggia trasformazione da esso subito per volere dell’amministrazione spagnola che, come si sa, da area agricola amena sfruttata per l’allevamento del baco da seta, lo adibì a zona di acquartieramento militare, segnandone il definitivo degrado come centro del traffico meretricio della città. La metamorfosi è illustrata come segue:
Man mano che la gradevole verzura e il sesso amatoriale dei Gelsi si trasformavano in sinistri acquartieramenti spagnoli, la concentrazione di soldati stranieri sul pendio richiamava un’uguale concentrazione di lavoratori del sesso professionale. L’enorme e bel giardino scomparve e il sesso entrò nelle case. Lo svago diventò un affare.
Quando i Gelsi divennero i Quartieri Spagnoli, l’amore a pagamento era la principale mercanzia. La prostituzione a Napoli, una volta fiorente nella zona litoranea, si concentrò e industrializzò nei Quartieri Spagnoli, dove restò per quattrocento anni, molto tempo dopo che le ultime truppe spagnole si erano imbarcate ed erano andate via. Una donna dei Quartieri era una prostituta a meno che non desse motivo di far credere di lei diversamente.

Ma nella scrittura del Robb non è solo la dimensione mnestica a consentire di cogliere la coesistenza simultanea di passato e presente nella realtà napoletana, perché gli aspetti di questa vengono letti e interpretati anche in chiave simbolica. Tra i vantaggi che l’interplay di memoria e simbolo consente di conseguire alla scrittura del Robb non c’è solo l’allargamento e l’approfondimento della prospettiva su persone luoghi e cose di Napoli; col riscattare i dati dalla loro fissità, il filtro mnestico-simbolico riduce sensibilmente, se non annulla del tutto, il rischio che essi diventino luoghi comuni e cliches cari agli estensori delle guide turistiche di Napoli. Un esempio di ciò è dato proprio dal modo in cui lo scrittore connota l’identità delle donne dei Quartieri, specialmente quelle anziane. Nel presentarle nelle loro incombenze nei vicoli o sugli usci dei bassi, egli non fa alcuna concessione al gusto oleografico o alla tentazione di aggiungere note di colore locale, e mira piuttosto a rimandare il lettore a una dimensione altra, a suggerire il senso di ancestralità che circonda la loro presenza e i loro gesti quotidiani, e l’indispensabilità del loro ruolo non solo alla vita della comunità dei Quartieri, ma a quella della città tout court. Non a caso lo scrittore insiste sul senso di atemporalità della loro presenza, sottolineato dal carattere asessuato delle loro figure. Superata l’età feconda, e perduti i tratti della loro femminilità un volta prorompente, queste donne «una volta ragazze silfidi e mamme che allattavano al seno prosperoso», conducono una esistenza solo apparentemente esterna o «lontana dai pubblici drammi del potere», e non meno essenziale alla vita dei Quartieri, di quanto lo siano i «grandi blocchi di tufo e gli edifici costruiti con essi». Con la loro presenza indefettibile, e nella ripetitività e sacralità di gesti e atti che scandiscono la loro esistenza quotidiana, esse smettono l’identità di persone fisiche, per assumere quella di entità spirituali, creature mitiche, che tessono i fili della continuità della storia, dal tempo degli Spagnoli a oggi. Osserviamole:
Sedevano al sole spiccando le cime e le foglie tenere dei friarielli e sciacquando la verdura da cucinare. Stendevano il bucato, spostando grandi lenzuola da muro a muro sul vicolo o posizionando uno specchio sulla soglia per catturare il sole nel suo breve passaggio sulle loro teste. Lavavano pomodori, sfoltivano carciofi, pulivano cozze. Rinfrescavano i fiori nelle piccole edicole incastonate in muri fatiscenti e cambiavano i bulbi delle candele elettriche. Sedevano imbacuccate su piccole sedie pieghevoli e vendevano sigarette che tenevano nascoste tra le pieghe degli scialli. Pulivano teschi nelle cripte e tenevano la comunità in contatto col mondo degli spiriti, il mondo sotterraneo dagli spazi bui dove le ossa dei morti erano perfettamente accatastate. Vedevano chi andava e chi veniva. Portavano fuori scope e tiravano a lucido blocchi di lava meglio che se fossero stati i pavimenti del salotto. Loro, le solide, potenti, androgine, erano i blocchi di cui era fatta la città.

Ovviamente i Quartieri sono solo uno dei tanti luoghi di Napoli sui quali si affissa lo sguardo dello scrittore australiano intento a rintracciare le linee di continuità e/o di raccordo tra il passato e il presente della città. Le strade, le chiese, le piazze, i monumenti sono anzi gli elementi catalizzanti e unificanti di un racconto che permette di spaziare in epoche lontane, e di far conoscere protagonisti e comprimari delle tante storie artistico-letterarie che si svolsero a Napoli. Dalle pagine di Campanella a quelle del Bruno, a quelle del Basile; dalle tele di Micco Spadaro ai dipinti del Caravaggio; da quelle del Ribera a quelle di Monsù Desiderio, da Artemisia Gentileschi a Salvator Rosa, etc., è un continuo attingere alle testimonianze di un patrimonio storicoartistico inesauribile e straordinario che è di Napoli, ma appartiene all’umanità intera. Questo del carattere universalizzante della cultura napoletana è un altro aspetto che il gioco della sincronia-diacronia permette di cogliere nel testo del Robb. Un esempio di quanto detto è rappresentato dalle pagine che lo scrittore australiano dedica a San Domenico Maggiore. Dopo il riferimento obbligato a Tommaso d’Aquino, il discorso su questo monumento dà allo scrittore l’opportunità di introdurre alla personalità e all’opera di Giordano Bruno. Della cultura di questo grande filosofo l’autore sottolinea a varie riprese il respiro europeo e straordinariamente moderno, ma non solo soffermandosi sulle sue grandi opere a carattere speculativo, ma anche su quelle «minori». Quanto egli scrive, per esempio, a proposito del Candelaio, fa pensare molte volte al Bruno come analogo napoletano di un Marlowe, se non di uno Shakespeare, perché vi si fa giustamente notare come la Napoli messa in scena nella commedia del Nolano sia sovrapponibile alla Londra elisabettiana. Entrambe le società, difatti, esibiscono lo stesso sforzo di controllare la realtà attraverso l’impiego del linguaggio:
Usare le parole per controllare la realtà, o la percezione di essa che ne ha la gente, significava potere nella chiesa, nella legge, in politica, nelle accademie. L’Europa del tardo sedicesimo secolo aveva la fissazione per le parole. Il vernacolo di Bruno, come la prosa impetuosa che usciva dall’Inghilterra elisabettiana nello stesso tempo, era colto, arcano, domestico, demotico, osceno, esaltato, e cangiante nel registro e nella sintassi nel giro di una frase.

Se Il candelaio del Bruno autorizza a istituire rapporti sincroni tra la Napoli del ’600 e la Londra elisabettiana, altre opere, sia letterarie che figurative, di questo periodo, permettono al Robb o di sottolineare quanto di immutato si è mantenuto nella realtà di Napoli nell’arco dei secoli; o di rintracciare in essa i precedenti di quelli che nei secoli successivi sarebbero stati considerati acquisti della cultura europea tout court. Un esempio del primo caso è fornito da quanto il Robb scrive a proposito del capolavoro caravaggesco Le sette opere di misericordia. Egli osserva che la sintesi di «triviale e trascendente» che nell’opera si rappresenta è testimoniata dalla «ordinarietà» della stessa componente divina presente nella parte alta del quadro, nella quale, si ricorderà, gli angeli e la Madonna con Gesù bambino sono ritratti come popolani che si affacciano a una sorta di finestra a osservare quello che succede giù nel vicolo buio. Significativamente il Robb connota le due identità sacre con riferimenti attinti dalla vita quotidiana di Napoli che lui ha conosciuto negli anni Ottanta, perché se gli angeli gli fanno pensare a una coppia di scugnizzi che «abbiano parcheggiato la loro Vespa all’angolo, Maria sembra sul punto di abbassare un paniere per un pezzo di pane o un pacchetto di Marlboro».
Come esempio del secondo caso si può citare quanto il Robb scrive a proposito del Cunto dei cunti del Basile. Mettendo difatti in risalto l’ampiezza di respiro delle storie del Pentamerone «che traboccano della vita del mondo materiale e del mondo sociale che lui e i suoi ascoltatori conoscevano, ricchi e poveri promiscuamente mischiati ai dettagli vitali della vita domestica, della vita animale, della vita di corte, della vita di campagna (cibi, vestiario, mobilio, lingua, piante, insetti, pesci)», egli nota giustamente che per trovare altri romanzieri che esibiscano lo stesso amore che lo scrittore napoletano ha per il dettaglio ridondante, bisogna aspettare un Dickens o un Balzac. E a proposito della visione politica e dei grandi ideali di giustizia sociale che informano La Città del Sole, egli ancora più opportunamente fa rilevare la modernità del Campanella, il quale «scriveva questi pensieri tre o quattrocento anni prima che diventassero luoghi comuni del pensiero socialista e democratico-liberale». Se il Robb mira a sottolineare a varie riprese la portata di modernità della cultura napoletana, Michael A. Ledeen, l’autore di Virgil’s Golden Egg and Other Neapolitan Miracles: an Investigation into the Sources of Creativity, si propone di colmare una mancanza sul mercato editoriale di lingua inglese dove su Napoli, «se si fa eccezione per pochi studi specialistici e una manciata di romanzi, sono apparsi pochi libri». Secondo questo autore, se gli Americani amano l’Italia devono fare l’esperienza di Napoli; devono conoscere «alcune delle sue meraviglie», tra le quali la religiosità «a loro quasi del tutto sconosciuta», e la tenacia con cui i Napoletani mettono in pratica l’ideale del perseguimento della felicità, che, anche se «proclamato come diritto fondamentale dalla Dichiarazione di Indipendenza è dagli Americani solo vagamente conosciuto e apprezzato». Ma non sono solo questi i motivi che per l’autore rendono necessario per gli Americani conoscere Napoli. Questa città costringe a rivedere i concetti tradizionali di decadenza e creatività. Mentre, difatti, le culture tardo ottocentesche e novecentesche hanno celebrato e perseguito un ideale di creatività che implicava una sostanziale rottura con i fondamenti della società umana, «i Napoletani sembrano aver trovato una forma di creatività che non sfida necessariamente le loro radici»; fatta eccezione per pochi intellettuali che mettono in discussione molti aspetti della loro città, «i Napoletani per lo più sono contenti della loro città e delle loro tradizioni, più orgogliosi della loro eredità culturale, e meno verosimilmente pronti ad entusiasmarsi per l’ultima moda». Come si spiega questa specificità di Napoli, e, in particolare, la creatività dei Napoletani? Questa la domanda alla quale cerca di dare una risposta il Ledeen, il quale propone di affrontare il tema servendosi di una chiave di volta che potremmo definire vichiana, perché la comprensione della storia napoletana è per lui impossibile senza la ricapitolazione, senza il cominciamento dall’inizio, e l’inizio della storia napoletana è intrisa di mito e leggenda. Per comprendere «il metodo nella follia» nei comportamenti e negli atteggiamenti della realtà napoletana, è necessario partire dagli elementi mitici e archetipici di cui quella realtà è intrisa. Questo spiega la presenza nel titolo dell’allusione all’«uovo di Virgilio e agli altri miracoli napoletani»; e questo spiega perché la materia della trattazione è raggruppata sotto le quattro categorie della «teatralità» (On Stage), del «caos» (Chaos), del rapporto con «i morti» (The Dead), del «crimine», la cui combinazione darebbe secondo l’autore ragione della specificità, e, in particolare, della inventività e creatività napoletana. Ma queste categorie in sé non sono sufficienti, perché anche per Ledeen, come per gli autori dei quali abbiamo parlato prima, la piena comprensione della realtà napoletana avviene per simpatia, perché implica in ultima analisi una disposizione d’amore da parte di chi la deve giudicare:
Se si ama Napoli, si vedrà virtù nella loro energia, si ammirerà la loro abilità nel padroneggiare il caos quotidiano e i loro problemi socioeconomici, e si apprezzerà la loro bellezza fisica, il fascino personale, e l’irrefrenabile buon umore. Se non la si ama il suo chiasso lo si troverà tutt’altro che gioioso, l’umanità accalcata allarmante, e minacciosa l’energia della gente.

Un libro non convenzionale su Napoli, dunque, quello che il Ledeen sembra annunciare; sennonché le premesse di scientificità sulle quali sembra volersi reggere mi sembrano a volte smentite da sconcertanti generalizzazioni o esagerazioni. Per esempio, alquanto gratuita, oltre che maligna, sembra suonare la piccola incidentale che l’autore aggiunge a quanto osserva sulla solidarietà verso il prossimo di cui pur riconosce capaci i Napoletani:
Napoli è tutta famiglia e comunità. L’indifferenza è cosa rara, perfino nelle strade. Diversamente che nella maggior parte delle città moderne, se si cade per strada, la gente vi aiuta. È probabile che vi portino via il portafoglio e l’orologio (se è di marca), ma si prenderanno dovuta cura di voi, e vi terranno al caldo e al sicuro in attesa dei soccorsi.

Frutto di esagerazione sembra, ancora, quanto l’autore scrive a proposito dell’atteggiamento dei Napoletani nei riguardi della criminalità organizzata:
Un sacco di Napoletani si sentono del tutto comprensibilmente più vicini alle organizzazioni criminali che allo Stato. Questo è vero specialmente della plebe, sebbene la camorra attinga da tutte le classi sociali. I criminali forniscono servizi reali, protezione sicura, opportunità di affari, e posti di lavoro in una città dove le strutture legali hanno fallito più e più volte. Lo Stato è una lontana astrazione, un protettore inaffidabile, e spesso una presenza aliena.

E una concessione al luogo comune e al gusto oleografico, infine, sembra quanto egli scrive nella conclusione del volumetto a proposito del destino di Napoli. Tra i pericoli che la città è destinata a fronteggiare e a neutralizzare se vuole «sopravvivere alla modernità», accanto alle epidemie ricorrenti, la criminalità, e il cattivo governo, l’autore non può ovviamente non registrare quello di una possibile eruzione del Vesuvio. Ma sorprendentemente egli ritiene che è proprio qui che i Napoletani attingeranno le risorse per la sopravvivenza, perché «fino alla prossima eruzione, il Vesuvio fornirà un senso di energia creativa, come è successo nel passato»(!)
Di diversa intonazione è Impressions of Southern Italy di Sharon Ouditt, volume pubblicato in Inghilterra agli inizi del 2014. Come si può desumere dal titolo, vi vengono indagate le diverse impressioni che il Mezzogiorno d’Italia (esclusa la Sicilia) suscitò nei più famosi viaggiatori britannici in visita in questa parte d’Italia nel periodo che va dalla fine del diciottesimo secolo all’inizio del Ventesimo: dalla Blessington a Keppel Craven, da Lady Morgan al Morton, anche se a figurare in primo piano sono le testimonianze di Swinburne, del Ramage, di Norman Douglas, di Edward Lear. I testi sono scelti in modo da dare un’idea delle molteplici prospettive dalle quali questi autori guardarono e raccontarono il Sud d’Italia. Lettori impliciti di questa letteratura odeporica erano ovviamente i visitatori e i turisti coevi, ma a beneficiarne furono anche i viaggiatori delle generazioni successive, perché tanti, se non tutti i viaggiatori a venire, arrivavano in Italia avendo in mente i testi dei loro predecessori. Questo fatto, come è facile desumere, attivava un meccanismo di reiterazione il quale, almeno per quanto riguarda il Sud, e Napoli in particolare, favoriva la canonizzazione di percorsi, tappe, itinerari, ma anche la trasmissione dei clichés e degli stereotipi frutto di visioni mitizzanti e/o estetizzanti degli osservatori. Molti tra i viaggiatori britannici, beninteso, furono capaci di sottrarsi all’influenza di chi li aveva preceduti, e di prendere distanza dai luoghi comuni, denunciandone anzi la superficialità, quando non addirittura la mala fede, e la genesi di classe che li originava; e molti furono anche quelli in grado di cogliere aspetti originali della realtà del Meridione, e di strappare la maschera di ipocrisia ai presunti «valori settentrionali» in base ai quali si pretendeva di giudicare della «arretratezza» o della «barbarie» di questo lembo d’Italia.
Di un certo interesse ai fini del nostro discorso, di questo libro appare il capitolo di apertura, che si incentra sul carattere «liminale» di Napoli, e sull’effetto straniante, defamiliarizzante che la collocazione della città «al confine tra il paesaggio ben noto delle capitali europee, e i territori quasi inesplorati del profondo Sud» aveva sulla sensibilità degli osservatori stranieri. Non era ovviamente solo la posizione «soglia» di Napoli ad ingenerare nello spettatore straniero sentimenti ambivalenti, perché se lo stare «al limite» spiegava il gioco «noto/ignoto», altri elementi del paesaggio contribuivano ad attivare un meccanismo di attrazione/repulsione. Alcuni di questi elementi avevano un carattere oggettivo, appartenendo essi a uno scenario storicogeografico-morale nel quale si dialettizzavano passato e presente, natura e storia, vita e morte, sublimità e degrado. Il Vesuvio, per esempio, oltre ad assurgere a simbolo del ciclo creazione/distruzione, con le sue alterne fasi di attività eruttiva e di stasi poteva suggerire, simultaneamente, l’idea di energia violenta e di «torpida rassegnazione», qualità, queste, spesso «associate alla natura dei Napoletani». A un inquietante gioco oppositivo di violenza/indolenza, e/o di terrore/attrazione rimandavano le immagini della plebe, in special modo dei lazzaroni, e ambivalente risultava perfino la figura del sovrano, Ferdinando IV, re e lazzarone lui stesso. Ovviamente a fare propendere verso un atteggiamento di condanna o di assoluzione di tali elementi contrastanti della realtà napoletana era per lo più la formazione religiosa di questi viaggiatori, tutti più o meno intrisi di rigorismo protestante; ma un ruolo fondamentale era giocato anche dagli orientamenti politici degli stessi, e, ancora, dal loro bagaglio culturale. Formatisi sullo studio dei classici latini e greci, questi viaggiatori si avvicinavano alla complessa e poliedrica realtà napoletana attraverso la mediazione della letteratura e della storia. Il che, se spiega da una parte la frequenza con la quale alcuni di questi visitatori confessano di «avere già visto», o di «essere già stati» nei luoghi visitati; dall’altra mostra l’inanità degli sforzi di quanti, pretendendo di servirsi di criteri di lettura di derivazione mitopoietica, sono costretti poi ad ammettere che la realtà napoletana «fa saltare le categorie interpretative convenzionali».










NOTE
1 R. La Capria, L’occhio di Napoli, Milano, Mondadori, 1994, p. 113. È giusto ricordare, però, che il concetto di «comprensione per simpatia» della realtà di Napoli era stato formulato in Naples a Palimpsest (1961) di Peter Gunn, il quale così aveva definito questo moto affettivo: «Per simpatia si intende qualcosa di più di un vago sentimento (non ha a che fare in alcun modo con la compassione, la caritas [sic] è una delle virtù teologali); essa si riferisce piuttosto a un sentimento diretto a un preciso oggetto, un sentimento che ha origine nell’interesse e nell’affetto, ma che nel gioco reciproco di quei due elementi genera una franca comprensione avvertita potentemente, qualcosa di affine all’amore. È una caratteristica degli artisti, non dei riformatori», p. 4.^
2 La Lancaster definisce il suo libro «prodotto di più di un decennio d’amore».^
3 La Hazzard a Napoli ambientò anche un romanzo di discreto successo di critica intitolato The Bay of Noon (1970), costruito sulla sua esperienza autobiografica di funzionaria della Nato che nella città partenopea visse molti anni.^
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