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Storia e diritto. Esperienze a confronto
di Ileana Del Bagno
All’insegna di questo titolo1 si sono svolte le celebrazioni per il 40° anniversario dei Quaderni fiorentini. La Rivista, nata da un’idea pioneristica e dall’abnegazione di Paolo Grossi, ha assunto dal lontano 1972, come suo programma operativo, la creazione di un “banco comune di lavoro” tra giuristi storici e “vigentisti” per favorire la continuità di un dialogo che soltanto allora cominciava a muovere qualche passo; oggi la testata esprime la voce (cartacea e on line) di un rinomato laboratorio di cultura e di ricerca che vanta la stessa coeva paternità, il Centro di studi per la storia del pensiero giuridico moderno, e rappresenta una collaudata quanto prestigiosa impresa scientifica in grado di valicare i confini europei, come di raccordarli. Ad illustri storici giuristi provenienti dalle più varie aree geografiche del pianeta e di impareggiabile profilo accademico l’occasione per realizzare un colloquio aperto, immediato ed anche de visu, è stata offerta dal Convegno internazionale svoltosi nell’autunno del 2012 a Firenze (il cui programma è edito in premessa, pp. V-VI).
Le intense Parole introduttive di Bernardo Sordi, curatore del volume e direttore uscente del Centro, anteposte agli Atti, tratteggiano una prolusione ed, insieme, un bilancio consuntivo che intende essere anche problematicamente progettuale. Con l’anafora «Quaranta anni dopo» si ripercorrono le tappe fondamentali, di interessi e di metodo, dell’itinerario compiuto dal fondatore e, con lui, da un’équipe scelta e coesa di studiosi che continuano a rigenerare il disegno iniziale ed a rinnovarne l’attuazione, restando con successo alla guida della festeggiata opera editoriale. Mentre «chiusura positivistica e orizzonte nazionalistico» appaiono «un lontano ricordo» e per la sensibilità di molti romanisti si vanno stemperando «le palesi forzature» continuistiche-evoluzionistiche, rimane centrale, ora come allora, il convincimento della profonda storicità del diritto, interazione necessaria tra discipline e tra interpreti che induce il giurista e le sue tecniche ad una riflessione critica sui fenomeni sociali e sulla loro vitalità, preservandolo da cadute nelle mere astrazioni dogmatiche e dal formalismo legalistico. Accompagnata dall’ottica comparatistica, tale apertura diventa ambivalente e, laddove è stata coltivata e diffusa, ha consentito di prepararsi più agilmente all’impatto dell’«irrompere del diritto sconfinato» (p. 3) e di inevitabili ibridazioni, di orizzonti extrastatuali e di incertezze. L’effetto destabilizzante e gli sfuggenti risvolti ordinamentali del pressante fenomeno globale sul sistema di civil law tuttavia non possono che rinnovare interrogativi in termini di adeguatezza come ripensamenti di studio e di funzioni, suggerendo innanzitutto l’abbandono delle autoreferenziali ‘solitudini’ scientifiche e dei rifugi in tane sicure. Le molteplici luci ed ombre che il pluralismo giuridico emergente lascia intravedere rendono angusta la prospettiva europea legata alla Western Legal Tradition, da cui l’auspicio propositivo di Sordi ad immaginare la conquista di nuove frontiere alla ricerca.
A quest’esordio strutturato sui risultati conseguiti dall’analisi storicogiuridica e sugli spazi futuri, segue un’estesa messa a punto de Lo stato dell’arte. I numerosi contributi di provenienza europea ed ultracontinentale appaiono accomunati dalla meritevole capacità di riuscire a delineare la storia delle storiografie nazionali, traducendola implicitamente in storia dei maestri che hanno impersonato istituzioni ed opzioni metodologiche all’interno di un arco temporale lungo. Ritornano così in prima linea gli uomini come figure chiave, i protagonisti di ieri, letti ed intervistati, con sereno spirito critico e adeguata collocazione nella storia, da quelli di oggi. La sezione del volume è inaugurata da Claudia Storti che, con attenzione alla vicenda italiana, si interroga sull’habitus dello storico del diritto e sul ruolo svolto nella formazione del giurista, ponendo in risalto il merito dei Quaderni di aver contribuito a spingere la disciplina fuori dal recinto stretto fissato dalle precedenti generazioni di studiosi autorevoli, e ad imboccare la via di un’importante revisione epistemologica. Superare il gap ha significato spostare, con coraggio, i confini oltre i sentieri tradizionali, orientando l’analisi verso le intricate problematiche tecniche e concettuali della modernità e dell’età contemporanea, in modo da ridurre l’attenzione per la pur gloriosa civiltà giuridica medievale su cui si era troppo stabilmente assestata. Squarciato l’orizzonte in tale direzione temporale ma senza abbandoni, sono emersi in tutta la loro complessità i distinti livelli dell’esperienza giuridica con sponde tematiche di approdo nuove e molteplici, che hanno collegato trasversalmente ambiti appartenenti al diritto privato ed al pubblico, aspetti teorico-dottrinali ed orientamenti giurisprudenziali.
Che fossero stati anni di ampia e decisiva effervescenza scientifica lo dimostra la rassegna delle circa quaranta monografie pubblicate «‘intorno’ a quel fatidico 1972» ed il ventaglio di argomenti sviluppati, a cui vanno ad aggiungersi le varie iniziative editoriali sorte e le collaborazioni instaurate con centri di ricerca stranieri (nt. 15-18, pp. 14-16). Il rigore scientifico e l’avidità di sapere – dichiara la Storti – connotò la personalità di questi «maestri straordinari», la cui pur «innegabile diversità dei timbri e dei temi» non s’imbatté in azioni prevaricanti, né fu mai inquinata da contrasti di carattere ideologico (p. 10). Insomma, pur con le sue disomogeneità, la comunità scientifica di allora mostrò equilibrio ed unità.
Uno spaccato puntuale dei primi luminosi anni ’70, periodo foriero di idee d’avanguardia e di iniziative brillanti, nonché di intellettuali in fermento, ritorna con originalità di richiami nell’accurato intervento di Aurelio Cernigliaro. Furono tempi in cui diverse scuole italiane di storia giuridica cominciarono a prendere forma, con la lucida determinazione di modificare la rotta delle ricerche e di svecchiare lo stesso ruolo appartato della disciplina, ulteriormente appesantito dall’orientamento crociano che aveva relegato tutto il fenomeno giuridico in un cantuccio della vita pratica. «L’antesignana lettura» di Bruno Paradisi, evocando la ricerca della ‘ragione giuridica’ da parte degli umanisti nella coscienza di una sostanziale discontinuità e quindi del «divario del presente rispetto all’antichità», bandiva gli apriorismi e si mostrava già pronta a scandire nel presente «il mutare del metodo» con una «peculiarissima compenetrazione della storia del diritto e del diritto positivo» (pp. 299-305).
Il primo numero della celebrata Rivista, alla stregua di un manifesto programmatico aggregante, riprodusse gli impeti, concordemente dissonanti ed entusiasti, di quanti si ritenevano pronti ad effettuare l’agognato salto qualitativo: la storia del diritto concepita come conoscenza dell’esperienza e delle istanze sociali, come strumento per scrutare il profondo degli spostamenti che si verificano nel rapporto mutevole tra fatti e valori, con interesse prevalente per le questioni generate dalla modernità. Anche il titolo del presente volume, Storia e diritto, d’altronde non può che richiamare alla mente un’altra pregevole collana italiana di studi e testi iniziata in quello stesso passato prossimo. Da quel tempo, il confronto dialogico che i Quaderni fiorentini hanno tutto il merito di aver dischiuso nel «solo rispetto del paradigma scientifico del cardine giuridico», pur cambiando le ‘stagioni’, non ha mai inficiato o compresso «la ‘libertà’ dei ‘modelli’ e delle ‘dimensioni’ proposti nella loro pluralità e multidisciplinarità» (p. 298). Si può certamente affermare che queste costanti sono state le premesse sensibili che hanno consentito di riequilibrare il rapporto con i cultori del diritto positivo e di stabilire proficue connessioni tra i distinti piani di indagine di una medesima ed unitaria scienza.
Il «protagonismo dei soggetti» e, non meno, dei vecchi maestri risulta centrale nel saggio di Italo Birocchi. Suggestivi collegamenti epocali stanno ad indicare come dalla prima età moderna, mentre «il mondo si allargava all’umanità e nel contempo si settorializzava negli ordinamenti giuridici degli Stati» ridefinendo i binari dell’appartenenza ed il rapporto con il diritto romano, l’orizzonte intellettuale del giurista iniziasse ad abbordare «relativismo, storicità e comparazione» (p. 433). È il successivo affaccio sulle tendenze ed i passaggi cruciali della storiografia giuridica post-unitaria che fa entrare in scena Francesco Calasso. Una figura che negli anni Trenta del XIX secolo, allorché l’ideologia nazional-statualista si rivolse al diritto comune nell’intento di rimpolpare gli elementi di giustificazione dell’ordinamento vigente, giocò un ruolo decisivo nel dare avvio al «processo di riappropriazione di spazi trasnazionali» (p. 427): il diritto comune, lungi dal rappresentare una «seconda vita del diritto romano» o un Juristenrecht, iniziò a concepirsi come «storia giuridica dei popoli europei, di cui faceva parte il diritto italiano» (p. 446). In proposito Birocchi, pur ammettendo i limiti idealistici della svolta calassiana, laddove insisteva sul carattere ‘legislativo’ del sistema e sulla spiccata matrice italiana, la considera una tappa importante per il futuro della disciplina: il professore leccese «col grimaldello del diritto comune apriva la via» ad orizzonti più ampi anche se non riusciva a percorrerla tutta (p. 449). Intanto recuperava alla cultura giuridica la storia come esperienza viva dotata di una dimensione aperta, nella quale enti e soggetti individuali risultavano costruttori di ordinamenti. Nell’attualità la strada imboccata conduce alle ‘storie’ del diritto, alla molteplicità, ai temi universali della protezione dei diritti umani che si situano al di là di barriere ordinamentali.
La dimensione internazionale del volume risulta assai cospicua e riccamente articolata tra risultati e suggerimenti. La pluralità di ‘storie’ è elemento prospettico caratterizzante anche del caso spagnolo, che esce da un secolo opprimente sul piano della vita civile, culminato nella rottura dello Stato centralista e nel riconoscimento della relativa pluralità territoriale. Clara Álvarez Alonso propone una carrellata degli interventi più densi di significato che dal 1974 hanno dato l’abbrivio ad una nuova storiografia giuridica intesa come ampio e libero «conocimiento». Clavero, Tomás y Valiente, Lalinde Abadía sono stati i primi che «se sentían juristas pero guardaban un profundo respeto por las cientias sociales y una íntima afección a la Historia» (p. 64). Contro le manipolazioni operate dalle tendenze retrospettivamente nazionalistiche, allora si è cominciato ad illustrare la «problemática de la memoria y el olvido». L’avvento della Carta Costituzionale del 1978, come ha indicato Marta Lorente Sariñena, rappresenta il dies a quo del risveglio di una diffusa «actitud crítica respecto de las ideologías» (p. 87). Inauguratosi il processo «autónomico» a favore delle differenti Comunità, sono state valorizzate la base sociale e le singole nationes, frantumando molti topoi della Spanish unity, tra cui quello strumentale di una ‘storia del diritto spagnolo’. Agli studiosi sordi ai fondamentali cambiamenti che ridisegnano la geopolitica e la geostoria del Paese, si sono contrapposti quanti, sulla base di queste premesse ed appropriandosi di vasti spazi di ricerca, stanno costruendo più ‘storie’, cercando la collaborazione con i giuristi ‘positivi’ nell’edificazione del nuovo Stato-Nazione e nei rapporti con l’Europa.
L’ancoraggio agli orizzonti sovranazionali, come punto di forza per la costruzione di una nuova storiografia giuridica, costituisce il leitmotiv di un’altra serie di interventi. Michael Stolleis, dopo aver segnalato i «paradossi» che hanno connotato gli studi in Germania, ha spostato la sua riflessione in avanti, sulla globalizzazione, che impone alla scienza urgenti correttivi metodologici e di obiettivi. La prospettiva lanciata ambisce ad una storia «integrale» del diritto sciolta da vincoli predeterminati e da partizioni/contrapposizioni settoriali (p. 37), che instauri un rapporto sinergico con altre discipline contigue, quali l’etnologia, e si interroghi sulle dinamiche e sul grado di interscambio tra società e diritto avvalendosi di un principio assimilabile a quello dei «vasi comunicanti». Risulta particolarmente interessante ed adeguata la proposta, già espressa dalla Storti, di privilegiare nella ricerca il ‘momento giurisdizionale’, come luogo di verifica dell’effettività del legiferare e del suo valore di «atto comunicativo» tra i diversi livelli dell’esperienza giuridica. Una griglia che, secondo Stolleis, si adatta bene ad un’epoca sempre più macrodimensionata, pluriculturale e «multinormativa», in cui la condizione dell’individuo presenta qualche analogia con quella dell’uomo medievale «sottoposto contemporaneamente» a più diritti diversi (p. 39).
Sul panorama francese delle nouvelles tendenze e dei nouveaux territori raggiunti dalla ricerca storicogiuridica si sofferma Jean-Louis Mestre, che pone in risalto la familiarità con i giuristi di diritto positivo rivelatasi uno stimolante incentivo allo sviluppo de «l’histoire de la justice» nelle varie ramificazioni e «de la pensée juridique» (p. 52). L’attenzione postbellica per il diritto coloniale ha indirizzato gli studi pure verso la storia «des droits de l’homme et des libertés fondamentales». In Finlandia, come dichiara Heikki Pihlajamäki, gli studi storici prediligono largamente la dimensione pubblicistica e comparativa. Dag Michalsen, con riferimento al legal historical reasoning in Norvegia, rammenta che con l’entrata in vigore della costituzione nel 1814 e per l’assenza di successive alterazioni ordinamentali di tipo dittatoriale l’approccio degli storici del diritto è improntato ad un «methodological liberal nationalism» che ora si indirizza verso sbocchi internazionalisti (p. 135). Qualche nota critica, invece, è rivolta alla corrente del realismo scandinavo che, assumendo come suoi canoni «neutrality» e «skepticism», rischia di capovolgersi vivificando forme di «legal fundamentalism» (p. 138).
La sintonia di vedute ed i risultati raggiunti nel vecchio continente da alcune tendenze storiografiche non rimane estranea alla sensibilità di gruppi di studiosi d’Oltreoceano portatori di culture giuridiche lungamente soffocate e strumentalizzate, alla ricerca della propria identità. La dimensione euristica in Argentina, come dimostra Víctor Tau Anzoátegui, ha già avviato un rinnovamento diffuso all’interno alla storia del diritto, incentrando gli studi sul plurisecolare Derecho indiano (p. 209), sugli elementi di continuità e di discontinuità di quel patrimonio di idee e di figure giuridiche, finora trascurato ed invece imprescindibile per comprendere la fasi della transizione verso le moderne normative nazionali dell’America Latina. Per il Brasile, Arno da Ri Jr. ha segnalato la notevole fioritura di studi storici di impronta penalistica, che già dalla fine dello scorso secolo si è connotata precipuamente come «storia sociale dei sistemi penali», ossia il prodotto di un dialogo tra più discipline. Negli ultimi lustri, dopo la fine della dittatura, le ricerche stanno avanzando sul terreno vischioso e sfuggente dei reati politici, mostrando la chiara esistenza di un «doppio livello di legalità» (p. 178). Ricardo Marcelo Fonseca calca l’accento sul mirabile lavoro svolto da alcune figure della scienza giuridica tardo-ottocentesca che, svicolando tra i modelli istituzionali di ‘Stato di diritto’ di provenienza europea, sono riuscite ad elaborare un sistema giuridico patrio originale, tagliato su misura, ispirandosi a fonti importate tradotte e, perciò, spesse volte volutamente reinventate, distorte e ‘tradite’ (p. 424). Diversamente la situazione del Messico descritta da Rafael Estrada Michel lascia intravedere quanto risulti ancora lunga la strada da percorrere, poiché solo di recente la storia giuridica sta spostando il focus verso il recupero delle pratiche indigene indiane e delle sottostanti strutture sociali. Grazie alle influenze esercitate dall’indirizzo ‘relativistico’ del grande intellettuale spagnolo Francisco Tomás y Valiente, sono in corso lavori miranti al superamento di quello stile dogmatico-normativistico, che è stato produttore di freddi e decontestualizzati elenchi di antica legislazione, di verità sedicenti definitive, non di rado in contrasto con i reali meccanismi della giustizia.
Nel Paese asiatico più popoloso della terra la storia giuridica, come indica Lihong Zhang, è uscita da una fase di oscurantismo e di «nihilism» (p. 270), solo quando è giunto al termine il ‘dominio ufficiale’ del marxismo (1949-1979) per il quale il diritto era da ritenersi una mera emanazione della classe preminente. Caduta tale monolitica ed opprimente dimensione ideologica, in Cina si è verificato un deciso recupero degli studi storico-giuridici alla luce di una differente e ben più ampia visione del diritto, come il riflesso di principi etici, di consuetudini, di norme scritte, di meccanismi sociali. Tutti elementi non trascurabili, che hanno avuto in passato e continuano ad avere un peso significativo quando v’è da suggerire e formulare le soluzioni giuridiche dell’attualità.
Fin qui hanno sfilato il passato ed il presente. Si rappresenta decisamente il futuro nella parte del volume dedicata alla Storia del diritto e scienza giuridica, analizzando alcuni aspetti della complessa e mobile relazione tra storici e ‘vigentisti’ ed un ventaglio di ipotesi epistemologiche. L’opera di Franco Cipriani, «conocido dogmático y jurista practico» dedito «al cultivo de la historia» (p. 327), è menzionata da Carlos Petit per destinare alla iushistoriografía contemporanea qualche nota generale di critica e specialmente l’invito ad un incremento delle ricerche sul tema del processo e della giustizia civile in rapporto al variare degli assetti costituzionali ed alla diffusa «ideología» garantista. Tale snodo di problematiche risulta finora scarsamente sviluppato, piuttosto lasciato alla sola prospettiva circoscritta dei giuristi positivi, tecnicamente validissima ma monca di ogni richiamo diacronico, quindi all’origine socio-politica di molte «batallas» e di recenti conquiste. Quanto al dialogo tra giuristi in area svizzera, Pio Caroni mostra scarso ottimismo. La prassi dell’«uso pubblico della storia» (p. 369) nei Cantoni deriva dalla radicata tradizione democratica che, rifuggendo sapienzialità e dogmatismi, lascia persistere un ordinamento non intaccato dal fenomeno codicistico, incline al controllo popolare diretto della produzione normativa. Insistendo sulla continua osmosi tra passato e presente, si è potuto costruire un consenso preventivo e si è ridotta l’alea referendaria sempre in agguato. Naturalmente questo avvicinamento alla storia giuridica, laddove è risultata critica e non asseverativa, ha complicato l’operato dei giuristi positivi, i quali nel presente sembrano propendere per il silenzio con i colleghi storici.
Nella notevole varietà dei saggi raccolti una stimolante lezione di critica della metodologia storica e di teoria del diritto, marcatamente problematica, si trae dal contributo di Jean-Louis Halpérin che, muovendo dall’analisi della scienza dogmatica e prescrittiva originata dagli insegnamenti di Savigny, ha evidenziato con chiaro apprezzamento i pregi della rivoluzione ermeneutica condotta da Max Weber. Rotti gli argini storicistici, allora sono emerse in posizione dominante tre correnti di analisi scientifica: la ‘espressiva’ (Ross), la ‘hyletica’ (Alchourron e Bulygin), la ‘sociologica’ (Foucault). Ma i distinti criteri operativi, adottati singolarmente, appaiono inadeguati e insufficienti (p. 382). Pertanto occorrerebbe liberarsi degli schemi interpretativi previ e giustamente utilizzare i molti strumenti a disposizione (normativi, dottrinali-giurisprudenziali, sociali), perché la comprensione dei cambiamenti ordinamentali richiede di soffermarsi sulle loro interne ragioni e modalità. È il soggetto del processo di conoscenza che è tenuto ad adattarsi ed a seguire l’oggetto nelle sue varie sfaccettature, e non viceversa costringendo i fatti in una sorta di griglia precedentemente confezionata.
Proprio partendo dall’oggetto e ritornando al soggetto, sulle linee di uno stimolante confronto di posizioni e di rimedi, Michel Troper ha evidenziato, con molto realismo, la duplice difficoltà speculativa in cui ci si imbatte: non sempre è agevole comprendere l’effettivo sistema giuridico di un’epoca datata senza attingere alle rappresentazioni soggettive (con valore di opiniones) che di esso, in quel tempo, si sono fatte; per non sottacere la riluttanza ad adoperare concetti di ben più tarda formulazione, giustificata dal timore di scivolare in fuorvianti apposizioni ed anacronismi. La teoria e la storia del diritto – propone arditamente lo storico – potrebbero fondersi, allora, in un’unica scienza fornendo una chiave di lettura posta in posizione mediana, che opti per una distinzione tra «concetti» e «métaconcepts». I primi, del tutto relativi, scaturenti induttivamente dall’analisi di uno specifico contesto spazio/temporale; «anhistoriques» (p. 392) i secondi, categorie unificanti elaborate by legal theory ed utilizzabili categorie per coordinare e sintetizzare ex post fenomeni reali. Sul bisogno radicato di «typologies for orientation», di cui si stenta a liberarsi, concorda Joachim Rückert (p. 414).
I saggi conclusivi attengono ancora a questioni di metodo e mostrano quanto il rischio di cadute in un bidirezionale proiezionismo storico sia stato e rimanga alto. Le sollecitazioni critiche che Bartolomé Clavero, ha indirizzato agli storici del diritto si fondano sulla «pretensión» (o forse presunzione) di molti di trasmettere, con il loro lavoro, categorie e valori universali che si vanno a proiettare sul futuro del diritto europeo, senza che la ricerca ricopra un campo effettivamente «universal». Così pure, mentre resta preminente l’interesse per il diritto positivo, inteso in un’accezione larga (ius commune o ius civile e common law), rimane contenuta l’attrazione per il diritto consuetudinario ed i costumi sociali finendo per affidare agli studi antropologici la vicenda esistenziale di quella parte di umanità diversa, che si disciplina attraverso regole non qualificabili «estrictamente derecho»; i diritti umani nella loro reale cifra cosmopolita sono ancora concepiti più come un’ideologia e un’aspirazione, che non una situazione di fatto suscettibile di studio. Il che risente di scarsa indipendenza da situazioni di potere (o malcelata soggezione). Il timore di scambiare «lo realmente universalista con lo falsamente universalizable o con lo universalizado en falso» (p. 480) si riduce se prende corpo la «cooperación» con altri ambiti giuridici e culturali.
Collegamenti e scambi, interazioni e ibridazioni sono i canoni a cui rinvia António Manuel Hespanha. La globalizzazione rende obsolete le distinzioni ed i confini troppo netti del binomio concettuale e pratico ‘global/local law’. Bisogna quindi attrezzarsi ad accogliere, come ordinaria, la coesistenza di parametri apparentemente incompatibili, intendendo lo ‘spazio’ non soltanto nel significato geografico, ma anche sociale, culturale, etnico. I giuristi storici devono spalancare le finestre della loro scienza sull’avanzata di una palpitante molteplicità di statuti e di condizioni personali, che si appresta ad introdurre una diversa concezione della legge, la quale va sempre più a configurarsi come un ‘normative standard’ destinato ad un gruppo specifico (ad es. professionale) oppure ad un singolo settore o livello della «legal communication».
Tempi di bilanci e di costruzioni, di incertezze e di prospettive per la storia del diritto. Al termine di un importante Forum internazionale di culture, svoltosi sotto l’egida del pluralismo, tra diversità di realtà nazionali e di vedute, tra note di perplessità e recuperi idealistici, una unità e convergenza progettuale di intenti sembra raggiungersi: rilancio del tema del processo e della giustizia, cooperazione con discipline interne ed esterne al jus, tavolo di lavoro e di discussione tra scienziati continuamente aggiornato risultano essere gli obiettivi reclamati per il futuro prossimo. Nelle Considerazioni conclusive anche Paolo Grossi, tornando sulla relazione storia-diritto, sottolinea le «luci ed ombre, sordità e disponibilità» che il colloquio tra storici giuristi e cultori del diritto positivo continua ad incontrare. Nel mentre, gli odierni sistemi di civil law, specie quello italiano, stanno assistendo non senza smarrimenti al ‘disordine’ delle fonti ed alla crisi del sistema. E proprio il diffondersi del pluralismo giuridico necessita della coesione tra giuristi, di mantenere aperto il dialogo che, nel rispetto di ruoli e competenze, si rivela un arricchimento ed un comune punto di forza: lo storico, che è in grado di interpretare i fenomeni giuridici come espressione di un contesto di valori sociali e di esperienze civili rappresenta la «coscienza critica» del cultore del diritto vigente. Con il suo messaggio d’insieme, egli solo può dare ‘il senso della linea’, indicare al collega le radici profonde del diritto attuale e delle sue tante miserie: producendo «atti di conoscenza giuridica», di cui i Quaderni fiorentini offrono una ricca selezione, non si sottrae a disegnare itinerari possibili e direzioni avveniristiche.





1 Atti dell’incontro internazionale di studi in occasione dei 40 anni dei Quaderni fiorentini. Firenze 8-19 ottobre 2012, a cura di B. Sordi, Milano, Giuffrè, 2013.^
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