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Franco Della Peruta
di Giuseppe Galasso
Nell’Italia che rinasceva dalle rovine del fascismo e della guerra, cultura e politica formarono un binomio che neppure lontanamente si pensava di poter deprecare, in nome, ad esempio, di una adulterante contaminazione fra la purezza della république des lettres e la interessata materialità della politica. E tanto più notevole è questo dato di fatto – del resto, notorio – in quanto, nel presupposto, si partiva dalla piena condanna della oppressiva strumentalizzazione di cui la cultura e la vita culturale erano state vittime nel ventennio fascista. La compenetrazione fra cultura e politica non appariva, quindi, per nulla destinata inevitabilmente a un nesso distruttivo.
A portare a una tale visione delle cose era, evidentemente, l’implicita presunzione che fosse la qualità di quel rapporto a determinarne la positività o negatività; e che tale qualità dipendesse essenzialmente dai valori in gioco nel dibattito politico-culturale. E ciò spiega perché, poi, nello stesso campo antifascista, più che concorde nella riprovazione del binomio politica-cultura nell’ideologia e nella prassi del fascismo, la contrapposizione risorgesse poi violenta, frontale e poco meno che totale a seconda dei valori che ciascuna delle parti dell’antifascismo assumeva come propri.
Le generazioni degli italiani che maturarono in questa congiuntura storica trassero motivo per una profonda convinzione del significato etico e politico della cultura e dell’impegno culturale. Non fu per essi mai più possibile pensare, in seguito, a un a distinzione di campo, che mettesse l’homo doctus da una parte e l’homo politicus dall’altra. Una lezione sull’unità della persona nell’omogeneità della sua vita morale, che in seguito è andata largamente perduta sotto la spinta di altre circostanze e di altre esigenze. Ma, checché si voglia pensare di questo, il fatto è che nell’animo e nella mente dei giovani italiani degli anni ’40 e ’50 cultura e politica si atteggiarono come si è detto, e ne condizionarono la formazione e la successiva attività.
Per Franco Della Peruta ciò fu vero come per tutti i suoi coetanei. Del 1924, come lui, furono pure Rosario Romeo, Vittorio De Caprariis, Pasquale Villani, Ettore Lepore, Paolo Spriano, Piero Badaloni, Alberto Tenenti, Renato Zangheri, ma gli altri protagonisti della ricerca e del dibattito storiografico italiano di cui Della Peruta fu tra le parti più attive e autorevoli, erano in media di cinque anni più anziani (Giampiero Carocci era del 1919, Guido Quazza era del 1922, Ruggiero Romano del 1923) o più giovani (Gaetano Arfè e Rosario Villari del 1925, Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Alberto Caracciolo, Luciano Cafagna e Gaetano Cingari del 1926, Giuseppe Giarrizzo del 1927, Marino Berengo e Corrado Vivanti del 1928, Renzo De Felice, Sergio Bertelli, Roberto Vivarelli e io stesso del 1929).
È un’anagrafe sommaria, incompleta, ma dà forse subito un’idea dei coetanei di Della Peruta e del mondo in cui maturarono le sue passioni intellettuali e civili, essendo troppo presto per delineare un profilo argomentato e documentato degli studi, della formazione e della maturazione della sua personalità di intellettuale e di storico. Se dovessi esprimere una mia impressione personale di antica data, non esiterei molto ad affermare, che per quanto lo riguarda più a fondo, una componente autodidattica, autoformativa sia stata in lui più forte di quanto non si possa pensare in base ad altri elementi. Non è un caso che della grande covata gramsciana del dopoguerra, alla quale certamente anch’egli appartenne con tutte le relative implicazioni ideologiche e politiche, sia stato proprio lui uno dei pochi, davvero pochi meno toccati e condizionati nel profondo, e alla lunga, dalla spinta ideologica fortissima di quella covata. La scelta di quelli che sarebbero poi sempre rimasti i temi dominanti e caratterizzanti della sua attività di storico rientrò indubbiamente in quel compito di revisione e di ripensamento della storia italiana del Risorgimento e dell’unità che la generazione e la storiografia gramsciana assunsero come proprio primario compito civile e scientifico. Né si può dire che in tutta la prima fase dei suoi studi Della Peruta non manifesti questa matrice genetica anche nelle ricostruzioni e nei giudizi ai quali perviene.
Il suo tema fu subito, come è ben noto, lo studio del pensiero e dell’azione politica dei democratici italiani nel Risorgimento, e in particolare intorno al nodo cruciale dei grandi eventi italiani ed europei del 1848-1849. Quando di questi studi si ebbe nel 1958 il primo frutto col volume I democratici e la rivoluzione italiana, apparve immediatamente chiaro che con Della Peruta si era formato un nuovo, notevole punto di riferimento e di gravitazione degli studi risorgimentali. Il sottotitolo del volume – Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848 – ne specificava opportunamente la materia, temporalmente limitata agli anni 1849-1853 tra la caduta della Repubblica Romana nel 1849 e il fallimento del moto mazziniano milanese del 1853, ma criticamente impostata come studio delle origini, per così dire, della crisi del mazzinianesimo come asse portante della democrazia risorgimentale. Una crisi che lo storico vedeva scaturire dall’interno stesso del movimento mazziniano e sul terreno politico-ideologico sul quale Mazzini appariva e si sentiva più forte e più innovatore: quello, cioè, del rapporto tra il movimento repubblicano, la rivendicazione nazionale risorgimentale e la mobilitazione e il ruolo delle masse popolari. Per Della Peruta si era diffusa fra gli stessi mazziniani e negli altri democratici italiani la profonda convinzione che occorresse puntare da subito sulle masse come protagoniste del sommovimento storico a cui si aspirava. Per queste frazioni mazziniane e democratiche la realizzazione dell’idea nazionale e repubblicana non permetteva di assegnare agli obiettivi politico-istituzionali quella priorità che a Mazzini poteva sembrare, e sembrava, addirittura ovvia. Per penetrare in questo mondo, spesso informe, occorreva innanzitutto approfondire lo sguardo al suo interno, rafforzando una visione non accentrata tutta e soltanto intorno al grande e venerato iniziatore del movimento che era stato e rimaneva Mazzini. Si trattava, quindi, di dare un quadro alquanto più articolato della democrazia italiana. Non erano solo Cattaneo, Ferrari, Montanelli, Pisacane ad animare il quadro della ricerca dei democratici italiani di nuove vie dopo il grande fallimento del 1848, ma anche figure alle quali, su questo piano, non si era data fino ad allora una sufficiente attenzione, come quelle di P. Maestri, di C. Rusconi, di E. Guastalla, di C. De Cristoforis. Si delineava una tendenza, soprattutto del Ferrari, a rompere l’egemonica e fino ad allora indiscussa direzione mazziniana del movimento. Che per questa via si delineasse da parte di Della Peruta quel “socialismo risorgimentale” che da qualche tempo si andava postulando non si può dire. Ma netta era nelle sue pagine l’idea di una alternativa democratico-sociale alle idee mazziniane, con una, per quanto soltanto, implicita deduzione di un carattere più avanzato di tale alternativa.
Era nella delineazione di un’idea democratico-sociale del movimento nazionale più avanzata di quella mazziniana che si ritrovava nella monografia del 1958 quel certo condizionamento ideologico di cui abbiamo fatto cenno come rispondente al contesto della spinta politico-culturale, quadro in cui allora Della Peruta si muoveva. Ma già va, intanto, notato che il giovane storico restava ben lontano dal configurare Mazzini e la sua azione post-1848 come consegnati soltanto a un opaco tramonto. La sua delineazione di come Mazzini opera ricostruendo il tessuto del suo movimento dal Nord al Sud del paese è molto efficace, e proprio perciò porta a dare al fallimento del moto milanese del 1853 tutta l’importanza che ad esso va riconosciuta, e che apre, come Della Peruta conclude, una nuova fase nella storia della democrazia italiana.
Per giungere a una tale ampia, rinnovata e circostanziata visione di eventi che erano da sempre vivi nelle cronache risorgimentali Della Peruta aveva molto volto lo sguardo oltre i confini italiani, cercando di cogliere nella loro interezza i nessi fra svolgimenti post-quarantotteschi al di qua e al di là delle Alpi. Ancora di più aveva guardato alla prima diffusione di idee socialiste (dalla Francia, in particolare) in Italia. Aveva, insomma, fatto ampiamente tesoro della lezione della migliore storiografia del Risorgimento, che aveva ormai divulgato la necessità di dare una prospettiva pienamente europea al movimento nazionale italiano non solo per sottrarlo alle secche di un deteriore nazionalismo storiografico, bensì anche per coglierne tutta l’effettiva portata e modernità. Rimaneva, comunque, incerta, anche nella monografia del 1958, tutta una serie di punti di primaria importanza. Il principale, da un certo punto di vista, era che ai democratici sfuggì pressoché del tutto il carattere strategico e duraturo della sconfitta della “rivoluzione europea” nel 1848. Non emerge, invero, nemmeno nella ricostruzione di Della Peruta, ma egli, sia pure nell’ambito del movimento italiano di cui si occupava, riuscì a chiarire bene come fosse ormai sulle macerie di quel fallimento che si doveva agire e ricostruire, per necessità di cose, su un tutto un altro terreno, e che questo comportava una vera e propria dislocazione sociale e ideologica dei movimenti che avevano perduto quel treno della storia.
Abbiamo dato un certo sviluppo all’analisi del primo grande studio di Della Peruta anche perché esso non fu affatto un’impresa destinata a concludersi in se stessa. Al contrario, il libro del 1958 si sarebbe rivelato come l’ampio portale attraverso il quale sarebbe passata un’attività pressoché cinquantennale di studio delle idee e dei movimenti democratici in Italia, che ha fatto di Della Peruta l’autore da questo punto di vista per varie ragioni più rilevante nella storiografia italiana. Più rilevante, tra l’altro, perché egli si muoveva nell’ambito di una storiografia per la quale la storia del movimento socialista rappresentava il cardine e il tema-principe nella storia dell’Italia unita. Implicita era la presunzione che rispetto a questo tema il mazzinianesimo e la democrazia risorgimentale perdessero sostanzialmente di rilievo. Né era assente il pregiudizio paleo-marxistico per cui quello era tutto pensiero e azione borghese, di cui l’avvento dei partiti e movimenti operai e delle idee autenticamente socialiste avevano decretato una irreversibile, metaforica decapitazione. Le vicende di una piccola sezione socialista, di piccoli gruppi e leghe illuminate dal nuovo orientamento, e ogni altra affine materia assumevano una corposità storica di ben altro peso.
Rispetto a questa istanza e direzione di studio – alla quale non solo egli era aperto e sensibile, ma partecipava in qualche modo e favoriva – il senso profondo delle ricerche e degli studi di Della Peruta andava in altra direzione, puntando su quella fase e quegli aspetti della storia dell’Italia contemporanea in cui era maturata e si era espressa una tendenza italiana, per nulla trascurabile, di idee e di politica in materia di “questione sociale”. Non era il “socialismo risorgimentale” che egli si prefiggeva di cercare, bensì, se così si può dire, la “democrazia sociale” quale si era manifestata fin dagli anni risorgimentali, nei suoi complessi rapporti innanzitutto e soprattutto con la questione nazionale. A ciò era dovuta non solo la centralità, che egli mantenne sempre, della figura di Mazzini in questo panorama, ma anche il suo tanto innovativo ampliamento di tale panorama grazie a una esplorazione intensiva e felice di tutto il mondo che gravitava intorno a Mazzini o che, nello stesso ambito, in qualche modo, e in varii tempi, a lui si contrapponeva. E per questo verso non è troppo azzardato dire che egli riprendeva e istradava in una nuova e originale direzione un indirizzo di studi che fino ad allora aveva trovato un solo episodio degno di grande nota, e cioè lo studio di Nello Rosselli su Mazzini e Bakunin, del 1927, rimasto a lungo trascurato e poi ripubblicato nel 1967.
Rosselli non solo aveva mostrato la fervida e nuova attività di Mazzini sul terreno sociale nell’Italia unita, al quale veniva quindi in gran parte ricondotto anche molto delle origini del movimento operaio italiano, ma aveva anche indicato il contrasto in cui Mazzini e il suo movimento si ritrovarono con altre tendenze in materia di questione sociale. Altre tendenze, che non erano solo quelle marxistiche, come si continuò a lungo a pensare, ma – ed era stato questo un merito particolare di Rosselli – lontane o avverse rispetto al marxismo, come per l’appunto era Bakunin, al quale toccò così quel ruolo nella storia italiana dei primi decennii dell’unità a cui aveva diritto. Vero è che poi questo posto fu alquanto offuscato, nuovamente, dalla diffusione della storiografia che dopo la seconda guerra mondiale riservò al marxismo e ai movimenti ad esso riportati il monopolio dell’avvio e della guida dei movimenti popolari e sociali nell’Italia post-risorgimentale. Al suo modo semplice, ma per nulla elementare, anche in questo Della Peruta partecipava di questa esaltazione del ruolo del marxismo, ma senza restarne per nulla prigioniero. Tanto poco prigioniero da aver individuato, come si è detto, una tematica di ricerca e di studio che anche al tempo di Rosselli, trent’anni prima, non aveva molti precedenti.
Non voglio affatto dire con ciò che Della Peruta si rifacesse a Rosselli, che anche in seguito è citato da lui soltanto di rado. Voglio solo sottolineare la sua originalità nell’essersi avviato per la sua direzione di studio nel quadro, per dirlo molto sinteticamente, gramsciano, ma nell’autonomia delle proprie prospettive euristiche e critiche. La sua attività degli anni successivi lo avrebbe portato a tracciare un quadro imponente della democrazia sociale italiana nel Risorgimento e dopo: basti pensare a volumi come Democrazia e socialismo nel Risorgimento (Editori Riuniti, 1965), o Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il partito d’azione 1830-1845 (Feltrinelli, 1974), che consolidarono rapidamente la sua fama di studioso del settore. Lo sviluppo di questi studi lo portò pure a interessarsi in particolare di figure come Garibaldi, Pisacane, Ferrari e altri, di cui fornì reiterati ritratti e rievocazioni, che non sono la parte meno interessante del suo lavoro. Ancor più lo portò ad approfondire il profilo del pensiero politico del mondo da lui così amorosamente indagato, come attesta fra l’altro soprattutto il davvero notevole volume ricciardiano su Giuseppe Mazzini e i democratici, del 1969, che rimane una delle migliori antologie mai proposte in materia. Lo portò, inoltre, ad estendere dai democratici ad altri settori del mondo politico risorgimentale, e diede alla sua visione di quel mondo una particolare latitudine di valenza storiografica, come si vede bene nel volume Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento (F. Angeli, 1989).
Studioso maturo e tendenzialmente completo del mondo che aveva formato l’oggetto originale e meritorio della sua prima stagione storiografica, Della Peruta non restò, peraltro, per nulla rinchiuso in esso, nei confini di quel mondo storiografico, anche se esso continuò sempre a rappresentare una parte primaria e mai disertata della sua attività di studio. La sua evoluzione dalla fine degli anni ’50 in poi è da questo punto di vista una pagina importante nella storia della storiografia italiana contemporanea, e ha perciò un interesse che non è soltanto biografico e personale.
Si trattò, in sostanza, del passaggio da un tipo a un altro tipo di “storia sociale”. La storia sociale nella quale credette di trovare il suo risolutivo vangelo storiografico la generazione dei giovani storici gramsciani coetanei di Della Peruta si rifaceva a una versione semplificata della concezione marxistica della lotta di classe quale filo rosso dello sviluppo storico. E parlo di versione semplificata perché già nel gramscismo, anche quale era allora inteso, e ancor più nel contesto della cultura italiana, di allora come di sempre, era forte la presenza e si faceva sentire l’influenza, risentita a suo tempo dallo stesso Gramsci, di orientamenti culturali e di elementi valoriali del tutto opposti a quelli marxistici.
Per questa storia sociale l’idolo polemico era la storiografia etico-politica di stampo crociano, alla quale si contrapponeva una storia che faceva delle differenze e dei contrasti degli interessi di classe la principale chiave di lettura della storia nazionale, e in particolare del Risorgimento e dell’unità. Di qui la versione del Risorgimento come opera della borghesia, tradotta in un sistema di interessi politico-istituzionali-sociali di suo esclusivo vantaggio, o come “rivoluzione agraria mancata”; di qui la versione della storia dell’Italia unita come una insuperata contraddizione fra interessi delle classi dominanti, fatalmente destinata a concludersi, in ultimo, nello sbocco del fascismo.
A questa storia sociale se ne affiancò, dalla fine appunto degli anni ’50, un tipo diverso. Un documento esemplare di questa svolta furono certamente, dopo pochi anni, i “Quaderni storici”, ideati da Alberto Caracciolo e condiretti con lui da Pasquale Villani, che ai nuovi interessi di storia sociale accompagnavano quelli per la storia economica. A ragione si è parlato della influenza che in questi sviluppi esercitò la progressivamente crescente influenza che anche in Italia prese a esercitare la cosiddetta “scuola delle ‘Annales’”, la grande e fin troppo famosa rivista storica francese allora diretta da Fernand Braudel.
È difficile, però, inquadrare lo sviluppo degli interessi storiografici di Della Peruta nel quadro, tuttora consueto, della “rivoluzione storiografica” (così la si è definita) operata dalle «Annales»; e a questo proposito mi sembrano opportune e pregiudiziali almeno due precisazioni.
La prima è che Della Peruta non manifestò mai alcun cedimento alla mitologia delle “scienze sociali” come ancora di promozione e di progresso degli studi storici. L’autonomia e l’autoregolamentazione della storiografia non furono per lui mai neppure lontanamente in discussione; ed egli non è stato di quelli che alla fine del secolo avrebbero dovuto scoprire o riscoprire la storia politica e il racconto come una dimensione essenziale dello scrivere di storia.
La seconda precisazione riguarda il fatto che, come credo facilmente confermabile da chi lo ha meglio conosciuto, Della Peruta non ebbe, né manifestò mai una reale propensione alla teorizzazione formale o, comunque, sistematica del suo indirizzo storiografico. L’estrema, evidente e sorvegliatissima consapevolezza dei suoi criteri e delle sue tecniche di ricerca provano in ogni sua pagina quale espertissimo conoscitore del mestiere di storico egli fosse (e tale, del resto, egli amava considerarsi). Attestato su questa solidissima base euristica e critica, la teorizzazione lo interessava assai poco. L’indispensabile era per lui la piena coscienza, come storico, di sé e dei suoi mezzi. I presupposti teorici e ideologici di una tale coscienza non potevano in nessun caso mancare, e certamente non mancarono in lui. Ma la loro esplicita traduzione in una personale, riflessa teorizzazione non era nelle sue corde. E meno che mai nelle sue corde era la sistematicità di questi assunti.
Per avere una idea concreta della tipologia di storia sociale alla quale egli pervenne si vedano, del resto, gli argomenti che egli prese a frequentare, e dei quali si può avere uno specimen non solo nei suoi lavori, ma anche nei molti volumi collettanei che ideò e curò insieme con altri, e più spesso da solo. Emblematico, su tale piano, è fra questi volumi quello degli Annali della Storia d’Italia Einaudi, dedicato a Malattia e medicina: un campo in cui l’impulso di Della Peruta ha avuto negli studi italiani una influenza e una portata davvero particolari. Ma si pensi anche ai tanti lavori sul giornalismo, sulla stampa femminile, sulla coscrizione obbligatoria, sul mestiere delle armi, su tanti altri temi ben familiari agli studiosi.
La fondazione nel 1978 della rivista «Società e Storia» vide certamente Della Peruta in una posizione di particolare impegno e responsabilità fra gli altri direttori, fra i quali ricordo Mario Mirri, Aurelio Macchioro, Mario Rosa, al punto che non passò molto tempo perché negli ambienti degli studiosi si diffondesse, espressa o inespressa che fosse, la convinzione che quella fosse la “sua” rivista. Ma, checché si debba pensare al riguardo, resta che la rivista ha espresso al meglio la fisionomia degli interessi di studio del Della Peruta più maturo e dell’ampiezza di orizzonte storiografico a cui lo aveva portato quel suo ampliamento della tipologia di storia sociale a cui abbiamo accennato. L’indice delle annate della rivista può essere, perciò, considerato quasi la falsariga di una delineazione di quel che Della Peruta finì col considerare come materia di una storiografia modernamente impostata e adeguata alla vastità dei problemi e degli interessi cui la cultura storica era chiamata nel mondo e nella società contemporanea. Del resto, il termine “società” nel titolo della rivista rispondeva appieno a quanto andiamo dicendo, anche se non va dimenticato che Della Peruta diresse pure «Storia in Lombardia» e impegnò la sua passione e le sue energie e capacità di direzione culturale in varie altre iniziative.
Come hanno osservato un po’ tutti nel ricordarlo alla sua scomparsa, questa passione, queste energie, queste capacità costituivano, in effetti, un altro dei tratti fondamentali della sua personalità, e, a prescinderne, ne soffrirebbe anche il suo profilo di storico. Anzi, ancora più radicalmente, si deve senz’altro affermare che al fondo della sua personalità il primo impulso intellettuale e di studio si genera nella sua vera passione per libri e documenti, biblioteche e archivi, e per la massima possibile pubblicizzazione e circolazione degli strumenti di studio bibliografici e archivistici. La sua lunga attività giovanile alla Fondazione Feltrinelli è per questo verso un metro prioritario e condizionante della sua intera vicenda anche esistenziale. Era presente in lui la stoffa di un operatore e organizzatore culturale di grande qualità e applicazione, ed egli la esplicò in una serie di attività la cui considerazione è inseparabile da ogni tentativo che si voglia fare per disegnarne a tutto tondo, come merita, l’opera e la personalità.
Sul terreno degli studi questi elementi si tradussero in un indomito, dominante amore del documento e dei dati di fatto della ricerca. I suoi, numerosi, allievi ne potrebbero certamente dare la migliore testimonianza, ma in ciò era anche la cifra della sua personalità che più immediatamente risaltava fra gli studiosi del suo tempo: una cifra dalla quale le sue stesse amicizie personali in questo mondo degli studi erano anch’esse molto condizionate (e fra queste amicizie mi sia consentito di ricordare in particolare, e non senza commozione, quella con Marino Berengo, col quale anch’io, come con lui, avevo un particolare rapporto di amicizia e di stima, felicemente alimentato anche e proprio dalle nostre diversità di idee e di metodo). Chi oggi consulta, per la parte dovuta ai suoi allievi, i due così ricchi e importanti volumi del 1996 di studi in suo onore, attentamente curati da Maria Luisa Betri e da Duccio Bigazzi si può ben rendere conto del tipo di insegnamento che Della Peruta portò avanti così a lungo nelle aule universitarie, e non solo in esse. Un insegnamento teso alla costante e massima fusione del momento euristico, documentario, filologico, considerato la premessa di tutto, con uno sforzo di intelligente ricerca e comprensione del contesto al quale fonti, documenti, dati materiali e filologici vanno riportati perché possano assumere tutto il loro effettivo o potenziale significato storiografico.
Un significato storiografico che, conforme alla sua formazione e origine culturale, egli non concepiva se non impregnato di senso e valore civile. Le sue idee politiche non erano rimaste, come si sa, le stesse di quelle della sua prima giovinezza, ed egli era forse su questo punto piuttosto riservato anche con se stesso.
I due volumi di Storia dell’Ottocento e di Storia del Novecento che pubblicò con Le Monnier nel 1991 e 1992 fanno, però capire, anche più di quanto esplicitamente non dicano le loro due brevi premesse, quali fossero diventati i suoi approdi sul piano della metodologia e degli interessi storici che egli sentiva ormai come definitivamente suoi. Vi si ritrova, infatti, il richiamo al valore della memoria e della conoscenza storica sul piano dell’identità civile e umana e sul piano degli orientamenti per l’azione e per la vita pratica di popoli, Stati e paesi. Vi si ritrova il parallelo richiamo all’importanza assunta nella storiografia contemporanea dalle dimensioni economiche e sociali degli sviluppi storici, ma anche al «rilievo che ha sempre avuto e continua ad avere nella vita degli uomini associati il momento della politica e dello Stato». Vi si ritrova la conseguente affermazione che è, quindi, «compito dello storico avvicinarsi il più possibile al necessario equilibrio tra i tempi lunghi delle economie e delle società e i ritmi più serrati delle vicende politiche» Sono dichiarazioni di natura essenzialmente pratica, senza effettivo rilievo teorico, conformi, insomma, a quella sua relativamente scarsa propensione a impegni teorici e sistematici, di cui abbiamo detto.
Quegli stessi due volumi fanno, però, anche capire, sebbene alquanto indirettamente, come egli avesse riconsiderato le sue posizioni anche sul piano dei suoi orientamenti politici. I giudizi espressi in particolare sullo sviluppo del comunismo sovietico, sulla storia dell’Italia repubblicana, sugli sviluppi complessivi degli equilibri mondiali alla fine del XX secolo, sulla persistente natura illiberale del regime di una Cina ascesa ormai tra le grandi potenze mondiali, il giudizio sulle fortune e sul declino del marxismo quale filosofia della storia e filosofia politica dopo le grandi fortune dei primi decenni post-1945 mostrano – nel loro riuscito sforzo di coglierne il senso storico essenziale al di là delle polemiche del giorno – che il suo ideale politico non era affatto rimasto fermo alle sue posizioni iniziali. Lo mostrano al modo, appunto, di Della Peruta, ossia senza suonare nessuna tromba e attenendosi all’immediato ed elementare senso delle cose, seguendo un cammino di costante riflessione su uomini e cose, ma anche senza alcun rinnegamento plateale o dichiarazioni di improvvise folgorazioni sulla via di Damasco, anzi tenendo del tutto fermi alcuni punti essenziali delle sue convinzioni politico-sociali.
Per tutte queste sue qualità credo che si possa senz’altro affermare, senza timori di compiacimenti retorici o di circostanza, che Della Peruta è stato dei non molti professori che nella scuola sono e si dimostrano veramente maestri; che egli ha dato molto di buono e di duraturo nella vita civile del suo paese, e molto di buono e di duraturo nella tradizione degli studi storici italiani del suo tempo; che egli ha dato contributi fondamentali all’identificazione e allo studio di elementi di primo piano per la comprensione, nel più ampio quadro storico europeo, della identità e della fisionomia morale e culturale dell’Italia moderna dal Risorgimento in poi. E anche tutto questo va indubbiamente messo nel conto, e in prima linea, del debito non solo di memoria e di omaggio che abbiamo e dovremo conservare verso di lui.
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