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Il semestre italiano
di G. G.
Le elezioni europee sembrano davvero avere segnato una data nella storia delle istituzioni comunitarie.
Il dissenso antieuropeo ha avuto modo di manifestarvisi ampiamente con una folta rappresentanza parlamentare; e ciò è sempre preferibile all’oscuro fermentare di sensi repressi che determinano intorno alle istituzioni un vuoto in cui non risiede nessun elemento positivo di azione e reazione politica e sociale. Esprimere quel dissenso ad alta voce (e, magari, platealmente, come i cosiddetti ‘euroscettici’ hanno fatto nella seduta di apertura del Parlamento allorché è stato eseguito il mirabile brano di Beethoven che costituisce l’inno dell’Unione Europea) comporta anche l’ovvia possibilità non tanto di controllarlo quanto di incanalarlo nella giusta direzione, facendone un elemento della vita istituzionale. L’esperienza ci insegna che è questa una via straordinariamente efficace per una trasformazione del dissenso in elemento interno e dialettico del processo politico, dal quale esso è interessato. E – poiché il cosiddetto ‘euroscetticismo’ è certamente diffuso in Europa ben al di là della sua espressione in voti e seggi al Parlamento Europeo, investendo (come tutti sanno, anche se molti fingono di non sapere) perfino ampi settori dell’opinione che in sede elettorale si è espressa in senso nettamente europeista – l’espressa formalizzazione politico-parlamentare del dissenso è certamente destinata a favorire un più funzionale svolgimento non solo dei lavori parlamentari, ma di tutto ciò a cui essi si riferiscono.
Un altro dato positivo è la conferma dei popolari e dei socialdemocratici quali forze eminenti dello schieramento politico nel Parlamento dell’Unione. La stabilità che questo dato di fatto ormai annoso conferisce all’orizzonte politico della stessa Unione è un dato di grande valore politico e, ormai, già anche storico. Sarebbe, anzi, addirittura determinante e trascinante ai fini di un irrobustimento delle strutture istituzionali e politiche dell’Unione quale da sempre si desidera. Purtroppo, così non è per la semplice, ma esauriente ragione che i partiti confluenti nel partito popolare europeo e in quello socialdemocratico rimangono partiti sovrani e indipendenti, legati alla disciplina sul piano europeo da un convenzionalissimo, ma non molto concreto senso di comune appartenenza ideologico-politica, che – al limite – si potrebbe manifestare fra questi partiti anche se l’Unione Europea non vi fosse (e, difatti, così accadeva già in precedenza). In altri termini, il gioco dei partiti soffre in sede europea dello stesso pronunciatissimo deficit di effettiva forza e capacità vincolante di cui soffre l’Unione nei confronti dei paesi che ne fanno parte.
Anche nel modo di procedere alle elezioni delle cariche istituzionali sembra essersi determinato o avviato qualcosa di nuovo, con una ancora graduale, ma già apprezzabile sostituzione del principio maggioritario a quello dell’unanimità da parte dei competenti alla designazione. È qualcosa di ancora troppo esiguo e parziale, ma merita di essere notato, come segno di un criterio di cui andrebbe promosso un ampio sviluppo.
La stessa esiguità e parzialità può essere ancora di più notata per il criterio di compensazione nazionale col quale sembrano ancora assegnate le cariche o gli uffici in questione. È questo, ovviamente, uno dei segni più evidenti di quanto ancora si sia lontani dalla maturazione di una vera e propria forma mentis federale in quelle che sono le evenienze più significative e costitutive della vita dell’Unione. È questione che si sana col tempo? Vorremmo crederlo e sperarlo. Sappiamo, però, che per attingere la soglia effettiva di quella forma mentis occorrono quei salti di qualità nei quali si rivela e opera in maniera definitiva il grande respiro della storia. Non si poteva chiedere alla tornata elettorale di quest’anno che un tale salto di qualità si avesse, e ciò anche per la semplice, banale ragione che questa non è materia di scelta elettorale. Al contrario. Le scelte elettorali ne conseguono spontaneamente e largamente allorché il salto si è avuto. Il terreno di coltura dello spirito che porta agli indicati salti di qualità è il terreno della vita morale, dello spirito di civismo e di partecipazione, della coscienza di identità e di appartenenza civile, di idealità e, anche, di utopia. Ma le spinte all’unità europea sono ancora molto lontane da tutto ciò, tranne che per piccole minoranze chiuse nella loro fede europeistica, che non hanno finora rivelato quella forza missionaria che i processi di questo genere richiedono, e senza della quale sono destinati a vegetare indefinitamente in una certa prassi. In Italia la parte svolta a questo riguardo da Mazzini nel Risorgimento, e, quindi, nel moto che portò all’unificazione italiana, è ben nota. In Europa non si è delineato finora alcun Mazzini, né sembra che lo si possa aspettare nel futuro prevedibile. Bisognerebbe che fossero, perciò, all’opera in tal senso altre forze, ossia forze politiche e culturali, che si facessero della predicazione del verbo europeistico una missione specifica a cui attendere con impegnata costanza e dedizione.
Tutto, come è facile vedere e intendere, talmente da fondare e perseguire da rendere questo discorso per ora alquanto astratto, se non proprio velleitario. Per ora è al piano concretamente assunto dalla realizzazione dell’Unione che bisogna attenersi, e non è, questo, né un male, né alcunché di gravoso o di poca importanza. Anche così com’è, l’Unione Europea resta un grande fatto della storia contemporanea, e non solo per l’Europa. E resta anche un fatto non facilmente reversibile. È vero che da più parti si parla di ammorbidimento della propria partecipazione all’Unione o, addirittura, e senz’altro, di secessione. Alla prova dei fatti questi discorsi non hanno finora dimostrato di reggere, e certamente non è un caso. Perfino il solo ritiro dalla accettazione a suo tempo compiuta della moneta unica rimane a tutt’oggi un discorso, da parte di chi lo fa o lo sostiene, ipotetico, privo di reale forza attuativa. I vincoli che l’Unione ha determinato e determina si rivelano progressivamente più forti e sempre meno rinunciabili per chi ne partecipa (e lo si vede anche per l’euro, poiché nei paesi che stanno nell’Unione ma non ne hanno accettato la moneta unica sembra andare crescendo la sensazione che questo rifiuto non possa essere proseguito all’infinito).
Se, però, le cose stanno così, sarebbe altamente opportuno che l’Unione facesse qualche serio e lungo passo avanti sui terreni sui quali più (e, invero, a giusta ragione) se ne deplorano le deficienze. Si tratta, come si sa, innanzitutto, della politica estera e della rappresentanza a livello internazionale. Si tratta della politica economica e finanziaria, per la quale l’antitesi rigorecrescita sembra essersi fossilizzata in una impasse paralizzante, senza che se ne intravveda una concreta via di uscita che porti a non parlare solo di crescita, bensì anche di sviluppo, come è necessità essenziale per una gran parte dei paesi membri. Si tratta del ruolo a questo riguardo da definire meglio della Banca Centrale Europea, che, malgrado i grandi e indubbi meriti del suo presidente Draghi e l’azione coraggiosa da lui svolta per attenuare i morsi della crisi specialmente in alcune parti dell’Unione, non è ancora riuscita a compendiare in sé le funzioni di banca centrale e di banca di investimenti, come la logica economica e le necessità dell’attuale fase storica richiederebbero. Si tratta della linea da seguire nei confronti della gigantesca, crescente, inarrestabile ondata, migratoria che preme sull’Europa in provenienza da quello che un tempo si chiamava Terzo Mondo, il cui peso grava quasi per intero sull’Italia. Si tratta dell’adozione di una linea molto meglio definita per quanto riguarda le alternative tra libero mercato e interesse europeo, e di alcuni paesi europei in particolare, rispetto alle attività di paesi esterni dai quali non si riescono a ottenere condotte soddisfacenti, anche su un piano di assoluto equilibrio e reciprocità, per le necessità europee. E, ovviamente si potrebbe proseguire a lungo.
Tutti questi problemi o,almeno, alcuni di essi potranno ricevere qualche soluzione o avviarsi a qualche soluzione nel semestre di presidenza europea dell’Italia, apertosi col 1° luglio? È quanto si ha l’aria di credere e di voler far credere in Italia, dove il significato del semestre è stato oggetto di una campagna di reclamizzazione intensiva. In realtà, il fatto della presidenza del semestre è, in sé e per sé, di non grande valore politico e, soprattutto, esecutivo. È vero che la posizione italiana nell’Unione sembra migliorata col successo e il prestigio guadagnato da Renzi. È vero che l’asse Francia-Germania non sembra essere oggi quello che è sembrato essere fino a poco tempo fa. È vero che il peso dei paesi cosiddetti minori sembra in crescita politica e destinato a farsi sentire domani più di quanto non sia stato solito ieri. Sono vere varie altre circostanze. L’essenza dei problemi resta, però, più che sicuramente quella che sappiamo, e la presidenza italiana (così come è stato e, permanendo le condizioni attuali, sarà anche in futuro per la presidenza degli altri paesi di turno) non potrà fare più di tanto. Si tratta, per l’appunto, di una presidenza di turno, che tocca a giro a tutti i paesi membri. Se, tuttavia, l’impulso dinamico di cui il nostro presidente del Consiglio dei Ministri si è rivelato capace varrà ad accelerare, sia pure di poco o pochissimo, il cammino lungo dell’Unione, che dopo l’istituzione della moneta unica, si è fatto un po’ più pigro, sarà certamente un gran bene, e gioverà indubbiamente alla crescita della figura di Renzi come leader europeo e, in Italia, quale presidente delle riforme.
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