Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XV - n. 3 > Studi e ricerche > Pag. 263
 
 
Vincenzo Cuoco e un’antica querelle dello “status” dei musicisti
di Rosella Folino Gallo
Nell’ultimo scorcio del Settecento in Napoli ebbe luogo una significativa querelle intorno allo status del musicista, alla quale presero parte attiva esponenti più o meno noti dell’intellighenzia napoletana, e il cui antefatto si poneva con la connotazione di un irrilevante atto amministrativo. Nella diatriba in nuce è radicata l’evoluzione – apportata dalla formazione – della professione del musicista quale intellettuale “faticatore”, cioè di colui il quale si procaccia i mezzi della sussistenza con il lavoro della propria mente; questo aspetto sarebbe stato pienamente colto dal Cuoco nel riconoscimento e nell’esplicazione della funzione educativa della musica e nell’ampio e organico disegno del suo progetto educativo che – mirato all’istruzione/educazione dell’uomo – tramite una solida formazione teorica e pratica, voleva essere efficace base per tutte le professioni.
L’epoca dei lumi fece un largo uso di querelles e di dibattiti in generale – una modalità nuova forse di catalizzare l’attenzione su argomenti specifici riguardanti filosofia, politica, etica, letteratura – che si nutrivano di interventi su giornali, opuscoli e discussioni, talvolta trascendenti nei toni, ma che tutto sommato si fermavano al solo “pacifico” uso della parola, e molte volte costituivano un potenziale lucroso affare per tipografi-editori che non andavano tanto per il sottile nelle loro pubblicazioni. Anche la musica non era stata esente da questa forma di espressione: la “guerra” musicale divampata nell’ultimo ventennio del XVII secolo in Francia tra Niccolò Piccinni e Christoph Willibald Gluk, e i loro rispettivi seguaci; la Querelle des Buffons ou guerre de coins scoppiata in Francia nella seconda metà del XVII secolo e che aveva visto l’opposto schieramento tra i difensori della musica tradizionale francese (coin du roi) e gli innovatori, seguaci dell’opera buffa italiana coin de la reine) e i cui rappresentati-antagonisti di maggior spicco furono Jean-Philippe Rameau, continuatore della tradizione teatrale instaurata dal Lully, compositore e teorico musicale, e Jean-Jacques Rousseau, innovatore; la diatriba tra sostenitori della musica antica e sostenitori della musica moderna, quest’ultima più volte evocata negli scritti dei contendenti della querelle napoletana qui studiata.
La querelle sui maestri di cappella, pur con gli innegabili limiti e le rilevate criticità, per il solo suo porsi, rappresenta una tappa importante del cammino compiuto dal musicista relativa al suo riconoscimento quale esponente delle arti liberali; ma è all’interno della medesima querelle – e questa, a mio avviso, è la vera novità che in essa si configura e che fa assumere importanza all’intera vicenda disincrostata da pedanteria e da atteggiamenti satireggianti, se non addirittura denigratori, adottati da partecipanti alla disputa adversus collegas e che però restano legati al contingente – che si delineano ben visibili le crepe che lasciano affiorare il nuovo e che di conseguenza si impongono all’attenzione. In tal senso riveste importanza infatti il modo di porsi di alcuni Autori che diedero vita alla diatriba e che determinarono con le loro asserzioni, ancora esplicitate in forma nebulosa, delle significative aperture al nuovo; e le stesse, più o meno marcate e paradossalmente rafforzate pure da talune negazioni, fuor di dubbio segnano una constatazione di fatto – difficile a eludersi – nel riconoscimento dello status del musicista di una transizione significativa tra un modus operandi sorpassato e il nuovo che avanza.
Il desiderio di riforma della grande stagione riformistica napoletana porta con sé l’effetto di smuovere lo status del “letterato faticatore” in generale, e pertanto anche del musicista; un tale processo evolutivo sarebbe giunto a più completa maturazione nel periodo napoleonico1.
Il primo significativo gradino – e perché funge da casus belli alla disputa e perché è quello abbracciato con maggior trasporto dagli anti-probolisti – è il voler considerare i maestri di cappella come “locatori d’opera” cioè artigiani ma, e qui sta il punto, artigiani sui generis differenziati da un fabbro, un falegname fino a giungere al paradosso del conio del nuovo termine “fabbricieri di armonia” (nel Parrilli), sintomatico di un lavorio interno alla questione degno di nota; la svolta però è delineata dal pronunciamento dell’attenzione prestata alla formazione – proposta con più forza (dal Carobelli) o menzionata di striscio (dal Serio), ma pur sempre evocata – disegnata con contorni indefiniti, irrinunciabile per il musicista che voglia proporsi a essere esponente di un’arte liberale. Se pur frammentario, lo spostamento dell’attenzione sulla valentìa del musicista più che sulla contingenza della querelle mostra uno sfasamento che è sintomo e fattore importante nel richiamare la centralità e l’essenzialità della formazione.
La vicenda illustrata nella querelle promuove la creazione di un climax ascendente per le sollecitazioni poste alla soluzione del caso trattato, dove gli interventi migliori, e per rilevanza culturale degli autori e per singolare passione nelle tesi sostenute, restano quelli del Mattei, del Serio e del Galiani; i rimanenti scadono per vivacità e passione e si appiattiscono su modalità erudite senza un vero interesse; fa eccezione l’intervento del Carobelli che, se pure non presenta una compagine interna ben strutturata, riveste importanza per gli interrogativi che pone e soprattutto per l’interesse che apre al nuovo.
Il cambiamento del quale si va qui discutendo però, scardinando l’antico topos della musica considerata nobile se teorica e praticata per puro diletto e scaduta a mestiere se adombrata dal denaro perché esercitata dietro compenso, non poteva realizzarsi sic et simpliciter, in quanto abbisognava per il suo evolversi e il suo divenire di un tempo necessario al compimento. Una tale cosa doveva avvenire – avvenne – in modo graduale e la querelle, riprova di questo cammino, e il raffronto in essa contenuto tra quanto precedentemente espresso da alcuni suoi animatori e quanto più tardi sarebbe stato espresso dal Cuoco a riguardo della formazione del musicista 2, non costituisce una forzatura e non appartiene alla categoria dei voli pindarici ma è solamente una realistica constatazione a posteriori di un dato di fatto già esistente, un cogliere in maniera esplicita una domanda – vista contestualizzata in un tempo non eccessivamente lontano ma necessariamente diverso – e dar risposta adeguata agli interrogativi che si agitano all’interno della stessa; indirettamente egli propone la soluzione al problema sollevato intorno alla formazione, realizzando il salto di qualità di un’accurata preparazione professionale, sostanziata di materie mirate e improntate alla “soda utilità” genovesiana.
La tesi della necessità della formazione espressa dal Cuoco si configura quale risposta significativa e specifica alle sollecitazioni sorte intorno allo status del musicista e al contempo risulta inconsapevole risposta, in quanto il suo Autore – necessariamente non partecipe agli avvenimenti contingenti della querelle per ovvi motivi anagrafici e presumibilmente a conoscenza dei medesimi avvenimenti, a causa della vasta eco da questi suscitata – nello specifico né cita i fatti né si prefigge di dare soluzione al problema sollevato dalla querelle; anzi, quest’ultima va ricondotta nei confini ben più ampi della concezione del “letterato faticatore” in generale3, nella medesima ritagliandosi uno spazio significativo al fine di valorizzare la figura del musicista, tramite la formazione ottenuta con studi mirati.
È plausibile il ritenere che la non completa accettazione del collegamento tra conoscenza teorica e applicazione pratica propugnata dal Genovesi nell’esplicarsi delle professioni abbia potuto influenzare alla sua origine la querelle di cui si va qui discutendo e il dipanarsi dei vari scritti ad essa inerenti; il criterio di inclusione dei musicisti tra gli esponenti di un’arte liberale si presenta rifinato tramite il correttivo, non pienamente condiviso e per un tale motivo non ancora certo, di studi a carattere “filosofico” che ne garantiscano in qualche modo la preparazione e che possano segnare l’argine della non inclusione per coloro che “hanno imparato il contrappunto” in due mesi, cioè che hanno acquisito l’arte dei suoni quasi solo per pratica o in seguito a un cursus studiorum molto limitato, con l’esclusione dei grandi maestri di musica e fermo tenendo il distinguo tra musica “prezzolata” ossia suonata dietro compenso, e musica eseguita come puro esercizio personale, mentre prende sempre più corpo l’interrogativo in assoluto se sia lecito che i musicisti accedano alle arti liberali, sostenendosi con i proventi del lavoro intellettuale, oppure se gli stessi per la loro arte abbiano posto tra gli artigiani.
Un tale metro di giudizio rimarca la problematica accettazione dello status del musicista e affonda le radici nel pregiudizio, dando esca alla discussione di una questione che nell’immediato divampa e dietro la quale si cela una resistenza, nemmeno troppo velata, all’evolversi di una situazione sociale – quella dei letterati “faticatori”– destinata però a un rapido evolversi, e a un prender piede, e che in tempi brevi avrebbe portato a positiva soluzione del problema.
Il significato della querelle, di innegabile importante risvolto storico per la storia sociale dello status del musicista, ha il merito di rendere l’immagine di una realtà colta in costante trasformazione e, se non trova nell’immediato concreto risvolto, costituisce però molto più di un’intonazione del problema posto: la stessa ha avuto agio di mettere in atto delle sollecitazioni a riguardo del menzionato riconoscimento raggiungendo dei risultati parziali nelle relative risposte e non è per nulla riduttiva negli effetti conseguiti in quanto a soluzione auspicata dello status del musicista quale esponente di un’arte liberale; anzi, coincidentia oppositorum rappresenta al contempo il dissolversi della concezione del musicista ritenuto espressione di arte manuale e l’addensarsi dell’evoluzione del medesimo a “letterato faticatore”. Se è vero che la querelle è ancorata in antichi retaggi è altrettanto vero che vuole e segna un concreto avanzamento negli effetti che di lì a non molto si sarebbero verificati nei tempi che oramai premevano. E, incuneata nella diatriba tra musica antica e musica moderna 4 – presente ancora ai tempi di Cuoco che ne faceva aperta menzione disquisendone con competenza nella sua opera sulla musica5 – avrebbe trovato risposta quanto mai significativa e soddisfacente nella necessità della riforma delle istituzioni scolastiche proposta da Cuoco.
La disquisizione di Carobelli sugli studi necessari al musicista perché venga reputato “uomo scientifico”, sembra il calco arrovesciato degli studi che sarebbero stati proposti dal Cuoco per i conservatoristi: la matematica studiata nella parte concernente la musica, la necessità dello studio delle Belle Lettere per ridare slancio e creatività alla musica, la musica imprescindibile dalla poesia vista quale soggetto ispiratore che esplica una funzione vivificatrice nella creazione di un’opera musicale; e tutta la metodologia di studi cuochiana che sola può dar ragione della richiesta di metodo di studio filosofico carobelliano.
Nel configurarsi della tesi carobelliana della necessità di uno studio condotto alla “maniera filosofica”, che non si basi cioè sulla consuetudine dell’uso e dell’udito ma si fondi su studi specifici e filosofici, si trova il punto di contatto con il pensiero cuochiano espresso nella necessità della formazione, ineludibile presupposto per l’esplicitarsi della professione di musicista quale esponente di un’arte liberale.
Nel disegno del Progetto educativo cuochiano 6 le materie proposte per il Conservatorio musicale, – e la motivazione data per lo studio di ognuna delle medesime – rispecchiano le proposte di studi del Carobelli, contemplando le modalità di studio finalizzate all’acquisizione di competenze che curino non solo il lato teorico della formazione, ma che abbiano un risvolto concreto nella ricaduta pratica, e di contrasto i principi ancora nebulosi dell’uno, Carobelli, vengono chiariti dall’altro, Cuoco.
È la trasformazione del musicista da artigiano ad artista7, in termini modernamente intesi, operata dalla formazione sostenuta da studi mirati e uniti alla concretezza dell’esplicazione pratica, proposta dai contorni non ancora ben definiti dal Carobelli, promossa con contorni nitidi dal Cuoco: il “correttivo” della formazione, ancora in nuce in Carobelli, perde i contorni dell’incertezza in Cuoco; sintomatico della fase di transizione è il sussistere dell’antico retaggio in Carobelli nell’uso del termine “artista”, mentre esplicativo se ne mostra il superamento in Cuoco, nella specificità del caso trattato, nell’intendere il termine “artista”8 come cultore delle arti, addottorato e nutrito di buoni studi formativi.
Nella visione carobelliana restava irrisolto, ma plausibile, il busillis della collocazione dei maestri di cappella, né artigiani e né filosofi: irrisolto per la classificazione dei soggetti interessati, plausibile per il modo di configurarsi della palesata incertezza. L’eplicitare questa “manchevolezza” avrebbe infastidito non poco il Galiani/Don Onofrio Galeota, che non avrebbe esitato a tacciare di insulsaggine e di irresolutezza l’autore dell’Anti-Probole. Ma l’incertezza in parola va esplicata partendo da una visuale diversa da quella galianea, e trova la sua ragione di essere nel ragionamento stesso portato avanti dal Carobelli e che, sebbene non faccia una grinza dal punto di vista logico e consequenziale, tuttavia segna per il suo solo essere in atto una fessurazione, una crepa in una concezione della musica, bipartita in arte e scienza, creduta ferma e monolitica da chi all’epoca dei fatti scriveva, ma che in realtà segnava – senza che il suo curatore se ne avvedesse – un’apertura di veduta e un notevole appiglio a che il cambiamento avvenisse: la non risposta è già di per sé una risposta.
Se il Carobelli non sa indicare quale sia la giusta collocazione dei musicisti nelle categorie sociali è già chiaro il segno di quanto è in corso, e percepibile è la transizione tra vecchio e nuovo, anche se la medesima non risulta percepita con chiarezza dagli altri partecipanti alla diatriba.
Il maestro di cappella Cordella si era rivolto alla Gran Corte della Vicaria per ottenere adeguato pagamento del suo onorario dal dottor Garofalo – priore dell’Arciconfraternita di Sant’Anna di Palazzo – al quale aveva impartito con successo delle lezioni di canto, nonostante che l’allievo fosse sordastro di sua natura e di conseguenza “sordo” musicalmente parlando. L’istanza del maestro era caduta nel vuoto, in quanto il giudice Luigi de’ Medici l’aveva ritenuta presentata fuori tempo debito; nel fare questo però, poiché diversi si configuravano i tempi di scadenza a seconda del ceto di appartenenza degli eventuali ricorrenti – era previsto un arco temporale utile di 2 mesi per i “locatori d’opera”, mentre lo stesso si allungava a 12 mesi per gli “artefici” – implicitamente il giudice aveva declassato il maestro di cappella a “locatore d’opera”, cioè artigiano; nel ricorso presso il Sacro Regio Consiglio avverso la sentenza, a farsi carico della difesa del Cordella fu Saverio Mattei, noto avvocato e ancor più noto esponente di spicco del mondo culturale napoletano.
Da qui si era originata la viva, latente, polemica9 sullo status dei maestri di cappella e dei musicisti in generale, consumatasi all’incirca nel tempo di un biennio: la questione era sorta nel 1784 con la denuncia del Cordella e si era conclusa con l’ultimo pamphlet nel 178610.
L’affaire Cordella aveva dunque suscitato scalpore e dato esca a un acceso dibattimento che, prendendo l’avvio dalla polemica sulla fondatezza, o meno, del trattamento economico riservato al ricorrente maestro di cappella, si era andato via via trascolorando in una diatriba sulla musica e la sua essenza, sulle modalità di espressione della medesima e se i maestri di cappella erano da considerarsi artigiani o esponenti delle professioni liberali; e da tali premesse scaturiva disegnato il profilo, controdibattuto, del musicista.
Lo stesso avvocato patrocinatore della causa, il Mattei 11, in primis aveva voluto definire l’articolo pregiudiziale dello status del maestro di cappella in generale per poi passare allo specifico del suo assistito, in questo seguendo le orme della difesa attuata da Demostene contro Midia: Demostene ricoprendo la funzione di archicoro, cioè maestro di cappella in una festa, e venuto a diverbio con un certo Midia, era stato da questi villanamente schiaffeggiato. L’oratore aveva perorato a che l’archicoro fosse dichiarato sacro e che pertanto il maltrattamento alla sua persona fosse ritenuto cosa sacrilega; e solo in seguito era passato a discutere in merito all’offesa ricevuta12.
Facendo ricorso alla sua grande erudizione, il noto avvocato aveva imbastito un’arringa difensiva ricca di argomentazioni a carattere classico e moderno e l’aveva dedicata al de’ Medici, mettendo in rilievo come svilendo il musicista al ruolo di artigiano, si finiva con l’offendere tutta la musica e non si chiarificava il ruolo dei musicisti declassandoli a torto:

il maggior male si è, che la decisione offende la musica, e tutto il rispettabil ceto de’ suoi professori […] (per i maestri di cappella) abbiamo a sceglier la classe, a cui riferirli. Non essendo certamente né avvocati, né speziali, debbono essere o artefici, o servi, o locatori d’opere. Ma chi non sa che tra’ professori di arti liberali non vi è locazione d’opera, anzi non vi è, né può esservi contratto di locazione, o conduzione?[...]. Per aver luogo la locazione di opere, bisognerà cancellar la musica dal numero delle arti liberali, e rilegarla fra le arti meccaniche, e con essa la poesia ancora, e appresso anche l’eloquenza.Ma qual nazione barbara ha mai pensato così? Tutto l’Oriente ha non sol riguardato la musica come arte liberale, ma come una scienza divina al disopra dell’umana imbecillità13.


Anzi, si precludeva la possibilità di cogliere a pieno quale fosse la forza trascinante esercitata dalla musica, esemplificata anche nell’oraziana memoria del mito di Orfeo secondo cui le querce erano divenute “orecchiute” per ascoltare le dolci melodie del poeta; il Mattei spaziava dalla musica degli Orientali a quella dei Greci, sempre in tono magniloquente e spesso enfatizzando e, forse nell’intento di esaltare le proprietà nobilitanti della musica, alle volte cadeva in palese controsenso, o per lo meno in oscura comprensione, nel suo magnificat dando così appiglio a critiche mordaci di detrattori /avversari, – a titolo esplicativo, l’affermazione secondo la quale dei re dell’antichità erano divenuti tali perché avevano praticato la musica o la reinterpretazione estemporanea della tragica vicenda che aveva visto attori Agamennone-Clitennestra-Egidio eccedevano in pedanteria come nella prolissa trattazione derivata dal Du Cange sull’origine nobilitante del titolo di maestro di cappella, derivante dalla cappa di S. Martino (cappa cappella cappellani); superate queste asperità, e stemperate e divenute più blande, le critiche al suo operato si esplicitavano con modalità diverse, più o meno colorite ma nel complesso lasciavano trasparire un maggior rispetto in toto della personalità e della figura del Mattei, se si eccettua il forte dissenso contenuto nell’Aneddoto forense.
Sia pure con le sue innegabili punte polemiche e di sfalsamento di attenzione riguardo al concreto e di eccesso di enfasi nel dipanarsi del racconto e di tono/intento a volte burlesco, nocciolo della questione è per il Mattei il modo di intendere la musica quale arte nobilitante, dotata di una sua autonomia anche configurata nella ricaduta pratica e di conseguenza non confondibile con un puro esercizio meccanico; egli inoltre rimarca come la musica conservi la funzione civilizzatrice, sua prerogativa da sempre, in quanto connaturata alla sua stessa natura. In effetti il Mattei aveva in precedenza palesato le sue teorie musicali e a distanza di circa un lustro dalla polemica sullo status dei maestri di cappella, nel 1791, sarebbe stato nominato Regio Delegato del Conservatorio della Pietà dei Turchini dove, spinto da entusiasmo personale e incline alla musica per sua natura, avrebbe svolto importante opera di rivificazione dell’insegnamento musicale e di rinvigorimento della disciplina all’interno del medesimo istituto14.
A Francesco Pepe15, avvocato in Napoli, viene attribuito il primo di questi scritti16; in esso era dipinta con pungente satira l’arringa matteiana sotto forma di una immaginaria lettera a un amico, il signor Linguet17, nel mentre che venivano rappresentati con sferzante sarcasmo l’immaginario “tumulto” degli eroi filarmonici e l’immane fatica sostenuta dal Mattei per difendere la causa, persa, dei musicisti:

I Musici[…]avevano risoluto di muovere un tumulto affidandone l’esecuzione a i tre grandi Seminarj di melodici Eroi che trovansi qui stabiliti sotto il nome di Conservatorj. Ma estinti i primi impeti dello sdegno incominciarono a dar luogo alla ragione […]. Purchè si ottenga il fine i mezzi più tranquilli saranno sempre i migliori, dicean essi. Sicché pensarono alla scelta di un buon Paglietta[…], Si sa troppo bene, che la musica, e la poesia, sono due provincie confinanti. Si rivolsero ad un Avvocato Poeta. Fu eletto per questa grand’opera il Signor Don Saverio Mattei. L’alto sapere di questo dotto uomo nella storia della musica; molte dissertazioni di questo genere18.


L’Autore si mostra particolarmente polemico a riguardo di un’erudizione di stampo pedantesco, nel frangente efficacemente rappresentata dal Mattei – «(I pedanti) hanno riguardato questa operetta l’ultimo sforzo del sapere. Il titolo (dicesi) è Greco. Il frontespizio è corredato di note…Un libro con le note al frontespizio? Qual’esempio più lusinghiero per uomini, che non hanno il coraggio di avere un’idea senza il permesso di un’Autore?»19 e adopera dei toni avvelenati nel tratteggiare l’immagine dello Stesso

L’anima munifica del Signor Mattei alla notizia di così inaudito attentato si scuote, si agita, si convelle. La sua armonica sensibilità se ne risente offesa: la di lui immagine diviene un incendio: i suoi occhi scintillano, muove le labbra senza potere articolar parola, sbuffa, si dimena: sembra l’energumeno dell’orgoglio musico. Si sarebbe detto, che avea in corpo una legione di virtuosa canaglia […].Una truppa di professori lo segue20
.

Nel contesto dell’Aneddoto forense le tesi matteiane sulla musica contenute nella Probole non erano prese in considerazione con attento esame da cui potesse scaturire confutazione e/o adesione alle medesime: l’aspetto che più riguardava il malcelato anonimo Autore è l’attacco personale irriverente al Mattei, dipinto come un energumeno esagitato e per di più svanito.
La conclusione dello scritto era l’auspicio che venisse presto confermato dal Sacro Regio Consiglio il decreto della Gran Corte della Vicaria.
Il secondo pamphlet, attribuito a Giuseppe Maria Carobelli21, prendeva le distanze e per tono e per contenuto dall’Aneddoto forense; a riguardo del Mattei l’Autore palesava espressioni di stima, e al contempo ne confutava decisamente le tesi probolistiche, evidenziando una sua personale visione delle cose e definendo eufemisticamente l’arringa matteiana come “una vivacità letteraria”, perché non suonasse offesa ai rappresentanti delle arti liberali.
La nobiltà di una scienza è nel modo di esperirla, non nella sua origine e la metamorfosi di una Scienza in Arte, non si basa sull’origine della scienza in quanto tale – «Tutte le opere dell’uomo riconoscono la loro origine nella filosofia: dunque se badar si dovesse sempre all’origine dell’Arte, quale mai sarebbe più la differenza?22 – ma solamente si rafferma nella maniera in cui si acquisiscono le competenze pratiche della medesima arte.

La musica è una scienza e come tale va considerata, se però essa è esercitata per uso, per sola pratica, e senza spiegazione filosofica, scade nella manovalanza dell’arte: il musicista pratico e non teorico, che non abbia studiato secondo i principi di filosofia, non può essere considerato esponente delle arti liberali: La Musica è una Scienza. La Scienza è quella che dall’uomo è trattata per gli suoi principi fondati sulla evidenza delle cose, e nel retto raziocinio, ed esige, che l’Uomo abbia la facoltà di dimostrare filosoficamente le sue proposizioni. L’Arte è un abito che acquistasi colla lunga pratica, e non richiede cognizioni degli principj, e delle cagioni, né la dimostrazione delle verità, potendosi così quella, che in sé stessa è Scienza diventare Arte. Se la Musica è Scienza, deve chi la esercita saperne gli principj matematici, acquistarla per via della contemplazione (come parlava Pitagora), e non per via dell’uso e dell’udito; ed allora sarà riputato Uomo Scientifico: Dunque la Nobiltà della Musica non si dovrà ripetere dalla origine della Scienza, ma per determinarla basterà mirare la guisa, nella quale vien’esercitata. Se gli odierni Virtuosi di Musica la studiano, come parte della Matematica, ne sanno gli principj, e le cagioni, vi possono dimostrare le ragioni filosofiche di quello, che hanno scritto; non esitare un momento a chiamargli Uomini Scientifici, Filosofi, e Nobili, mettendogl’in paragone cogli Professori di ogni altra sorte di Filosofia; senz’andare investigando le origini di tale scienza, e quanto in suo favore ne dissero gli Filolai, i Socrati, e gli Platoni23.


Nella discussione intorno allo status del musicista, paradossalmente sono proprio le parole del Carobelli che giustificano e danno un senso alla centralità della formazione dei musicisti, preludio di ascesa degli stessi a esponenti delle arti liberali; ma forse nemmeno troppo paradossalmente per il Carobelli che è quello che, per l’urgenza sentita della formazione sia pure espressa in forma nebulosa, più si proietta nel divenire e coglie, anche se inconsapevolmente, nei suoi convincimenti quelle che saranno le evoluzioni delle figure professionali, e del musicista pure.
Egli mostra di essere ancorato a modalità passate, destinate a divenire obsolete in breve volgere del tempo – topos della musica irrimediabilmente divisa tra teoria e pratica, confronto tra la musica antica, morale e producente «l’armonia degli affetti negli animi» e quella moderna il cui unico proponimento consiste nel dilettare l’uditorio «digiun’affatto di quei sentimenti o filosofici, o morali, o di Divinità» – e tuttavia mostra delle aperture notevoli nella sua posizione tramite il correttivo proposto dello studio “filosofico” preparatorio del musicista e la confessata incertezza sulla giusta collocazione da attribuirsi ai medesimi nelle categorie sociali24.
Ricopriva il ruolo di avvocato difensore della parte avversa Luigi Serio25 che, come proemio alla sua arringa26, aveva avanzato l’ipotesi secondo la quale il suo avversario in tribunale «esser bizzarro autore di un erudito scherzo» (con questo intendendo la Probole)27 che, stanco dei maneggi dei suoi detrattori, aveva allestito per essi un tale pabulo «di sollazzo, e di riso», aggiungendo però con sottile ironia nel rilevarne eccessi – ne fuste cuculiato dal dotto, e grazioso Autore dell’Aneddoto forense28 – un’immagine matteiana “eufemisticamente” colorita:

D. Saverio Mattei, che è celebre autore di eruditi volumi, prendendone la difesa (del Cordella) o per altrui comando, o per ingegnoso capriccio, ha fatto d’un fuso una lancia, ed è comparso in Tribunale accompagnato dagli Efori Spartani, da Archita, da Filolao, da Socrate, da Platone, da Ateneo, da Boezio, da Jamblico, da Porfirio, da Cicerone, da Demostene, da Aristide, da Aristotile, e da una temuta schiera di moderni scrittori. Né contento di sì tremendi campioni, ha posto di nuovo nel suo ingegnoso strettoio la sacra Bibbia, e un tal fuoco ne ha tratto, che ungendosene dal capo à piedi, la gente l’ha creduto invulnerabile affatto29.


A parte la nota irruenza del Serio cui si deve la precedente contesa con il Mattei30, raddolcita per il buon carattere di questi, è possibile rilevare al primo sguardo che il Serio, ritenuti lodevoli e innegabili i meriti culturali del Mattei, usava un metro di giudizio severo, pur se stemperato nell’ironia, in quanto riteneva riduttivo, e pregiudizievole per un uomo di sì grande erudizione, avallare delle soluzioni poco sensate come quella proposta dalla causa pro Cordella.
Nel testo della Probole il Serio evidenziava delle criticità, riannodate a fatti passati e ingenerate a suo avviso da fasulle deduzioni erudite, muovendo degli appunti a riguardo della prolissa etimologia matteiana sui maestri di cappella – «il Du Cange non ha detto tai cose»31 – e allo “scivolamento” di questi in cronologia – «da Achille fino a Epaminonda […] pare che quel famoso Tebano fosse alla coda quasi de’ tempi favolosi, e sarebbe questo uno sdrucciolamento in Cronologia»32.
Egli riteneva che a ragion veduta la musica fosse da considerare un’arte nobile, liberamente praticata da rappresentanti dei più alti strati della società, ma che la medesima musica finisse con il divenire alterata nella sua essenza e nel suo esercizio se praticata dietro compenso33 e, alludendo alla sentenza della Gran Corte della Vicaria, ribadiva ancor meglio la sua posizione:

[La Gran Corte] non ha degradata la Musica, perché la Gran Corte, che fa Decreti, e non vende probole, non confonde la musica de’ Filosofi, e l’antica armonia politica colla musica odierna […], sa che la musica è un’arte liberale, e che può esercitarsi senza macchia da persone libere, oneste, nobili, e anche da Sovrani: sa che la musica è la più amabile ristoratrice delle umane affannose cure; ma se vien professata per trarne mercede, le leggi del Digesto, e del Codice ci additano in esse locazion di opere […] il che non offende la gran fama de’ Pergolesi, de’ Jommelli, de’ Cluk, de’ Piccini, de’ Paisielli, de’ Guglielmi, de’ Sacchini, e di tanti altri rinomati Maestri; poiché in essi l’ingegno creatore si ammira, che immortali gli rende, e non già il solo contrappunto, che in due mesi si apprende, e che si può professare da chi non ha né dottrina, né talento 34.


Plausibilmente per la veemenza con cui sostiene le sue tesi in fatto di musica e in modo contraddittorio proprio per questo, Serio apre una breccia – a ben ponderare notevole per contraddittorietà – nella sua cittadella difensiva in quanto considera rappresentanti della musica intesa come arte liberale i grandi maestri, perché nobilitati dal loro ingegno creatore, e non tiene nel debito conto che anche questi creatori d’arte, pur se eccellenti, percepivano compenso nel prestare la loro opera nell’esercizio della musica. Fermo tenendo che il merito e la genialità sono doti che non è possibile negare, nonostante le secche smentite e i dinieghi, un’apertura pur se timida al nuovo si rivela; essa c’è e si trova insita nell’atteggiamento appena rilevato, che presta il fianco a ulteriore ripensamento. Non si sbilancia come il Carobelli a sottolineare l’essenzialità della preparazione del musicista aspirante a divenire rappresentante di un’arte liberale ma, plausibilmente e implicitamente, sottolinea l’importanza della medesima formazione con l’affermare che non può essere il solo contrappunto imparato meccanicamente e in breve – in due mesi – senza dottrina a fare il musicista.
Rientrando poi nel merito concreto della causa discussa, egli osservava che se tutta la valentìa del Cordella consisteva nel pestare come un forsennato i tasti dell’organo urlando a gran voce, la sua giusta collocazione non era né tra gli artigiani e né tra i rappresentanti delle arti liberali, ma tra i “mattacini” e in più deprecava che il Mattei35, forse trasportato da un eccesso di foga, aveva commesso l’imperdonabile errore di ridicolizzare la sordità del Garofalo, un avvocato, cioè un rappresentante del suo stesso ceto di appartenenza.
La vertenza riguardante il Cordella andava riportata nel suo alveo naturale, cioè quello legale senza farla trasbordare nella polemica accademica – con la quale non aveva nulla da spartire – e insomma il Serio riteneva che la denuncia del Cordella rispondesse allo spirito di rivalsa di questi nei confronti dell’Arciconfraternita di Sant’Anna di Palazzo che lo aveva licenziato, con giusta causa, per la presentazione di una nota di spese “gonfiata” – e che a confronto con quanto riscosso dagli altri maestri di cappella (9 ducati annui) egli fosse stato molto ben pagato (8 ducati) per le sue fatiche; e che infine la vertenza, irrilevante, era da chiudere subito in quanto «per se stessa non è altro poi, che una vera causa de tribus capillis»36.
L’opera del Serio, se raffrontata con quella del Mattei, presenta una connotazione giuridica più pronunciata e si mostra più concreta e aderente alla veridicità nell’esposizione dei fatti, e nella loro dinamica; se paragonata ai rimanenti scritti della disputa pro e anti probole, è distante anni luce da questi per precisione e aderenza al vero.
Intervenuto nella disputa con lo pseudonimo di Onofrio Galeota37, l’abate Ferdinando Galiani si schierava a difesa della musica considerata come arte nobile in sé e iteneva gli esecutori di musica locatori d’opera, con il correttivo che un maestro di cappella non poteva ritenersi tout court un artigiano.
Già nell’incipit dell’opera38 il Galiani/D.Onofrio Galeota palesa quello che è il suo intento, e cioè di contrastare le tesi sostenute fin’allora dagli altri attori della contesa, senza troppo approfondire però e giusto per il guadagno suo personale di qualche soldo dall’intrapresa editoriale – è evidente la stoccata agli stampatori – librai che nelle varie querelle del tempo a sfondo culturale avevano fiutato il business – motivando in tal modo la non forte e decisa struttura ideologica dello scritto e, con l’uso di uno stile semplicistico volutamente lasciato emergere in superficie – chi scrive sa bene di grammatica e di letteratura, espresse in tono faceto e lo si evince da sillogi e assonanze adoperate nel corso dello scritto, nonché dalla scelta di vocaboli, messi ad arte e a contrasto vicino ad espressioni più grezze – mette al contempo in rilievo il carattere satirico dello scritto che nel suo dipanarsi lascia trasparire un costrutto ben equilibrato nella scelta dei termini, permeato da una vis comica che coinvolge ancora chi legge.
L’Autore dichiara i suoi molteplici interessi, essendo nella sua persona concentrate tutte le figure messe in discussione, e che si propone di difendere, nel mentre che rappresenta la scena dei musicisti affollati e afflitti intorno al loro avvocato39.

Ancor io son musico, e devo difendere i musici disprezzati col decreto e coll’Anti-Probole. Son Filosofo e devo difendere i filosofi posti allo stesso scanno coi musici nella Probole. Son letterato, e Poeta, e devo difendere i letterati, e Poeti offesi nella persona del Signor Mattei trattato da Fanatico, ed uomo di mala fede coll’Aneddoto. Se ci riuscirò poi.(I musici) si fanno affollare attorno all’Avvocato, che perora, buffa, smania, biastema per loro, e si fanno restare scornati con una porta chiusa sul mustaccio da un Giudice prima confuso, poi atterrito, e finalmente sdegnato; da lì a non molto a starsene appesi per aria senza sapere se debbano chiamarsi Filosofi, se Artigiani, o pure Tertium Genus Hominum


La confutazione delle tesi sostenute dai contendenti della polemica musicale colpisce per primo il Mattei – in maniera ammorbidita se si confronta con quella sanguinosa del Socrate immaginario – che essendo avvocato difensore del ricorrente Cordella è per forza di cose maior pars nella disputa: egli passa al vaglio le affermazioni matteiane secondo cui la musica sia un’arte nobile in conseguenza del fatto che nell’antichità la stessa era praticata da personaggi nobili (e le demolisce osservando che anche altre arti, come quella del tornio, sebbene praticate per hobby da personaggi illustri non ambiscono a divenire arti liberali) e che la stessa nobiltà della musica sia comprovata dalla comunanza con la filosofia (la feroce satira contro Pitagora non ammette repliche). Il mito di Orfeo, Anfione, Lino vengono descritti nella dinamica del loro destino nella rilettura tragi-comica dal Galiani, mentre la mitica età dell’oro corrispondente alla nascita della musica sbiadisce a confronto con la realistica affermazione che tutto ciò che viene realizzato in tempi successivi è comunque più perfezionato rispetto a tempi anteriori, e pertanto la musica antica risulta meno perfetta della moderna. Egli evidenzia le pecche dovute a un eccesso di pedanteria come nel sillogismo virtù-virtuosi – titolo dato ai musici, anche se poi le malelingue erano solite aggiungere canaglia […]: la spiegazione della silloge conferma che “virtuosi” proviene da “virtù” e pertanto la silloge arte-artigiani non può esser deputata a indicare i musici; anche letterato proviene da lettera, ma nell’antichità letterato, come osserva acutamente il Galiani, non voleva dire uomo di lettere ma l’esser marchiati a fuoco come ladri, e allora questa tipologia di silloge non regge, anzi viene a detrimento della musica e di chi l’afferma.
A conferma della sua indole il Galiani ha un atteggiamento duplice, ma non per questo contraddittorio, verso il Mattei – gli attacchi sono contro la pedanteria e le punte arcaizzanti che abbondano in Mattei, non sono contro il Mattei erudito – se si considera la velatura di una certa consuetudine e familiarità tra i due non esente da stima, che pur traspare dallo scritto e dal tono generale; rientra in questa visuale la galianea energica difesa dai detrattori matteiani quando bolla come maldicente e inurbano l’A. dell’Aneddoto forense o biasima l’A. dell’Anti-Probole per essersi troppo spinto a giudicare l’opera matteiana come uno scherzo erudito per non risultare offensivo ai letterati, oltre a criticarne affermazioni a suo avviso pseudo-erudite, «adagio, Signor mio, in materia d’antichità non ve la cedo: se voi mi negate il fatto del ferraro di Pitagora, che ci viene dagli antichi, io vi nego francamente ancora tutti quelli altri fatti, che voi sulla parola della medesima sapientissima antichità ci avete regalati nella vostra Anti-Probole»40.
Lo scritto, fuor di dubbio il più incisivo nel contesto coevo, acquista valore per l’importanza di chi 41 lo ha scritto e attrae l’attenzione per il porsi disincantato e al contempo corrosivo del suo Autore a fronte di una cultura della quale era largamente partecipe e con la quale intendeva criticamente misurarsi e nel far ciò si discosta in parte dal clou della disputa per dar spazio alla demistificazione di quello che rappresentava a suo avviso alcuni lati non condivisi della cultura ufficiale, incarnata dal Mattei e rappresentata autorevolmente anche dal Serio42 , verso i quali non aveva risparmiato in passato strali velati, e avvelenati.
Aspetti stantii di una cultura troppo legata a forme antiquarie balzano all’attenzione del lettore: le manie del greco e dell’antiquaria in generale del Mattei, già prese di mira nel Socrate immaginario, riviste nel titolo dell’opera pro Cordella – Probole – e rivisitate all’interno della medesima opera in più di un frangente (musica ebraica, musica greca, Pitagora messo impietosamente alla berlina, appaiato a qualche contemporaneo, «Pitagora era un fanatico, difetto solido degli antichi Filosofi tramandato anco a qualcheduno de’ nostri» 43 . Degna di rilievo si configura l’immagine della musica antica, con icastica vivacità dipinta nella sua dinamica
la musica antica, senza eccettuarne l’Ebrea (abbia pazienza il Signor Mattei) era così infelice, come quella di America, e di Othaiti, con tuttoché gli americani e othaitani, tutto fanno, cantanno e suonanno: se fanno guerra, se fanno feste, se ricevono Forestieri, se perdono, se vincono, ballano, cantano e suonano sempre44 .

e con evidente richiamo al Cook o sia gl’Inglesi in Othaiti, rappresentato il 23 luglio 23 1785 al Teatro del Fondo45 , di cui il Galiani curava la gestione, ricoprendo fin dal settembre 1784 la carica di assessore alla soprintendenza del Fondo di Separazione dei Lucri.
Significativo si configura il soffermarsi galianeo sul fenomeno tipico degli ”Attarantati” curato anche attraverso la musica e il ballo sfrenato46 , collegato a Pitagora nel dar ragione dell’utilizzo di terapie musicali finalizzate alla guarigione di malattie diverse. Ecco, a detta del Galiani, la cura del Maestro:
Pitagora che forse non aveva piacere che quei giovani entrassero nella sua giurisdizione, che fa, chiama, un orrida fantesca dell’oste, e le ordina che si presenti a coloro cantando: detto fatto ammainano essi le vele, si abbandonano sulli scanni, e pieno di tedio si addormono, eccovi il fatto. Figuratevi un orrida stregaccia, che cantasse nella stessa maniera, che Pitagora suonava, e ditemi poi qual meraviglia fu, se cessò all’istante tutta l’allegria, ed il fervore di quei giovani ai quali si diede un così barbaro controveleno per gli occhi, e per gli orecchi47 ?.

Pitagora viene preso di mira anche per il modo in cui avrebbe “coltivato” la musica: trovatosi a passare davanti alla bottega di un ferraro gli piace quel “tiritappe ta” dei garzoni che battono il ferro, chiede di vedere come si produca quel suono e imparata in tal modo l’arte dei suoni ne diviene maestro, infatti corre a casa e, con l’aiuto di un ingegnoso congegno di ferri e di pesi, riproduce a modo suo i suoni uditi poc’anzi «e si mette a spacciar l’arte musica»; ironico e dissacratore, raffigura alla rovescia il mito di Orfeo, di Anfione, di Lino che poeti e musici divini per le dolci armonie che sapevano trarre dalla cetra, per la loro arte, da ammaliatori e trascinatori di bestie feroci, si ritrovavano ad essere inseguiti dalle medesime fiere, anelanti ad afferrarli e farli a brani a punizione del concerto di violini viggianesi e di calascioni scordati nel quale si erano esibiti – e il fatto è avvalorato dall’esperienza personale di D. Onofrio di un pacifico cagnolino di casa, di nome Pagliaccio, che non appena sente toccare il violino o intonare un accordo, si mette a urlare da “lupominaro” – e in quanto al movimento dei sassi e i tronchi, smossi dalle soavi melodie dei medesimi musici, ecco come avveniva:
«Seccata la gente che si sentiva lacerar le budella da quell’armonia da casa del Diavolo per levarsi da torno quei bravi musici, li perseguitava a colpi di sassi e di bastone, e come Anfione fu il più celebre musico de’ tempi suoi, così furon tante, e tante le sassate, e bastonate, che si tirò addosso, che ammucchiatisi tutti quei materiali in un luogo, riuscì facile a coloro, che l’erano corsi appresso di avvalersi dell’occasione, e servirsi de’ medesimi, per alzare in quel luogo stesso le mura di una città che servisse, per quanto io penso, di sepolcro ad Anfione, e di ricordo ai posteri, acciò non si dassero alla musica», nonché la rivisitazione del mito della morte di Orfeo per mano delle Menadi, «sotterrato sotto un monte di sassi, e tronchi da un esercito di donne, che non si fidava più di starlo a sentire»48 .
Gli a fondo del Galiani contro il Mattei – se pur smorzati – lasciando trasparire la polemica non ancora sopita contro l’aspetto di stampo pedantesco dell’erudizione matteiana, rivelano talora dei toni pungenti in parte riconducibili al Socrate immaginario49 , di molto controdibattuta matrice galianea-lorenziana, messo in musica dal Paisiello e andato sulle scene del Teatro Nuovo nell’autunno del 1775; lo spettacolo, sospeso per ordine regio in quanto giudicato indiscreto, lasciava trasparire senza ombra di dubbio la figura messa alla berlina del Mattei, trasposta in quella dell’ottuso pedante svanito Socrate/don Tammaro, nonché indulgeva alla rappresentazione velenosa della moglie di don Tammaro, copia – pare – fedele della consorte del Mattei e che, gelosa e possessiva fuor di misura, angariava il marito.
Ancor dopo la vicenda riguardante la commedia menzionata, le posizioni del Galiani e del Mattei divergono: dal contrasto è posta in luce la cristallizzazione di una cultura, che trova la sua radice in un «atteggiamento illuministico paludato di classicismo»50 espressa in forme erudite e pedantesche, connotata da un eccesso di venerazione per gli antichi e caratterizzata troppo di frequente da manie arcaizzanti e pedanti – e che il Galiani intende colpire con il suo modo di fare ironico e pungente ritenendola lesiva della vera cultura e che il Mattei difende nella sua forma ed espressione migliore, purgata da eccessi (anche se a dire il vero la Probole scade da tale intento).
Fuor di dubbio minore importanza riveste l’intervento51 il quinto fin qui conteggiato – di Felice Parrilli 52, avvocato, il quale dopo avere a suo parere allontanata ogni punta polemica in primis si prefiggeva di ricondurre la questione nel suo giusto alveo di discussione teorica – e nel titolo è già programmato un equilibrio, destinato poi a non verificarsi, tra otia e negozia – e con molto ben celato intento53 riteneva di assumere una posizione intermedia nella disputa fra detrattori e sostenitori delle tesi del Mattei. Rilevava il fine apologetico dello scritto matteiano e, pur riconoscendo la grande erudizione del suo Autore, non ravvisava la validità delle argomentazioni addotte a sostegno dei maestri di cappella come esponenti delle arti liberali e tuttavia li distingueva dai semplici artigiani conferendo loro il titolo artificioso di “fabbricieri dell’armonia”.
Molte sono le arti miste, come la pittura e la scultura, che richiedono l’impegno delle facoltà mentali e l’uso di una certa fisicità per aver modo di esprimersi; anche la musica è un’arte mezzana, ma con osservazioni per lo meno singolari, surrettizie, l’A. affermava che la musica pratica e quella teorica sono due cose diverse: l’ars musicae deve ritagliare i suoi spazi nella pratica, mentre l’altra, la teorica, è matematica, ma una matematica speciale, attinente solo la musica. La citazione di nomi di illustri matematici non appianava la situazione, semmai la rendeva più complicata, in quanto la musica è altra cosa dalla matematica54.
Dicendo adunque che la Musica una sia delle facoltà mezzane, vo’ che s’intenda sempre della Musica pratica da’ nostri Maestri professata, le più volte da una sublime teoria scompagnata; …la Musica professata da’ nostri Maestri di cappella una sia delle facoltà mezzane, che alle liberali si accosta, e non è nel tempo stesso all’intutto aliena dalle fabbrili. Il Settano dicea inter utrumque esse href="#nota55" name="55">55.

Il penultimo intervento56 fu quello di Michelangelo Grisolia57 il quale non lesinava parole di lode riguardo al suo illustre conterraneo, ma al contempo ne confutava le argomentazioni addotte a sostegno delle tesi probolistiche
A che giova tanta pedanteria di raccogliere i passi di Aristotile e produrgli anche in Greco per mostrare che i Greci chiamavano Musici artefici? Ma gli chiamavano artigiani?... Artefice non è solo il Musico, ma l’oratore, il poeta, e fin lo stesso Dio: A che giova l’addurre che i Greci avean la musica fra le arti miste, cioè che partecipano delle liberali e delle meccaniche58?.

Egli si mostrava poco convinto assertore della disputa, assumendo una posizione di chiarezza per l’importanza rivestita dalla medesima e di debolezza per l’argomentazione addotta.
Le arti che concorrono allo svolgimento della vita dello Stato sono consone alla funzione civilizzatrice del medesimo e vanno annoverate tra le arti liberali; di conseguenza anche la musica dovrà rientrare fra queste. Risolto in tal modo il problema, non era possibile considerare i musicisti come artigiani. Il discorso sembrerebbe lineare, ma è nel distinguo che sorgono i problemi: la musica e la poesia nascono dopo la creazione della società, ed essendo per la loro essenza particolari, producono una serie di effetti esercitando una duplice funzione, benefica nel raffinare costumi e mentalità nella società costituenda e al contempo nociva alla medesima per l’irrimediabile illanguidimento delle menti e della morale causata dal loro eccessivo protrarsi nel tempo. La musica come arte ha una sua necessaria funzione, ma scade quando viene intesa solo come tendenza al canto, come espressione di sfogo emotivo, non sostenuta da presupposti teorici. Incerto e contraddittorio il Grisolia proseguiva, affermando che la musica antica è valida nell’elogio e nelle funzioni, ma solo entro limiti cronologici stabiliti, impossibili a prolungarsi ulteriormente fino all’epoca moderna.
Tutte le attività umane ricoprono una funzione di poiesi, e in questa categoria rientra anche la musica che per ovvi motivi non è da considerarsi né del tutto teorica né del tutto pratica; con evidentissima forzatura minimizzava le rivalse del Mattei, limitandole alla semplicistica osservazione che i musicisti non erano da considerarsi artigiani, e in tal modo sminuiva l’intento matteiano di promuovere i maestri di cappella a esponenti di arti liberali59. Infine, esprimeva la considerazione che il Cordella per la retribuzione spettantegli era tutelato dalla consuetudine dovuta al suo stato, indipendentemente dalla sua valentia in fatto di musica e canto.
Dulcis in fundo l’opera di Nicola Pellegrini Barone60, patrizio capuano, suggella il più che vivace dibattimento. Egli si mostrava seguace convinto del Mattei, “uomo di alti talenti” fornito e nell’Apologia della musica poggiando le sue tesi su argomentazione classica, non esitava a definire la musica un’arte liberale; al contempo chiariva, contestualizzandole, le motivazioni che avevano spinto il noto erudito calabrese a scrivere pro Cordella:
Carmina de caelo possunt deducere lunam […]. Ma il Sig. Mattei ha così detto. Il so ancor io. Ma di grazia in quale Scuola, in qual Accademia, o da qual Cattedra l’ha egli detto? Ha voluto questo di proposito insegnare, o ha avuto altro in mira? Ha fatto qualche catechismo, qualche commentario su la Scrittura, o qualche Dizionario delle scienze? Egli non ha fatto che scrivere per Cordella, e scrivere per comando di un amico, e di un amico autorevole; Ha voluto dire che la Musica non merita esser avvilita tra le arti meccaniche e servili, ch’ella è ben degna delle anime grandi, e signorili, siccom’è stata sempre, e siccom’è; ch’ella rassoda, e rasserena lo spirito, e più devoto e gentile lo rende, e più adatto a ricever i buoni ammaestramenti; e che a questo effetto fu da principio praticata, e tuttavia si usa; che tra un Maestro di Cappella ed un servo, un fabro, un falegname, vi è qualche differenza. Questo ha detto il Sig. Mattei; e questo egli è tanto vero, quanto ogni altra cosa ne fosse mai. E poiché la Musica è cosa allegra e brillante, perciò io immagino, che con un certo brio, con una amena grazia corrispondente al soggetto, di cui parlava, ha voluto ancora il Signor Mattei uomo di alti talenti fornito favellare. Se non sappiamo tutto ciò distinguere, perché ci mettiamo a fare i Censori61?.

Sotto la finzione dell’attribuzione della Risposta al Linguet, l’Autore adoperava una vis polemica forse eccessiva per un dibattito puramente accademico caratterizzato da contorni giuridici e culturali62, i cui toni accesi possono trovare una qualche giustifica nell’emotività del momento; fatto sta che i più colpiti furono il Serio tacciato di incongruenza e di ignoranza – divenuto facondo per i fumi dell’alcol – e l’Autore, non tanto anonimo quanto avrebbe voluto, dell’Aneddoto forense – il Pepe – al quale non furono risparmiati epiteti forti con la creazione di un climax veramente “ragguardevole”.
Il Pellegrini Barone concludeva che in tutte le scienze, anche nelle più nobili come la filosofia o la matematica, è presente il lavoro materiale (non fosse altro che costituito dal prendere carta e penna per stilare appunti, per procedere alla stesura di un lavoro, per imbastire una dimostrazione); di conseguenza non è concepibile attribuire alla musica il ruolo di arte meccanica, in quanto la musica esercita il suo dominio sullo spirito umano, e anzi produce degli effetti straordinari su di esso, e a buon diritto dunque il suo posto è da ritenersi tra le arti liberali.
Dopo la vivacità degli interventi antiprobolistici del Serio e del Galiani, e soprattutto l’estrosità dissacratoria di quest’ultimo, e gl’interrogativi che pone la tesi e l’apertura a venire del Carobelli, poca importanza rivestono quelli del Parrilli, del Grisolia e del Pellegrini Barone, in cui la disputa assume una connotazione retorica e ondeggia tra incerto e contraddittorio, giovandosi dell’apporto di argomentazioni filosofiche surrettizie nelle tesi e nelle conclusioni.
Di rilievo è il constatare come in tutti gli interventi afferenti alla querelle nell’impeto della discussione trovino posto sentimenti e risentimenti personali che, se talora lasciano perplessi per l’acrimonia del tono usato o per le punte sarcastiche raggiunte, lasciano trasparire un mondo fatto di uomini visti e dipinti nella loro umanità in cui si mescolano dottrina simpatia ironia con qualche punta di cattiveria, per fortuna non sempre graffiante nei riguardi degli avversari.
L’affaire Cordella, pur se connotato da innegabili chiusure strette al passato, si era tuttavia mostrato permeabile a novità non lontane a venire e aveva segnato un momento importante nell’evolversi dello status del musicista non solamente per la capacità dimostrata di attrarre l’attenzione su un’importante questione, ma per le “fenditure” che lascia intravedere, segni inequivocabili di tempi nuovi.
Di primo acchito non sembrerebbe – ma così è – a causa di affermazioni che suonano nette e perentorie, in quanto va rilevato che alcune di queste si mostrano non prive di aperture e anzi fungono da battistrada per la via che aprono al divenire positivo del musicista; sono affermazioni legate al passato, che però a bene osservare già adombrano la possibilità dell’esplicarsi della professione del musicista tra le arti liberali, se questi ha faticato per acquisire conoscenze e competenze non solo pratiche, ma soprattutto teoriche, adottando un metodo di studio “filosofico”. In tal senso la polemica sul Cordella trascende dal caso contingente per assumere un valore di modernità nella considerazione del musicista come intellettuale, professionista che vive del lavoro della sua mente: inseguendo idola oramai superati, si finirebbe con il creare un dislivello davvero difficile a capirsi nella concezione della musica in generale.
Non può sfuggire che, benché la polemica configuri un quadro in cui sono evidenti dei punti ancorati a “topos” destinati a divenire obsoleti, è dato cogliere nella medesima tela dei punti chiave di modernità che fanno ben presagire per il compimento in positivo dell’evoluzione della professionalità del musicista: vi è il “letterato faticatore”, l’intellettuale che vive dei proventi procacciati dal lavoro della propria mente. In nuce nella diatriba sui maestri di cappella del 1785 è radice, se pur non ancora netti se ne stagliano i contorni, di quella che è l’evoluzione a venire, della figura dell’intellettuale musicista.










NOTE
1 Cfr. C. Capra, La condizione degli intellettuali negli anni della Repubblica Italiana e del Regno Italico (1802-1814), in «Quaderni storici», 8 (1978), pp. 471-490; Idem, Intellettuali e potere nell’età napoleonica, in Vincenzo Monti nella cultura italiana, vol. III, Monti nella Milano napoleonica e post-napoleonica, a cura di G. Barbarisi, W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006, pp. 145-158, ripreso con il titolo Il ruolo dell’intellettuale nell’Età napoleonica, in Due francesi a Napoli, a cura di R. Cioffi, R. De Lorenzo, A. Di Biasio, L. Mascilli Migliorini, A.M. Rao, Atti del Convegno Internazionale di apertura delle celebrazioni del bicentenario del Decennio francese (1806-1815), Napoli, 23-25 marzo 2006, Napoli, Giannini, 2008, pp. 125-138; Idem, Premessa (Con alcune considerazioni su intellettuali e potere), in Istituzioni e cultura in età napoleonica, a cura di E. Brambilla, C. Capra, A. Scotti, Atti del Convegno Istituzioni e vita culturale in età napoleonica. Repubblica Italiana e Regno d’Italia. Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della prima Repubblica Italiana, Milano, 18-22 ottobre 2005, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 9-15; L. Mannori, I ruoli dell’intellettuale nell’Italia napoleonica, in Istituzioni e cultura in età napoleonica…, op. cit., pp. 159-183; A.M. Rao, Intellettuali e professioni a Napoli nel Settecento, in Avvocati, medici, ingegneri. Alle origini delle professioni moderne, a cura diM.L. Betri, A. Pastore, Atti del seminario di studi Alle origini delle professioni moderne, S. Miniato, 8-10 maggio 1995, Bologna, Clueb, 1997, pp. 41-60; Eadem, Dal “letterato faticatore” al lavoro intellettuale, in Cultura e lavoro intellettuale: istituzioni, saperi e professioni nel Decennio francese, Atti del primo seminario di studi sul Decennio francese (1806-1815), Napoli, 26-27 gennaio 2007, a cura di A.M. Rao, Napoli, Giannini, 2009, pp. 7-38.^
2 R. Folino Gallo, “Leggere” nel suo tempo il “Rapporto al Re Gioacchino Murat e progetto di decreto per l’organizzazione della pubblica istruzione nel Regno di Napoli” di Vincenzo Cuoco, in V. Cuoco, Scritti sulla pubblica istruzione, a cura di L. Biscardi, R. Folino Gallo, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. XXV- LXII, spec. LVII e LVIII.^
3 «Dalla metà del Settecento si era scatenata una dura e tenace battaglia dei letterati perché le loro conoscenze e i loro talenti venissero riconosciuti e impiegati al servizio dello Stato e della società, e per un reclutamento meritocratico. Lo dimostra il moltiplicarsi, nella pubblicistica del tempo, degli appelli indirizzati per la formazione di istituzioni accademiche che non fossero solo luogo di scambi delle idee e di sollecitazione di studi e di ricerche di pubblica utilità ma fornissero anche pensioni e stipendi […] per sfuggire alle strette del mecenatismo e del privilegio di nascita e poter vivere del lavoro della mente». A.M. Rao, Il lavoro intellettuale nel decennio francese: Prospettive di ricerca, in Studi e ricerche sul decennio francese, a cura di L. Iacuzio, L. Terzi, in «Scrinia», numero monografico, 3 (2006), pp. 9-28, spec. 16.^
4 M. Garda, Il microscopio della ragione. Arteaga e Manfredini nella querelle tra antichi e moderni, in La musica degli antichi e la musica dei moderni. Storia della musica e del gusto nei trattati di Martini, Eximeno, Brown, Manfredini, a cura di M. Garda, A. Jona, M. Titli, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 591-609.^
5 R. Folino Gallo, Musica antica e moderna. Inediti di Vincenzo Cuoco, in «Annali Cuochiani», Quaderni (1), 2012.^
6 V. Cuoco, Rapporto al Re Gioacchino Murat e progetto di decreto per l’organizzazione della pubblica istruzione (1809), in Idem, Scritti sulla pubblica istruzione, op. cit., (Princìpi generali – Scuola delle Belle Arti), pp. 86-89; Titolo VIII, Scuola di Belle Arti, Sezione Prima: Conservatorio di Musica, artt. 76-82, pp. 101-102.^
7 Per l’evoluzione semantica del termine “artista”, R. e M. Wittkower, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’Antichità alla Rivoluzione francese, trad. italiana a cura di F. Salvatorelli, Torino, Einaudi, 1968, tit. originale Born Under Saturn, London, Weidenfeld and Nicolson, 1963.^
8 «Guai, diceva Winckelmann, al giovine artista che incomincia dalla censura». V. Cuoco, Rapporto, cit., p. 89.^
9 R. Cafiero, “Se i maestri di cappella son compresi fra gli artigiani”: Saverio Mattei e una querelle sulla condizione sociale del musicista alla fine del XVIII secolo, in Civiltà musicale calabrese nel Settecento, a cura di G. Ferraro, F.A. Pollice, Atti del Convegno Reggio Calabria, 25-26 ottobre 1986, Lamezia Terme, A.M.A. Calabria, 1994, pp. 29-69 spec. 29-45. Nel suo interessante saggio l’A. esemplifica la ricostruzione dell’accaduto e spunti che in essa è possibile cogliere si prestano ad ulteriore studio ad approfondimento dell’intera vicenda; l’A. giunge però a delle conclusioni solo parzialmente condivisibili, sia riguardo a singoli pamphlétaires, sia riguardo alla questione in generale, in quanto non evidenzia le aperture significative verso il nuovo che avanza – sia pure in fase aurorale – presenti e negli uni e nell’altra e considera l’intera vicenda rilevante solamente al fine, pur esso importante, di “porre sul tappeto” il problema di già esistente dello status del musicista. L’attribuzione dei pamphlets ai vari autori – fondata su validi studi e riportata dall’A. (cfr. note pp. 29-44) – risulta convincente. Sostanzialmente della stessa opinione, anche se espressa in maniera più sintetica, si mostra L. Tufano, Aspetti della professionalità musicale, 1785-1815, in Cultura e lavoro intellettuale: istituzioni, saperi e professioni nel Decennio francese, op. cit., pp. 277-296 spec. 289-291. Il medesimo argomento è stato trattato anche nel saggio Filarmonici e misarmonici: la polemica napoletana del 1785 sui maestri di cappella, Como, A.M.I.S., 1998, pp. 7-61, da A. Luppi, che disquisisce con ampiezza sulla dinamica degli avvenimenti e sugli opuscoli scritti a riguardo, confermando l’attribuzione dei pamphlets agli autori riportata da R. Cafiero; non condivisibile però risulta, a mio avviso, il modo riduttivo in cui l’A. considera la querelle nel suo significato storico di definizione dello status dei musicisti.^
10 Nel presente è seguita la scansione cronologica dei pamphlets riportata nell’aprile del 1786, alle pp.84-85, dal Giornale enciclopedico di Napoli; per lo studio dei testi dei medesimi mi sono avvalsa di quelli custoditi presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria – Fondo Cuomo, Miscellanea, Serie I, vol. 323 per gli interventi del Mattei, del Pepe, del Carobelli, del Serio, del Galiani, del Grisolia e vol. 306 per quello del Parrilli – mentre l’opera del Pellegrini Barone è un libro a parte; per brevità la segnatura degli interventi si limita alla citazione del volume che li contiene corredato dal numero dell’opuscolo e dalla consistenza delle pagine. La conoscenza delle edizioni note dei pamphlets – non cogente al fine di porre nel giusto rilievo lo status del musicista – è rilevabile dai saggi indicati nella nota n. 9.^
11 Saverio Mattei (Montepaone, 1742 - Napoli, 1795) – grecista, poeta, musicista e storico della musica – dovette contemperare la sua grande passione per gli studi con le esigenze della vita pratica; chiamato dal Tanucci a ricoprire una prestigiosa cattedra insegnò grammatica greca presso il Collegio del Salvatore in Napoli, continuò esercitando l’avvocatura e, ben accetto per la validità dei suoi brillanti studi, per volontà regia ricoprì molte e prestigiose cariche ufficiali. Nella diatriba settecentesca divampata intorno alla musica antica e moderna, e sulla primazìa da accordarsi a una delle due, l’eminente studioso calabrese assunse una posizione intermedia rilevando inconfutabile che in entrambe erano presenti pregi e limiti dei quali occorreva tener conto. Nel ritenere necessario l’accordare musica e poesia, egli evidenziava come il linguaggio metastasiano fosse quello che più e meglio si prestava ad armonizzarsi con la musica coeva mentre del teatro a lui contemporaneo denunciava la decadenza, dovuta soprattutto alla venalità degli impresari e alla carenza di buoni maestri di canto. (Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2008, vol. 72, ad vocem, a cura di A.M. Rao; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli, 1787, voll. II, pp. 243-252; C.A. De Rosa, marchese di Villarosa, Ritratti poetici di alcuni uomini di lettere del Regno di Napoli, Napoli, Stamperia del Fibreno, 1834, pp. 221-230; A. Della Corte, Settecento italiano. Paisiello. L’estetica musicale di Pietro Metastasio, Torino, Bocca Edit., 1922, pp. 263-335; G. Ferroni, La cultura calabrese e il modello metastasiano: Michele Torcia e Saverio Mattei, in Atti del Convegno Settecento calabrese (Rende-Cosenza, 9-12 novembre 1983), a cura di M. De Bonis, P. Falco, M.F. Minervino, Cosenza, Periferia, 1985, pp.113-127; P. Fabbri, Saverio Mattei: un profilo bio-bibliografico, in Napoli e il teatro musicale in Europa tra Settecento e Ottocento. Studi in onore di Friedric Lippman, a cura di B.A. Antolini, W. Witzenmann, Firenze, Olschki,1993, pp.121-144; R. Cafiero, Saverio Mattei versus Giovanni Battista Martini: una disputa “sopra la musica” nella Napoli del XVIII secolo, in Musicam in subtilitate scrutando. Contributi alla storia della teoria musicale, a cura di M.T.R. Barezzani, D. Sabaino e R. Tibaldi, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1994, pp. 371-382; L. Tufano, Lettere di Saverio Mattei a Padre Martini (con una digressione su Salvatore Rispoli), in Napoli musicalissima. Studi in onore del 70° compleanno di Renato Di Benedetto, a cura di E. Careri, P.P. De Martino, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2005, pp.91-118).^
12 Se i maestri di cappella son compresi fra gli artigiani. Probole(a) di Saverio Mattei /In occasione d’una tassa di fatiche domandata dal Maestro Cordella (a) Questo titolo è tratto da Demostene; il lettore troverà giustificata la scelta del titolo nel corso di questa arringa, sul frontespizio questa precisazione. [vol. 323/1, pp 3-38)], qui pp. 23-24. Nell’introduzione/prefazione il Mattei affermava di aver accettato l’incarico di prender le difese del Cordella dietro insistenza del de’ Medici «ch’egli aspettava da me qualche cosa di brillante su d’un argomento, che aveva esercitato la mia penna in tante dissertazioni della musica antica, e moderna» (ivi, p. 4). M.Mattei, I libri poetici della Bibbia tradotti dall’ebraico originale, ed adattati al gusto della poesia italiana, Napoli, G.M. Porcelli, 1779, 8 voll. (La filosofia della musica, tomo V, pp. 285-352).^
13 S. Mattei, op. cit., pp. 13-14.^
14 S. Di Giacomo, Il Conservatorio di S.Onofrio a Capuana e quello di S. Maria della Pietà dei Turchini, Palermo, Sandron, 1924, pp. 259-275; F. Schlitzer, Una inedita relazione di S. Maria sul Conservatorio della Pietà dei Turchini, in S. Pietro a Majella. Bollettino del Regio Conservatorio di musica, Napoli, 1938, pp. 23-29.^
15 Identificabile con Francesco Pepe (Acquaviva (BA), 1759 - Napoli, 1799), avvocato, pubblicista e letterato, esercitò l’avvocatura anche in Napoli; fu trucidato sulla via mentre si recava dalla natia Acquaviva a Napoli per difendere la Repubblica Partenopea. G. De Ninno, I martiri e i perseguitati politici in terra di Bari nel 1799: opera illustrata con ritratti, Bari, Pansini e figlio Saverio, 1915.^
16 F. Pepe, Aneddoto forense. Lettera al signor Linguet, Traduzione dal francese. Napoli, 13 maggio 1785. (vol. 323 /2, pp. 1-16)^
17 S.N. Linguet (Reims, 1736 - Parigi, 1794), celebre avvocato e pubblicista francese, fu noto per la sua abbondante produzione di scritti a carattere storico e legale. Fu imprigionato a lungo alla Bastiglia per le sue idee rivoluzionarie, ma cadde vittima del Terrore egli stesso e fu ghigliottinato; del tutto fittizio è il suo richiamo ai fatti della querelle musicale sui maestri di cappella in quanto fu del tutto estraneo alla contesa. Cfr. F. Venturi, Linguet in Italia, L. Guerci, Linguet storico della Grecia e di Roma, e di M. Minerbi, Le idee di Linguet, pubblicati in «Rivista storica italiana», 93 (1981), fasc. III, rispettivamente alle pp. 735-774, pp. 615-679 e pp. 680-734.^
18 F. Pepe, Aneddoto forense, cit., pp. 5-6.^
19 Ivi, p. 16.^
20Ivi, p. 7.^
21 G.M. Carobelli, Sulla questione se gli maestri di cappella son compresi fra gli artigiani. Anti-probole di G.M.C., Napoli, 1785, presso Salvatore Palermo, vol. 323/4, pp. 3-43.^
22 Ivi, p. 8.^
23 Ivi, pp. 41-42.^
24 «Mi si chiederà quale debba essere il loro luogo? A questo io non rispondo: lo vegga chi ha il diritto di vederlo, ed esamini se debbono chiamarsi Filosofi, Artefici o pure Tertium Genus Hominum?». Ivi, p. 43.^
25 Luigi Serio (Massa Equana 1744 – Napoli 1799), fu professore di Eloquenza e poesia italiana presso la Regia Università degli studi e ricoprì l’incarico di Poeta di corte e Revisore dei teatri, fino a quando non venne destituito per le sue idee libertarie; morì combattendo contro le armate sanfediste presso il ponte della Maddalena in Napoli nel giugno 1799. M. Bruno, Luigi Serio letterato e patriota del Settecento, estratto da Studi di letteratura italiana, 1905 (VIII), pp. 218-291; R. Giglio, Un letterato per la rivoluzione: Luigi Serio (1744-1799), Napoli, Loffredo, 1999).^
26 L. Serio, Per D. Lionardo Garofalo. Risposta alla probole. Napoli, 13 luglio 1785, vol. 323/3, pp. 2-47^
27 Ivi, p. 5.^
28 Ivi, p. 29.^
29 Ivi, p. 4.^
30 Il Serio aveva assunto un atteggiamento critico all’apparire della traduzione matteiana della Chioma di Berenice con l’avanzare delle consistenti riserve sulle modalità seguite dal Mattei nel suo operato, sia accusandolo di errori nella “tecnica” di traduzione sia mostrandosi ardonico a riguardo di talune sue affermazioni: «Non contento il Mattei di aver cangiato le costellazioni di Catullo in pianeti, pretende eziandio di rinnovar tal metamorfosi in Omero […]. Il Signor D. Saverio comincia a palesarsi un pocolin plagiario». (L. Serio, Osservazioni su di alcune operette del Signor D. Saverio Mattei (dedicata a S.E.D. Fabrizio Ruffo de’ Duchi di Baranello), Napoli, Stamperia Raimondiana, 1776 con cinque lettere in appendice (pp. 84-124), spec. 5 e 21.). A sua difesa il Mattei avrebbe risposto con l’opuscolo Giudizio d’un uomo indifferente. Intorno alle Osservazioni ultimamente pubblicate su di alcune operette di Saverio Mattei, in Società Napoletana di Storia Patria,Miscellanea, Serie 1°, vol. 333/6, pp. 1-16, spec. 16, pubblicato anonimo, concludendo con delle espressioni di perdono a riguardo del suo detrattore «Del resto, se mai il Mattei ingiustamente punto pensa a vendicarsi, io lo prego di ricordarsi del suo Davide, che non aprì la bocca contro le villanie del Semei; e di riflettere che un galantuomo dee fingere, un filosofo disprezzare, e un Cristiano perdonare le ingiurie, e benedire chi maledice».^
31 L. Serio, Per D. Lionardo Garofalo, cit, p. 21.^
32 Ivi, p. 15.^
33 «quando la musica è considerata in persona di chi a prezzo stabilito serve al diletto dell’orecchio altrui; appartiene per avventura allora, specialmente se ciò accade in Teatro, all’arti, che da’ Latini son dette Ludicra, quae ad voluptatem oculorum atque animum tendent, e ciò si deve intendere tal per chi suona, qual per chi canta», ivi, p. 32.^
34 Ivi, p. 45.^
35 «Quell’espressione di musico sordo, di Chiragra politica (senza sapersi che abbia che farci codesta politica) di faticare a registri aperti, e di giudicare ad uso di Energumeni francesi, sentono più di macriata, per valermi de’ termini dell’arte che di vivezze oratorie», Ivi, p. 28.^
36 Ivi, p. 44.^
37 Cfr. B. Croce, Don Onofrio Galeota. Poeta e filosofo napoletano, Trani, Vecchi, 1890, pp. 24-28 spec. 27-28.^
38 Guazzabuglio filosarmonico o sia Miscellaneo verso-prosaico sulla Probole, Anti-Probole, e Aneddoto forense di D. Onofrio Galeoti poeta, e filosofo all’impronto”, Fantasianapoli 22 luglio 1785. Sulla copertina queste precisazioni: Unus non sufficit / il tredici, e due grana / Si vendono grana dieci pro nunc), vol. 323/5, pp. 3-28.^
39 Ivi, rispettivamente alle pp. 5-6 e 3-4.^
40 Ivi, p. 14.^
41 Ferdinando Galiani (Chieti, 1728 - Napoli, 1787) è una delle figure più significative dell’intero panorama intellettuale napoletano del Settecento. Di indole scherzosa, e a volte caustica, dotato di profondità di pensiero e di brillante intuizione, Machiavellino durante il suo lungo soggiorno a Parigi ebbe modo di essere a diretto contatto con importanti rappresentanti delle lumières di Francia; serio valido economista e paradossale autore di opere a carattere satirico, ebbe insomma una personalità bifronte, che gli consentì di coltivare profondi interessi economico-scientifici e al contempo di porsi quale autore ironico e dissacratore nel trattare anche tematiche di rilievo. (Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1998, vol. 51, ad vocem, a cura di S. De Majio; F. Galiani, Opere, a cura di F. Diaz, L. Guerci, in Illuministi Italiani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, tomo VI, (di rilievo, la bella introduzione di F. Diaz, pp. XI-CVI e l’ampia e ragionata bibliografia di L. Guerci, pp. CVII-CXXVII); Atti del Convegno italo-francese sul tema: Ferdinando Galiani (Roma, 25-27 maggio 1972), Roma, Accademia dei Lincei, 1975) con gli interessanti interventi di G. Galasso (I manoscritti napoletani dell’abate Galiani, pp. 245-256), G. Macchia (Galiani e la “nécessité de plaire”, pp. 69-78), E. Malato (Ferdinando Galiani dialettologo e storico del dialetto napoletano, pp. 345-362), R. Pane (Ferdinando Galiani e l’antico, pp. 201-211).^
42 Il Serio era l’autore di Lo vernacchio: resposta a Lo dialetto napoletano, edito in Napoli per la prima volta il 1779 per i caratteri di Vincenzo Mazzocca Vocola, in cui confutava violentemente le tesi sul dialetto espresse dal Galiani in Del dialetto napoletano, Napoli, Porcelli, 1779; sulla questione cfr. l’edizione nicoliniana – Napoli, Ricciardi, 1923 – con introduzione e note dello stesso Nicolini e quella più recente – Roma, Bulzoni, 1970 – a cura di E. Malato, con in appendice F. Oliva, Grammatica della lingua napolitana, pp. 211-327; M. Sansone, Volgare illustre napoletano e volgare illustre nel “Dialetto napoletano” di F. Galiani, in Studi di storia letteraria, Bari, Adriatica Ed., 1950, pp. 55-93; G.A. Arena, Dialetto, lingua e società nella seconda metà del Settecento napoletano. La polemica tra F. Galiani e L. Serio, in Il pensiero politico, a. XII, 1979;D. Scarfoglio, Nazione e popolo nella questione del dialetto a Napoli nella secondo Settecento, in L. Serio, Risposta al dialetto napoletano dell’abate Galiani, a cura di D. Scarfoglio, G.A. Arena, Napoli, Colonnese, 1982, pp. 7-31.^
43 F. Galiani, Guazzabuglio filosarmonico, cit., p. 13.^
44 Ivi, p.19.^
45 M. Amato, Dalla fondazione del Teatro alla rivoluzione del ’99, in Il Teatro Mercadante. La storia, il restauro, a cura di T.R. Toscano, Napoli, Electa, 1989, pp. 43-61, spec. 50-51.^
46 «Giornale enciclopedico d’Italia», 1787, XXI, pp.157-160, Nuove osservazioni sopra il tarantismo di D. Pasquale Manni di Terra d’Otranto, dirette a D. Michele Torcia, Archivario e Bibliotecario del Re in Napoli con la data di Supersano 17 Decembre 1786. Il Manni, medico attento e all’avanguardia, espone le sue osservazioni e le sue tesi su un fenomeno delle sue terre, il tarantismo – «conseguenza assolutamente legittima di un animo prevenuto dal volgar pregiudizio» per l’assunzione di troppo vino, e pertanto i soggetti colpiti sono da ritenersi «non Tarantolati ma ebbri» – fornendone delle spiegazioni plausibili tramite lo sfatarne il mistero con il sottoporsi personalmente e volontariamente al morso di una tarantola al fine di dimostrare quanto lo stesso sia curabile e guaribile a breve, nonostante sia causa di febbre e di arsura nel malato; prosegue con delle osservazioni sulla cura musicale: «Sulla forza della musica io penso così, e credo non andar lungi dal vero. Quando l’uomo viene afflitto da qualche passione fisica o morale, i nervi, la muscolatura, e le restanti parti del corpo si trovano più omeno alterate, siccome la forza della passione è più o meno violenta. La musica colle sue onde sonore percuotendo i nervi e le altre parti del corpo di già alterate, viene a moverle a seconda della loro dolce impressione; e laddove nello stato naturale tutti di queste provincie siano naturalmente portati per l’armonia musicale, così nello stato morboso vi saranno più sensibili, ad oggetto della diversa tensione acquistata dalle fibre del nostro corpo[…]. La musica può riuscire proficua a coloro che per altre indisposizioni cascano nel Tarantismo, per quelle ragioni medesime che la vediamo divenire salutare a tante altre specie di morbi». Seguono poi delle osservazioni sugli effetti apportati da alcune sostanze adoperate per la cura di febbri e di «pietre nella vescica» (calcoli) scioltesi all’assunzione della sostanza da lui somministrata al paziente. Sia lo scrivente sia il ricevente sono delle figure di rilievo delle quali torna utile parlare in proposito della figura del “letterato faticatore”. Pasquale Manni (S.Cesareo,1745 – Lecce, 1841), discepolo di Domenico Cirillo, medico, botanico e chimico era uno di quei tanti ingegni che, fermo tenendo nella passione per i brillanti studi condotti, forzato dalle circostanze pratiche – rientra pure lui a pieno titolo nel ruolo del “letterato faticatore” – era rimasto nella natia Puglia, esercitando brillantemente la professione medica e ricoprendo molte cariche onorifiche; oltre alle attente analisi menzionate scrisse Riflessioni fisico-chimiche sopra la meccanica vegetazione delle piante (Napoli, s.n.t., 1789) e Saggio fisico-chimico della cagione de’ baleni e delle piogge che osservansi nelle grandi eruzioni vulcaniche di Pasquale Manni Medico botanico e chimico nella provincia di Lecce o Japigia, diretto a D. Michele Torcia a Napoli, pubblicato nell’Effemeridi Enciclopediche di Ottobre pag. 79 ed ora in miglior forma riprodotto in occasione dell’eruzione del Vesuvio a Giugno 1794; l’opera, inserita in una Miscellanea di cui il Torcia era maior pars venne favorevolmente recensita sul «Giornale letterario di Napoli» per servire di continuazione all’Analisi ragionata de’ libri nuovi, 30 (1795) 1° luglio, pp. 84-85). Necrologia di Pasquale Manni, scritta dal farmacista Pasquale Greco, Napoli, presso Borel e Bompard, 1842; Pasquale Manni: eclettico naturalista salentino, a cura di E. De Simone, Lecce, Ediz. del Grifo, 1999; Contributo alla bibliografia medica napoletana della seconda metà del XVIII secolo, a cura di R. Mazzola, in Laboratorio dell’ISPF, II(2), 2005, ad vocem). Michele Torcia (Amato,1736 –Napoli, 1808), discepolo di Antonio Genovesi, dopo gli studi compiuti a Catanzaro, si trasferì a Napoli dove proseguì con successo gli studi universitari. Ebbe una vita “movimentata” con alterne vicende – soffrì pure l’esilio – e ben rappresenta quella fascia di intellettuali provinciali di “letterati faticatori”. Diplomatico, letterato, fu soprattutto appassionato di scienze e di geografia ed ebbe vivissima la percezione del rapporto tra capitale e province. Archivario della Suprema Giunta degli abusi e poi bibliotecario della Real Casa del Salvatore in Napoli, avrebbe ambito invano di succedere al padre Gian Maria della Torre nella prestigiosa carica di bibliotecario di Capodimonte (Umile rimostranza al Re sulla collazione della Real Biblioteca di Capodimonte, Napoli 10 marzo 1782). F. Venturi, Riforme e riformatori nell’Italia meridionale. Pagano, Palmieri, Delfico ed altri minori, Torino, Gheroni, 1962, pp. 223 -240; A. Placanica, Michele Torcia e il terremoto del 1783: storia naturale e riformismo politico, in «Rivista storica italiana», 95 (1983), pp. 419-446; E. Tortarolo, Michele Torcia: un funzionario tanucciano tra Magna Grecia ed Europa, in Bernardo Tanucci e la Toscana, Atti del Convegno (Pisa, 28-30 settembre 1983), Firenze, Olschki, 1986, pp. 139-148; G. Ferroni, La cultura calabrese e il modello metastasiano: Michele Torcia e Saverio Mattei…,op. cit., pp. 113-127; A.M. Rao, Un “letterato faticatore” nell’Europa del Settecento: Michele Torcia (1736-1808), in «Rivista storica italiana», 107 (1995), fasc. III, pp. 647-726 spec. 689-693.^
47 F. Galiani, Guazzabuglio filosarmonico, cit., p. 20.^
48 Ivi, p. 17.^
49 V. Di Marino, Il “Socrate immaginario” come satira del grecismo settecentesco, Cava dei Tirreni, Coda, 1940; V. Monaco, Giambattista Lorenzi e la commedia in musica, Napoli, Berisio, 1968 (in forma molto sintetica qui sono espressi convincimenti galianei sul teatro, l’opera buffa e la musica, pp. 95-96 e spec. 95 a riguardo di quest’ultima; in modo molto più ampio è trattata la questione del Socrate immaginario, pp. 87-129, spec. 89-95); M. Marino, Il “Socrate immaginario”, ovvero un erudito calabrese del XVIII secolo, in Civiltà musicale calabrese, op. cit., pp. 9-28;M. Traversier, De l’érudition à l’expertise: S.M. (1742-1795), “Socrate imaginaire” dans la Naples des Lumières, in «Revue historique», 2007 (1), pp. 91-136; Socrate immaginario: commedia per musica, a cura di A. Scognamiglio, Napoli, Denaro Libri, 2010.^
50 V. Monaco, Giambattista Lorenzi e la commedia in musica, cit., p. 97.^
51 Lettera villereccia di Felice Parrilli ad un avvocato napoletano indiritta in cui si propone un mezzano sistema per la questione se i Maestri di Cappella son compresi fra gli Artigiani. (dedica)
a Sua Eccellenza D. Luigi De’Medici de’ principi d’Ottaiano e giudice della Gran Corte
, (pp. III-XII, 1-72). vol. 306/10, pp. 1-72.^
52 Felice Parrilli (Napoli,1767 – Napoli, 1827), allievo di Luigi Serio, fu giurista e professore di diritto civile e di diritto commerciale e marittimo presso l’Università degli studi di Napoli e da questa fu allontanato nel ripurgo politico del 1821. (Elogio del barone Felice Parrilli scritto da Serafino Gatti, Napoli, Porcelli, 1827; R. Trifone, L’Università degli Studi di Napoli, Napoli, Università di Napoli, 1954).^
53 Sufficit l’espressione a riguardo degli artisti di teatro definiti «schifose Sirene di nostra Scena» o la considerazione “…appartandomi dall’Antiprobole, per non levare a romore quel gran Ceto de’ Musici professori (che veramente è uno animale di smisurata grandezza) posi in campo un nuovo nome con cui chiamarli”, F. Parrilli, cit., p. XI.^
54 L’infelice tentativo del Tentamen novae theoriae musicae (1739) di Eulero lo dimostra ampiamente; in merito, mi permetto di rinviare al mio, Musica antica e moderna. Inediti di Vincenzo Cuoco, qui menzionato alla nota n. 5.^
55 F. Parrilli, Lettera villereccia, cit., pp. X e XI.^
56 Ultima vera per gli probolisti, a richiesta per gli antiprobolisti o sia spicilegio musico. (vol. 323/6, pp. 3-47).^
57 Michelangelo Grisolia (Mormanno, 1751- Napoli), sacerdote. Dalla sua terra natale, la Calabria, si trasferì a Napoli, dove insegnò etica e filosofia e fu autore di scritti filosofici e traduttore dal latino di opere del Pontano. La sua opera I doveri del soldato, Napoli, Morelli, 1789, risultata particolarmente gradita alla monarchia borbonica, conobbe, ampliata, una seconda ristampa nel 1791. (L. Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza Napoli, voll. 4 (Tip. Municipale:1-2, Tip. della Redenzione: 3, Migliaccio:4), 1869-1877; Ristampa anastatica Bologna, Forni, 1977, vol. III, p. 206. R. Pilati, La Nunziatella. L’organizzazione di un’Accademia Militare (1787- 1987), Prefazione di R. Ajello (Educazione militare e storia moderna delle Sicilie, pp.5-12), Napoli, Guida, 1987, pp. 111 e 203-204; P. Matarazzo, I catechismi degli stati di vita alla fine del Settecento, in Editoria e cultura a Napoli, a cura di A.M. Rao. Atti del Convegno organizzato dall’Istituto Universitario Orientale, dalla Società Italiana di studi sul sec. XVIII e dall’Istituto Italiano per gli studi filosofici (Napoli, 5-7 dicembre 1996), Napoli, Liguori, 1998, pp. 503-526, spec. 511; S. Napolitano, Il problema della sovranità nella cultura napoletana di fine Settecento: il contributo del mormannese Michelangelo Grisolia, in Tra Calabria e Mezzogiorno: studi storici in memoria di T. Cornacchioli, Cosenza, Pellegrini, 2007, pp. 65-79.^
58 M. Grisolia, Ultima vera per gli probolisti, cit., p. 42.^
59 Quando si rivolge al de’ Medici, il Mattei esclama che «il maggior male si è, che la decisione offende la musica, e tutto il rispettabil ceto de’ suoi professori», e dunque idee e tesi del Mattei comprendevano una visuale ben più ampia di quella del Grisolia in merito alla collocazione sociale da ricercarsi per i maestri di cappella.^
60 N. Pellegrini Barone, Risposta di Linguet al signor […] Apologia della musica, Napoli, Porcelli, 1786 (segnata sul libro è una dedica del 1785, mentre il permesso di stampa data del 1786).^
61 Ivi, pp. 82-83.^
62 La recensione, comparsa anonima sul «Giornale enciclopedico di Napoli», op. cit., p. 85 – sembra confermare questo aspetto «(Pellegrini Barone) prodigalizzando in una maniera nauseante le lodi al SignorMattei, mentre che combatte i suoi oppositori specialmente il Signor Pepe, ed il Signor Serio senza alcun riguardo ai limiti della decenza e della pulitezza».^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft