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E-democracy e dintorni
di Daniele Rolando
Il penultimo fascicolo del 2013 di «ParadoXa» si presenta sotto il perturbante interrogativo «e-democracy?». Al suo interno, all’apparenza, un plotone d’esecuzione di alto livello che ha lo scopo di fucilare metaforicamente Paolo Becchi – a cui comunque viene riconosciuto il diritto di difesa. Perché questa inesorabile condanna, sia pure metaforica? Non seguendo l’ordine dell’indice della rivista inizierò questa breve nota del presunto colpevole, passando solo successivamente alle argomentazioni dei suoi accusatori.
L’intervento di Paolo Becchi (Ciberspazio e democrazia. Come la rete sta cambiando il mondo), che il curatore del volume ha inserito anodinamente al quinto e penultimo posto dell’indice, può venire distinto in due scritti. Cercherò di dimostrare come in realtà queste due testi potrebbero venire separate e come il plotone d’esecuzione di cui sopra potrebbe trovarsi in realtà di fronte a due tesi diverse di Becchi, la prima, probabilmente, innocente per eccesso di etericità, la seconda forse colpevole come ogni “angelo caduto” che si rispetti.
Punto di partenza del suo discorso un’osservazione relativamente inquietante: «non è più il mondo ad essere nello spazio bensì lo spazio nel mondo». In realtà Becchi con questo incipit, oscuro solo per i più filosoficamente sprovveduti, intende dire una cosa relativamente semplice, sia pure collocandola sotto l’usbergo di auctoritates come Heidegger e Schmidt. Mentre per questi due “classici” del Novecento il mondo, cioè l’universo in cui vivono gli uomini, è radicato sulla terra ed è circondato dallo spazio infinito del non senso, la tecnologia ha consentito al mondo umano di inglobare lo spazio, di conseguenza l’aria è divenuta il nuovo elemento.Naturalmente non l’aria reale fatta d’ossigeno, idrogeno e azoto ma l’aria come luogo immateriale della comunicazione interattiva via internet.
Il che permette di mettere assieme realtà che a chi, come al sottoscritto, è rimasto ai margini di questa felice dimensione continuano a sembrare contraddittorie. Per un verso «nella rete nasce» – o forse sarebbe meglio dire nascerà – un’«intelligenza collettiva», per altro verso in essa si può trovare quello che Becchi chiama networked individualism. Si tratta di un’affermazione particolarmente paradossale: «ognuno legge il giornale che è scritto per tutti, domani su internet troverai il giornale ritagliato per te». Si potrebbe obiettare che forse ciascuno di noi perde tempo, alle volte fin troppo tempo, a leggere il giornale proprio perché vuole leggere le notizie per tutti, cioè quelle notizie che fino a successiva rettifica o confutazione rappresentano, anche se non ci piacciono, la realtà politica e sociale in cui ci riteniamo immersi. E questo non cambia anche se i più avvertiti di noi sono pienamente consapevoli di trovarsi di fronte ad una selezione parziale di fatti, spesso anche consciamente o inconsciamente tendenziosa – dopo tutto un’antologia dell’Iliade non è ipso facto un’Iliade falsa.
Ma non è questo il punto per Becchi: ciò che per lui è essenziale è che «il virtuale deve diventare reale», appunto attraverso la mediazione della rete. E a questo punto la prima tesi, con il suo innocuo networked individualism si trasforma nella meno innocua seconda tesi, ed inizia la seconda parte del suo discorso. Il Movimento cinque stelle (M5S) rappresenta infatti il volano che ha reso possibile questa discesa dal cielo alla terra: «per conseguire il successo elettorale è stato indispensabile lo “tsunami tour” vale a dire l’incontro tra la piazza virtuale e la piazza reale». Passo essenziale del suo intervento perché rappresenta in maniera particolarmente esplicita il passaggio all’attivismo e all’interventismo politico come una forma quasi miracolosa di incarnazione dell’ideale nel reale.
Mentre la democrazia mediatica che ha caratterizzato la “seconda repubblica” si basava su tre elementi: stampa, televisione, elezioni, ed era quindi irrimediabilmente asimmetrica in quanto il suo modello comunicativo era piramidale e verticistico, secondo Becchi: «È intenzione del movimento dotarsi di uno strumento che consenta di realizzare una sorta di “parlamento elettronico”, che avvicini eletti ed elettori a tal punto da confonderli». E di conseguenza: «Nascerà una nuova democrazia senza partiti e una nuova e discorsiva politica al posto di quella conflittuale e auto referenziale che conosciamo». Potrebbe essere considerato un segno dei tempi che dalla crisi del 2009 in poi sia finito il successo dei molti volumi che preconizzavano nuove e più evolute forme di capitalismo (si pensi ad es. al successo di volumi come The Long Tail di Chris Anderson e Economies of Signs & Space di Scott Lasch e John Urry) e sia iniziato quello dei volumi che preconizzano nuove forme di democrazia. È significativo il fatto che sia gli uni che gli altri implichino un presupposto irrimediabilmente falso: come il “mercato a coda lunga”, così ogni forma di democrazia digitale presuppone l’esser a disposizione di tutti un hardware a costo bassissimo o addirittura nullo, nonché del tempo, capacità e soprattutto voglia di utilizzarlo per questo scopo. Cosa comunque impossibile a meno che un altro mercato, magari nascosto dalla lontananza, molto paleocapitalista garantito da altre istituzioni particolarmente paternalistiche e/o autoritarie non lo renda possibile.
Gaetano Mosca, padre putativo del moderno “elitismo” aveva sostenuto alla fine dell’Ottocento, con grande scandalo dei benpensanti “democratici” a quanto pare destinato a perpetuarsi nel tempo (si pensi all’attuale ridicola polemica sulle “preferenze”) che non sono i cittadini elettori a eleggere il deputato ma il deputato che si fa eleggere dagli elettori. Se si tiene presente questo assioma – probabilmente vero in qualsiasi democrazia reale – appare evidente un altro aspetto particolarmente originale della prospettiva di Becchi: come Morando (non a caso l’unico politico di professione membro del plotone d’esecuzione di cui sopra) ha notato,mentre nelle tristi e sfortunate democrazie pre-network i candidati dovevano prendersi la briga di farsi accettare passando il vaglio di strutture di partito complesse ed assemblee affollate, i candidati del M5S, membri comunque di un élite di possessori e consapevoli utilizzatori di strumenti sofisticati e del tempo di usarli, hanno potuto autodesignarsi fra di loro senza confronto esterno, creando una specie di elitismo autoreferenziale.
La conclusione di Becchi assume però un tono vagamente apocalittico: la tecnologia digitale è un “Giano bifronte” perché può essere usata anche per il controllo, lo spionaggio elettronico ecc. bisogna dunque vigilare e i movimenti tipo quello 5Stelle ci sono apposta. La malinconica alternativa sembrerebbe essere: o il “grande fratello” o il parlarsi fra loro di pochi o tanti patiti di internet pieni di “sospetto” (e probabilmente anche di ressentiment).


2. Le argomentazioni “contro”

Franco Chiarenza nell’introduzione al volume (Impigliati nella rete. E-democracy un pericolo per la democrazia liberale) dà un elenco ragionato della davvero nutrita serie di argomentazioni a disposizione del “plotone di esecuzione”: «costruirsi una propria opinione e poterla immediatamente trasformare in una decisione politica servendosi della tecnologia interattiva sono cose diverse», se si cerca di azzerare questa differenza. Le opinioni possono trasformarsi in “partiti liquidi”. Il che rende possibile nello stesso tempo una nuova forma di “assemblearismo” e un «mandato in bianco per pochi manipolatori».
Ma il vero pericolo è immediatamente politico: «Le rivoluzioni storiche si sono sempre espresse nell’obiettivo di conquistare il ‘palazzo‘; quando un regime è debole la resistenza può diventare impossibile e i portoni si spalancano inesorabilmente alla moltitudine che finalmente ritiene di aver così concretizzato l’aspirazione ad un governo democratico […]. Internet rappresenta per molti l’ariete che ha sfondato i cancelli che proteggevano il potere».
E questa è la per altro ben motivata paura che circola più o meno esplicitamente in tutto il volume. Fino a che punto essa è giustificata? In realtà se si esaminano i vari interventi si può notare come in essi si alternino due tipi di argomentazioni: per un verso infatti si può esaminare la posizione di Becchi e del M5S cercando di analizzare il modo con cui il movimento utilizza la “rete”, e fino a che punto questo modo possa avere successo nel lungo periodo; per altro, da un punto di vista insieme storico e politologico, ci si può chiedere fino a che punto l’idea di democrazia propria del movimento sia compatibile con la democrazia liberale moderna così come si è venuta costruendo dalla fine del Settecento ad oggi.


2.1 La rete come strumento politico

Gli interventi di Mario Morcellini e Serena Gennaro (Shortpolitics. Tra socialità mediata e socialità messa in scena) e di Davide Bennato (I buchi della rete. Quali sono i limiti socio-tecnologici della cyber democrazia), anche se probabilmente per ragioni alfabetiche, sono collocati uno all’inizio, l’altro alla fine del volume, si occupano principalmente (anche se per la verità non esclusivamente) del primo aspetto del problema; li esaminerò quindi per quanto possibile insieme.
Il primo cerca di evidenziare soprattutto «un registro retorico usato come linguaggio dell’opposizione e della differenza» allo scopo di costruire un nuovo soggetto politico il cui scopo è la destituzione delle élite. A questo fine proposte e programmi passano in secondo piano. Qui appare però, anche se «la politica del grido ha avuto il vantaggio dell’immediatezza» il limite della prospettiva: è possibile identificare direttamente l’elettore antielitario con quello iperconnesso? Più tranciante, se è possibile, Bennato che finisce per dare una risposta particolarmente netta a questa domanda. Visto e considerato che «le forme che può assumere la democrazia digitale possono essere ricondotte a quattro posizioni chiave il liberal-individualismo, la democrazia deliberativa, i pubblici contro, il marxismo autonomista» e che inoltre «la tecnologia rispecchia, incorpora, modifica uno specifico sistema valoriale, che altro non è che la componente culturale del contesto che l’ha prodotta» si tratta di identificare a quale gruppo il movimento appartenga. Per Bennato certamente quello dei “pubblici contro”. Alla sua base infatti il riconoscimento del declino del concetto di partecipazione politica e della nascita di attività politiche monotematiche con appartenenza “fluttuante”. La conclusione del primo di questi due saggi potrebbe quindi valere anche per il secondo: «Il ritorno alla sfera pubblica habermasiana come effetto quasi automatico delle tecnologie digitali non trova effettivo riscontro rispetto a una partecipazione dei cittadini che non prefigura l’avvento di quella democrazia elettronica che era stato dato per certo».
Non è possibile confondere l’asettico e sostanzialmente irrealistico punto di vista delle “democrazie deliberative” con la molto realistica, forse fin troppo realistica, prospettiva del M5S.


2.2 la proposta politica nella “rete”.

Soprattutto Dino Cofrancesco e Fulco Lanchester si sono assunti il compito di dare alla prospettiva politica aperta dal M5S una valutazione dal punto di vista di chi crede nei valori della democrazia liberale1.
Comincerò con l’intervento di Lanchester (Rappresentanza in campo politico e divieto dimandato imperativo), se è possibile più storico ed incentrato su di un tema particolare anche se particolarmente importante: la critica del movimento al divieto costituzionale del mandato imperativo. Nei parlamenti antichi e medioevali il mandato era imperativo perché i rappresentati non erano altro che dei negoziatori per conto della corporazione che li nominava e poteva sostituirli. Solo dopo la gloriosa rivoluzione il parlamento inglese, liberandosi dalmandato imperativo assunse in pieno il suo ruolo “sovrano” che gli permetteva di decidere su qualsiasi questione in modo autonomo. Nasce così lo Stato distinto ed eventualmente contrapposto alla società, che ha nel parlamento il suo organo decisionale supremo. Ma «dopo il 1848 i parlamenti diventano aule in cui si confrontano posizioni rigide ed inquadrate al di fuori dei parametri della discussione borghese». L’invenzione del partito politico novecentesco rappresenta il modo con cui dopo l’entrata delle masse nella dimensione politica il problema del divieto del mandato imperativo aveva trovato la sua soluzione: «In un sistema di partiti nazionali, stabile e strutturato il problema della rappresentanza viene risolto in maniera “naturale”» attraverso l’utilizzazione del divieto del mandato imperativo come mera valvola di sicurezza per la tutela del dissenso». Ma nella situazione attuale contraddistinta dalla «perdita della centralità delle istituzioni rappresentative collegiali» e dalla «crisi di rappresentatività dei parlamentari» che hanno perso «la capacità di articolare o ridurre la domanda politica sono gli “esecutivi” che acquistano il ruolo privilegiato di rappresentazione delle domande provenienti dalla società civile». Si tratta ovviamente di una situazione pericolosa e «la democrazia deliberativa è un mero palliativo».
Ancora più articolato l’intervento di Cofrancesco (Quello che non comprendono i dottor Stranamore della e-democracy), volto soprattutto a combattere «l’illusione della scomparsa della dimensione politica». Punto di partenza il rifiuto della tesi, fin troppo facile e accettata spesso in maniera acritica, che l’invenzione di internet abbia rivoluzionato la dimensione politica e che si possa parlare di un era pre e post internet come non si può parlare di un era pre e post Gutemberg. Con una tacita citazione hobbesiana Cofrancesco scrive: «anche ammettendo (ipotesi dell’irrealtà) che tutti siano in possesso degli strumenti necessari […] chi avrà il potere di stabilire l’ordine del giorno del dibattito pubblico – e d’imporre “il diritto ad avere diritti” – sarà il nuovo detentore del privilegio, quell0 “più uguale degli altri”». Di conseguenza «la rete salda elitismo e populismo, minoranze audaci e seguiti di massa», producendo «un sessantottismo plebeo».
Ma Cofrancesco aggiunge qualcosa di più, svolgendo una critica che forse trascende lo stesso “obiettivo M5S” e finisce per coinvolgere ogni tipo di ideale di democrazia deliberativa. Il presupposto tacito che sta dietro a questo come ad altri movimenti simili è l’idea dell’«autoevidenza del bene pubblico» con conseguente «cancellazione dell’elemento tragico connaturato alla condizione umana» prodotto dal «conflitto tra valori i ntensamente vissuti che si rifanno ad etiche politiche inconciliabili». Da qui «la riduzione della partecipazione politica a mera espressione di “sentimenti e risentimenti”». L’ultima parte dell’intervento di Cofrancesco è quindi dedicata ad una difesa del partito politico, condizione essenziale perché possa esistere una “comunità politica” visto e considerato che «il compito della democrazia non è quello di far parlare tutti ma di far accettare la complessità come caratteristica ineludibile del “legno storto” dell’umanità». E all’interno di una democrazia così pensata la rappresentanza politica ha l’ineludibile compito di mediare fra le corporazioni e lo Stato. Da questo punto di vista la sua conclusione potrebbe apparire particolarmente pessimista: «movimenti come i M5S non sono la causa che hanno posto fine a una stagione politica ma gli effetti di questa fine» e l’incubo di un Palazzo d’inverno già conquistato o sul punto di essere conquistato ritorna inevitabilmente.


3. Alcune osservazioni conclusive

Nel 1977 Francesco Alberoni pubblicava il suo fortunato contributo teorico Movimento ed istituzione. Forse una delle migliori risposte accademiche al ciclone sessantottesco che stava travolgendo l’università italiana e che il prof. Alberoni aveva potuto osservare fra i primi all’Università di Trento. Argomento centrale di questo ponderoso volume il tentativo di interpretare unitariamente l’origine dei movimenti politici o sedicenti tali e l’innamoramento in statu nascente. Mi sembra che un’analisi analoga possa venir applicata al M5S. Da questo punto di vista l’accusa di sessantottismo mi sembra più che provata. Solo in una prospettiva come quella di Alberoni si può comprendere l’elitismo autoreferenziale di cui sopra.
L’aspetto più interessante che emerge però dal fascicolo di «ParadoXa» è dato però dalla discrepanza che mi sembra di poter notare non solo fra il primo scritto di Becchi e il secondo ma anche fra aspetto tecnico e quello politico della questione.
Per un verso probabilmente il networked individualism ed il processo di globalizzazione in cui siamo immersi potrebbero essere considerati l’uno l’interfaccia dell’altro; ma se il processo di globalizzazione è tale da mettere in crisi non solo gli Stati-nazione ma anche le comunità politiche e i partiti politici che senso può avere trasformare un uditorio di iperindividualisti in un uditorio “contro”? Una comunità politica “contro”, a meno che non riesca a conquistare immediatamente o quasi immediatamente il suo “palazzo d’inverno” o la sua Bastiglia e finisca per regalare il potere politico ai bolscevichi e ai giacobini che verranno dopo, sarebbe strutturalmente impossibilitata ad organizzare qualsivoglia consenso su qualsivoglia obiettivo specifico.
Il vero punto, messo in rilievo dal prof. Cofrancesco sta nel fatto che la crisi della comunità politica non può implicare la fine della politica. Se fosse vero il networked individualism basterebbe a se stesso come il mercato “a coda lunga” sarebbe il tanto agognato mercato perfetto. La metamorfosi fra il primo e il secondo testo di Becchi non sarebbe necessaria. E questo perché la politica è il luogo della “decisione” e ci vorrà sempre qualcuno che decida quando aprire o chiudere anche una discussione via internet. Il problema sta nel fatto che se è vero che il successo o il relativo successo (dopo tutto Grillo al governo non c’è ancora) è legato ad una crisi della politica un eventuale conquista del potere politico da parte di movimenti come quelli in cui Becchi mostra di credere – non solo il M5S – potrebbe rivelarsi come la conquista di una stanza vuota, o quasi vuota, a prescindere dal fatto che siano effettivamente in grado di prendere vere “decisioni politiche”. Una cosa è ricordarsi dell’ineliminabilità della dimensione politica, un’altra verificare la possibile efficacia dell’azione politica. Forse siamo entrati in un epoca di minimal states senza che nessuno se ne sia accorto (anzi è dal 2009 che si sono ripetuti continui quanto velleitari appelli per un agognato ritorno al tranquillizzante Keynes), solo che quello che per Nozick era un utopia si è trasformato probabilmente in un incubo. Tecnocrazia europea (con ricadute a livello nazionale tipo il governo Monti) e movimenti vari non sono altro che tentativi di uscire da quest’incubo, segnando confini e ricostruendo “spazi politici”, presupposto di ogni “comunità politica” propriamente detta. Tentativi probabilmente fallimentari e tendenzialmente pericolosi certamente, ma resta comunque aperto il problema di quale potrebbe essere un effettiva ed efficace alternativa democratico-liberale da parte di nazioni, e quindi comunità politiche, prive della possibilità di una politica estera e di difesa autonoma, di confini invalicabili, di propria sovranità monetaria. L’impressione è che non esista in questo momento su nessun tavolo alcuna soluzione condivisa di questo problema fondamentale, se non la tacita speranza che, prima o poi, l’invisible hand del mercato trovi da sola la soluzione ai vari problemi nazionali. Aspettativa paradossale se si tiene conto del fatto che, pur essendo un’istituzione tendenzialmente liberista (solo tendenzialmente però, basti pensare alle “quote latte”) al suo interno, l’Unione europea si presenta all’esterno come un poderoso agente economico neo-mercantilista, che dovrebbe in linea di principio essere in grado di governare in modo democraticamente accettabile le tensioni interne dei singoli Stati. Da una parte quindi un’Unione che non svolge del tutto la sua funzione di Stato nel mercato globale, dall’altra Stati nazionali che vorrebbero continuare a svolgere questa funzione ma non lo possono più fare.








NOTE
1 Mi dispiace dedicare solo una nota all’intervento di Enrico Morando (Il partito 2.0 e gli ‘arcana imperii’), con la sua messa in evidenza del ruolo della “trasparenza”, e a quello di Saro Freni (La raccolta della protesta), un sintetico panorama dei molteplici volti del “populismo”, all’interno del quale il M5S va indiscutibilmente collocato. Entrambi gli interventi hanno rafforzato le argomentazioni “contro” sopra delineate.^
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