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La camplessa figura di Isaiah Berlin*
di Giuseppe Galasso
È difficile parlare di Isaiah Berlin al di fuori della sua composita figura di ebreo russo emigrato in Inghilterra. Ciascuna di queste componenti esistenziali ha, infatti, avuto sullo sviluppo della sua personalità di studioso e di filosofo un’incidenza fondamentale, che, peraltro, non è facile isolare nella sua specificità. La personalità di Berlin reca in sé tanti tratti omogenei e profondamente correlati fra loro da farla risaltare come quella organica e, per così dire, naturale di un grande intellettuale del secolo XX. La sua prolificità di autore presente con lavori di sicuro rilievo in molti campi di studio ne ha fatto, invero, porre spesso in rilievo un eclettismo non solo in relazione ai molti temi da lui affrontati, bensì anche in relazione ai punti di vista da lui affacciati e sostenuti nei tanti suoi scritti. Tuttavia, una più approfondita considerazione non può non portare a riconoscere che quell’eclettismo, più o meno presunto o effettivo che sia, non si risolve in una peripatetica dispersione di interessi e di orientamenti; e che un solido corpus abbastanza coerente, anche se a volte non omogeneo, di dottrine e di giudizi emerge chiaramente dall’opera di Berlin.
È stato anche più volte notato che questo corpus si presenta articolato in tre nuclei principali, salvo poi a divergere nella individuazione di tali nuclei. E anche è significativo che al riguardo le divergenze siano, peraltro, molto spesso terminologiche ben più che sostanziali. Sempre vi rientrano, infatti, in un modo o nell’altro, le idee di storia e di libertà. Più evidenti sono le divergenze relative all’altro punto della terna solitamente ravvisata quale articolazione del pensiero di Berlin: valori oppure pluralismo oppure tradizioni oppure idee o altro. Quello su cui non pare di poter convenire è, comunque, che del suo pensiero si possa o si debba dare conto nei termini di una visione unitaria nel senso di essere sistematicamente strutturata e coerente. La profonda unità del pensiero di Berlin, quel che vieta di parlarne nei termini di un semplice e, per così dire, monistico eclettismo sta, da un lato, nella sua ispirazione di fondo e, dall’altro, nel configurarsi tutt’altro che rigido e ripetitivo di tale ispirazione pur nel suo vario e successivo articolarsi da lavoro a lavoro di Berlin.
Si tocca con ciò un altro punto di primaria rilevanza nel pensiero di Berlin. Non sempre, infatti, si fa il conto dovuto del fatto che questo pensiero ha avuto una sua evoluzione, un suo sviluppo nel corso del tempo, del quale non è possibile ignorare o sottovalutare né la direzione, né il significato. Dal che si può facilmente dedurre quanto importante sia proprio cercare, almeno, di individuare questa direzione e questo significato.
A noi stessi è sembrato di poterlo enunciare come una risoluzione più che sufficiente definita della filosofia in una storia delle idee1. La filosofia offre storia di sistemi, teorie, categorie, principii o dogmi teorici logicamente e compiutamente definiti, che si differenziano e si fronteggiano fra loro in modo esclusivistico, oppure con un certo imperialismo teorico per cui l’elemento diverso o contrario viene ridotto e assimilato alla logica e al senso delle vedute da cui una tale operazione procede, oppure, ancora, frammentando e scomponendo l’avverso o il contrario per una strumentale utilizzazione di ciò che conviene o sembra opportuno a chi in tal modo lavora. Le idee non sono elementi di pensiero di ordine sistematico oppure rigidamente o esclusivamente logico. L’idea è quel che Berlin definisce (in Il legno storto dell’umanità) una «verità concettuale», ossia un elemento di conoscenza fondato sia su un’evidenza logica che su un’evidenza di fatto, un’evidenza storicamente fondata e dimostrata.
Il campo di applicazione di questa visione del problema è vastissimo. Tipico il caso della reciproca conciliabilità o inconciliabilità dei grandi valori ricorrenti nella storia civile e morale, politica e sociale di popoli e nazioni. Per quanto possano apparire ugualmente validi e universali, e di per se stessi evidenti, i grandi valori o principii non sono tutti, né sempre compatibili fra loro. L’esperienza storica dimostra precisamente il contrario,ma dimostra il contrario anche la facile reperibilità di alcuni grandi valori in un patrimonio morale comune a livello generalmente umano.Questa facile reperibilità dimostra, infatti, che su alcuni punti l’umanità generalmente conviene, e ciò può assicurare circa un riconoscibile fondamento di struttura umana per alcuni valori, ma dimostra pure che, su altri punti, non meno generali o meno argomentati sul piano logico e non meno ricorrenti sul piano storico nessun accordo si può ritrovare di pari fondamento di struttura umana.
Di qui la complessa fisionomia dei valori nel pensiero di Berlin. Per un certo verso essi si propongono come universali e riconosciuti, di fatto, nella generale esperienza dell’umanità. Per un altro verso essi sono diversi fra loro in tale esperienza, ma sono in essa conciliabili o compatibili. Per un terzo verso, infine, essi sono, invece, del tutto alternativi, quindi del tutto inconciliabili o incompatibili.
Il pluralismo dei valori non si risolve, dunque, per Berlin né in una statica molteplicità, né in una facile mediazione, né in un irrimediabile conflitto su tutto e per tutto. La realtà della storia è molto più duttile e varia. È una realtà che si costruisce sul fondamento della struttura umana, logica o psicologica, etica o comportamentale. Sol perché fondata su questo fondamento, la storia non è destinata, però, a seguire nessun corso obbligato o certamente prevedibile. Il legno dell’umanità è storto, come egli afferma, con una significativa derivazione da Kant, e «da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può costruire nulla di perfettamente diritto». Nessuna filosofia della storia può, quindi, essere accettata da lui: un disegno razionale finalistico, obbligato del corso storico non può uscire da quel legno così storto. Neppure, però, Berlin si sente di accettare, sic et simpliciter, lo storicismo nelle sue varie versioni. Recensì alquanto negativamente l’antologia My philosophy, che nel 1949 propose al pubblico inglese una scelta di scritti di Benedetto Croce2, ma un maggiore favore non dimostrò neppure per altre forme di storicismo.
È significativo, al riguardo, che il grande apprezzamento da lui fatto di pensatori così sensibili alla dimensione storica dell’esperienza dell’umanità e così importanti sulla formazione e nello sviluppo dello storicismo europeo, quali furono Vico e Herder, non sia fondato o sia solo parzialmente fondato sui connotati storicistici del loro pensiero. Ciò che per lui soprattutto risalta in essi è la renitenza e avversione al dogmatismo razionalistico, sia cartesiano che illuministico e l’affermazione della molteplicità e varietà dei fili che nella storia degli uomini si annodano. Ugualmente egli mette in rilievo, in entrambi, il loro concetto di cultura, di cui Vico gli sembra mettere in evidenza la contingenza storica e le dinamiche radici extralogiche, e Heder gli pare indicare la struttura di risultante storica dell’esperienza delle determinanti e specifiche vicende di ciascun popolo. Così Vico è un grande precursore dello storicismo, ma non gli appare, tecnicamente, uno storicista; Herder gli appare una grande tappa nello sviluppo della moderna idea di nazione, ma inteso e utilizzato malamente dagli estremismi che hanno esasperato e radicalizzato quell’idea. Entrambi, in fondo, ancorati alla storia, ma non esclusivamente ad essa; entrambi oggettivamente volti alla valorizzazione del molteplice e del vario nella storia. D’onde la convinta associazione di essi due come oggetti convergenti nell’attenzione sia del Berlin storico che del Berlin pensatore.
A considerazioni parallele induce il profilo dell’idea di libertà tracciato da Berlin nei suoi famosi Quattro saggi. Quando egli li pubblicò nel 1969, già da molto tempo il grande presidente americano Franklin D. Roosevelt aveva enunciato le famose “quattro libertà” che egli, nella scia di una lunga tradizione di pensiero liberal- democratico soprattutto anglosassone, considerava fondamentali per un regime di libertà. Erano due libertà di (religione, parola) e due libertà da (bisogno e paura). Bisogna ricordare un così importante, benché, salvo errore, generalmente trascurato precedente per rendersi meglio conto di quanto e come la riflessione di Berlin sia inserita nel suo tempo e nel mondo contemporaneo. Il che – sia detto in aggiunta – è opportuno anche perché la teoria di Berlin su libertà negativa (libertà da) e libertà positiva (libertà di) è, con tutta probabilità, la parte del suo pensiero politico di maggiore impatto e influenza nel pensiero della seconda metà del secolo XX. Che poi egli abbia sviluppato le sue idee al riguardo sul rischio che la libertà di si possa risolvere in un individualismo arbitrario e disgregatore, o sulla priorità delle “libertà negative” rispetto a quelle, “positive”, o sulla ricorrente possibilità che libertà di e libertà da confliggano tra loro, con esiti, ovviamente, non positivi per la libertà in generale, è un altro discorso. E tale discorso può ben guidare anche a una riflessione sui limiti oggettivi che – al di là di quanto è più propriamente e più profondamente radicato nelle sue personali preferenze e propensioni logiche, ideologiche ed etiche – la contestualità di tale riflessione col suo tempo abbia potuto determinare di irrisolto o di insoddisfacente o di non persuasivo nel pensiero di Berlin: una quota del suo pensiero che è, quindi, a sua volta, anch’essa molto significativa come testimonianza, appunto, e che, invero, non è per nulla trascurabile, ma richiede tutto un discorso a sé.
Su queste basi si fondano anche le prese di posizione di Berlin su nodi e problemi eminenti nella storia del pensiero europeo, si tratti di illuminismo o di marxismo, di storicismo o di filosofia della storia. Prese di posizione che possono essere criticate o inficiate da molti punti di vista anche nella loro fondazione teorica; e da ciò anche molto della disparità di giudizi e di prospettive dagli studiosi del pensiero di Berlin. Sempre, però, le sue prese di posizione hanno il pregio, non proprio comune, di essere enunciate con quella chiarezza, che Gaetano Salvemini definiva come «onestà della mente». Tipica, ad esempio, è la sua riduzione dei motivi caratterizzanti del pensiero di Marx a tre elementi, cumulati fra loro: la dialettica come forza propria della logica, la natura conflittuale della storia e il rapporto imprescindibile delle forme della cultura con l’organizzazione sociale. Che può apparire una riduzione eccessiva, e in un certo senso lo è, ma indubbiamente è pure illuminante e inconfutabile. Ma bisogna sempre ricordare, al postutto, che quella risoluzione della filosofia in storia delle idee a cui si è accennato come tratto distintivo del suo pensiero, non solo non poteva non avere conseguenze sul suo pensiero, ma era ben nota a lui e formava una consapevole rivendicazione della sua reale fisionomia di studioso. «Annunciai – egli dichiara – che intendevo abbandonare la filosofia e scrivere di storia delle idee», e ciò perché avrebbe «voluto sapere di più alla fine della [sua] vita che all’inizio», ma «era chiaro che non [poteva] fare questo studiando filosofia». E la storia delle idee richiedeva una flessibilità e una multiformità teoretica che la logica fatalmente unitaria della filosofia non gli sembrava fornire. Che era poi anche la ragione per cui gli sembrava che la molteplicità dei valori non significava una loro indifferenziata equivalenza, anzi consentiva tanto più di sostenere i propri valori quanto più si consideravano legittimi e rispettabili gli interlocutori di altro orientamento. Era, cioè, la ragione, ancora, per cui valeva sempre il diritto di scelta nelle opzioni di valore, quale che fosse la capacità intellettuale e operativa e la qualità morale di chi opera la scelta.

* * *

Alla considerazioni delle pagine che precedono mi ha condotto il pregevole studio di Alessandro Della Casa su l’equilibrio liberale, che ripropone la triade del pensiero di Berlin come storia, pluralismo e libertà3.
Studio pregevole per la qualità della ricerca da cui è nato; e pregevole, altresì, perché riafferma – mi pare, meglio di altri studi – sia la natura indubbiamente liberale del pensiero di Berlin, sia la fondazione di questo liberalismo nella molteplicità di spinte e controspinte teoriche e storiche, per cui la prospettiva dell’equilibrio fra esse è una connotazione fra le più autentiche del pensiero di Berlin. Ne deriva che pluralismo e liberalismo sono, per Berlin, indissolubilmente legati, ma legati in modo tale che – ne conclude Della Casa, con espressioni dello stesso Berlin – che «le parole con le quali sono state formulate [da Berlin le loro intrinseche e imprescindibili correlazioni] ci parlano ancora». E non credo che si possa disconoscere né la fondatezza, né l’intrinseca valenza, non solo filologica, di una tale conclusione per Berlin e per il liberalismo.









NOTE
*Riproduciamo qui la nostra prefazione al volume di Alessandro Della Casa, L'equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà, in Isaiah Berlin, Napoli, Guida, 2013.^
1 Cfr. G. Galasso, Dalla filosofia alla storia delle idee, in Isaiah Berlin filosofo della libertà, a cura di P. Corsi, La Rivista dei libri, 1995, pp. 26-59. Notiamo qui che ricordiamo con la data della pubblicazione in originale le opere di Berlin che citiamo; e che esse sono state largamente tradotte in italiano soprattutto dalla casa editrice Adelphi.^
2 Cfr. B. Croce, La mia filosofia, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1993. Per la recensione citata cfr. I. Berlin, Review of Croce’s «My philosophy and Other Essays», in «Mind», New York, 61, 1952, pp. 564-578.^
3 Alla diligente bibliografia offerta dal Della Casa rimandiamo anche per una panoramica della letteratura relativa a Berlin e al suo pensiero.^
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