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Jacques Le Goff
di Giuseppe Galasso
La recente scomparsa di Jacques Le Goff (Tolone, 1° gennaio 1924 - Parigi, 1° aprile 2014) ha fatto evocare in innumerevoli sedi la sua figura di grande storico tra i più noti del nostro tempo. è toccato anche a noi, che abbiamo avuto con lui un sincero rapporto di cordialità e di stima, di ricordarne la figura nell’articolo, che qui riproduciamo, apparso sul «Corriere della Sera» del 10 aprile scorso.


Jacques Le Goff

Nella grande stagione storiografica francese del Novecento, maturata già dall’indomani della prima guerra mondiale e compiutamente sviluppatasi dopo la seconda, il nome di Jacques Le Goff brilla con una luce particolare nel contesto internazionale. Una luce resa ancora più viva dagli uffici di alta responsabilità da lui avuti nell’organizzazione culturale del suo paese, dalla direzione della École desHautes Études en Sciences Sociales, vera fucina di studiosi che hanno lasciato il segno nel campo della propria attività, alla condirezione della rivista storica francese, che ha avuto tra il 1950 e il 1980 una vera leadership nella storiografia contemporanea, ossia le quasi mitiche «Annales». Una luce confermata dalla diffusione, certo fuori del comune, del suo nome e dei suoi libri, per cui è forse banale, ma opportuno ricordare che egli è stato uno degli scrittori di storia più noti su scala mondiale.
Le «Annales» non connotano, peraltro, per intero il percorso formativo della sua personalità di studioso. Egli stesso ricordava di essere partito nei suoi studi, sotto la guida di Charles-Edmond Perrin, che definiva «maestro rigoroso e liberale, grande figura di una università che non esiste più», in direzione di «una storia delle idee molto tradizionale». Né tutto di quella partenza si sarebbe poi rivelato, a mio avviso, caduco nel prosieguo della sua attività. Egli stesso avrebbe precisato di essersi fin dall’inizio interessato alle idee in quanto erano «incarnate attraverso istituzioni e uomini in seno alla società in cui le une e gli altri agivano». Questa nota del rapporto intimo, funzionale tra idee e società avrebbe poi resistito in lui e avrebbe molto conferito alla grande cifra innovativa delle sue ricerche e delle sue ricostruzioni.
Certo, gli giovò molto in questo potenziamento e sviluppo delle sue native doti di grande storico lo stretto rapporto che ebbe con gli ambienti e gli esponenti delle «Annales» nella fase tanto intensa in cui, alla metà degli anni Cinquanta, si passò dalla influenza di Lucien Febvre – il sodale di Marc Bloch e, con lui, fin dal 1929 cofondatore della rivista – a quella non meno originale e feconda di Fernand Braudel. Nelle «Annales» Le Goff stette e lavorò, però, in maniera tale da non poter essere considerato un semplice prosecutore dei grandi nomi, che erano i numi tutelari ed eponimi di quella rivista, che solo nell’ultimo ventennio del Novecento diede chiari segni di appannamento, se non di esaurimento, della grande funzione svolta fino ad allora. Non per nulla André Bourguière, ottimo conoscitore della materia, riferiva come molti attribuivano a Le Goff e a Emmanuel Le Roy Ladurie il mutamento di indirizzo de le «Annales» negli anni Settanta: un mutamento dalla visione della dinamica dialettica dell’economico e del sociale, propria di Bloch e di Febvre, all’attenzione a un “economico puro” fatto di metodologie e procedure statistico-quantitative (Le Roy Ladurie) o a temi antropologici e antropologico-culturali (Le Goff) o decisamente strutturalistici.
L’antropologia di Le Goff non è mai stata, peraltro, di scuola, e, a mio avviso, neppure ha fatto veramente scuola. È stata una versione originale e ricchissima del suo sostanziale umanesimo storiografico. Ossia, a evitare equivoci, della sua incontenibile e sempre varia passione per ciò che nella vita e nella storia è il protagonismo dell’uomo, del quale egli avvertiva con profonda simpateticità la ricchissima, anche quando è drammaticamente agitata, capacità di vivere e di creare gli strumenti, le idee e le passioni del suo vivere. Sarebbe giunto a chiedersi se si potesse parlare di storia per altro che per l’uomo. E, invero, sarebbe stato difficile, senza questo senso profondo della dimensione individuale, personale dell’umano scrivere le grandi biografie che egli ha scritto su Luigi IX e su San Francesco, ma non meno difficile sarebbe stato scrivere i saggi sul tempo del mercante e sul tempo della Chiesa, sul sogno nella cultura e nell’immaginario collettivo dell’Occidente medievale, sul passaggio dal tempo medievale al tempo moderno, sul senso e l’idea di lavoro e professione nei manuali dei confessori medievali, sulla concezione del denaro nella società preindustriale, sull’invenzione e la nascita dell’idea di Purgatorio nella Cristianità medievale: che è solo una parte di quel che di lui a questo proposito si può ricordare.
Grazie a questo scavo in profondità di nuove tematiche e vie di ricerca Le Goff ha potuto davvero innovare notevolmente la storiografia contemporanea sul mondo medievale. Io trovo, tuttavia, limitativa la definizione di lui soltanto come medievista. È una influenza più sottile e più generale quella che egli ha avuto sulla storiografia contemporanea, nella quale ha segnato svolte che il corso degli studi e della cultura potrà in futuro – come suole accadere nella inesauribile e inarrestabile dialettica della storia tutta, non solo quella culturale, dell’uomo – anche del tutto rovesciare o, magari, dimenticare, ma della quale non potrà mai più cancellare l’ampliamento dell’orizzonte storiografico e del patrimonio di nozioni e di idee, di analisi e di interpretazione storiche, che egli ha avuto il merito di proporre e imporre nella storiografia del suo tempo.
Si può osservare che questa lezione e innovazione storiografica sono affidate ai suoi lavori di ricerca e di rappresentazione storica di gran lunga di più che alle sue pagine di teoria e generale metodologia storiografica; ed è osservazione fondata, ma non tale da mutare il ruolo che egli si è acquistato con la sua inesausta capacità di lavoro, concretatasi in una serie foltissima di scritti per cui è stato fra gli scrittori contemporanei di storia più prolifici. Non ci si può congedare, però, da lui senza ricordare l’uomo che egli era. Meridionale (di Tolone), aveva un cognome bretone (= il fabbro), e davvero dava l’impressione di portare in sé la ricchezza della fantasia e la mobilità intelligente e penetrante di visione propria del Sud e, insieme, la fervida immaginazione e la sensibilità agli elementi prelogici e ai sentieri profondi della sensibilità, proprie dell’umanità e della tradizione celtica. Tutto ciò si traduceva in un’istintiva joie de vivre, che trovava in una grandiosa passione della buona tavola e in una capacità e felicità straordinarie di contatti e di rapporti umani le sue più immediate connotazioni. E quanta parte della sua opera storiografica si comprendeva attraverso la grande finestra di questa sua umanità!
Lo rimpiangeremo, certo, per tutto ciò. Ma, per fortuna, la sua vita di studioso è stata completa al di là dei limiti insuperabili di quella dell’uomo. L’edificio storiografico da lui eretto in sessant’anni di attività ha, fra gli altri, il pregio di un’esperienza compiuta, del tutto risolta nelle sue tante pagine e tradotta in un messaggio che, come si è detto, non è affatto soltanto storiografico.
Sullo stesso giornale avevamo avuto occasione di discutere il lavoro di Le Goff “Le Moyen-Âge et l’argent”, Paris, Perrin, 2010, tradotto in italiano col titolo “Lo sterco del diavolo. Il denaro nelMedioevo” (Roma-Bari, Laterza, 2010), nell’articolo che qui segue.
Il recente lavoro di Jacques Le Goff (Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, ed. Laterza) è di quelli che avvincono anche il lettore più esperto. Vi si afferma, senz’altro, «l’assenza di un concetto medievale di denaro»; e, per di più, la si mette in rapporto «con la mancanza non solo di un ambito economico specifico, ma anche di vere teorie economiche».Dire il contrario è «un anacronismo». E ciò in una visione generale per cui «nella maggior parte della vita individuale e collettiva uomini e donne del Medioevo si comportano in modi che li rendono ai nostri occhi degli estranei» Nel caso del denaro l’«esotismo del Medioevo» è «particolarmente forte», e per capirlo, lo storico deve ricorrere «alla luce dell’antropologia».
Non che il denaro non vi fosse. Anzi, vi è una «pluralità delle monete», e una loro «grande varietà e dinamismo». Solo, però, dal 1100 in poi vi è un’effettiva «diffusione del denaro», e la moneta accompagna «l’evoluzione della vita sociale nel suo insieme»; e solo ancora più tardi, dal 1300, vi sono «metodi di pagamento alternativi» al contante. L’impulso viene dai mercanti, ma anche dalla Chiesa, che sembra voler «aiutare gli uomini del Medioevo a salvaguardare nello stesso tempo la borsa e la vita», cioè «la ricchezza terrena e la salvezza eterna». Per Le Goff, però, si rimane, con ciò, ancora in un’«economia del dono». Resta «la subordinazione delle attività umane alla grazia di Dio» anche per il denaro. Lo stesso «uso ‘laico’ del denaro» è «condizionato da due concezioni specificamente medievali: l’aspirazione alla giustizia, che si ripercuote nella teoria del giusto prezzo, e l’esigenza spirituale della caritas».
Come sempre in Le Goff, a questo si arriva attraverso un racconto profondamente coinvolgente, che sa narrare e valutare, insieme, ciò di cui parla, ed è guidato da una rara competenza medievistica (fonti e bibliografia). Né la sua era un’impresa facile, se si pensa che in fatto di monete il Medioevo, oltre tutto, registrava spesso nelle sue contabilità valori relativi solo a monete di conto, non a denaro circolante.
Si può, tuttavia, accogliere in tutto e per tutto la sua negazione di un’idea e di una prassi del denaro nel Medioevo? Si credeva un tempo che l’economia del Medioevo fosse tutta e soltanto “naturale”, cioè fondata sullo scambio di beni e di servizi. Le Goff è più sottile. Pensa non tanto alla presenza e all’uso materiale quanto all’idea del denaro, che per lui esula dall’orizzonte mentale del Medioevo, e quando vi si introduce, dal 1100 in poi, la concezione negativa che se ne aveva toglie senso alla sua rinnovata presenza. Altro che capitalismo o precapitalismo! Al Medioevo ne manca ogni presupposto. Perfino il mercato della terra attiene all’«economia del dono» anche quando la moneta ritorna nell’uso corrente. Anzi, «la diffusione della moneta nel Medioevo è da considerare innanzitutto come un’estensione del dono»; soggiace al ruolo dominante che in tale economia è proprio della caritas, principio morale da cui il dono deriva, e continua ad assicurare la centralità della Chiesa nella vita sociale.
Eppure, c’è qualcosa in queste pagine mirabili che rende perplessi. Economia del dono o, piuttosto, del baratto? Assenza di mercato della terra anche se i valori di scambio delle proprietà, comunque espressi, mostrano fasi alterne di aumento o di ribasso? Ancora tutta fondata sulla caritas e sull’economia del dono e dei suoi presupposti etico-religiosi quella delle grandi compagnie dei finanziatori dei re d’Inghilterra o quella dei Medici, che stendono le loro agenzie in tutto l’Occidente? Ed è un’economia ancora del tutto medievale quella che inventa la partita doppia (base del moderno calcolo dei profitti e delle perdite), la cambiale e le sue girate, il deposito bancario o il conto corrente? E anche nell’alto Medioevo o nel feudalesimo l’assenza della «merce denaro» implica l’assenza delle logiche connesse a quella merce? In altri termini, non occorre il denaro perché sia presente e agisca la logica sulla quale il denaro stesso si fonda e opera; e pensare a un’umanità, un tempo, un mondo, in cui non vi siano l’economia e il relativo pensare e agire può essere un’astrazione analoga agli anacronismi a ragione deprecati da Le Goff.
Queste perplessità non vogliono, però, proporre alternative alla rappresentazione forte ed elegante di fenomeni complessi e di mille anni di storia europea dataci da Le Goff. È utile, certo, che l’antropologia e altre scienze sociali (la psicologia, in specie) aiutino a chiarire le cose, ma più certo è poi che solo la ragione storica può dominare il passato con la forza della sua logica, che lega la storia e la vita in un nesso indissolubile, e per la quale diventa piano e concreto che possono valere, per la stessa cosa, più verità.
A queste mie considerazioni Le Goff rispose inviando al «Corriere della Sera» una replica, che qui ugualmente riproduciamo nel testo originale francese inviato dall’autore al giornale
Dans le Corriere Della Sera du 4 janvier, mon ami, le distingué historien napolitain Giuseppe Galasso émet des réserves sur la thèse que j’ai soutenue dans mon livre récemment paru Le Moyen Âge et l’argent, traduit chez Laterza sous le titre Lo Sterco del Diavolo.
Une recherche et une réflexion approfondies m’ont en effet convaincu que si l’usage des monnaies, la circulation de ces monnaies et l’évaluation d’un bien en terme monétaire s’étaient largement accrus au Moyen Âge, celui-ci n’était pas parvenu au concept unificateur d’argent. En français, le mot continue à ne signifier que le métal précieux, en anglais, “money” ne passe que tardivement du sens de monnaie à celui d’argent, et en italien, “denaro” ne fait pendant longtemps que continuer le terme de denier venu du latin pour exprimer le type le plus courant de monnaie usitée. Cette constatation de l’absence du concept d’argent s’est reliée dans mon esprit à la thèse, pourmoi fondamentale, du grand économiste hongaro-américain Karl Polanyi qui avance aussi que le terme “économie”, qui n’est employé au Moyen Âge que pour traduire le sens d’économie domestique d’Aristote, n’avait pas non plus le concept unificateur d’”économie”, d’un domaine économique spécifique car, selon lui, et je crois avec raison, «l’economia era incorporata – embedded – nel labirinto delle relazioni sociali». Ce qu’on a appelé plus tard l’argent, en particulier à partir de la fondation de la première bourse témoignant d’un marché de l’argent, celle d’Amsterdan en 1609 (un essai à Anvers au XVe siècle avait échoué précisément en l’absence d’un concept d’argent), était selon moi incorporé au Moyen Âge dans un ensemble de conceptions des échanges dominé par la puissance divine. D’où le fait que j’avance dans ce livre, après l’article d’Anita Guerreau (“Caritas y don en la sociedad medieval occidental”, in Hispania: Revista Espanola de Historia”, 2000), que l’ensemble des échanges sociaux, y compris l’économie et l’argent sont dominés par la “caritas” divine.
Je me suis efforcé dans toute mon oeuvre de montrer la créativité de la société médiévale chrétienne (et je regrette qu’un sous-titre du «Corriere della Sera» reprenne l’expression “secoli bui”) par exemple dans le domaine de la pensée, de la ville, de l’art, et je pense comme Giuseppe Galasso, que l’usage croissant des monnaies a amélioré la comptabilité, comme l’a montré le regretté Federigo Melis. Mais le calcul n’est pas l’argent ni l’économie. Les pratiques évoquées par Giuseppe Galasso sont tardives et limitées alors que les monnaies, comme je l’ai aussi montré, ont pénétré la société dite féodale (XIe-XIIe siècles).
Quant à ceux qu’ont a appelés les Lombards parce que souvent d’origine italienne, les beau travaux du Centre d’Etude d’Asti, avec en particulier l’excellent Renato Bordone, dont je déplore la disparition précoce, ils sont loins d’être ce qu’on appellera plus tard des banquiers. Ce sont des changeurs et des préteurs qui ne peuvent encore se dispenser de toute itinérance; ce qui rend nécessaire encore à la fin duMoyen Âge, des foires commes celles de Lyon, de Genève, de Francfort, etc.
Ce qui gêne Giuseppe Galasso, c’est mon recours à l’anthropologie. Mais les gens du Moyen Âge sont à la fois nos ancêtres et une société dont les pratiques et les concepts étaient différents des nôtres. Seule l’histoire devenue science sociale au contact des autres de ces sciences, en particulier l’anthropologie, peut expliquer dans sa vérité profonde cette société. Quand Giuseppe Galasso écrit: «solo la ragione storica può dominare il passato con la forza della sua logica», il parle en historien du XIXe siècle. Il n’y a pas de raison historique, elle ne domine pas le passé, elle ne se sert pas de la force de sa logique. Elle cherche à éclairer et explique le passé, non à le dominer. Elle a des méthodes, elle n’est pas une raison. Et elle ne cherche à remplir le rôle que lui a assigné un Marc Bloch, expliquer «le changement des sociétés dans le temps» que par le respect de la spécificité de ces sociétés et de leurs changements, ce qui ne fait qu’enrichir l’histoire en respectant sa nécessité et son utilité.
Il giornale mi offrì di controreplicare, a mia volta, e ne nacquero le altre notazioni che qui seguono.
Sono grato all’amico Jacques Le Goff per l’attenzione prestata alle mie perplessità (non tesi alternative) sul suo Le Moyen-Âge et l’argent(nella traduzione italiana il titolo francese è diventato il sottotitolo). Non ho mai pensato che uno storico noto qual egli è non ribadisse le sue posizioni. Le sue precisazioni non dissolvono, peraltro, quelle mie perplessità. Continua ad apparirmi difficile negare il senso e una qualsiasi realtà dell’argent (che non è solo, e banalmente, il «denaro», come Le Goff ricorda) per tutto il Medioevo. Ripeto che nemmeno l’assenza materiale di moneta contante né, aggiungo, l’assenza di teorie o ideologie specifiche del denaro (nel senso voluto da Le Goff) possono far negare che la logica sulla quale il denaro si fonda abbia agito nel Medioevo, così come sempre nella storia. Anzi, che cos’è l’uso della moneta di conto se non l’esplicita affermazione di questa insopprimibile dimensione delle società umane? Ed era possibile un organismo produttivo complesso come quello curtense, se non si fosse avuto un qualche, sia pure implicito e ideologicamente mascherato, criterio di razionalità economica?
Tardive le realizzazioni degli uomini d’affari medievali italiani? Non lo direi. Mi parrebbe un’indebita sottovalutazione di quel mondo commerciale e finanziario. Alle loro realizzazioni e invenzioni (bancarie e contabili) non si giunge, comunque, per caso e tutt’a un tratto. Se nel ’200 si coniano di nuovo monete d’oro, vuol dire che da tempo ne erano maturati l’esigenza e il pensiero. Solo cambiatori e prestatori quegli uomini d’affari? È questione di intendersi. E quanto alla persistenza delle fiere, lasciamo stare altre considerazioni, ma si sa che in quelle fiere avvenivano valutazioni, scambi e compensazioni di tipo, in qualche modo, borsistico.
Per il resto, non è il ricorso all’antropologia o ad altre scienze sociali che mi imbarazza. Io stesso ho girato ben più di un po’ per queste strade. È, invece, la preoccupazione dell’autonomia e della specificità della storia; e, se questo significa parlare da storico dell’800, la cosa mi rallegra. È così pieno di storici sommi quel secolo, e tanti di essi hanno fatto spesso vera e propria storia antropologica (a cominciare dal grande Michelet), che lo stare con loro è una profonda rassicurazione anche rispetto ai problemi della storiografia degli ultimi decennii. E quanto alla ragione storica, si dica come si vuole, dominare o spiegare. Le esigenze terminologiche (e concettuali) possono essere diverse, ma la sostanza non muta.Oil passato lo facciamo nostro, dominandolo o spiegandolo, ma, beninteso, senza anacronismi e alterazioni deformanti, o la storia e il bisogno di essa non hanno senso, anzi neppure nascono.
Da ultimo, quando Le Goff pubblicò il suo ultimo libro,” Faut-il vraiment découper l’histoire en tranches?”, Paris, Seuil, 2014, uscito in libreria nei primi giorno delle scorso gennaio, ancora una volta il «Corriere della Sera», sempre, e giustamente, attento a uno studioso così rilevante nel quadro della storiografia contemporanea, la cui firma era anche apparsa più volte sulle sue pagine, ne commentò la tesi, ospitando sul suo supplemento settimanale «La Lettura» una opinione solidale, affidata a Franco Cardini, e una dissenziente con la tesi di Le Goff sul “lungo Medioevo”, che per lui si chiudeva solo con la Rivoluzione francese alla fine del secolo XVII, affidata a me, che potei perciò ancora una volta discuterne il pensiero su un problema trattato da lui con la consueta originalità e acutezza. Ecco la mia opinione:
“Tagliare la storia a fette”. Lo si dice per indicare la “storia a cassettini”: in uno la politica, in un altro l’economia, e così via; oppure per fare fronte alle implicazioni dello specialismo, che parcellizza scienza e tecnica; oppure per le varie epoche e tempi in cui si suole ripartire la fitta trama della storia.
Su quest’ultima questione, in particolare, la discussione non è nuova. Divampò nella storiografia europea già tra ’800 e ’900. Da un lato c’era chi definiva un arbitrio le scansioni cronologiche, che, introducendovi fratture o “svolte” che la vita e la storia non conoscono, ne rompono l’ininterrotta corrente. Dall’altro lato c’era chi opponeva a ciò la realtà obbligante dei varii momenti della storia, per cui fare storia è, anzitutto, periodizzare.
Al taglio della storia in fette cronologiche si è applicato Jacques Le Goff con tutta la sua notoria, amplissima dottrina. Se ne occupa, in particolare, riguardo a Medioevo e Rinascimento. Lo fa, è ovvio, con tutta la sua esperienza di studioso, si può dire, di ogni piega e risvolto, innanzitutto, di Medioevo e dintorni; e lo fa anche come studioso che al tempo nella storia ha dedicato pagine fondamentali come quelle sul «tempo della Chiesa» e sul «tempo dei mercanti».
Qui il suo obiettivo è, in effetti, il Rinascimento: periodizzazione inutile e infondata, a suo avviso, in un corso storico ininterrotto dalla fine dell’età antica fino al secolo XVIII, che forma un lunghissimoMedioevo. Fino all’ultimo quest’epoca conserva i suoi caratteri di fondo, e cioè, anzitutto, la visione cristiana della vita. Ad essa appartengono anche Cristoforo Colombo e Shakespeare: il primo cercava qualcosa in nome della sua fede cristiana, il secondo riflette e drammatizza il mondo tipicamente medievale di nobili, borghesi, ebrei, in cui viveva. Il cosiddetto Rinascimento non fa che prolungare il Medioevo, così come la Riforma protestante. Ciò sarebbe vero anche sul terreno della storia dell’arte, ossia nel dominio in cui meno ci si aspetterebbe una tale affermazione. Nella musica solo con Mozart si avrà il passaggio dall’artista artigiano all’artista indipendente, che è il segno della modernità. E così via, tra le luci suggestive di una sempre fervida immaginazione storica.
Quanto a rimanerne persuasi, è un’altra cosa. Un lunghissimo Medioevo (di 1500, non di 1000 anni) è stato teorizzato anche da altri e da tempo. Il Rinascimento, poi, è già in disgrazia, essendo caduto nel tritatutto di un revisionismo pregiudiziale e integrale, come tante altre nozioni (Medioevo compreso) della storiografia europea dell’età moderna.
Ad esempio, che senso ha continuare a chiamare Medioevo quei presunti 1500 anni? Età di mezzo tra antichità e modernità? Ma tutte le epoche storiche sono età di mezzo tra un passato e un futuro (quando c’è). Nella storiografia europea quel nome aveva un senso. Indicava un periodo oscuro, buio, di povertà artistica e culturale, cui aveva posto fine la grande primavera umanistica del Rinascimento, di cui l’Umanesimo era il contrassegno-principe. Umanesimo, il cui nome non era casuale, poiché presumeva che la rinascita, ossia il ritorno all’eccellenza artistica e culturale, avveniva ed era intesa in rapporto a un concetto dell’umano, in cui quell’eccellenza era il segno distintivo e rivelatore della dignità dell’uomo e di ciò che dell’uomo è degno. Poi il concetto si allargò. La Riforma si pose come rinascita dell’originario Cristianesimo evangelico. Le scienze riconobbero un loro nuovo inizio che superava gli antichi in quella che noi definiamo “rivoluzione scientifica”. Con l’Illuminismo la modernità teorizzata dai primi umanisti comprese tutti i campi della vita civile e, a sua volta, il Medioevo si fece ancora più buio. E non parliamo delle ripercussioni culturali, religiose, morali, economiche, politiche della scoperta dell’America, già evidenti dalla metà del ’500.
Peraltro, col tempo la storiografia moderna tese anche a riempire quell’oscurità di un alto senso storico, a vedervi sempre più una sua grande anima storica, nonché il travagliato processo che aveva partorito la società dell’Europa moderna, passando attraverso la rivoluzione culturale umanistico-rinascimentale. E ciò senza contare la scoperta e valorizzazione di tutte le luci, anche artistiche e culturali, e la finale fase di grande sviluppo demografico ed economico, dei “secoli bui”, per cui non si contano più le “rinascite” e i fermenti di modernità ravvisati nel vecchio Medioevo, senza rinunziare, peraltro, alla grande idea dell’Umanesimo e del Rinascimento come momento epocale della storia europea.
Della storia europea, beninteso, ché fuori dell’Europa le nostre partizioni non hanno senso, così come non hanno senso per noi quelle cinesi, indiane, dell’Islam e di altri (ma ora il nuovo verbo della World history ci assicura che anche questa vecchia idea sarà superata). Sta il fatto però che le partizioni europee sono quelle della parte del mondo che del mondo negli ultimi cinque secoli ha guidato il corso, e che, quindi, le sue partizioni hanno un particolare rilievo.
In tali partizioni il Rinascimento ha un luogo inaugurale che, per quanto ci si possa sforzare di disconoscerlo, è destinato a resistere, e non è riducibile a una delle tante “rinascite” medievali venute poi di moda. I concetti storiografici che via via sorgono nel caldo stesso delle vicende storiche (come, proprio, Medioevo e Rinascimento) hanno sempre basi e ragioni che non è lecito ignorare o sottovalutare. All’Oriente musulmano e bizantino l’Europa dei “secoli bui” appariva “barbara”. Ci sarà stata qualche ragione. Gli europei dal secolo XV in poi parlavano di rinascita delle arti, delle lettere e delle scienze e se ne sentivano protagonisti e testimoni. Avranno avuto anch’essi una qualche ragione. Disconoscendo queste ragioni nate nel vivo del corso storico si ottiene solo di rendere tutto più confuso, indistinto.
Rifiutando le ragioni dei contemporanei, si perde, infatti, un elemento storico, che, esso almeno, è un dato di fatto indubbio, e si entra in un gioco di “lego” storiografico aperto a tutte le soluzioni. Il Medioevo potrebbe essere reso ancora più lungo e considerato alla fine solo con l’inizio dell’era digitale. Oppure, più breve, e finito già (e non sarebbe troppo male) con l’anno Mille, quando l’Europa cominciò a vestirsi di “una bianca veste di chiese” ed ebbero inizio tante altre cose, che anche il Rinascimento ereditò già belle e fatte. A che giova?
Le ragioni dello spazio giornalistico non mi consentirono, anche in questo caso, di esporre per intero la serie delle riflessioni alle quali la fervida operosità del mio amico mi aveva portato. Avrei voluto aggiungere, ad esempio, che mi riusciva estremamente difficile inquadrare in un contesto come quello del Medioevo (qualsiasi concezione se ne abbia) filosofi come Bacone, Hobbes, Hume, Locke, Descartes, Spinoza, Leibniz e il nostro Vico, scienziati come Galilei e Newton, artisti come quelli del Rinascimento e del Barocco, libri come il “Quijote” o quelli del teatro di Shakespeare o di Corneille, fatti politici come le conferenze di pace del XVII e XVIII secolo, le scoperte geografiche e l’espansione europea nel mondo di questi stessi due secoli, e varie altre cose. Avrei voluto chiedergli come e quanto sarebbe stato possibile inquadrare in quello stesso contesto gli sviluppi della Riforma protestante e della Controriforma (o Riforma cattolica che si voglia). Soprattutto, poi, avrei voluto chiedergli che cosa pensasse del fatto che egli discuteva di Medioevo come di un concetto storiografico vivo e attuale mentre nella storiografia degli ultimi decennii la renitenza ai più forti e importanti concetti storiografici della tradizione europea ha portato a un polemico abbandono o a un ancor più polemica sottovalutazione di tali concetti (e al riguardo basta pensare alla sorte particolarmente infelice dell’idea di Rinascimento).
In effetti, la discussione con lui era inesauribile non solo per la rilevanza fondamentale delle questioni di cui egli si occupava e per la sua costante originalità di ricerca e di elaborazione storiografica.Questa volta, però, la sua replica mancò. Era già nel gorgo fatale che lo avrebbe portato al distacco ultimo. Nel salutarne ancora la memoria, abbiamo creduto di qualche utilità riprodurre i testi qui riportati come testimonianza di un episodio minimo nella storia della storiografia e della cultura contemporanea, ma certamente significativo di alcuni aspetti e momenti della vicenda a cui appartiene, nella convinzione di rendere anche così onore alla memoria del grande studioso scomparso.
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