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Il pensiero politico italiano nel lungo dopoguerra. Appunti per un profilo
di Maurizio Griffo
La ripresa della vita libera all’indomani della caduta del fascismo significa non solo un rinnovato articolarsi del dibattito pubblico ma anche una rinnovata elaborazione di idee politiche. In quel periodo, pur tra le mille difficoltà materiali, è tutto un fiorire di testate giornalistiche, di riviste, di iniziative editoriali, a volte effimere a volte più durature, ma che nell’insieme testimoniano un dispiegarsi di energie troppo a lungo compresse.
La cultura politica che caratterizza la fase di quella che venne chiamata l’Italia “tagliata in due” e poi quella dei primi anni repubblicani può definirsi in primo luogo come antifascista. Un aggettivo che in questo momento segnala anzitutto una ripulsa del regime mussoliniano nei suoi caratteri autoritari, illiberali e di irreggimentazione artificiale del consenso. Non casualmente proprio in quel torno di tempo viene riproposto in diverse edizioni il pamphlet di Benjamin Constant sullo spirito di conquista e di usurpazione1. Questa prima e quasi istintiva declinazione dell’antifascismo troverà poi successive e più determinate riproposizioni, legate allo svolgimento della lotta politica.
L’elaborazione teorica finisce quasi subito per gravitare intorno alle varie organizzazioni di partito. Non si tratta tanto di una strumentalizzazione, quanto di una identificazione inerziale, frutto in primo luogo delle circostanze. In quella stagione ciascun partito non esprime solo un’organizzazione ma si sforza di presentare in modo compiuto la propria visione dei rapporti politici. Da qui la necessità di sintesi dottrinali e messe a punto programmatiche. A loro volta molte singole personalità, ma anche gruppi e cenacoli, che si vanno sparsamente organizzando, finiscono di solito col trovare un riferimento in una determinata formazione di partito o comunque per orbitare attorno ad un particolare settore dell’universo politico.
Le aree di riferimento sono sostanzialmente quattro. Quella del cattolicesimo democratico, quella social-comunista, quella del composito universo della democrazia liberale o laica come si usava dire, e infine la destra, che comprende i nostalgici del vecchio regime (dove si mescolano suggestioni non univoche: nazionalistiche, corporativistiche, sindacalistiche), e i conservatori veri e propri che, dato il clima del tempo, non godono di particolare prestigio e non trovano un’espressione autorevole.Questa prima generale classificazione, utile per un sommario orientamento, non deve ritenersi esaustiva, perché non mancano correnti e gruppi irriducibili ai principali schieramenti partitici e anche perché all’interno di ciascun settore si registrano particolari declinazioni che sono alle volte ben più che sfumature, ma indicano definiti e originali orientamenti di pensiero.
In una stagione in cui si registrano continui mutamenti, se non sconvolgimenti, politici (dall’occupazione alleata, alla resistenza, alla fine della guerra, al referendum istituzionale e alle elezioni per la costituente) una periodizzazione pertinente, anche dal punto di vista delle idee politiche, è data dall’inizio della guerra fredda. Fino a quelmomento le contrapposizioni politiche che erano emerse, pur se nette e spesso assai aspre, erano comunque ricomprese in un contesto non ancora fissato nei suoi termini ultimi; un contesto in cui la possibilità di una collaborazione fattiva non era ritenuta impossibile, come anche le vicende dell’elaborazione costituente dimostrano. Il delinearsi della contrapposizione tra Est ed Ovest, che si fissa in modo definito durante il 1947, individua invece una precisa linea di demarcazione, obbligando anche a una più definita chiarificazione concettuale delle rispettive posizioni.
Da parte della cultura cattolica e di quella laica tale sforzo di ripensamento critico si articola su due fronti, già presenti anche negli anni immediatamente precedenti, ma che adesso si articolano in maniera più compiuta: la critica del comunismo reale e la necessità di proporre un modello più armonioso di società, capace di contrastare le eccessive disuguaglianze economiche.
Il primo aspetto investe soprattutto l’ambito della polemica corrente più che quello della concettualizzazione dottrinale, ed è un modo per alimentare con elementi documentali l’anticomunismo esistenziale profondamente radicato nell’opinione pubblica. Tuttavia, non va sottovalutata la riflessione che avviene anche negli ambiti di cultura alta. Basti por mente al fatto che nella riflessione dell’ultimo Croce è in primo piano la denuncia del totalitarismo sovietico. Una denuncia che si articola in diverse direzioni: dall’interesse per l’opera di Hayek The Road to Serfdom (che tenta di far pubblicare), a quello per i romanzi di testimonianza politica di Orwell e di Koestler, alla critica delle presunte scoperte sovietiche in campo scientifico e culturale. Più in generale in questi suoi scritti l’anziano filosofo rileva come il regime dell’URSS sia il nefasto esito epocale di un fanatismo negatore della coscienza morale 2.
La rivendicazione di incisive riforme economiche che rispondano a criteri di equità e di redistribuzione va letta nel più generale contesto europeo e internazionale dove è viva la discussione sui cosiddetti diritti sociali intesi come un allargamento dei tradizionali diritti politici. Nel nostro paese questa discussione si esprime in ambito cattolico con la riproposizione del tradizionale solidarismo cristiano, aggiornato e rinnovato alla luce del personalismo di ascendenza francese. In area laica essa si manifesta nella riflessione di numerose personalità che da punti di vista diversi e anche divergenti si confrontano con il tema. Si tratta di una gamma di posizioni che ricomprende la riflessione di autori come Carlo Antoni, Guido De Ruggiero, Guido Calogero, Panfilo Gentile, Adolfo Omodeo. Al di là delle messe a punto concettuali (spesso non convergenti), delle particolari formule adoperate (il liberalsocialismo calogeriano, la libertà liberatrice di Omodeo, l’avanguardia della libertà di Antoni etc.), e delle ascendenze politiche particolari di ciascuno, rilette in prospettiva queste posizioni s’intendono tutte nella temperie operosa del dopoguerra come spinta ad una ricomposizione del tessuto sociale e sullo sfondo del drammatico scontro di civiltà apertosi tra le democrazie occidentali e il blocco sovietico3. Dal punto di vista teorico, la testimonianza forse più significativa di questa temperie culturale, e delle discussioni ad essa legate, si trova nelle Lezioni di politica sociale di Luigi Einaudi, scritte in gran parte nel 1944. In quelle pagine l’economista piemontese discute l’ideale regolativo delle uguali opportunità alla luce dell’individualismo etico. In tale angolazione analitica l’imperativo di agguagliare il più possibile i punti di partenza non è uno slogan di comodo per realizzare un forzoso equiparamento dei punti di arrivo, ma un modo per assicurare la migliore armonia sociale tramite la fruttuosa competizione tra individui in possesso di propensioni ed attitudini necessariamente diverse4.
La consonanza tra cattolici e laici si registra con caratteri ancora più definiti nell’ambito dell’europeismo, dove il nostro paese è in prima fila nell’avvio di quelle che saranno le future istituzioni comunitarie. Sul versante cattolico la propensione a rafforzare la dimensione sovranazionale, che si esprime non solo nell’opera governativa ma anche nella riflessione di numerosi intellettuali e dirigenti (Sturzo, De Gasperi), pur originando dalla diffidenza verso lo Stato unitario risorgimentale collima con l’interesse nazionale di vedere l’Italia reintegrata in un sistema di alleanze internazionali dopo l’esito rovinoso del conflitto. In ambito laico, dove era nata l’idea della federazione europea con il Manifesto di Ventotene scritto da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel 1941, l’ideale europeista, immaginato in un contesto che era quello del secondo conflitto mondiale e della lotta antifascista, era ripensato e ricalibrato nella nuova situazione internazionale caratterizzata dalla guerra fredda e dall’alleanza atlantica5.
La medesima convergenza tra cattolici democratici ed esponenti dell’area laica rinnova anche l’approccio alla questione meridionale, secondo una linea che si può definire sinteticamente neo nittiana. Si tratta di una riflessione che trova concordi economisti di estrazione cattolica come Pasquale Saraceno e intellettuali e studiosi di matrice liberaldemocratica come il gruppo riunito attorno alla rivista «Nord e Sud». L’arretratezza meridionale andava contrastata con una ricetta in cui convivevano l’apertura al mercato e l’intervento pubblico in economia. L’inserimento dell’Italia nel mercato comune europeo avrebbe favorito una più rapida crescita economica; parte del surplus prodotto andava indirizzato, tramite la Cassa per il Mezzogiorno, ad investimenti localizzati nel sud della penisola. Lungi dall’esaurirsi in un semplice programma di politica economica, il meridionalismo del dopoguerra era una concezione in cui l’analisi della società meridionale, la cultura di governo, la conoscenza tecnica venivano messe al servizio di un preciso obiettivo etico-politico 6.
Sul versante comunista (che in questa fase ricomprende anche gli intellettuali socialisti, legati dal patto di unità d’azione) l’impegno in ambito culturale è ancora più determinato che negli altri partiti, collegato com’è alle scelte politiche contingenti, pure travalicandole di fatto in uno sforzo complessivo di interpretazione della società. La base teorica del comunismo italiano, infatti, va ricercata nel pensiero di Antonio Gramsci, in particolare nella nozione di egemonia che l’uomo politico sardo elabora negli appunti composti in carcere negli anni Trenta del secolo scorso. Togliatti riprende questa nozione e ne fa la chiave di volta dell’iniziativa del partito. In una situazione come quella italiana, dove la presa del potere non può avvenire con un’insurrezione (non lo consente la situazione internazionale con la divisione delle zone d’influenza decisa a Jalta), occorre conquistare il consenso con un’opera capillare di legittimazione del partito da svolgere in tutti i settori della società.
Dal punto di vista più specificamente intellettuale le intuizioni gramsciane aprono spazio a un’opera di rivitalizzazione del marxismo e di rivisitazione della cultura nazionale e della storia d’Italia. Un’impostazione che valorizza anzitutto la tradizione marxista italiana, in primo luogo con lo studio dell’opera di Antonio Labriola. Peraltro la promozione del marxismo come chiave di lettura essenziale della realtà non è articolata in termini di univoca ortodossia. Se nella linea gramsciano-togliattiana è prevalente un’interpretazione d’intonazione storicista, non ci sono preclusioni totali verso diverse linee esegetiche del marxismo. Come quella, di matrice antihegeliana, sviluppata da Galvano Della Volpe. Per una curiosa eterogenesi dei fini, alla metà degli anni Settanta sarà un allievo di Della Volpe, Lucio Colletti, a svolgere una critica radicale del marxismo, depotenziandone fortemente l’influenza sul pensiero politico italiano7.
L’impostazione gramsciana viene utilizzata per rileggere la storia nazionale in chiave teleologica, assumendo a precursori del partito nuovo, o moderno principe, figure significative del passato. Basti pensare alla didascalica proposizione della vicenda culturale italiana lungo linee di sviluppo progressive (De Sanctis-Gramsci) o conservatrici (De Sanctis-Croce). Da tale impostazione origina anche un filone di studi storici che si caratterizzano anzitutto come indagini di storia sociale ed economica. Per quanto condotti in genere con serio approfondimento documentario, ad essi è sottesa una chiara intenzione politica immediata. Ad esempio, nei lavori di Ernesto Ragionieri sulle amministrazioni socialiste in età liberale quelle esperienze sono interpretate implicitamente come prodromiche alla successiva affermazione del comunismo italiano. Agli occhi dello storico fiorentino la tradizione del riformismo amministrativo socialista andava valorizzata come momento di uno sviluppo complessivo, che avrebbe trovato il suo inveramento ulteriore nella prassi del PCI. Più in generale, poi, la storiografia d’ispirazione gramsciana, sempre a partire da alcune annotazioni contenute nei Quaderni dal carcere, rilegge il Risorgimento come rivoluzione mancata perché non ci fu il coinvolgimento delle masse contadine. Un approccio che, in due saggi pubblicati tra il 1956 ed il 1958, sarà criticato severamente, con argomenti storiograficamente inoppugnabili, da Rosario Romeo8.
Peraltro negli anni precedenti non erano mancate, segnatamente nell’ambito della cultura laica (Fabio Cusin, Giulio Colamarino), letture critiche della storia e della politica italiane. Si tratta di analisi che, più che sul piano strettamente storiografico, vanno valutate ed apprezzate come manifestazioni di un disagio politico. Esse si possono intendere come una maniera per fronteggiare e metabolizzare la crisi dell’idea nazionale che la sconfitta subita nella seconda guerra mondiale aveva drammaticamente aperto9. In modo speculare a tali interpretazioni critiche vale la pena di segnalare come De Gasperi e Togliatti, leaders dei due maggiori partiti dell’Italia repubblicana ma estranei al Risorgimento, svolgessero, in saggi e interventi pubblicati negli anni Cinquanta, non peregrine considerazioni sulla storia italiana, nel tentativo di inserire la vicenda delle rispettive formazioni politiche nella più generale cornice della tradizione nazionale10.
Questa sommaria panoramica delle concezioni politiche del dopoguerra risulterebbe ancora più lacunosa se non si facesse cenno ad alcune personalità indipendenti dalle principali correnti di opinione, ma portatrici di istanze originali e fecondamente eterodosse. In particolare varrà la pena di spendere alcune considerazioni a proposito di due figure estranee al mainstream delle culture politiche prevalenti: Adriano Olivetti ed Aldo Capitini.
Tra il 1942 ed il 1948 Adriano Olivetti mette a punto una proposta di riforma politica complessiva. Critico degli assetti di potere del passato, insoddisfatto dei modi e delle forme con cui si stava manifestando la ripresa democratica, l’imprenditore piemontese elabora un progetto di democrazia integrale volto a superare le insufficienze del parlamentarismo, garantendo l’efficienza del sistema politico e le libertà degli individui. Cellula base dell’edifico da lui divisato è la comunità concreta; a partire da questo primo livello, che ingloba la realtà sociale e quella economica dell’aggregato umano, si sviluppa per gradi successivi un sistema istituzionale di federalismo integrato nel quale sono rappresentate e coordinate entità territoriali e demografiche crescenti. Nello schema olivettiano il suffragio universale risulta accompagnato da un apporto di conoscenze tecniche accortamente regolamentate. Più che una utopia ingenuamente tecnocratica, la riflessione olivettiana presenta un modello di democrazia armonico in cui le istanze popolari sono accoppiate alle competenze tecniche necessarie ad assicurare la funzionalità del sistema11.
Il pensiero di Aldo Capitini origina, negli anni Trenta, da un confronto critico con la tradizione del cosiddetto neoidealismo di Gentile e di Croce, con cui dialoga da una prospettiva religiosa non confessionale, umana, ed esistenziale. Sul versante politico, nel dopoguerra, esso si manifesta in una visione che, mutuandola dall’esempio gandhiano, propugna la non violenza come scelta di vita e l’apertura al dialogo con tutti anche con chi è assai distante da noi. Da questa impostazione deriva l’idea del potere di tutti (omnicrazia); una posizione che non ha una precisa configurazione istituzionale, ma che esprime un rifiuto dell’autoritarismo e contiene una propensione a intendere le ragioni dell’altro. Il pacifismo di Capitini non può essere assimilato a quello neutralista di matrice comunista, ma rappresenta un rifiuto radicale della violenza (nella vita privata non meno che in quella pubblica), anticipando semmai posizioni libertarie che emergeranno a partire dal movimento di contestazione oltre un decennio dopo12.
L’evoluzione successiva resta incanalata lungo le linee di svolgimento di sopra accennate. Ad articolare il quadro della riflessione politica nel nostro paese contribuiscono, però, da un lato i grandi mutamenti sociali che l’Italia attraversa, dall’altro le modificazioni che si registrano nel contesto internazionale a partire dalla metà degli anni Cinquanta.
Com’è noto, tra il 1953 ed il 1963, l’Italia conosce una impressionante crescita economica, il cosiddetto boom.Un mutamento che, accompagnato da un imponente fenomeno di immigrazione interna, ha ricadute decisive sul costume, gli stili di vita, le abitudini, la mentalità. Questo passaggio epocale offre naturale alimento al dibattito intellettuale. Nel corso degli anni Sessanta sono in primo piano nella riflessione politica italiana i temi della massificazione, della società affluente, del macchinismo, della tecnocrazia. Si tratta di argomenti sui quali il dibattito riprende in gran parte quanto scritto e pensato all’estero, dove queste problematiche erano maturate precedentemente. Da un altro punto di vista simili discussioni accompagnano il processo di distensione in corso fra Est ed Ovest, mettendo l’accento sulle somiglianze più che sulle differenze tra paesi liberi e paesi del blocco comunista, interpretate come variabili di un unico processo di sviluppo industriale. In un panorama in cui si mutuano soprattutto analisi messe a punto altrove, va segnalata come esemplare, per originalità e nitore, la posizione di Nicola Chiaromonte, che tra il 1956 ed il 1968 dirige assieme ad Ignazio Silone la rivista «Tempo Presente». Chiaromonte, che ha alle spalle un passato di esule antifascista, svolge una critica serrata dei caratteri autoritari delle società contemporanee. Caratteri che nei regimi totalitari si trovano accentuati al massimo grado, ma che non sono estranei anche alle democrazie. A suo avviso il rimedio alle degenerazioni autoritarie va ricercato non in una ricetta politica da imporre alla società forzosamente, magari perché confacente a una presunta necessità storica, bensì nella intransigente difesa dei valori della libertà e della democrazia13.
Rilevanti soprattutto per gli equilibri del sistema politico ma utili anche per intendere i termini entro cui si svolge l’elaborazione ideale sono gli avvenimenti del 1956. In quell’anno le rivelazioni di Krusciov sui crimini di Stalin al XX congresso del PCUS e successivamente l’invasione sovietica dell’Ungheria rimescolano le carte sulla sinistra dello schieramento politico. In particolare la riconquistata autonomia dei socialisti, non più legati al patto di unità d’azione con il partito comunista, apre nel medio periodo una prospettiva all’evoluzione del quadro politico che si sarebbe concretizzata nel centro sinistra. Dal canto loro i comunisti italiani subiscono un trauma notevole. Quanto accade in quell’anno, in una rapida e drammatica successione di eventi, mette in discussione il modello politico incarnato dal paese guida del socialismo, facendo periclitare le potenzialità del tentativo egemonico fin lì dispiegato dal PCI.
Nella fase successiva il partito compie uno sforzo notevole per arginare lo strappo, intensificando la battaglia delle idee ed aprendo nuovi temi di confronto e di discussione. Quest’opera di contenimento è anche aiutata dalla complessiva evoluzione della guerra fredda che, come si è detto, conosce una fase di distensione. Sul piano più propriamente ideale si ha una declinazione meno ortodossa dei principi marxisti, che vengono mescolati volta a volta con altre componenti ideali, e interpretati con nuove griglie analitiche: dall’esistenzialismo, allo strutturalismo, alla fenomenologia, alla psicanalisi. Se queste ibridazioni non hanno sempre l’imprimatur dell’ufficialità, ma sono spesso guardate con sospetto, da un altro punto di vista esse indirettamente aiutano la prospettiva egemonica fissando un orizzonte di discussione all’interno del quale è possibile riconoscersi. Questa dialettica si esprime in modo esemplare in una fase immediatamente successiva, quando si manifesta anche in Italia il movimento di contestazione giovanile di solito definito riassuntivamente come “Sessantotto”. Un fenomeno che accomuna il nostro agli altri paesi occidentali, dall’America, dove l’insorgenza giovanile comincia con la rivolta di Berkeley del 1964, alla Francia, alla Germania.
In quella ribellione generazionale c’è anche una fermentazione d’idee. Si tratta di motivi e suggestioni che non sono riconducibili a una precisa identità ideale o a un definito programma politico. Li accomuna, semmai, una spinta libertaria volta a rimettere in discussione le relazioni di potere, che si manifestano in vari ambiti della vita sociale: la denuncia delle istituzioni totali, l’antipsichiatria, la pedagogia alternativa, la critica della mentalità autoritaria e dell’uomo a una dimensione. Sotto questo profilo è interessante notare come in Italia la rivolta giovanile, che ha le medesime radici emotive e le stesse connotazioni sociologiche degli altri paesi, si articoli con caratteri propri e peculiari. Dopo una disordinata fase iniziale, la rivolta si cristallizza e si cronicizza in micro formazioni politiche che ricalcano il modello leninista.Muta ben presto anche l’ispirazione ideale cosi come cambiano rapidamente gli autori di riferimento. Dalla scuola di Francoforte nei suoi vari esponenti (Adorno, Horkheimer, Marcuse), a Draper, a Don Milani si passa, in un breve volgere di tempo, ai classici del marxismo. Classici del marxismo intesi con una latitudine non ristretta, che arriva a comprendere, ad esempio, anche autori come Amadeo Bordiga, Rosa Luxemburg, Karl Korsch ed Ernst Bloch, ma con un preciso limite preclusivo nei confronti del marxismo della seconda internazionale e semmai con una inquietante sovrarappresentanza di leader totalitari quali Stalin o Mao14.
Simili esiti, ovviamente, non erano direttamente voluti dalla dirigenza comunista, né andavano a suo vantaggio, creando piuttosto problemi di compatibilità con la linea ufficiale; nel complesso, però, costituivano un inevitabile sottoprodotto della strategia egemonica. Essa imponeva al partito di coltivare una presunzione di superiorità dell’ideale comunista che non consentiva un’aperta revisione ideologica. Questa, che era inscritta nei fatti, veniva affidata alla prassi inerziale della presenza nelle istituzioni e della partecipazione al confronto democratico. In altri termini, la linea assai moderata che contraddistingueva il Partito comunista italiano non ne metteva in discussione l’identità rivoluzionaria (di derivazione terzinternazionalista). Ed è proprio su queste irrisolte contraddizioni che è dato di registrare alcuni dei più interessanti sviluppi della riflessione politica italiana in questo torno di tempo.
Nella seconda metà degli anni Settanta sulle colonne del mensile del partito socialista «Mondoperaio», venivano animati dibattiti su numerosi aspetti della tradizione comunista. La distinzione tra democrazia formale e democrazia sostanziale; la mancanza di una concezione dello Stato nella teoria marxista; la compatibilità tra egemonia e democrazia e, più in generale, l’appartenenza o meno di Gramsci alla tradizione leninista15. Certo si tratta di un insieme di temi già ampiamente dibattuti dalla cultura liberaldemocratica e da quella socialdemocratica, tuttavia in questo caso l’aspetto significativo era la circostanza che la sollecitazione critica provenisse dal medesimo versante dello schieramento politico. In questo senso nelle discussioni era presente un fine polemico immediato, l’intenzione di mettere in difficoltà l’avversario su di un piano sul quale era maggiormente scoperto o meno attrezzato alla replica. Tuttavia la matrice polemica nulla toglie al significato ideale di quei dibattiti che segnano una tappa significativa nell’elaborazione politica italiana. Su di un altro versante, va segnalata la riflessione di un filosofo cattolico come Augusto Del Noce che in quello stesso periodo mette al centro della sua indagine teorica le fondamenta concettuali del comunismo italiano. Per quanto integralista nelle premesse ideali, l’analisi delnociana, svolta con indubbia sottigliezza, metteva in luce le aporie teoriche del comunismo italiano che, a suo avviso, finivano per riverberarsi nella pratica corrente16.
Tali discussioni e messe a fuoco teoriche, di cui ancora negli anni Ottanta si perpetuavano gli echi, mostrano come il dibattito pubblico e lo svolgimento del pensiero politico nell’Italia repubblicana fosse largamente condizionato dalla guerra fredda e dalla divisione del mondo in due blocchi. Alla fine del decennio il repentino azzeramento delle condizioni precedenti, con la rapida liquefazione dell’impero sovietico, avrebbe mutato i termini del confronto politico, imponendo all’agenda concettuale (non meno che a quella pratica) un ben diverso ordine del giorno. Tuttavia l’eredità precedente, con i suoi nodi irrisolti, avrebbe condizionato anche la discussione intellettuale della nuova fase storica che si stava aprendo.











NOTE
1 Le edizioni del pamphlet constantiano pubblicate in quel torno di tempo che abbiamo censito sono: Conquista e usurpazione, prefazione di F. Venturi, Torino, Einaudi, 1944; Dello spirito di conquista, a cura di S. Annino, Venezia, Miuccio, 1945; Lo spirito di conquista, introduzione di A. Visconti, Milano, Ambrosiana, 1945; Lo spirito di conquista seguito da La libertà degli antichi e la libertà dei moderni, introduzione di G. Calogero, Roma, Atlantica, 1945.^
2 Su questi aspetti della riflessione crociana cfr. A. Jannazzo, Croce e il comunismo, Napoli, Esi, 1982, in particolare pp. 182-186. Per l’interesse nei confronti del libro di Hayek ci sia consentito di rinviare a M. Griffo, Croce e Hayek, in Idem (a cura di), Croce e il marxismo un secolo dopo, Napoli, Editoriale scientifica, 2004, pp. 243-261.^
3 Di e su questi autori per un primo orientamento cfr. rispettivamente: C. Antoni, Della storia d’Italia, introduzione di G. Galasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012; Idem, L’avanguardia della libertà, a cura di E. Capozzi, Napoli, Guida, 2000; M.L. Cicalese, L’impegno di un liberale. Guido De Ruggiero tra filosofia e politica, Firenze, Le Monnier, 2007, con una selezione di articoli deruggeriani del periodo; G. Calogero, Difesa del liberasocialismo ed altri saggi, a cura di M. Schiavone, D. Cofrancesco, Milano, Marzorati, 1972; P. Gentile, L’idea liberale, introduzione di T. Amato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002 e A. Giordano, Contro il regime. Panfilo Gentile e l’opposizione liberale alla partitocrazia (1945-1970), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011; A. Omodeo, Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, introduzione di A. Galante Garrone, Torino, Einaudi, 1960.^
4 Cfr. L. Einaudi, Lezioni di politica sociale (1949), Torino, Einaudi, 2004.^
5 Per l’impegno europeista di De Gasperi, cfr. P. Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 487-495. Per la posizione di Spinelli in quel periodo cfr. E. Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 59-64.^
6 Per un bilancio del meridionalismo del dopoguerra cfr. G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Lacaita, Manduria, 2005, pp. 93-115.^
7 Vedi L. Colletti, Intervista politico-filosofica. Con un saggio su «marxismo e dialettica», Roma-Bari, Laterza, 1974.^
8 I saggi di Romeo, pubblicati originariamente su «Nord e Sud», sono raccolti nel volume Risorgimento e capitalismo, Roma-Bari, Laterza, 1978.^
9 Su questi aspetti cfr. G. Galasso, Italia democratica. Dai giacobini al partito d’azione, Firenze, Le Monnier, 1986, pp. 205-206.^
10 Per questi interventi cfr. le sillogi: A. De Gasperi, I cattolici dall’opposizione al governo, Bari, Laterza, 1955; P. Togliatti, Momenti della storia d’Italia, Roma, Editori Riuniti, 1973.^
11 Sul pensiero politico di Olivetti cfr. D. Cadeddu, Adriano Olivetti politico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009.^
12 Su Capitini cfr. P. Polito, L’eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos, 2001.^
13 Una silloge dei suoi scritti politici in N. Chiaromonte, Le verità inutili, a cura di S. Fedele, Napoli, L’Ancora del mediterraneo, 2001. Vedi anche Tempo Presente. Antologia 1956-1968, a cura di T.E. Frosini, Roma, Liberal Libri, 1998.^
14 Un elenco di libri e riviste che caratterizzarono quel periodo, accompagnato da utili commenti, si trova nel volumetto I libri del 1968. Una bibliografia politica, Roma, Manifestolibri, 1998. Nella vasta letteratura sull’argomento cfr., per un orientamento riguardo all’argomento qui richiamato, i saggi raccolti in B. Coccia (a cura di), Quaranta anni dopo: il Sessantotto in Italia fra storia, società e cultura, Roma, APES, 2008, vedi anche M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 165-189.^
15 Alcuni dei testi più significativi di quelle discussioni sono raccolti in due volumi di quaderni della rivista, entrambi con una prefazione del direttore Federico Coen. Cfr. Il marxismo e lo Stato: il dibattito aperto nella sinistra italiana sulle tesi di Norberto Bobbio, Roma, Mondoperaio, 1976; ed Egemonia e democrazia: Gramsci e la questione comunista nel dibattito di Mondoperaio, Roma, Mondoperaio - Avanti, 1977.^
16 Una significativa selezione degli scritti dello studioso cattolico su questi temi in A. Del Noce, Verità e ragione nella storia. Antologia degli Scritti, Milano, Rizzoli, 2007.^
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