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Il Napoleone della storiografia liberale*
di Luigi Compagna
Nel febbraio del 1930 l’Università di Ginevra offrì a Guglielmo Ferrero una cattedra di storia. Egli la accettò, «felice di poter fare la storia del XIX secolo, quale essa mi appare oggi dopo quindici anni di meditazione e alla luce delle catastrofi che si susseguono dal 1914». L’obiettivo, come sarebbe emerso nel suo ultimo saggio in qualche modo testamentario, Pouvoir1, era di risalire alle radici della crisi di legittimità dello Stato moderno.
Due vicende, da lui attentamente indagate, avevano scandito quella crisi; l’una simbolo di rottura rivoluzionaria, l’altra di ricomposizione conservatrice. Ferrero ne ricavò i due volumi del 1936, Aventure, e del 1940, Reconstruction, dedicati il primo alla campagna di Napoleone in Italia ed il secondo all’opera di Talleyrand al congresso di Vienna.
Riproposto da Sergio Romano nel 1996 ai lettori italiani, Avventura2 si apre con una schematica ricognizione delle forze nella Valle Padana fra l’aprile e il maggio del 1796. Insediato alla testa di un esercito affamato e annoiato, il giovane generale Bonaparte sovverte in poche settimane gli equilibri politici e militari che c’erano prima. Il 12 e il 14 aprile sconfigge gli austriaci a Montenotte e a Dego, il 13 e il 22 mette in fuga i piemontesi a Millesimo e a Mondovì, il 10 maggio passa il ponte dell’Adda presso Lodi, il 14 entra a Milano, il 23 giugno strappa al Papa con un armistizio le Legazioni pontificie ed il 5 luglio occupa Livorno. Non solo. Dalla conquista nasce pure un nuovo assetto politico.
Tra la fine del 1796 e l’inizio del 1797 viene costituita con le province emiliane la Repubblica Cispadana e con la Lombardia la Repubblica Transpadana. Si delinea così a sud delle Alpi una sorta di Stato gemello della Francia rivoluzionaria: un’Italia modellata sulle istituzioni della “Grande Nazione”, i cui ambiti ed i cui limiti, secondo Ferrero, al di là della rapida successione di battaglie vinte e di nuove forme politiche, erano quelli fissati in una lettera di istruzioni inviata dal Direttorio al generale Bonaparte il 7 aprile 1797.
Il Direttorio approvava la linea adottata ma gli chiedeva in pari tempo di tener strette nelle sue mani le redini del comando effettivo. La costituzione elargita ai neorepubblicani dell’Italia settentrionale era, quindi, una sorta di architettura di scena dietro la quale il regista francese faceva valere autorità e potere reale. Italia ed Europa avrebbero invano, per più Interventi generazioni, tentato di lottare «con l’impossibile contraddizione contenuta nella lettera del 7 aprile»3.
Non senza eccessi di schematismo, Ferrero attribuisce alla Francia rivoluzionaria la capacità di mettere in campo le armi nuove dell’ideologia, che modificano radicalmente il paesaggio politico dell’Europa, pronta a trattare, per perseguire meglio i propri interessi nazionali, le terre “liberate” come province da scambiare. Il che spiega perché a Campoformio nell’ottobre del 1797, il Belgio e la Lombardia verranno barattate con Venezia, l’Istria e la Dalmazia.
Secondo Ferrero
Il contagio intellettuale della Rivoluzione attraverso l’Europa è una leggenda. Sono gli eserciti della Rivoluzione che sono penetrati in Europa, non le idee. E ben più fortemente che con le dottrine, è con la forza e con l’esempio di questi abusi che la Rivoluzione ha agito sull’Europa, spessissimo in senso opposto alle dottrine. La guerra senza regola, la lettera del 7 aprile, fruttidoro e brumaio, la parodia del sacro a Notre-Dame, il dispotismo napoleonico col suo corteo di mistificazioni, la falsificazione monarchica della Rivoluzione e la falsificazione rivoluzionaria della monarchia, ecco a che cosa l’Europa si è ispirata, ben più che alla lettera e alla essenza della dichiarazione dei diritti dell’uomo”4.

Di qui, per paura di se stessa e del mondo, gli abusi della forza commessi dalla Rivoluzione: l’illusione sulla forza della forza, che è poi l’inganno del far paura avendo paura, avrebbe finito col far più male all’Italia che alla Francia. Alla conclusione dell’“avventura”, nel 1814 un principio di legittimità in Francia sarebbe stato comunque ricostruito. L’Italia, invece, si vide costretta ad inseguirlo invano per oltre un secolo e mezzo. Di questo tormentato e vano inseguimento di un proprio principio di legittimità Ferrero non vede che una sola radice: l’“avventura”, consumata, conclusa, spiegata in quella lettera del 7 aprile.
Egli scrive
Tutti i regimi che l’han governata hanno più o meno peccato dello stesso abuso di forza. Il potere non può essere la negazione permanente del principio che lo legittima, senza provocare un perturbamento generale delle menti; senza metter l’arte, la letteratura, la religione, la filosofia, la morale, i costumi, il diritto, la politica, l’uomo tutto intero insomma, in contraddizione con se stesso e la società nell’impossibilità di riconoscersi. Questo tormento è il prezzo – prezzo terribile – che l’Italia ha dovuto pagare per la laicizzazione e per una modesta democratizzazione della società, fatte dalla Rivoluzione5.

Il ruolo di Bonaparte nell’opera di Ferrero usciva notevolmente ridimensionato rispetto a tante idealizzazioni della campagna d’Italia come straordinaria impresa di geniale strategia. Il Bonaparte di Ferrero incarnava sì lo “spirito di avventura” della Rivoluzione, ma come mero esecutore delle scelte direttoriali. Quanto all’Italia, essa era ben lontana da quella dei lavori di Carlo Zaghi, fin dalla metà del secolo permeata di illuminismo ed a suo modo partecipe, nell’entusiasmo con cui fu accolto l’esercito francese, di analogo “spirito d’avventura”6.
Non basta il ricorso alla forza per consolidare il potere di comando. Occorre che l’uso della forza appaia come l’esercizio di un diritto. E perché ciò accada occorre che sia vigente un principio di legittimità. Ma come aveva già mostrato Constant, distinguendo nell’avventura napoleonica dispotismo e usurpazione, quello di Bonaparte era soltanto governo rivoluzionario, per sua natura privo di legittimità. Di qui una sorta di condanna “preventiva” a sostituire la rivoluzione permanente con la guerra permanente, per giustificare in qualche modo un potere nato da un’usurpazione.
A Luciano Pellicani quella ferreriana sembra «l’analisi più acuta che sia mai stata fatta del bonapartismo», perché sottesa ad «una teoria del potere illegittimo che permette di intendere le ragioni profonde che impedirono a Napoleone di dare alla Francia un governo normale, cioè a dire non assediato dalla paura»7. Pellicani ha probabilmente ragione. Ma Ferrero, quasi un secolo e mezzo prima, quando Napoleone era solo un ragazzo, era stato preceduto da Edmund Burke. In una pagina delle Riflessioni del 1791 scrive:
[…] Si deve inoltre considerare se una assemblea come la vostra, anche supponendola in possesso di un’altra sorta di organo attraverso cui far passare i propri ordini, è atta a promuovere disciplina e obbedienza nell’esercito […] Nella debolezza di una determinata autorità e nella fluidità di tutta la situazione, gli ufficiali dell’esercito si manterranno per qualche tempo ribelli e pieni di discordia, fino a quando un generale popolare, esperto nell’arte di conciliare la soldatesca e dotato di vero spirito di comando, attirerà su di sé gli occhi di tutti. Gli eserciti gli obbediranno solo in virtù delle sue qualità personali. Non v’è altro modo, nel presente stato di cose, di assicurarsi dell’obbedienza delle truppe. Ma quando quell’evento si verificherà, la persona che comanda veramente l’esercito diverrà vostro padrone”8.

In questa pagina di Burke Napoleone è già all’orizzonte di quella che per Ferrero è la prima delle “due rivoluzioni francesi”. Anzi, Les deux revolutions di Ferrero non possono per Burke che essere quella “conservatrice” del 1688 inglese e quella “rivoluzionaria” del 1789 francese, l’una momento di legittimità ripristinata e l’altra di legittimità sradicata. Napoleone, in fondo, nell’economia complessiva del lavoro di Ferrero, è personaggio di transizione: verso una nuova stagione della legittimità in Europa, quella del Congresso di Vienna, con Talleyrand, antico protagonista del 1789, nei panni dell’eroe positivo. La sua stessa insistenza sulla lettera che il Direttorio spedisce a Bonaparte il 7 aprile 1797 serve soprattutto a sottolineare quale e quanta “avventura dell’immaginazione” possa ricondursi al principio della sovranità popolare9.
Il modello di costituzione indicato dal Direttorio per la Repubblica cispadana è quasi interamente ricalcato sulla costituzione francese dell’anno III, la quale attribuisce, secondo illuminismo della “prima rivoluzione”, la sovranità interamente al popolo. Nello stesso momento in cui dichiarava il popolo sovrano in luogo del re, il Direttorio tuttavia lo privava dello strumento attraverso cui esercitare questa sovranità, cioè il potere di eleggere il corpo legislativo. Il Direttorio, infatti, incaricava Bonaparte di rimpiazzare (“solamente in via transitoria”, ovviamente) il popolo sovrano e di nominare lui, oltre ai membri dell’esecutivo, quelli del corpo legislativo.
Tutto questo veniva giustificato dal Direttorio con il fatto che la concessione dell’indipendenza avrebbe causato il forte rischio di una rivolta contro l’esercito occupante francese. Ma nella lettera Ferrero coglieva pure una evidente diffidenza per le istituzioni rappresentative in quanto tali. Ed era certamente in questa direzione che si sarebbe indirizzata la successiva storiografia liberaldemocratica.
Apprezzando, ma non per questo pienamente condividendo, l’opera di Ferrero, Luigi Salvatorelli le oppose nel 1944 Leggenda e realtà di Napoleone: aspra confutazione dell’europeismo di Napoleone, in molti punti e per molti versi guardato come una sorta di anticipazione del “ducismo” contemporaneo. Vi si percepisce come e quanto la teorizzazione crociana della storia etico-politica pesasse sul liberalismo di Salvatorelli, benché proprio in tema di Napoleone e napoleonismo venga preferita la dizione “politicoetica” a quella “etico-politica”10.
Alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, la riflessione di Guglielmo Ferrero (politologica forse più che storiografica, sulle relazioni internazionali più che di politica nazionale) aveva ampiamente indagato sulla contraddizione fondamentale del sistema napoleonico, fondato al tempo stesso sul riconoscimento della sovranità nazionale e sul suo annullamento. Ne era scaturita una riabilitazione del Congresso di Vienna e più ancora della politica di Talleyrand, antagonista ideale dell’imperialismo napoleonico, grazie a cui a l’Aventure sarebbe successa la Reconstruction, all’esercizio della forza il principio di legittimità.
Il napoleonismo, invece, viene ora presentato da Salvatorelli come precorritore e incubatore del “ducismo”, categoria ben più perversa del “cesarismo”, protagonista del secolo ventesimo, in grado di trascinare l’Europa in “un mare di sangue e di fango”. Quanto all’Italia, Salvatorelli oltrepassa Ferrero: «la parte positiva della politica di Napoleone in Italia risale alla rivoluzione, quella negativa è sua propria»11. Di qui la battuta scherzosamente paradossale di Maturi: «Napoleone lo ha rovinato Mussolini»; o le riserve e le critiche a Salvatorelli avanzate da Falco e da Saitta12.
Eppure, al di là della demolizione dissacrante e di un esplicito pregiudizio favorevole nel confronto con la figura del nipote Luigi Napoleone, il volumetto salvatorelliano aveva una sua importanza ed una sua originalità nel panorama degli studi e dei motivi con i quali sul bonapartismo si erano fronteggiate fino ad allora cinque o sei generazioni di europei13. Importanza ed originalità tutte riconducibili a quello spirito liberale, pienamente manzoniano, col quale la generazione dei Ferrero e dei Salvatorelli aveva ravvisato in una famosa strofa del Cinque Maggio l’interpretazione storica più alta che sia stata tentata di Napoleone.
Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.

Secondo i versi manzoniani, Napoleone avrebbe fatto opera di arbitrato fra l’ordine vecchio e il mondo nuovo, fra l’Ancien régime e la Rivoluzione (i “due secoli l’un contro l’altro armato”), imponendo la sua legge a entrambi (“ei fe’ silenzio”). Tesi-rivoluzione, antitesi-reazione (o, se piace meglio, tesi-Ancien régime, antitesi-Rivoluzione), sintesi-Napoleone. Abbiamo qui riunite insieme le due valutazioni principali su Napoleone, mentre gli interpreti più comuni del napoleonismo mettono innanzi l’una o l’altra di esse in via, se non esclusiva, almeno fortemente preferenziale. Per gli uni, cioè, Napoleone fu essenzialmente il restauratore dell’ordine, per gli altri il continuatore della rivoluzione, sebbene poi i primi riconoscano, o sottintendano, che l’ordine napoleonico non era precisamente quello dell’Ancien régime, e gli altri facciano una cernita fra quel che Napoleone conservò della Rivoluzione e quel che abbandonò.
Il pensiero politico di Manzoni, del resto, si ritrova ad essere oggetto di attenzione non superficiale di Salvatorelli in una sua opera classica, di gran lunga meno estrosa di quella dedicata a Napoleone. Salvatorelli in essa avrebbe parlato di “realismo unitario” come ispirazione di fondo del pensiero politico di Manzoni, peraltro estraneo ad ogni interesse nei confronti dell’organizzazione politicoistituzionale, in particolare dello Stato14, teso a non perdere mai di vista quel carattere di necessità storica che traspare in tutte le fasi della Rivoluzione.
Studiando e ristudiando Manzoni politico15, recentissimamente anche a Mario D’Addio è capitato di rifarsi a Salvatorelli, proprio a proposito di Napoleone, accostando Manzoni e Thiers. La Rivoluzione, il Consolato e l’Impero segnarono un «nuovo ordine di cose», nella storia della libertà; furono una provvidenza secolarizzata, nella quale gli avvenimenti erano anche svolgimenti. Per dirla con Thiers (e con Manzoni) «ecco quale opera profonda Napoleone compiva: e durante questo tempo la nuova società andava a consolidarsi all’ombra della sua spada e la libertà doveva venire un giorno. Se non è venuta, verrà»16.
La superiorità della interpretazione manzoniana era per Salvatorelli determinata dal fatto che essa riunisce ed associa questi due aspetti di Napoleone, e li trascende sinteticamente. Napoleone non sarebbe più semplicemente il restauratore dell’ordine o il continuatore della Rivoluzione, ma colui che avrebbe combinato, – anzi, non combinato, ma fuso insieme – “nova et vetera”: secondo Salvatorelli
non avrebbe cucito la pezza nuova sul vestito vecchio, o messo nell’otre vecchio il vino nuovo, ma con i materiali vecchi e nuovi avrebbe eretto una costruzione organica; egli sarebbe il creatore dell’ordine nuovo, e perciò il personaggio più importante del secolo decimonono; forse anche (questo potremmo aggiungerlo noi, venuti dopo Manzoni) il precursore del ventesimo17.

Certo, lungo questa strada non è difficile riconoscere come Napoleone sia scomparso prima di aver potuto realizzare l’opera intrapresa. Il che era poi, «tale e quale, la tesi – per Salvatorelli – di Napoleone stesso, autoapologeta a S. Elena»18. Ma qui, per sfuggire all’insidia di una sintesi trascendentale meramente transitoria, Salvatorelli non esitava a farsi ancor più manzoniano con un proprio rinvio “ai posteri” de “l’ardua sentenza”. Solo che fra tali “posteri” Salvatorelli aveva poi la spregiudicatezza di consentire che si esprimesse il medesimo Manzoni.
Ricostruisce Salvatorelli:
Quarantacinque anni più tardi il Manzoni ottantenne, in un testo a cui crediamo convenga particolarmente il detto che il vero inedito è lo stampato, ha risolto quel dubbio in senso affermativo. Ringraziando, in una lettera del 10 marzo 1866 (A. Comandini, Il principe Napoleone, p. 239) il principe Gerolamo Napoleone per l’omaggio fattogli della Correspondance de Napoléon I, egli scriveva: «Si les poètes étaient inspirés, comme ils s’en vantent quelquefois, j’aurais dû au moins pressentir qu’il ne s’agissait pas seulemente d’un grand passé, qu’un tel miracle ne pouvait avoir été donné au monde pour traverser seulement l’histoire, et qu’en y laissant tant de traces aussi profondes que brillantes, le plus illustre entre les fondaterus de dynasties ne devait pas y laisser tronquée celle qui, dans ma sincère persuasion, est le seul compromis possibile entre deux siècles»19.

Già, ma per Manzoni (ed a Salvatorelli non sfugge) Napoleone è anche momento di pessimismo ed individualismo cristiano, di riconsegna a un mondo di “silenzio e tenebre” della “gloria che passò”, di qualsiasi gloria terrena, senza bisogno del giudizio dei posteri per distinguere fra gloria vera e falsa. Sicché poi per molti versi proprio questa duplicità dell’atteggiamento di Manzoni implicava per Salvatorelli il diritto-dovere di una sorta di laicità storiografica nel recepire il giudizio su un Napoleone unico compromesso possibile fra due secoli. Tanto più che se così fosse, si negherebbe poi la libertà storiografica di Ferrero che riteneva Napoleone, se non più piccolo, meno grande di Talleyrand.
Studiando Napoleone, o casa Savoia, o Mazzini, Salvatorelli ha sempre amato interrogarsi se le cose non sarebbero potute andare diversamente.
Ebbe a notare Alessandro Galante Garrone
Talvolta è sembrato che la sua indagine storica si tramutasse così in una polemica, in un processo al passato: e di ciò qualcuno (e anche critici illustri, come Croce o Giorgio Falco) gli ha mosso rimprovero. Allo storico, gli si obiettava, non si addice il denunciare o il condannare gli errori del passato, ma solo lo spiegarli e cioè intenderli nel loro accadere: si può e si deve lottare con i vivi, non con i morti. Salvatorelli ha sempre respinto questo rimprovero, accusandolo, anche con vivacità polemica, di fatalismo deterministico; e ha perfino tirato in ballo con la sua focosità, l’indifferentismo morale dell’ultrastoricismo. Egli ha sempre rivendicato il diritto e il dovere di collocarsi, per così dire, a ogni bivio del corso storico, di valutare le diverse possibilità che si aprivano agli uomini, e gli errori commessi, e le conseguenze prossime e remote di tali errori, e insomma di dimostrare che le cose sarebbero potute andare diversamente, sol che ci fosse stato, nei protagonisti, un po’ più di chiaroveggenza, o di coraggio morale, o di volontà fattiva. Questo, egli diceva, non è far la storia con i se20.

Con il suo volumetto del 1944, in un momento di straordinaria passione civile, Salvatorelli aveva fatto irruzione nella storiografia napoleonica per sradicare il “ducismo”. La stessa concezione di un Napoleone unico compromesso possibile fra i due secoli anteriori al ventesimo, cioè la considerazione del rapporto dell’opera napoleonica con la rivoluzione e la controrivoluzione, esigeva, del resto, che la suggestione non si trasformasse in uno schema costruttore e mutilatore della realtà. I termini di rivoluzione e di controrivoluzione non nascondano, non facciano dimenticare, raccomandava Salvatorelli, l’individualità degli attori e la complessità degli eventi.
Di qui, ad esempio, la centralità di due diversi attori, in due diversi momenti, del loro diverso rapporto con Napoleone, o se si vuole di come e quando il liberalismo nell’uno e nell’altro secolo abbia intrecciato il suo percorso con quello di Napoleone: il 18 brumaio ex parte Sieyès21 ed i Cento Giorni, ex parte Constant22. Entrambe le vicende, però, grazie all’ammonimento di Salvatorelli, potevano e possono rileggersi e ripensarsi come “leggenda e realtà” del liberalismo e della sua storia prima e più che di Napoleone. Non solo, ovviamente, nel 1944.







NOTE
* Intervento pronunciato nel corso del Convegno Napoleone e il bonapartismo nella cultura politica italiana: 1802-2005, organizzato dall’Università degli Studi di Milano nei giorni 1-3 dicembre 2005.^
1 L’ edizione originale francese apparve in America nel maggio del 1942, la prima edizione italiana nel 1947. «Il tono del libro, in cui il racconto dei grandi avvenimenti politici si mescola al ricordo dei fatti ed episodi personali, rivela per se stesso la coscienza che l’autore ha della sua opera. È un maestro di vita che si rivolge agli uomini con la semplicità del fratello maggiore per trasmettere loro un messaggio di saggezza e considera il suo atto come l’adempimento di una missione di significato storico » (U. CAMPAGNOLO, Introduzione, in G. FERRERO, Potere, Edizioni di Comunità, Milano 1959, p. 8).^
2 Cfr. G. Ferrero, Avventura. Bonaparte in Italia: 1796-1797, collana storica diretta da S. Romano, Milano, Casa Editrice Corbaccio, 1996.^
3 G. Ferrero, op. cit., p. 320.^
4 G. Ferrero, op. cit., p. 318.^
5 G. Ferrero, op. cit., p. 321.^
6 Cfr. C. Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino, UTET, 1986.^
7 L. Pellicani, Bonapartismo e totalitarismo, in L. Cedroni (a cura di), Nuovi Studi su Guglielmo Ferrero, Roma, Aracne editrice, 1998, p. 20.^
8 E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione francese e sulle deliberazioni di alcune società di Londra ad esse relative, in una lettera destinata ad un gentiluomo parigino [1790], trad. it., in Scritti Politici, Torino, UTET, 1963, p. 410.^
9 Cfr. G. Caravale, Rivoluzione e abusi della forza: le campagne italiane nell’Aventure di Ferrero, in L. Cedroni (a cura di), op. cit., pp. 27-35.^
10 Cfr. G. Galasso, “Forze storiche” e “vita morale” nell’opera di Luigi Salvatorelli, in Aa.Vv., Salvatorelli storico, Napoli, 1981, p. 49.^
11 L. Salvatorelli, Leggenda e realtà di Napoleone, Roma, 1944, p. 115.^
12 Cfr. A. Galante Garrone, Salvatorelli storico del Risorgimento, in Aa.Vv., op. cit., p. 113.^
13 “C’è una Destra e una Sinistra bonapartista come c’è una Destra e una Sinistra hegeliana”, osserva L. Salvatorelli, op. cit., p. 138.^
14 Cfr. L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino, Einaudi, 1949, pp. 176-190.^
15 Cfr. M. D’Addio, Manzoni politico, Cosenza, Marco Editore, 2005.^
16 A. Thiers, Storia della rivoluzione francese, seguita da un’appendice e preceduta dal riassunto dell’istoria di Francia sino al regno di Luigi XVI, Lugano, 1838, t. II, p. 647.^
17 L. Salvatorelli, op. cit., p. 8.^
18 Ibidem.^
19 Ibidem.^
20 A. Galante Garrone, op. cit., p. 105 sgg.^
21 Cfr. L. Compagna, Gli opposti sentieri del costituzionalismo, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 61-83.^
22 Cfr. V. De Caprariis, I cento giorni di Benjamin Constant, in Profilo di Tocqueville, Napoli, ESI, 1962, pp. 121-140.^
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